Due temi fondamentali sorreggono l’impianto narrativo dell’Odissea, i racconti e i riconoscimenti. Entrambi hanno uno scopo occulto, quello di rivelare gradatamente, e nello stesso tempo di celare, l’identità di Ulisse. Da un lato, nella prima metà del poema, Ulisse, ridotto a Nessuno, deve recuperare insieme al suo nome, dignità fama e il bottino di guerra, scopo a cui tende ogni reduce da Troia – basti pensare a Menelao, protagonista anche lui di un’Odissea ridotta ma simile, anche per durata, a quella di Ulisse. Nella seconda parte dell’Odissea, Ulisse – nuovamente ridotto a nessuno nel suo regno usurpato – si muove sul filo del rasoio, nella lenta e rischiosa avanzata verso la reggia, e si inventa, di volta in volta, identità diverse e diverse peripezie che hanno un preciso punto di partenza, Creta (Ulisse ‘si fa’ cretese) e un approccio indiretto con l’Ulisse che tutti credono ormai scomparso per sempre nel viaggio di ritorno per mare.
Riconoscimenti. Escludiamo Tiresia e Anticlea che obbediscono a una precisa legge dell’immaginario dei Greci – il riconoscimento mediato dal sangue delle vittime immolate che ridà memoria e facoltà di parlare alle larve che popolano l’Ade. E dunque: Telemaco si mostra incredulo davanti allo straccione che Atena ha debitamente ritoccato e che dice di essere suo padre. Cede però alle parole di rimprovero di Ulisse: è un riconoscimento sulla parola e sulla fiducia. D’altronde Telemaco non ha mai conosciuto il padre ed è in un momento di particolare incertezza circa la sua sorte e la sua posizione in Itaca. Perciò si affida.
Diversa è la posizione di Penelope, famosa la sua prolungata diffidenza, il dubbio, l’incertezza anche davanti a indizi evidenti – se pur narrati (le vesti, la fibbia). A lei, sposa di Ulisse e da vent’anni divisa da lui, è necessaria una prova concreta, un segreto noto a loro due soli, qualcosa che li unisca fisicamente e spiritualmente. E che cosa è più significativo, reale e simbolico nello stesso tempo, del letto nuziale e del segreto condiviso? È il tronco d’olivo intorno al quale:
Io eressi il talamo, che feci con pietre fittamente connesse e ricoprii con un solido tetto; e la porta applicai, forte e salda. Poi recisi la chioma dell’olivo dalle foglie sottili, il tronco sgrossai dalla radice, lo piallai tutt’intorno con l’ascia di bronzo […], lo livellai a filo di squadra e ricavai una base che lavorai tutta a traforo. Cominciando da questa levigavo anche il letto, ornandolo d’oro, d’argento, d’avorio. All’interno tesi cinghie di cuoio splendenti d porpora. Ecco, questo è il segreto.
“La radice dell’Odissea è un albero d’olivo”, ha scritto Paul Claudel. Un segno concreto, strettamente personale, è anche la cicatrice della ferita inferta a Ulisse nella caccia al cinghiale presso il nonno Autolico. Ed è questa che conferma alla nutrice Euriclea, a lei che ebbe cura di Ulisse fin dalla nascita, una verità che oscuramente aveva presentito (“nel corpo, nella voce e nei piedi, assomigli a Odisseo”), mentre per Eumeo e Filezio – i servi fedeli – è sufficiente un’affermazione “Eccomi, sono io, che dopo vent’anni e dopo molto soffrire, sono tornato alla terra dei padri”: e quasi per premiare questa fiducia spontanea Ulisse mostra loro anche la cicatrice, “un segno chiaro, perché mi riconosciate del tutto e siate sicuri nell’animo”.
Anche al padre Laerte Ulisse, dopo averlo messo alla prova con un falso racconto, non resiste al suo dolore e dice “Sono io, padre mio, che dopo vent’anni giungo alla mia terra” – e tuttavia Laerte chiede un “segno sicuro”, ed è ancora una volta la cicatrice, il marchio esterno di Ulisse. Ma, come avviene con Penelope, la vera anagnorisis che riunisce padre e figlio è ancora una volta un segreto condiviso: concreto e insieme simbolico come il tronco d’olivo:
I nomi degli alberi di questo frutteto io ti dirò: un tempo me li donasti e io, ancora bambino, te li chiedevo uno per uno venendoti dietro nell’orto; in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi il nome di tutti; tredici peri mi desti, e dieci meli, e quaranta fichi, cinquanta filari di viti mi promettesti, che maturano in tempi diversi, e vi sono grappoli di ogni tipo nelle stagioni di Zeus.
Non un olivo trasformato in un letto e privato della sua funzione primaria, questi sono alberi fiorenti, ben curati, fruttiferi. Ma anche in questo caso testimoniano un radicamento tenace nella terra patria.
“Aristotele è il primo esponente della cultura occidentale a elaborare una teoria del riconoscimento nelle opere letterarie… (teoria) basata sull’epica e la poesia tragica" (Boitani 2014, 34).
Questa teoria, che ebbe grande influenza almeno fino al XVIII secolo è espressa nella Poetica, dove tra l’altro Aristotele afferma che “l’Odissea è complessa, perché dappertutto ci sono riconoscimenti” (1459b 14-16). È singolare il fatto che il filosofo, classificatore per eccellenza, non includa tra i riconoscimenti quello – tutto particolare – del cane Argo. A meno che l’esclusione sia dovuta proprio al fatto che l’animale non appartiene al consorzio umano. Sta di fatto che Aristotele non sembra aver dato peso a un riconoscimento “per mezzo dell’istinto” e invece:
Il poema ci mostra come gli animali possano riconoscere gli uomini nel modo in cui gli uomini non potranno mai riconoscersi tra loro: attraverso un lampo d’istinto che non ha bisogno di segni esterni, di rivelazioni soprannaturali, di ragionamento e neppure di memoria (Boitani 2014, 85).
Consideriamo dunque il riconoscimento di Argo, scena peraltro famosa soprattutto per il sentimento patetico che suscita, ma che, in buona sostanza, passa come una digressione tanto sentimentale quanto secondaria in un momento estremo quale è quello di Ulisse che sta per rientrare nella sua casa.
È un episodio di 36 versi, una digressione che appare e scompare senza lasciare traccia nel seguito del poema. Ulisse – ancora nelle vesti di Nessuno, tranne che per Telemaco – insieme a Eumeo che non lo ha ancora riconosciuto, sta per varcare la soglia della reggia. Entrare in casa: è un passaggio decisivo per il suo piano di riconquista, il primo passo concreto. I due stanno parlando fra loro. E all’improvviso la scena vira verso un cane, mai nominato prima, un cane che giace presso la soglia pieno di zecche, immerso nel letame. È questione di un attimo: il cane alza la testa e le orecchie; gli sguardi di Ulisse e di Argo si incrociano? Non lo sappiamo: il cane abbassa le orecchie, muove un poco la coda; Ulisse, non visto, si asciuga un’unica lacrima, singolare e straordinaria proprio perché unica e segreta. Poi Ulisse varca la soglia – è il primo passo verso la sua nuova vita – e sulla stessa soglia, nello stesso istante, “la morte oscura scese su Argo non appena ebbe visto Odisseo, dopo vent’anni”. L’episodio è chiuso. Argo non verrà più ricordato.
Naturalmente non è l’unico caso di una digressione che non lascia tracce. Ma nulla di quanto si legge in un poema epico è inserito a caso ed è quindi lecito porsi delle domande, osare delle congetture. A volte certe considerazioni sono banali e superflue: come chiedersi perché Penelope o Telemaco non si sono presi cura di Argo, il cane di Ulisse, il più bello e forte e abile cane caccia: mentre l’arco più caro ad Ulisse è stato custodito gelosamente e così le cose che gli appartenevano, e le notti sono state spese vegliando per ingannare gli usurpatori. Domanda ingenua: la poesia ignora coerenza e logica, Aristotele può tranquillamente depennare Argo dai suoi ‘riconoscimenti’.
Ma vi sono dei particolari che possono avere qualche significato, ignoto forse agli antichi ma percepibile dai lettori moderni. Quali sono le vere ‘sentinelle’ di Itaca? Un animale e un arco. Chi ha vissuto per vent’anni, fidando in un istinto a noi sconosciuto, ed è venuto a morire sulla soglia per attendere il passaggio fatale, ‘sapeva’ che Ulisse sarebbe ritornato. La sua morte preannuncia la rinascita del padrone. E l’arco, oggetto inanimato, quando il padrone tocca le sue corde, a suo modo risponde, riconoscendo, come ogni strumento musicale, la mano antica, consueta e amata (“Toccò, con la mano destra, la corda, ed essa emise un suono bellisssimo, simile a vice di rondine”). L’arco sigla la vittoria di Ulisse emergendo da quella “stanza ultima, dov’erano i tesori del re”. Come il cane è il cane di Ulisse, così l’arco è 'l’arco del re' per 'le gare del re'. Sono tutt’uno con lui. Inseparabili.
Un poema ricco di vicende, di fatti straordinari come l’Odissea non poteva non avere riflesso nell’arte antica. I suoi racconti fuori dal comune furono infatti una grande fonte di ispirazione per gli artisti, a cominciare dall’accecamento di Polifemo, senz’altro l’episodio più dirompente fra quelli narrati alla corte di Alcinoo (appare nelle figurazioni già nel VII secolo, subito dopo l’”uscita” dell’Odissea). Un altro tema molto amato nell’età arcaica è quello di Circe e della trasformazione degli uomini in animali. Immagini forti, drammatiche, ai limiti del reale, come sono quasi tutte quelle del ciclo avventuroso di Ulisse.
La seconda parte dell’Odissea è stata preferita dall’arte classica: il ritorno di Ulisse a Itaca, Penelope, Argo, Euriclea, la tessitura della tela, soprattutto la strage dei Proci – mentre l’età ellenistica torna a prediligere l’avventura, includendo però anche l’episodio di Argo. Poiché è quest’ultimo che ci interessa in modo particolare, proviamo a cercare il filo che lega il racconto dell’Odissea alla raffigurazioni a noi pervenute.
Non sarà certo una rassegna completa, né si prenderà in considerazione il Fortleben del tema, anzi si daranno solo quelle immagini che sembrano suggerire qualcosa di diverso, come un segreto messaggio. Nonostante il pathos del racconto, la scena non si presta facilmente alla trasposizione in figura, perciò le immagini relative al riconoscimento di Argo sono, nel complesso, abbastanza rare. Inoltre è molto facile che l’incontro forse più significativo tra i riconoscimenti odisseici perda la sua straordinaria efficacia trasformandosi in una raffigurazione tipica, quella del ‘cane e padrone’, immediatamente riconoscibili come Ulisse e Argo e quindi segno, per così dire, nobiliare. Questo vale tanto per certe testimonianze dell’arte antica (anelli, monete ecc.) quanto soprattutto per il Fortleben del motivo: vedi le splendide statue riprodotte nel volume di Piero Boitani Riconoscere è un dio, dove un Ulisse aitante e imponente si accompagna a una cane altrettanto forte e vivace. Questa stessa concezione dei due protagonisti denota la lontananza dal testo dell’Odissea e forse la trasformazione del suo più intimo significato. Ma vi sono alcune scene in cui il legame padrone-cane sembra posto sotto altra luce. Ne ricorderò solo tre.
Il rilievo Campana (I sec. d.C.) è una composizione di rara bellezza ed efficacia: Euriclea tiene in mano il piede di Ulisse, ha riconosciuto la ferita e sta per gridare la sua scoperta. Ulisse, con un doppio drammatico movimento, le chiude la bocca e volge la testa verso Eumeo che si trova alle sue spalle.
Sotto il sedile di Ulisse un cane – Argo? – giace tranquillamente addormentato. Sappiamo come l’arte figurativa applichi spesso questo metodo, di “riassumere” in un sola scena più di un evento per offrire una visione complessiva delle vicende affidate alla scrittura.
Ma se la presenza di Eumeo ha senso perché egli entra nella reggia insieme a Ulisse, quella di Argo è solo evocativa perché Argo è già morto e vive solo nell’animo di Ulisse che ne ha colto il primo riconoscimento “per istinto”.
Il cratere apulo situato nel Museo di Lecce conferma – io credo – questa impressione. Qui la scena appare nettamente divisa.
A sinistra Penelope e Telemaco, l’uno di fronte all’altra, parlano animatamente fra di loro. A destra, distaccato, come non visto, Ulisse piega la testa verso il basso e allunga la mano a toccare il muso di Argo, levato verso di lui. Argo, l’unico che conosce la verità ma non può testimoniare. Ulisse e Argo, muti e discosti, si oppongono al figlio e alla sposa che sembrano discutere, probabilmente sull’ostinata incertezza di Penelope, che, come tutti gli altri, non sa riconoscere “per istinto”.
Ma il segreto che riunisce per sempre e nel silenzio Ulisse e il suo cane prediletto è stato forse espresso nel modo più efficace dallo scalpellino che ha decorato il sarcofago romano situato a Napoli (Museo Nazionale di San Martino, 180 d.C. ca.). È l’unico rilievo rimasto integro sul sarcofago. Rappresenta in primo piano Ulisse seduto su un pezzo di colonna; il volto è deteriorato ma si intuisce che lo sguardo e tutta la persona sono rivolte verso Argo che gli si accosta come per fiutarlo e toccarlo. Anche in questo caso la corrispondenza con il racconto dell’Odissea non è totale, ma l’artista ha colto comunque il momento culminante e i tre particolari fondamentali: Ulisse, Argo che ‘riconosce’, la soglia che, ben inquadrata alle loro spalle, è ancora inesorabilmente chiusa.
Non c’è Eumeo, perché in realtà non ha riconosciuto ancora Ulisse e lo accompagna alla reggia come mendicante. Ma Argo ‘sa’ come Ulisse che la soglia è un passaggio decisivo e fatale.
Per rendere tutta la pregnanza della scena, l’artista non scolpisce un Argo prostrato, probabilmente per motivi tecnici, per rendere più evidente l’essenza più profonda della scena. Un muso che si leva esitante, una coda che si muove appena – una lacrima subito detersa. Così Ulisse e Argo sono riuniti per sempre in una sola persona, Ulisse, che chiude nel segreto del suo animo il primo vero riconoscimento.
Un uomo della tribù m’aveva seguito come un cane fino all’ombra irregolare delle mura […] L’umiltà e la miseria del troglodita mi trassero alla memoria l’immagine di Argo, il vecchio cane moribondo dell’Odissea, e così gli misi nome Argo e cercai d’insegnarglielo. Ma ogni mio sforzo fallì […] Ma qualcosa simile alla felicità accadde una mattina […] Argo balbettò queste parole: Argo, il cane di Ulisse […] Questo cane gettato nello sterco […] Gli chiesi cosa sapeva dell’Odissea […] Molto poco, disse. Meno del rapsodo più povero. Saranno passati mille e cento anni da quando l’inventai.
L’immortale di Jorge Luis Borges è universalmente noto. Cercando la segreta Città degli Immortali, Marco Flaminio Rufo, tribuno romano, scopre che la città è abitata da una tribù di trogloditi che non parlano e si nutrono di serpenti. Inorridito e spaventato, cerca di fuggire, ma c’è uno della tribù che lo segue “come un cane” e che istintivamente egli battezza col nome di Argo, il cane di Ulisse. Alla fine è proprio il nome di Argo che risveglia la memoria del troglodita: il cane di Ulisse gettato nello sterco, un episodio dell’Odissea di cui ha ormai scordato quasi tutto. Perché i trogloditi sono gli Immortali che abitano la città segreta, immortali e immemori, e Omero è fra questi. Dall’abisso del nulla in cui è sprofondata anche l’Odissea, riemergono a fatica i due nomi: Argo e Ulisse.
Perché alla fine “non restano più immagini nel ricordo; restano solo parole”. E Omero è Ulisse, Ulisse è Omero, Argo è Ulisse e Omero, Ulisse è Omero e Argo. E, insieme, sono tutti e nessuno.
Riferimenti bibliografici
- Qui di seguito alcune indicazioni essenziali, che prescindono totalmente da un approfondimento del tema sia nell’arte antica che nel corso dei secoli fino ad oggi.
- Dall’Odissea: Menelao (IV), l’Ade (XI), i racconti alla corte dei Feaci (IX-XII), ritorno a Itaca (XIII), XVI (Ulisse e Telemaco), Argo (XVII), Euriclea (XIX), Eumeo e Filezio (XXI), gara dell’arco (XXI), strage dei Proci (XXII), Laerte (XXIV).
- Piero Boitani, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Torino, Einaudi 2014 (vedi cap. 2).
- Piero Boitani, Il grande racconto di Ulisse, Bologna, Il Mulino 2016 (vedi figg. 212, 213, 214: sono alcune immagini ottocentesche che testimoniano il Fortleben della coppia cane-padrone). Da notare anche il rilievo statuario di Nicolas Gosse e Auguste Vinchon, Ulisse e Penelope, Parigi, Louvre 1827, dove si vede Ulisse che tenta di abbracciare una Penelope irrigidita (o almeno così sembra) e dietro a Ulisse un cane accucciato in atteggiamento mesto che volge la spalle alla coppia (fig. 271). E ancora il quadro di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Ulisse e Penelope (1802, coll. priv.) dove sono rappresentati Penelope e Ulisse seduti uno di fronte all’altra e sotto il seggio di Ulisse di intravede un cane accucciato (fig. 244). È interessante anche ricordare Penelope al telaio, di Angelica Kauffmann, 1764, Brighton & Hove Museums & Art Galleries (fig. 247), dove si vede una Penelope in triste meditazione e, ai suoi piedi, un cane, senza dubbio Argo, che posa il muso sull’arco di Ulisse (Le ‘sentinelle’). Il tema dunque è stato colto e perpetuato, qualunque sia il significato che gli artisti hanno voluto dare alla loro raffigurazione.
- Jorge Luis Borges, L’immortale, in L’Aleph, Milano, Feltrinelli 2016.
English abstract
An epic full of stories, and of extraordinary facts and deeds such as those in the Odyssey, left its mark on ancient art. In fact, its unusual tales have been a great source of inspiration for artists, beginning with the blinding of Poliphemus, undoubtedly the most impressive episode of those told at the court of Alcinous or, in the archaic age, the episode of Circe and the transformation of men into animals. Strong, dramatic images, at the limits of reality, as are almost all the actions of Ulysses during his adventures.
The second part of the Odyssey was preferred by classical art: the return of Ulysses to Ithaca, Penelope, Argos, Euriclea, the weaving of the shroud, and especially the massacre of the Suitors - while the Hellenistic age returned to a preference for adventure, it included the episode of the dog Argos. It is a famous scene, especially for the pathetic sentiment it arouses, but which passes as a sentimental and secondary digression at an extreme moment as when Ulysses is about to return to his home. It is a 36-line episode, a digression that appears and disappears without leaving traces in the sequel of the epic.
The episode of Argos' last farewell to Ulysses is at the heart of this essay. Images of Argos’ recognition are, generally speaking, quite rare. This essay does not aim to present a complete review, only those images that seem to suggest something different, like a secret message, are taken into consideration. However, some scenes appear to be placed in another light: the Campana relieof the 1st century CE); the Apulian crater located in the Museum of Lecce; the Roman sarcophagus located in Naples (Museo Nazionale di San Martino, 180 CE).
keywords | Odyssey; Dog Argos; Crater; Greek art; Mythology.
Per citare questo articolo / To cite this article: M.G. Ciani, Il cane sulla soglia, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 377-385 | PDF