La storia del mondo non è altro che un sogno
Hanns Heinz Ewers e Oscar Wilde
Alessandro Fambrini
English abstract
“Hanns Heinz Ewers non appartiene al novero dei grandi scrittori tedeschi”, scriveva Michael Sennewald nel 1973 in uno dei pochi studi articolati che siano stati dedicati a questo autore nel secondo dopoguerra, “ma non è nemmeno da inquadrare nella letteratura di consumo, come una critica rigidamente orientata è abituata a fare da decenni” (Sennewald 1973, 199). Da allora, in questi quasi cinquant’anni, le cose sono almeno in parte cambiate ed Ewers ha cominciato a fare capolino nel canone della letteratura tedesca, o almeno in quelle sue zone di margine in cui trova spazio il bizzarro, l’eccentrico, l’irregolare dello sfaccettato e multiforme universo del fantastico: soprattutto con quella parte della sua produzione, cioè, che copre i suoi primi anni e si conclude con il suo romanzo più famoso, fonte di sei (o forse sette: si veda al proposito Catalano, 241-42) diverse versioni cinematografiche, molte volte ristampato e che anzi non è mai davvero uscito del tutto dalla circolazione editoriale, Alraune. Die Geschichte eines lebenden Wesens (1911). A ciò corrisponde in sostanza il giudizio di Sennewald che nelle conclusioni del suo saggio sostiene che la rivalutazione di Ewers da lui proposta riguarda l’opera del primo periodo: se il suo saggio, scrive Sennewald, è teso “a garantire a Ewers un posto nella storia della letteratura tedesca, ciò riguarda esclusivamente i lavori che vanno dalle sue prime poesie fino all’incirca a Alraune” (Sennewald 1973, 201).
Al ridefinirsi del profilo di Ewers corrisponde anche una ripresa di interesse editoriale per la sua opera. Al momento in cui scriviamo si segnalano – per limitarci agli ultimi anni – le recenti ristampe dei racconti Die Herzen der Könige e di Das Grauen. Seltsame Geschichten, la pubblicazione degli inediti di Immaculata. Unveröffentlichte Texte aus dem Nachlass, del romanzo Fundvogel. Geschichte einer Wandlung e la ristampa anastatica in e-book del saggio Edgar Allan Poe, di cui si parlerà più avanti. L’opera di Ewers, con l’eccezione degli ultimi romanzi, circola ormai ampiamente in forma digitale, mentre quelli che sono considerati i capolavori dell’autore tedesco – il racconto Die Spinne, soprattutto, e in maniera minore il romanzo Alraune – hanno continuato a essere ristampati anche ai tempi della damnatio memoriae di Ewers in seguito alla sua svolta politica sempre più radicale e al suo coinvolgimento con il nazionalsocialismo.
Le opere successive ad Alraune, invece, e in particolare quelle che seguono il ritorno di Ewers dagli Stati Uniti dopo la Prima guerra mondiale, scivolano progressivamente nel Kitsch di una letteratura sensazionalistica e di consumo, un Kitsch gravato oltretutto da un’insopportabile cappa ideologica che vede l’autore tedesco allinearsi su posizioni sempre più reazionarie. Ewers, grande viaggiatore per indole e per mestiere (tra i suoi successi si contano diversi volumi di resoconti di viaggio: ricordiamo qui soltanto Mit meinen Augen. Fahrten durch die lateinische Welt [1909] e Indien und ich [1911]) era stato colto dalla notizia dello scoppio delle ostilità mentre si trovava in Cile, e da lì riparò a New York dove rimase, tra alterne fortune, fino al 1920. Dal suo soggiorno americano scaturì un sentimento di insofferenza per le ingiustizie di quella società così diseguale, che si colora anche di critica anticapitalistica: se ne ha un esempio in un racconto come Der schlimmste Verrat (in Nachtmahr, 1922), dove l’inizio che stabilisce la cornice è un piccolo capolavoro di satira tesa a sbeffeggiare le dinamiche di un sistema la cui finta eguaglianza democratica nasconde abissi di discriminazione e di ingiustizia. Alcuni passi di questo racconto sembrano appartenere alla penna di un Gustav Landauer o di un B. Traven, con la loro esaltazione di una vita errabonda, con il ritratto che offrono di un’America degli ultimi e con quell’inizio pesantemente antiamericano in cui echeggia ancora l’anarchismo libertario che l’autore tedesco conobbe nelle sue frequentazioni berlinesi con personaggi come Erich Mühsam, con il quale firmò alcune opere nel primo decennio del Novecento, e tra queste anche il Führer durch die moderne Literatur, un popolare manuale di letteratura contemporanea. All’interno del Führer, Mühsam curò l’ampia voce dedicata a Oscar Wilde, sintetizzando il profilo dello scrittore irlandese con grande partecipazione emotiva, soprattutto per il Wilde dell’ultimo periodo, “diventato un altro, migliore”, la cui arte, che “prima era puro egoismo, si trasforma in conformità al suo cambiamento in una di impegno sociale” (Ewers 1906, 175): non è difficile immaginare che tale ritratto sia stato condiviso anche da Ewers. Rappresentante di punta della bohème d’inizio secolo, Mühsam (1878-1934) fu protagonista sia del cabaret berlinese che, in seguito, di quello monacense, dove partecipò con testi ed esibizioni all’attività del Simplicissimus e di Die elf Scharfrichter. Amico di Heinrich e Julius Hart, di Scheerbart e Wedekind, affinò il proprio pensiero anarchico sotto il magistero di Gustav Landauer che frequentò per lunghi anni. Fondatore e redattore spesso unico di diverse riviste rivoluzionarie (Kain, 1911-1914 e 1918; Fanal, 1926-1933), Mühsam fu coinvolto nella Rivoluzione dei Consigli di Monaco nel 1919, imprigionato fino al 1924. Successivamente impegnato a diffondere con mille iniziative il verbo rivoluzionario e a contrastare l’avanzata delle forze hitleriane, fu arrestato all’indomani della presa del potere da parte dei nazisti e massacrato nel KZ di Oranienburg l’11 luglio 1934.
A prevalere nello Ewers di questi anni, comunque, è un nazionalismo sempre più accentuato che spazza via il cosmopolitismo degli esordi, ancora sporadicamente affiorante fino ai primi anni Venti, e che, tingendosi di crescente revanchismo con il passare del tempo, spiana la strada all’abbraccio mortale con il nazionalsocialismo (su Ewers e i suoi rapporti con il Terzo Reich si veda la testimonianza – seppure alquanto apologetica – di Josephine Ewers-Bumiller, la seconda moglie dell’autore tedesco, in Hanns Heinz Ewers während der Nazi-Zeit, in Sennewald, 203-208) e a opere che ne sono la bandiera come Reiter in deutscher Nacht (1931) e Horst Wessel. Ein deutsches Schicksal (1932).
Alraune è del 1911. L’anno successivo Ewers firma l’introduzione all’edizione tedesca del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (nel 1913 curerà anche un secondo volume di Wilde, Erzählungen und Märchen). Wilde all’epoca è già noto in Germania: alla sua fama, oltre al Dorian Gray (nel 1937 il romanzo aveva già conosciuto diciassette diverse traduzioni; cfr. Pfister, 9), aveva contribuito non poco la messa in scena della Salomé a Berlino nel 1902, con la regia di Max Reinhardt, cui era seguita nel 1905 la versione operistica di Richard Strauß – tanto che nel 1907 Karl Kraus scriveva sulla “Fackel”, in stile pienamente wildiano, che in pochi anni Wilde era decaduto “da rifiuto dell’umanità a beniamino della buona società viennese” (Kraus, 6; su Wilde in Germania si vedano: Kohl; Evangelista e Kohlmayer).
Quello di Ewers è uno scritto breve, uno schizzo sintetico piuttosto banale nei contenuti, ma preceduto da alcune considerazioni di carattere generale in cui l’autore tedesco si serve del profilo biografico di Wilde per presentare un ritratto della sua (e della propria) idea di letteratura. Con i toni di una vera e propria invettiva, Ewers si scaglia con sdegno contro coloro che definisce, prendendo a prestito con il disinvolto eclettismo che gli è proprio un’espressione nietzscheana, i “filistei della morale” (Ewers 1912, 5) che hanno condannato Wilde all’ignominia e in ultima istanza alla morte, e rinviene in essi i tratti di una dominante intellettuale archetipica, capace di giudicare l’arte e gli artisti solo in base a categorie morali che non competono loro. Ewers sostiene che l’arte è tale, invece, anche perché sprofonda nell’abisso di ciò che la società dei benpensanti reputa sconveniente o osceno:
Sempre si ripete la medesima storia: il filisteo della morale non è grado di separare l’artista dalla persona... e dunque fa pagare all’artista i – veri o presunti – peccati della persona (Ewers 1912, 5).
Ewers stigmatizza questa tendenza, che rinviene in particolare nel popolo anglosassone, e individua una linea viva che ha in Edgar Allan Poe il suo campione più rappresentativo, nella quale s’inserisce Wilde e in cui Ewers vede indubbiamente incluso se stesso:
E il peggiore, il più ipocrita di tutti è il popolo inglese. Non fu Kingsley che interruppe suo figlio, quando questi gli fece il nome di Heine, con le parole: “Non nominarlo... era una brutta persona!”? L’ipocrisia anglosassone ha infamato la memoria dell’immenso Edgar Allan Poe anche dopo la morte, rimproverandogli... di essere un bevitore; e lo stesso è avvenuto con il grande umorista Charles Lamb. A Byron hanno rimproverato in modo infame le sue storie d’amore... e si potrebbe continuare, con un nome prestigioso dopo l’altro (Ewers 1912, 5-6).
Si tratta della stessa linea che viene evocata quasi con le stesse parole, anche se con maggiore intensità e con un’articolazione più ampia, in quel vero e proprio manifesto di poetica che è rappresentato dal saggio Edgar Allan Poe (1905). Qui l’autore americano, oltre che pretesto per un attacco agli inglesi simile a quello che si ripeterà nell’introduzione al Dorian Gray, è occasione di una messa a fuoco dei processi compositivi attraverso i quali si delinea il profilo dell’artista ideale, di colui che si abbandona all’ebbrezza e attinge al grande serbatoio dell’ignoto (che Ewers, in ossequio alla tendenza del tempo, ribattezza “inconscio”) per edificare mondi vividi e luminosi:
In questo modo gli inglesi litigano sui loro poeti. Fanno morire Milton di fame, rubano a Shakespeare tutti i suoi capolavori, frugano con le dita adunche sulle vicende familiari di Byron e Shelley, denigrano Rossetti e Swinburne, schiaffano Wilde in prigione e additano al pubblico ludibrio Charles Lamb e Poe... perché bevevano! Allo stesso modo, agli inglesi vengono contrapposti i tedeschi, che hanno se non altro un senso della morale meno ingessato e vincolante. Sono contento di essere tedesco! I grandi uomini tedeschi hanno il diritto... di essere immorali. Immorali, vale a dire: non proprio così morali come i buoni borghesi e i preti. Il tedesco dice: “Goethe è stato il nostro più grande poeta”. Sa che non era troppo morale, ma non gliene fa una colpa. L’inglese dice: “Byron era immorale, perciò non era un grande scrittore”. Solo in Inghilterra ha potuto circolare la voce del ripugnante pretonzolo Kingsley a proposito di Heine: “Non parlate di lui... era una brutta persona” (Ewers 1905, 14-15).
Una poetica antinaturalistica, antiborghese, con chiari tratti di convergenza con il simbolismo fin de siècle:
L’arte è opposta alla natura. Una persona che viva in totale astinenza fisica e psichica, i cui progenitori abbiano sperimentato per lunghe generazioni la stessa astinenza, sì che il suo sangue non possa essere “avvelenato” come il nostro, non potrà mai diventare un artista... a meno che la benevolenza divina non regali alla sua vita altre sensazioni che possano indurlo all’estasi. Ma anche questi non sono altro che veleni dello spirito. Natura e arte sono i nemici più grandi: dove domina una, l’altra è impossibile.
Che cos’è – in senso stretto, precisamente – un artista? Un pioniere della cultura nella nuova terra dell’inconscio! (Ewers 1905, 18).
Vi è una precisa genealogia della dimensione ebbra dell’arte simbolista, in cui Hoffmann, Poe e Baudelaire occupano le posizioni preminenti:
Verrà un tempo in cui si rivolgerà un sorriso di commiserazione alle ampie vie maestre della nostra arte sobria, illuminate solo qua e là dalle torbide lanterne dell’alcol. Un tempo in cui i concetti di “arte” e di “ebbrezza” saranno una cosa sola, entrambi categorie di un’unica, grande arte ebbra. Solo allora sarà concesso ai pionieri l’alto grado che essi meritano, agli Hoffmann, ai Baudelaire, ai Poe... a quegli artisti che per primi adoperarono l’ebbrezza con coscienza consapevole (Ewers 1905, 17).
Insieme a loro, Wilde è tra coloro che segnano la strada:
Wilde racconta la favola della rosa meravigliosa che sbocciò dal cuore sanguinante dell’usignolo morente. Lo studente che la colse la ammirò e si meravigliò, non aveva mai visto una rosa rosso sangue di tale bellezza. Ma non sapeva in che modo essa era nata.
Noi ammiriamo l’odontodossum grande, quella meravigliosa orchidea… essa è forse meno bella perché si ciba di insetti che tormenta nel modo più ignobile, fino a farli morire? Godiamo degli splendidi gigli del parco di Sintra: così grandi, così bianchi non li abbiamo mai visti! Che cosa c’importa che il loro straordinario incanto sia dovuto all’ingegnoso guardiano, che non li nutre di acqua “naturale”, ma di guano trattato con particolari concimi? (Ewers 1905, 17).
Poe e Wilde uniti in un unico segno e con lo stesso Ewers che si pone nella loro scia: scrittori come loro sono il suo presupposto e la sua autorappresentazione, a essi lo lega lo stesso senso di elezione, la stessa volontà di scandalo, la sensazione di una diversità che attrae e insieme rende diversi dagli altri:
Ci sono uomini dai quali si emana un incanto speciale. Uomini che ti stregano, senza che tu possa opporti: devi solo cedere alla loro personalità. E poi interviene un qualcosa che ti respinge; impossibile dire di che cosa si tratta… ma c’è. Sono uomini segnati: con le stimmate dell’arte. Così Oscar Wilde, così Edgar Allan Poe (Ewers 1905, 63).
Ma non solo modello di scrittura: Ewers tende a riconoscersi anche nelle pose mondane di Oscar Wilde. L’autore tedesco, come scrive Gerald Bär, “deve la sua popolarità anche alla sua autostilizzazione a dandy un po’ eccentrico e giramondo, che partecipò e vinse un concorso di bellezza per ‘l’uomo più bello di Berlino’, portava sempre il monocolo e tra una cosa e l’altra si cimentò anche come attore con Max Reinhardt” (Bär, 379). Ma al di là del profilo umano e caratteriale di Wilde, al di là della sua collocazione negli scenari del fin de siècle, è la modalità del fantastico, tratto ricorrente e anzi distintivo dello stile Jugend (cfr. Jost, 24 segg.), ad attrarre Ewers, che la pone al centro del proprio progetto autoriale. La Widmung del saggio su Poe, che evoca uno dei più grandi modelli della letteratura fantastica tedesca di inizio Novecento, Gustav Meyrink, la proclama con programmatica esemplarità:
A GUSTAV MEYRINK,
l’artista dell’ebbrezza, il sognatore che crede nel sogno come unica cosa vera – come fu Poe, come è colui che scrisse queste righe – è dedicato questo libriccino.
Sull’Alhambra
Aprile 1905
HANNS HEINZ EWERS (Ewers 1905, 8).
Wilde, l’autore di Dorian Gray, rientra all’interno di questo spazio fantastico e anzi contribuisce a definirlo, e se è vero che certe sue esperienze riecheggiano come possibile fonte di ispirazione per la narrativa di Ewers (come scrive Kugel, l’interesse dell’autore tedesco per i culti voodoo, alla base di un racconto come Die Mamaloi [1907], è stato “forse ispirato dall’esempio di Oscar Wilde che nel 1881, nel sud degli Stati Uniti, prese parte ad alcune cerimonie degli schiavi neri” [Kugel, 107; in realtà, come è noto, Wilde parte per gli Stati Uniti nel dicembre 1881, arriva a gennaio 1882 e visita il sud in estate: quindi l’esperienza con il Voodoo non risale al 1881, ma all’anno successivo]), lo scrittore irlandese è definito autore del fantastico ben oltre il Dorian Gray da ‘colleghi’ come Howard Phillips Lovecraft, che lo include nel suo Supernatural Horror in Literature “per certi suoi racconti di squisita immaginazione” (Lovecraft, 50) e Jorge Luis Borges, che lo seleziona per la sua serie antologica della “Biblioteca di Babele” e paragona la sua “Londra onirica” a “quelle di Stevenson o Chesterton” (Borges, 9). Ma non solo: il fantastico wildiano copre un altro territorio che occupa il centro dell’orizzonte di Ewers, quello del raddoppiamento, della duplicità e della scissione dell’io. I meccanismi attraverso i quali si manifesta tale scissione hanno luogo in dinamiche interiori (ciò che caratterizza il fantastico di inizio Novecento e lo distingue da quello tradizionale), in manifestazioni incontrollate di un io che non è più padrone di se stesso ed è incapace di cogliere i nessi dei fenomeni cui assiste impotente e dai quali viene travolto. Il Dorian Gray è ovviamente il punto di riferimento primario, e al romanzo di Wilde si ispira una delle imprese più significative di Ewers negli anni Dieci: la stesura del soggetto per il film di Stellan Rye e Paul Wegener (che ne fu produttore e protagonista) Der Student von Prag (1913), uno dei grandi classici del primo cinema (una seconda versione muta, sempre con la collaborazione di Ewers, uscì nel 1926 con la regia di Henrik Galeen e con Conrad Veidt come protagonista. La storia conobbe anche una versione non autorizzata per la regia di Arthur Robison nel 1935 [su Der Student von Prag e più in generale sui rapporti di Ewers con il cinema si veda Keiner]).
Ma Wilde, con la sua personalità sfaccettata e inafferrabile, con le sue pose e i suoi slanci di autenticità, le sue oscillazioni tra l’ostentazione di indifferenza e la sincerità del dolore, proietta la sua immagine ben oltre il suo Dorian e deposita in Ewers una matrice che ritorna nei suoi racconti di questo periodo e modella i suoi personaggi. C’è anche (e soprattutto) Wilde negli esteti sfibrati dai comportamenti eccentrici che affollano le pagine di Ewers, attraverso una gamma che va dal travestitismo e all’omosessualità in Alraune al bisessualismo di un racconto come Der Tod des Barons Jesus Maria von Friedel (1908), il cui protagonista, “una specie di Dr. Jekyll e Mr. Hyde con una componente maschile e una femminile” (Bär, 381) simboleggiate con irridente blasfemia nel suo nome, si presenta talvolta in abiti muliebri, mentre la grafia alternante del suo diario testimonia le due diverse personalità del suo io; e oltre, fino agli estremi dell’ermafroditismo e del cambiamento di sesso che viene tematizzato attraverso un esperimento scientifico nel romanzo Fundvogel (1928). Oscar Wilde con la sua omosessualità (nella quale Ewers, con la sua pan- e probabile bisessualità, si riconosce; cfr. Kugel, 389-94; e Knobloch, 142-156) rappresenta un paradigma non solo artistico, ma la forma elementare di una tendenza alla trasgressione che l’autore tedesco sente come un diritto di ogni ‘spirito superiore’ in cui sono racchiusi l’uno e il molteplice. È così che Wilde diviene paradigma di elezione e la sua condanna una prova dei limiti della morale comune, travasata nelle miopi leggi della società borghese nel racconto Die Herren Juristen (1905):
Che cosa rappresenta una pena come il penitenziario per un uomo della cultura universale, per una persona forse perfino eccessivamente raffinata come Oscar Wilde? Se sia stato condannato a ragione o a torto, se il famoso paragrafo sull’omosessualità appartiene al medioevo o meno, poco importa, ciò che è certo è che quella stessa pena è stata mille volte più dura per lui che per chiunque altro! La moderna regolamentazione delle pene si basa sul principio della generale eguaglianza... ciò che non abbiamo e non avremo mai! (Ewers 1928, 94).
Sono gli stessi argomenti che ritroviamo nella nota introduttiva al Dorian Gray, che per il resto ricostruisce in estrema sintesi la storia della fortuna di Wilde in Germania, ne cita le traduzioni, le messe in scena. La breve rassegna si conclude con la menzione di un racconto al quale Ewers attribuisce evidentemente anche un ruolo non del tutto marginale per la ricezione dell’autore irlandese:
I primi a occuparsi di lui furono Hedwig Lachmann, che tradusse la sua Salomé, e Johannes Gaulke, che curò l’edizione tedesca di una serie di suoi libri; intanto io pubblicavo sulla rivista viennese “Die Zeit”, con il titolo C.33 (era il numero di cella dell’autore nel penitenziario di Reading), la storia di un incontro con Oscar Wilde. Con queste e con altre pubblicazioni iniziò così a destarsi l’interesse del pubblico tedesco (Ewers 1912, 8).
Vicenda autentica o immaginaria, quella che il racconto traduce in termini fantastici? Le parole di Ewers lasciano nell’ombra le circostanze reali dell’incontro, che potrebbe e potrebbe non essere avvenuto nel 1898, in uno dei numerosi soggiorni dell’autore tedesco a Capri, dove C.33 fu scritto nel maggio del 1903. Nello stesso anno Ewers annota in un suo reportage dall’isola campana: “Ho incontrato qui spesso due naufraghi resi amari dalla vita, lo sventurato poeta Oscar Wilde e il suo amico Alfred Douglas” (Ewers 19031, 6); e tuttavia Erich Mühsam, curatore della rivista sulla quale l’articolo di Ewers comparve, dubitava della veridicità di quelle circostanze, e tale dubbio è ripreso dal più accurato biografo di Ewers, Wilfried Kugel (cfr. Kugel, 52-53). Wilde ritorna, inoltre, in un altro testo ‘partenopeo’ (scritto a “Neapel, Mai 1907”, avverte Ewers nella nota in epigrafe che precede il racconto; cfr. Ewers 1928, 70), Das weiße Mädchen, nel quale uno dei due protagonisti in cui sembra dividersi l’autore, lo scettico Lothar, al cospetto del meno ortodosso, curioso Donald McLean afferma: “Oskar [sic] Wilde era un mio buon amico, come lei sa bene” (Ewers 1928, 72), a segnalare l’esperienza e la condivisione da parte di Lothar di ogni sfumatura dell’amore, del quale l’amico vuole mostrargli (e lo farà) un lato sconosciuto, mentre la protagonista femminile è una figura sadomasochistica che Sennewald accosta a “Salomè, Salambò, Cleopatra ed Erodiade” (Sennewald, 63) che esegue nuda una danza sfrenata per poi decapitare una colomba bianca e, come invasata, bagnarsi del suo sangue.
In ogni caso, l’ambiguità in cui sono immerse le circostanze dell’incontro di Ewers con Wilde fa parte tanto dell’immagine che l’autore tedesco vuole offrire di se stesso quanto della dialettica tra immaginazione e realtà che il racconto accampa, fino a scivolare nel metafisico. E C.33, in effetti, è un testo importante, anche se non tanto per illuminare la fama di un autore già noto come Wilde, quanto piuttosto perché attraverso la figura di Wilde il motivo della scissione dell’io, così ricorrente in Ewers, trova nuova forma e sostanza. A esso fa da pendant un’altra storia, scritta anch’essa a Capri nel gennaio del 1903, John Hamilton Llewellyn’s Ende, in cui la devozione wildiana passa attraverso una rielaborazione narrativa che si riconnette a una diversa matrice fantastica, quella – archetipale anche per il Dorian Gray – del corpo incorrotto, che passa attraverso modelli come Die Bergwerke zu Falun (1819) di E.T.A. Hoffmann, e che era stata recentemente ripresa e rinnovata da Hugo von Hofmannsthal con Das Bergwerk zu Falun (1900) o da Kurd Laßwitz con Die Frau von Feldbach (1902). Nel racconto di Ewers Llewellyn, un giovane pittore, si innamora del suo modello, una ragazza dalla bellezza incorruttibile come quella di Dorian Gray. Il motivo wildiano, tuttavia, in John Hamilton Llewellyn’s Ende si oggettivizza per prendere poi l’abbrivio verso un nuovo versante di speculazione fantastica: la bella, infatti, è stata ritrovata in un blocco di ghiaccio in Siberia (qui agiscono gli echi di cronaca: dalle falde glaciali di Berezkova, nell’agosto del 1900, era stata riportata alla luce una carcassa di mammuth perfettamente conservata), e trasportata a Londra ancora “chiusa nel suo palazzo polare” (Ewers 20171, 46; trad. modificata), un involucro che l’ha custodita per migliaia di anni e ne sigilla i lineamenti perfetti, preservandoli dal decadimento. Congelato nella sua bellezza eterna a sfidare il tempo e la corruzione, quel corpo radioso è affidato alle cure del British Museum, e diventa oggetto di ossessione e follia per il protagonista, fin quando, idealizzato e impossibile, il prezioso cadavere sottratto alla sua cella frigorifera non si dissolve in putredine.
Ma torniamo a C.33. Preceduto da una citazione della Ligeia di Poe, costruito su uno schema simile a quello che l’anno seguente andrà a strutturare anche il saggio sullo scrittore statunitense – quello dell’incontro reale o immaginario con la personalità celebrata – a segnare l’affinità con cui questi due autori si presentano agli occhi di Ewers, il racconto, che nella sua prima edizione in rivista (uscì poi in volume nel 1904 in C.33 und anderes; a partire dalla sua ripubblicazione in Die Besessenen, poi, il titolo assunse la forma C.3.3. e la dedica “Dem Gedächtnisse Oskar [sic] Wilde”) recava il sottotitolo Eine Erinnerung an Oscar Wilde, si svolge come una parabola narratologica: dopo il breve inizio descrittivo, in cui lo scenario è predisposto con una precisione acribica che richiama le tecniche del naturalismo (“Seduto sulla sommità di Punta Tragara fissavo da un quarto d’ora il mare, il sole, le rocce. Mi preparavo ad alzarmi per andare a casa quando un uomo venne a sedersi sulla panchina accanto a me, e mi trattenne per un braccio” [Ewers 2017, 147]), interviene la figura di Oscar Wilde a cambiare il paradigma. Il suo ingresso in scena segna l’irruzione del fantastico in un mondo che improvvisamente smarrisce le sue certezze. Wilde è se stesso e al tempo stesso il suo doppio spettrale:
Certo non mi era sconosciuto, ma chi era?
“È sicuro di non riconoscermi?”, riprese la voce tremula.
Quella intonazione... non mi era ignota, ma con inflessioni diverse: una voce forte, controllata, focosa, e non come adesso, esitante e debole.
Infine un lampo:
“Oscar Wilde?!”
“Sì”, confermò la voce. “Quasi! Dica piuttosto: C.33., è tutto ciò che il penitenziario ha lasciato di Oscar Wilde.
Lo osservai. C.33. non sembrava un granché: era una povera imitazione, un pallido ricordo di colui che era stato Oscar Wilde (Ewers 2017, 147).
Questo Wilde ridotto all’ombra di se stesso dopo gli anni di detenzione, tuttavia, recupera le sembianze di ciò che era stato un tempo e che il narratore aveva conosciuto, quando nel dialogo che si aggira dapprima in frasi di circostanza si introduce all’improvviso e come per caso un elemento che lo riscuote dal suo torpore:
Girammo intorno alla collina e ci sedemmo su due pietre, davanti all’Arco naturale.
All’improvviso mi sfuggì:
“Sono anni, ormai, da quando presi questa stessa strada insieme alla grande Annie Ventnor. È in questo punto che incontrammo Oscar Wilde… Il suo labbro superiore allora sdegnosamente si rialzava, i suoi occhi fiammeggiavano, tanto che le mie mani cominciarono a tremare [...]. Oggi mi ritrovo nello stesso punto; ma Lady Ventnor è morta e accanto a me c’è C.33. Sembra fantastico!”
“Sì”, sottolineò Oscar Wilde. “Fantastico!”
“Si direbbe il sogno di un Essere ignoto… un sogno di cui siamo i protagonisti”.
“Sì… che ha detto?”, esclamò Oscar Wilde, ansante, ferito e divorato dall’eccitamento.
Ripresi negligentemente:
“Si direbbe il sogno di un Essere ignoto, un sogno di cui noi siamo i protagonisti”.
Le mie labbra si muovevano macchinalmente, mi rendevo appena conto di quanto dicevo e pensavo.
Oscar Wilde ebbe un sussulto; questa volta la sua voce ritrovò l’antica inflessione dell’uomo il cui spirito altero si elevava al di sopra della folla volgare (Ewers 2017, 148).
Quelle pronunciate da Ewers e che fanno tanto effetto su Wilde sono le stesse parole che tre giorni dopo, in un successivo incontro, l’autore irlandese (o meglio, il suo doppio C.33) ripeterà al narratore. Questi, spinto dalla curiosità, insiste nel chiedergli perché, prima della condanna esemplare che lo avrebbe colpito con bigotta inflessibilità, abbia deciso di rinunciare alla fuga, possibile fin quasi all’ultimo istante: “Perché”, dichiara Wilde, “tutto non è altro che un sogno, il sogno di un Essere ignoto che sogna di noi” (Ewers 2017, 150; trad. modificata).
Questa volta la frase acquista la forza di una sentenza oracolare: oltre a possedere una valenza cifrata e a riferire di quel complesso e insondabile rapporto sogno/realtà così centrale per le poetiche simboliste, le parole pronunciate dall’autore irlandese sono da intendersi alla lettera. Wilde spiega, infatti, di aver ricevuto in sogno la visita ricorrente di un essere sconosciuto, che sembra appartenere a un’altra dimensione dell’essere:
Feci quella notte un sogno insensato. Vicino a me vidi un essere strano, una massa molle come un mollusco che nella parte superiore terminava in un’orribile Smorfia. Questa creatura era sprovvista di braccia e di gambe; la si sarebbe detta una testa ovoidale dalla quale, in qualunque momento e da tutte le parti, potevano spuntare arti gelatinosi. Tutto l’insieme aveva un colore bianco tendente al verde quasi trasparente, dove s’intrecciavano innumerevoli lineamenti (Ewers 2017, 150-151).
L’essere rivela a Wilde, che tenta di negarne la sostanza e lo chiama “un brutto fantasma di me stesso” (Ewers 2017, 151), una verità agghiacciante:
La Smorfia si contorse in un sogghigno, s’inchinò più volte e chiocciò:
“Guardatelo! Non sarei dunque che un suo fantasma! No, povero amico, la situazione è proprio l’opposto: sono io che sogno, e tu non sei che un minuscolo personaggio del mio sogno” (Ewers 2017, 151).
A poco a poco, sognatore e essere sognato si scambiano di segno: chi è davvero il sogno dell’altro, ed è possibile stabilirlo con certezza? Roso dalla vertigine abissale che tale interrogativo dischiude, Wilde finisce per convincersi della propria immaterialità. La relativizzazione del sé si estende al tutto e finisce per coinvolgere ogni manifestazione dell’essere nella medesima indifferenza. Paradossalmente è in questa indifferenza che Wilde trova una chiave per resistere al suo persecutore, negandogli ogni importanza e in definitiva ogni senso. Eppure, nel continuo gioco di rispecchiamenti e capovolgimenti del racconto, l’indifferenza del sognato si rivela essere un’arma a doppio taglio: essa muove anche il sognatore all’indifferenza nei confronti dell’oggetto del proprio sogno, mano a mano che questi si disinteressa di lui, e mentre le apparizioni della creatura si rarefanno sempre di più, come scrive Ulrike Brandenburg, “con la crescente assenza dell’immaginario persecutore viene meno anche l’energia vitale di Wilde” (Brandenburg 2003, 79).
Disinteressandosi a lui, il sognatore spinge Wilde all’apatia, lo fa scivolare via dalle cose, lo rende sempre più diafano e spettrale, fino a ridurlo alla larva che il racconto descrive:
Da circa un anno le sue visite si sono fatte più rade.
“Cominci ad annoiarmi”, mi confidò una notte. “Non vali abbastanza per tenere un ruolo nei miei sogni. Ci sono cose più divertenti. Credo che comincerò a dimenticarti tranquillamente”.
Lo crederebbe? Credo anch’io che cominci a dimenticarmi. Di tanto in tanto le succede ancora di sognarmi, ma sento che la mia vita onirica sta sfumando. Non sono ammalato, ma la mia vitalità comincia a venir meno. La Cosa non vuole più sognare di me; quando mi avrà completamente abbandonato, mi spegnerò (Ewers 2017, 155; trad. modificata).
Nel finale, tuttavia, la creatura torna a manifestarsi forse per un’ultima volta in una roccia sul mare, che nella sua monolitica, indifferenziata materialità si contrappone alla “massa molle come un mollusco”, “sprovvista di braccia e di gambe”, con cui essa si era presentata a Wilde per la prima volta. Ma si tratta soltanto di un’altra faccia della medesima alienità, una manifestazione parallela dell’amorfo che irride agli sforzi umani di dare ordine e senso al caos dell’universo:
Puntò il dito. L’acqua di un verde smeraldo ricopriva per un istante lo scoglio corroso, ritirandosi l’istante appresso. E veramente, nell’oscurità profonda, la pietra umida evocava una figura fantomatica, una Smorfia beffarda che sogghignava tutta...
“Uno scoglio!”, gridai.
“Sì, certamente, uno scoglio! Crede che non me ne accorga anch’io? Ma è la Smorfia; essa ha la facoltà di conferire la sua forma a qualunque oggetto. Guardi come sogghigna!”
Rideva, non potevano esservi dubbi. Dovetti riconoscere che lo scoglio grondante acqua assomigliava stranamente all’Essere fantastico che Oscar Wilde mi aveva descritto. “Mi creda”, disse ancora mentre vogavamo in barca sulla via del ritorno. “Mi creda: non c’è dubbio possibile. Rinunci una volta per tutte alle sue magniloquenti concezioni dell’umanità. La vita umana e tutta la storia del Mondo non sono altro che il sogno che un essere beffardo fa a nostre spese (Ewers 2017, 155-56).
Ewers sancisce così, con le ultime parole di Wilde, un’antiteologia nichilista e beffarda, in cui sembrano prefigurate le visioni lovecraftiane di cosmica indifferenza all’umano (cfr. Pezzini), quasi un risvolto mitico di quella stessa imperturbabilità, di quello stesso distacco che si rivela nella sferzante ironia del dandy. E Oscar Wilde finisce per essere vittima e carnefice di se stesso: ipostasi degli abissi autodistruttivi del decadentismo, sublimazione e al tempo stesso denuncia delle aporie dell’art pour l’art.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
Hanns Heinz Ewers (1871-1943), along with Karl Hans Strobl and Gustav Meyrink, is a master of early twentieth-century German fantastic literature. His first works, steeped in surreal and grotesque atmospheres, often have Oscar Wilde as a main presence. For the early Ewers, Wilde is a fine example of those metaphysical tensions underlying and undermining the bourgeois concept of reality. This article examines Wilde’s influence on Ewers’ work, focusing in particular on the essay Edgar Allan Poe (1905) and the story C.33 (1904), set in Capri in 1898, whose main character Wilde is.
keywords | Hanns Heinz Ewers; Oscar Wilde; Fantastic Literature; Fin de siècle.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Alessandro Fambrini, La storia del mondo non è altro che un sogno. Hanns Heinz Ewers e Oscar Wilde, “La Rivista di Engramma” n. 187, dicembre 2021, pp. 29-46. | PDF dell’articolo