Oscar Wilde, que de un destino no sin
infortunio y deshonra ha dejado una obra,
que es feliz e inocente como la mañana o el agua
Atlas, 1984
Sebbene una serie non trascurabile di riferimenti al poeta irlandese ne punteggi numerosi saggi e alcuni racconti, Wilde non è tra gli autori di lingua inglese più trattati da Borges. Allo scrittore egli dedica due contributi critici: il saggio Oscar Wilde y un poema pubblicato sulla rivista “Nosotros” nell’aprile del 1925, poi incluso nel Tamaño de mi esperanza (1926) col titolo La balada de la cárcel de Reading, e Sobre Oscar Wilde, pubblicato nel 1946 su “Los Anales de Buenos Aires” e riunito in Otras inquisiciones (1952); a essi si aggiungono le quattro conferenze che Borges tenne nel 1949 presso la Universidad de Montevideo, di cui non esiste una vera e propria trascrizione, ma di cui sono disponibili alcune sintesi (Passos 1949 e Passos 1950), e il breve paragrafo della Introducción a la literatura inglesa (1965) compilata insieme a María Esther Vázquez. La presenza di Wilde nella produzione dello scrittore argentino non può, dunque, dirsi paragonabile a quella di Stevenson, Coleridge, Chesterton, Wells, Whitman, illustri rappresentanti della letteratura che conosceva meglio, nella quale vanno ricercati i principali modelli tematici e formali delle sue opere e alla quale occorre risalire per rintracciarne la propensione per il motivo del doppio, per il sogno, per l’incubo; da questi maestri del racconto breve, Borges apprende importanti lezioni di ordine tecnico ed eredita anche la preoccupazione etica che si riflette nella condotta dei personaggi (Carlyle, Stevenson, Kipling, Chesterton). Ed etica oltre che estetica, è l’inquietudine che permea il commento dedicato a Wilde, cui lo scrittore argentino riserva un posto di privilegio tra i dispensatori di idee giuste e tra gli interpreti di un concetto di letteratura democratico.
Ma prima di entrare nel merito del commento borgesiano, e analizzare più nel dettaglio il discorso critico elaborato nei saggi, vorrei ricordare il curioso aneddoto che ha reso Borges bambino l’autore ‘occulto’ della versione spagnola del racconto di The Happy Prince datata 1909. Nel gennaio di quell’anno, infatti, su iniziativa di Alvaro Melian Lafinur, il quotidiano porteño “El País” pubblica la versione in castigliano del racconto firmata Jorge Borges. All’epoca lo scrittore aveva solo dieci anni e la traduzione venne attribuita al padre, Jorge Borges, avvocato e scrittore (il suo romanzo El caudillo venne pubblicato nel 1921). Fino a quel momento il piccolo Borges era l’autore di un breve saggio scritto in inglese sulla mitologia greca e di un racconto infantile, La visera fatal, scritto in castigliano e ispirato a un passo di Don Chisciotte. Nel 1909 lo scrittore argentino diventa così il traduttore di un contemporaneo dalla pessima fama: l’anno precedente, a Buenos Aires, la Salomé di Wilde era stata censurata perché ritenuta frutto di una mente insana e malata. Sulla scia del grande successo ottenuto da Entartung di Max Nordau (1892), anche in Argentina un capitolo della storia della critica letteraria di fine Ottocento e inizio Novecento è scritto a partire da una prospettiva nata in seno alla psichiatria e promotrice di valori riconducibili a una sola coppia oppositiva: il borghese col suo sistema di valori considerato legittimo e sano e l’artista con la sua arte simbolista e decadente ritenuta amorale e pericolosa. Difficile, tuttavia, pensare che gli scandali provocati dalla messa in scena della Salomè avessero potuto imporsi all’attenzione di un Borges bambino, mentre è facile comprendere quanto questi, relegato entro i confini della grande biblioteca paterna, fosse stato profondamente attratto dalla malinconica storia di amicizia dai risvolti fantastici raccontata in The Happy Prince.
La tradusse ponendo un’enfasi sulla tragica e misera condizione dei suoi personaggi, come testimonia la scelta di trasformare la poor house in una casuca miserable (“miserabile casupola”) o il volto thin and worn della donna descritta dal principe in demacrado e marchito (“emaciato” e “avvizzito”). Molti anni dopo, nell’introduzione al Delitto di Lord Arthur Savile redatta per la collana di letture fantastiche “La Biblioteca di Babele”, diretta da lui stesso per l’editore Franco Maria Ricci, indicherà nell’ironia intrisa di malinconia la cifra stilistica delle sue favole: “The Happy Prince, The Nightingale and the Rose e The Selfish Giant sono fiabe, non concepite nella maniera genuina di Grimm, ma in un modo sentimentale che ricorda Hans Christian Andersen, imbevute però di quell’ironia malinconica che è attributo peculiare di Oscar Wilde” (Borges 1989, 9-10). L’enfasi prodotta dalle scelte lessicali denuncia l’immaturità del traduttore; tuttavia, colpisce l’evidenza data agli aspetti di umanità e giustizia sociale del racconto se la si pensa in rapporto ai contenuti dei commenti borgesiani, animati sin da subito dalla volontà di riabilitare il poeta irlandese, presentandolo come uno scrittore giusto e un dispensatore di verità e gioia a dispetto della sua pessima fama. In una delle conferenze tenute presso l’Università dell’Uruguay nel 1949, Borges sostiene la tesi che, prima ancora di raggiungere la notorietà, prima che le sue opere divenissero popolari, Wilde si creò una strana aura di celebrità intorno alla sua persona, una vera e propria mitologia che ne precede la storia, nella quale hanno luogo gli aneddoti raccolti dai suoi biografi e riproposti in infinite versioni o “perversioni” (Passos 4 ottobre 1950, 4). Afferma così l’esistenza di un personaggio Wilde antecedente all’uomo e al poeta, la cui storia per aneddoti è raccontata in versioni non di rado in contrasto tra loro.
Nell’aprile del 1925, epoca in cui non era ancora l’autore dei racconti più noti, ma il poeta dell’arrabal e delle strade di Buenos Aires, Borges redige il primo contributo su Wilde, La balada de la cárcel de Reading:
En su final declinación, la primavera suele ostentar jornadas dulcísimas que no son menos asombrosas y bienquistadas de todos que las que en comienzo atendieron y cuyo agrado consabido se enriquece de todas las memorias que las bonanzas de septiembre legaron. Jornadas hay que abrevian en su don último la plenitud de una estación. También en los descensos y diciembres de las épocas literarias hay escritores que resumen la entereza de gracia que hubo en su siglo y en cuya voz se clarifica esa gracia. No de otra suerte Heine (letzer Fabelkönig der Romantik, último soberano legendario del imperio romántico, según reza su dicho) reinó sobre los altos ruiseñores y las rosas pesadas y las lunas innumerables que fueron insignias de su época (Borges [1926] 1994, 117).
La metafora è figlia dei paesaggi concettuali delle prime raccolte poetiche (penso in particolare a Fervor de Buenos Aires, 1923), ripudiate insieme alla raccolta di saggi nella quale è contenuto il brano dedicato a Wilde. Più avanti il riferimento a quel crepuscolo, di cui Wilde è per Borges ipostasi e poeta eccellente, è condensato in passaggi fugaci e lapidari. In questo saggio giovanile esso continua a tessere le sue maglie allorché Wilde è rappresentato come un corso d’acqua nel quale convergono i due potenti fiumi del preraffaellismo e del simbolismo, i cui rappresentanti (cita Swinburne, Rossetti e Tennyson), afferma, facilmente lo superano in intensità, nella superbia delle metafore e nelle affascinanti sonorità. “Wilde no fue un gran poeta ni un cuidadoso de la prosa” (Borges [1926] 1996, 128) ma nei suoi epigrammi racchiude un credo estetico che altri diluiranno in molte pagine. Sinteticità, agudeza, l’acume delle monellerie che non scadono mai nella vaghezza, nella pomposità gratuita e nella ricerca del consenso: sono questi gli aspetti dell’opera di Wilde su cui vale la pena soffermarsi. Vent’anni dopo, avvalendosi di più sofisticate tecniche discorsive non di rado basate sull’implicito, ripeterà, approfondendoli, i contenuti più importanti del suo discorso critico, tornando a insistere sulla natura etica e gioiosa dei suoi scritti, sul sapiente impiego del paradosso (le cui radici, per Borges, sono da ricercarsi nel saggio di De Quincey On Murder Considered as One of the Fine Arts), sulla capacità evocativa delle sue immagini e sulla sua genuinità e saggezza. Sebbene dunque il Borges dei primi anni Venti, agli occhi del Borges maturo, si esprimesse facendo un uso eccessivo di vocaboli e di descrizioni, è vero però che all’epoca aveva già maturato molte delle idee sul poeta irlandese che andrà ripetendo nel corso degli anni. Due enigmi ne avvolgono la vicenda esistenziale e su di essi, o meglio sulla loro risoluzione, Borges pone le basi del commento: il primo riguarda il noto episodio del salvacondotto per la Francia che gli fu offerto per evitare il carcere e che Wilde rifiutò:
Le dejaron pues una noche para que huyese a Francia y Wilde no quiso aprovechar el pasadizo largo de esa noche y se dejó arrastrar en la mañana siguiente. Muchas motivaciones pueden explicar su actitud: la egolatría, el fatalismo o acaso una curiosidad de apurar la vida en todas sus formas o hasta una urgencia de leyenda para su fama venidera (Borges [1926] 1994, 118).
Anni dopo, nell’introduzione al Delitto di Lord Arthur Savile, dirà: “Il processo e la detenzione di Oscar Wilde furono essenzialmente un suicidio. Egli stesso disse ad André Gide: ‘Volevo conoscere il lato buio del giardino’” (Borges 1989, 8). Ma la risposta è contenuta nel secondo dei due enigmi: la conversione. L’episodio della mancata fuga è cruciale e colmo di implicazioni psicologiche, e così è stato letto dai più noti biografi di Wilde. Come di consueto, Borges ne coglie il potenziale estetico, indicando nella conversione, e nelle ragioni tutte letterarie che la provano, la spiegazione di quella che molti interpretarono come una mancata opportunità. Per alcuni fu il risultato di una non scelta, dettata dalla condizione di immobilismo e disperazione in cui versava Wilde in quel particolare momento (Hyde [1962] 1991, 289), mentre per Borges Wilde si immolò. In una delle conferenze tenute presso l’Università dell’Uruguay dirà che, rinunciando a quella opportunità e consegnandosi alla giustizia, volle essere Cristo (Passos 4 ottobre 1950, 2), che Cristo fu una figura molto importante per lo scrittore, il tema prediletto delle sue prime poesie, la fonte d’ispirazione del suo modo di pensare per parabole e che, alla fine della sua vita, in lui volle identificarsi.
La pratica discorsiva ci rimanda alla consuetudine tutta borgesiana di soffermarsi su un episodio in particolare della vita in grado di condensare il senso dell’intera opera di un autore, con cui darà vita alle pagine di grande acume critico scritte in un decennio negli anni Trenta per la rubrica culturale della rivista argentina “El Hogar”. Se non lo si può considerare esemplare o, quanto meno, non così rappresentativo di quella perfetta sintesi tra economia di mezzi e piglio critico propria delle biografie sintetiche redatte per la rivista qualche anno dopo, il caso tuttavia è analogo: il dato biografico è lo spunto di una riflessione tutta letteraria. Se in molti ritennero insincera la conversione di Wilde, Borges, al contrario, non ha dubbi circa la sua sincerità dal momento che coincide con una trasformazione radicale del suo stile, di cui “su abandono de frases ornamentales, su dicción simple, casi familiar y vernácula” (Borges [1926] 1994, 119) di The Ballad of Reading Gaol sono la lampante dimostrazione. Il poema redatto in carcere contiene frasi che sono l’espressione di una trascuratezza involontaria e persino inaccettabile se paragonata con la dizione della Salomè. Per offrire un esempio, Borges cita la frase “We banged the tins and bawled the hymns”. Tuttavia, a quella “trascuratezza”, che altro non è che il modo sapiente e poetico in cui Wilde trae ispirazione dal linguaggio ruvido dei carcerati, lo stesso Borges riconosce un tratto di austerità capace di produrre “poesia pura”: “la Balada es poesía de veras y éste es dictamen que la emoción de todo lector confiesa y repite” (Borges [1926] 1994, 119). Ma non si limita a questo, e allo scrittore irlandese riconosce un’altra prodezza: l’essere riuscito a far esistere un personaggio di cui l’unica cosa che si conosce è che deve essere giustiziato (ossia una non esistenza), ma la cui morte ci commuove. Autentico, giusto ed etico, Wilde è anche un artefice prodigioso.
Sobre Oscar Wilde (1946)
“Leyendo y releyendo, a lo largo de los años, a Wilde, noto un hecho que sus panegiristas no parecen haber sospechado siquiera. El hecho comprobable y elemental de que Wilde, casi siempre, tiene razón” (Borges [1946] 1996, 70). L’affermazione non è che una delle numerose provocazioni contenute nel saggio più importante dedicato allo scrittore irlandese, Sobre Oscar Wilde. Pronunciare il nome di Wilde significa evocare una serie di nozioni per le quali Borges ricorre a una delle eccentriche catene enumerative di cui sono punteggiate le sue opere e mediante le quali, non di rado, dà vita a sorprendenti genealogie di testi o di autori, accostati in base a personalissime associazioni. Il criterio a guida di simili premesse è semplice. Borges definisce prima l’uomo, poi la corrente e infine l’epoca, delineando i confini di quelle coordinate estetiche entro le quali intende collocare Wilde, e lo fa in modo tale da configurare un preciso modello testuale: quello ermetico, appannaggio di pochi eletti, nei riguardi del quale lo scrittore argentino si erge a critico inclemente. Sono gli aspetti più oltranzisti e propri di uno stadio agonico del simbolismo a costituire il centro del suo discorso e le premesse di un ragionamento che sviluppa a partire da una loro confutazione. L’intento è raccontare Wilde attraverso una messa in discussione degli elementi per lo più associati al Wilde personaggio pubblico.
Si assiste, sebbene lo si faccia apprezzando un grado più elevato di sofisticazione argomentativa rispetto a quanto osservato fino ad adesso, a un atteggiamento provocatorio, animato dalla volontà di stupire il lettore, scardinandone alcune radicate convinzioni, e coltivando la speranza di rivelargli il volto meno noto e più autentico dello scrittore irlandese. Un’operazione analoga la si osserva in uno dei saggi dedicati a Whitman, Nota sobre Walt Whitman, comparso nel marzo del 1947 sugli “Anales de Buenos Aires”, poi riunito in Otras inquisiciones (1952) da cui verrà espunto e inserito della seconda edizione di Discusión. Anche in questo caso, la sostanza di quanto Borges afferma su Whitman non è il frutto di un’esplicita presa di posizione, ma della confutazione del modo più classico di interpretare la poesia whitmaniana. Il saggio, tuttavia, non presenta solo affinità di natura argomentativa con Sobre Oscar Wilde, ma consente di stabilire un parallelismo tra i due scrittori di lingua inglese sulla base di alcune somiglianze nelle loro idee di arte e di mondo, dalle quali si profila un tipo di artista che, per quanto l’accostamento possa apparirci azzardato, per Borges è lo stesso in entrambi. Whitman ha dato vita a una rappresentazione di se stesso creando un personaggio dalla personalità multiforme, espressione di una concezione ‘apersonale’ della letteratura, al quale Borges riconosce il merito di aver incarnato una sensibilità tutta moderna di interpretare la poesia. Ha rinnovato il concetto di panteismo come unione di cose contraddittorie o diverse, ma non lo ha fatto per definire la divinità o per finalità espressive, bensì per identificarsi con tutti gli uomini. Il personaggio Whitman, pertanto, incarna un concetto democratico di arte così come lo incarna Wilde, il quale ha profuso nella sua opera idee democratiche e di giustizia sociale. Entrambi poi, a detta dello scrittore argentino, sono straordinari dispensatori di felicità.
Relativamente ai temi dell’etica e della giustizia sociale, ma anche in merito alle opinioni espresse da Borges sulla Ballad, azzarderei l’esistenza di un debito taciuto nei confronti di Chesterton, delle cui idee su Wilde espresse nel saggio The Victorian Age in Literature (1921) si rinvengono alcune evidenti tracce nei commenti di Borges. Se Wilde ha scritto versi di pessimo gusto, afferma Chesterton, “not the bad taste of the conservative suburbs wich merely means anything violent or schocking but real bad taste” (Chesterton 1946, 138), è vero però che non ha prodotto mai neanche una frase immorale e che ha composto un’opera genuina e vera, la Ballad, che è anche un’invocazione alla giustizia e alla fratellanza universali:
in which we hear a cry for common justice and brotherhood very much deeper, more democratic and more true to the real trend of the populace to-day, than anything the Socialists ever uttered even in the boldest pages of George Bernard Shaw (Chesterton 1946, 138).
La spontaneità, la natura democratica delle sue idee, la capacità di produrre una “poesia pura” in grado di commuovere: elementi del discorso di Chesterton che sostanziano anche i commenti di Borges. Come autore di incubi e di racconti inquietanti, lo scrittore inglese riveste un ruolo molto importante in Sobre Oscar Wilde, dove Borges stabilisce un paragone con Wilde dal potere definitorio, ma si ha appunto ragione di ritenere che un ruolo altrettanto significativo lo rivesta anche come critico e saggista; con quest’ultimo, Borges, infatti, pare condividere alcune sostanziali opinioni e da lui sembra raccogliere alcune suggestioni di natura critica, pur dissentendo su altre, di natura estetica.
Wilde, per Borges, è tra quelli che profondono idee democratiche e difendono un concetto democratico di arte. Nel saggio La flor de Coleridge pubblicato su “La Nación” di Buenos Aires nel 1951, poi riunito in Otras inquisiciones, lo scrittore argentino intreccia i temi del panteismo e l’idea di concezione democratica dell’arte ai nomi di Wilde, Whitman e Coleridge. “Para las mentes clásicas, la literatura es lo esencial, no los individuos” (Borges [1951] 1996, 19). Autori come George Moore e Joyce da una parte (i quali hanno incorporato nella loro opera pagine e sentenze altrui) sono assimilabili a Oscar Wilde (il quale regalava argomenti perché gli altri li traducessero in opere). Entrambi i tipi di artefice incarnano un sentimento ecumenico e impersonale dell’arte. “Quienes minuciosamente copian a un escritor, lo hacen impersonalmente, lo hacen porque confunden a ese escritor con la literatura, lo hacen porque apartarse de él en punto es apartarse de la razón y de la ortodoxia” (Borges [1951] 1996, 19). Da una parte Wilde è assimilato ai sostenitori di un concetto democratico dell’arte, il cui profeta è Walt Whitman, dall’altra la sua presenza tra i democratici dell’arte aggiunge un ulteriore elemento alla riflessione. Si tratta dell’idea di plagio cui Borges attribuisce uno straordinario potere creativo. Le due tendenze, incarnate da una parte da coloro che regalano ad altri le loro idee (di cui, appunto, Wilde è il sommo esempio) e dall’altra da coloro che, al contrario, le prendono in prestito, sono funzionali ad affermare anche l’idea di classicità di un testo come riscrittura parziale del preesistente (concetto, questo, che Borges espone compiutamente per la prima volta nel noto racconto Pierre Menard). Wilde, come altri, contribuisce al sistema di ripetizioni reali e variazioni apparenti che sostanzia la letteratura con la sua generosità, elargendo brillanti idee di cui beneficeranno tutti. È l’uomo giusto ed etico, capace di scardinare l’impalcatura dei luoghi comuni che ne hanno forgiato l’immagine più abusata; si veda, a tal proposito, l’esordio di Sobre Oscar Wilde:
Mencionar el nombre de Wilde significa mencionar a un dandy que fuera también un poeta, es evocar la imagen de un caballero dedicado al pobre propósito de asombrar con corbatas y con metáforas. También es evocar la noción del arte como juego selecto o secreto—a la manera del tapiz de Hugh Vereker o del tapiz de Stefan George—y del poeta como laborioso monstrorum artifex (Plinio, XXVIII, 2). Es evocar el fatigado crepúsculo del siglo XIX y esa opresiva pompa de invernáculo o de baile de máscaras (Borges [1949] 1996, 69).
Borges enuclea gli elementi culturali ed estetici della leyenda negra che ha affossato il poeta irlandese contribuendo a spazzar via gli aspetti più apprezzabili della sua opera. Menzionare il nome di Wilde equivale, infatti, a evocare gli atteggiamenti eccentrici che ne definiscono la pose prima ancora che la sostanza di scrittore, è pensare a un dandy che si diverte a intrattenere il pubblico indossando abiti stravaganti e sciorinando metafore. Equivale a pensare all’esteta incantatore, la cui idea di arte è quella di gioco “scelto e segreto”. Borges la presenta dando vita a una breve catena di riferimenti intertestuali, tacendo la natura dei loro legami, che invece resta implicita nell’immagine prodotta dalla rete delle citazioni. Per avanzare l’idea di arte ermetica e ricercata, infatti, evoca la metafora dell’arazzo (che è anche un modo per alludere alle qualità visive dell’arte simbolista e della scrittura di Wilde), facendo riferimento al tappeto di Hugh Vereker e, quindi, richiamando, seppur indirettamente, il racconto di James The Figure in the Carpet, al quale affianca l’opera Der Teppich des Lebens del poeta tedesco Stefan George. Da una parte, dunque, richiama l’immagine contenuta in un racconto nel quale si denunciano le illusioni del simbolismo, dall’altra la stessa immagine, nel titolo della raccolta di poesie di George, informa circa la rete dei rimandi sonori e associativi mediante i quali le liriche si affrancano dalla realtà e divengono portatrici di un significato oscuro. Entrambi presuppongono il mancato scioglimento dell’enigma, entrambi veicolano un’idea di arte da decifrare, appannaggio di pochi eletti, e insieme quella di poeta come monstrorum artifex coniata da Plinio. Nella Naturalis Historia XXVIII, l’espressione è riferita a Ostane che per primo ha inventato atrocità e orrori come mangiare le parti del corpo umano e, come tale, può essere tradotta come “creatore di incubi” o “autore di azioni mostruose” (Bellanova 2017). Borges mostra di ricorrere al lemmario pliniano in più di una circostanza, in particolare nei luoghi in cui si plasmano incubi o si generano mostri (si pensi ai Trogloditi del racconto El inmortal), ma il demone del raffronto, quando non si deve a momentanee emergenze di ricordi di lettura attivate dalla trattazione di tale o talaltro argomento, in Borges, si sa, produce sensi o risemantizza. L’espressione monstrorum artifex compare nel saggio su Wilde di Otras Inquisiciones e in quello dedicato a Chesterton della stessa raccolta ma, se nel caso di Chesterton allude alla capacità dello scrittore di congetturare cose terribili come “una cárcel de espejos [...] un laberinto sin centro [...] un hombre devorado por automátas de metal [...] un árbol que devora a los pájaros y que el lugar de hojas da plumas” (Borges [1947] 1996, 73), riferita a Wilde contribuisce a fare del dandy desideroso di stupire con cravatte e metafore anche un creatore di prodigi. Si delineano i termini di un raffronto tra i due che, come accennato, ha carattere definitorio. Borges getta le premesse di una confutazione che gli servirà per avanzare la sua tesi: “Ninguna de estas evocaciones es falsa, pero todas corresponden, lo afirmo, a verdades parciales y contradicen, o descuidan, hechos notorios” (Borges [1949] 1996, 85). Wilde è una specie di simbolista: un insieme di circostanze sostiene l’ipotesi ma, afferma lo scrittore argentino, un fatto capitale lo confuta. L’insieme degli argomenti addotti a sostegno della tesi è di natura meramente aneddotica:
Wilde, hacia 1881, dirigió a los estetas y diez años después a los decadentes; Rebecca West pérfidamente lo acusa (Henry James, III) de imponer a la última de estas sectas “el sello de la clase media”; el vocabulario del poema The Sphinx es estudiosamente magnífico; Wilde fue amigo de Schwob y de Mallarmé (Borges [1949] 1996, 69).
Particolari riguardanti le sue frequentazioni, la sua vita, la sua fama, in base ai quali lo si colloca nel contesto delle correnti estetiche in voga. Ma l’impalcatura crolla dinanzi al dato estetico inconfutabile. In verso o in prosa, la sintassi di Wilde è semplicissima. Borges lo annovera tra gli scrittori britannici più accessibili anche agli stranieri. La metrica è spontanea. La sua opera non contiene neanche un verso sperimentale, come dimostra il fatto che non esiste un solo passo di Wilde paragonabile a un verso come “Alone with Christ, desolate else, left by mankind” di Lionel Johnson (The Church of a Dream).
Oltre a dar vita all’immagine di desolata solitudine in Cristo nella quale vediamo rispecchiata la condizione del poeta, il riferimento a Johnson indirettamente ci riconduce ad alcuni nodi cruciali della sua storia, come appunto il fatto che questi trasformò la sua l’ammirazione per Wilde in odio, poiché, come è noto, lo ritenne responsabile della rovina sociale di Douglas, di cui era cugino e precettore. Ma a Borges interessa il potenziale critico di alcune contraddizioni, di cui si serve per individuare il fatto estetico nel dato biografico; stando alla sua fama di scrittore simbolista, afferma, nell’opera di Wilde dovremmo rinvenire molti artifici (i termini di paragone sono Gustave Kahn di Les palais nomades e Leopoldo Lugones di Los crepúsculos del jardín) mentre, paradossalmente, a definirne la grandezza è la sua “pochezza tecnica”: “La insignificancia técnica de Wilde puede ser un argumento a favor de su grandeza intrínseca” (Borges [1949] 1996, 69). Non che la sua opera sia priva di artifici. Al contrario, The Harlot’s House, Symphony in Yellow e l’undicesimo capitolo di Dorian Gray ne sono l’eclatante dimostrazione, ma essi non sono che aspetti di secondaria importanza. Purple patches, “retazos de púrpura” (Borges [1949] 1996, 69), specifica lo scrittore, con i quali si spiega il motivo per cui il nome di Wilde è stato associato spesso alla nozione di “frammento decorativo”, ma di cui lo scrittore irlandese può fare tranquillamente a meno. Nel contesto dell’epoca, viziato dalle sofisticazioni e dai complessi giochi linguistici, il Wilde di Borges spicca per essere un uomo di idee e di idee giuste, che si è concesso il piacere di alcuni giochi simbolisti. Lo dimostrano The Soul of Man under Socialism nonché le note scritte per la “Pall Mall Gazette” e lo “Speaker”; ma Borges fa molto di più e lo colloca sul piano delle regole generali dell’arte, quelle nelle quali vede rispecchiarsi la propria concezione artistica. Ecco che i giochi verbali per i quali è stato accusato di esercitare una sorta di arte combinatoria possono forse valere per le sue battute (“unos de estos rastros británicos que, vistos una vez, siempre se olvidan”, Borges [1949] 1996, 70), per i suoi paradossi ma non per le sue opere, ognuna delle quali, in pieno stile borgesiano, è ricondotta a un unico principio. Sono il principio in base al quale la musica è capace di svelare passati sconosciuti e forse reali (The Critic as Artist), quello per cui pentirsi di un atto vuol dire modificare il passato (De Profundis) oppure l’altro, non indegno di Swedenborg o Leon Bloy, in base al quale non c’è uomo che in ogni istante non sia ciò che è e ciò che è stato (The Ballad of Reading Gaol).
Come non riconoscere il Borges delle speculazioni sul tempo e sul destino dell’uomo che concepisce l’idea che uno scrittore inventa i suoi precursori o quella di un tempo infinito in cui tutti i destini si ripetono, per cui l’uomo in un solo istante può essere ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà? Il De Profundis riscrive la storia di Wilde in base all’idea che la letteratura può modificare la realtà e nella lettura borgesiana della Ballad riecheggia l’idea esposta anche nel racconto Biografia di Tadeo Isidoro Cruz (1829-1874) contenuto nell’Aleph secondo la quale: “Cualquier destino, por largo y complicado que sea, consta en realidad de un solo momento: el momento en que el hombre sabe para siempre quién es” (Borges [1949] 1996, 562). Il raffronto torna a rivestire una funzione esplicativa e definitoria nella parte conclusiva del saggio:
Éste, si no me engaño, fue mucho más que un Moréas irlandés, fue un hombre del siglo XVIII, que alguna vez condescendió a los juegos del simbolismo. Como Gibbon, como Johnson, como Voltaire, fue un ingenioso que tenía razón además. Fue, “para de una vez decir palabras fatales, clásico en suma” (Borges [1949] 1996, 70).
Se Wilde dette al secolo ciò di cui il secolo aveva bisogno: “comédies larmoyantes para los más y arabescos verbales para los menos” (Borges [1949] 1996, 70), se il suo perfezionismo lo ha un po’ tradito (il vocabolario “studiosamente” elaborato di The Sphynx), immaginare l’universo senza gli epigrammi di Wilde non è pensabile. Il sapore fondamentale dell’opera di Wilde è la felicità, un principio che Borges afferma dando vita all’ultimo e sostanziale raffronto del saggio: quello con Chesterton. Prototipo di salute fisica e mentale, lo scrittore inglese ha prodotto opere che sono incubi, nelle quali è sempre in agguato la minaccia del diabolico e dell’orrore, mentre Wilde è autore di un’opera felice nonostante la sua vita sia stata segnata dal disonore e dalla disdetta. Chesterton vuole recuperare la sua infanzia, Wilde, invece, conserva l’innocenza:
En este país, los católicos exaltan a Chesterton, los librepensadores lo niegan. Como todo escritor que profesa un credo, Chesterton es juzgado por él, es reprobado o aclamado por él. Su caso es parecido al de Kipling a quien siempre lo juzgan en función del Imperio británico [...] Tales ejemplos, que sería fácil multiplicar, prueban que Chesterton se defendió de ser Edgar Allan Poe o Franz Kafka, pero que algo en el barro de su yo propendía a la pesadilla, algo secreto, y ciego y central (Borges [1949] 1996, 72-73).
Il volto sano e moralista di Chesterton cela demoni interiori e quello dannato e frivolo di Wilde nasconde felicità ed è etico. Negli anni Cinquanta, il poeta irlandese torna a offrire a Borges lo spunto per affermare almeno due delle sue idee ripetute numerose volte nel corso del tempo: la letteratura è sempre anteriore a se stessa ed è in grado di creare o modificare la realtà. Borges si serve della frase con cui Wilde afferma che il Giappone, nelle immagini che suscita, è un’invenzione di Hokusai, nel prologo all’edizione delle Poesías completas di Evaristo Carriego che correda l’edizione di Evaristo Carriego delle Obras completas pubblicata da Emecé (1996). Il saggio sul poeta porteño, amico del padre e assiduo frequentatore di casa Borges, viene pubblicato per la prima volta nel 1930 e soddisfa l’intima necessità dello scrittore argentino di comprendere appieno la realtà vernacolare e violenta di Buenos Aires, quella così ben rappresentata nei versi del conterraneo. Sin dagli anni Trenta, Borges confessa il suo rammarico per essersi consacrato, e consacrarsi, all’impegno intellettuale, alla menzogna della letteratura, a discapito di una vita di azione:
Palermo del cuchillo y de la guitarra andaba (me aseguran) por las esquinas, pero quienes poblaron mis mañanas y dieron agradable horror a mis noches fueron el bucanero ciego de Stevenson, agonizando bajo las patas de los caballos, y el traidor que abandonó a su amigo en la luna, y el viajero del tiempo, que trajo del porvenir una flor marchita, y el genio encarcelado durante siglos en el cántaro salomónico, y el profeta velado del Jorasán, que detrás de las piedras y de la seda ocultaba la lepra (Borges [1930] 1996, 101).
Venti anni dopo, il nome di Wilde fa di nuovo la sua comparsa nel frammento del prologo alle poesie di Carriego in cui a quella menzogna affida un compito importantissimo: non solo favorire la comprensione di più ampie porzioni di realtà ma generarne gli elementi, modificandola o inventandola. Il rammarico per non aver esperito la realtà dei quartieri di Buenos Aires negli anni Cinquanta cede momentaneamente il posto all’idea che i sobborghi raccontati da Carriego si siano imposti all’immaginario, incidendo sull’idea che in generale oggi se ne ha, analogamente a quanto compiuto più avanti dal tango e dal sainete. Wilde l’ecumenico e generoso dispensatore di idee giuste e brillanti, colui che ha saputo generare gioia dalla disfatta, edulcorato a momenti e in altri sofisticato perfezionista, è un incantatore e un artefice prodigioso, che con le sue immagini ha contribuito ad arricchire il sistema di ripetizioni reali e variazioni apparenti di cui è fatta la letteratura. In Formas de una leyenda di Otras Inquisiciones, Borges ricorda che tutte le religioni dell’Indostan, e in particolare il buddismo, insegnano che il mondo è illusorio. Per il Mahayana, la vita del Buddha sulla terra è un gioco o un sogno:
Lo irreal, así, ha ido agrietando la historia; primero hizo fantásticas las figuras, después al príncipe y, con el príncipe a todas las generaciones y al universo. A fines del siglo XIX, Oscar Wilde propuso una variante; el príncipe feliz muere en la reclusión del palacio, sin haber descubierto el dolor, pero su efigie póstuma lo divisa desde lo alto del pedestal (Borges [1952] 1996, 121).
Riferimenti bibliografici
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English abstract
This essay investigates Borges’ opinions on Oscar Wilde’s works. Although Oscar Wilde did not belong to the ranks of the English-language authors Borges appreciated most, his presence in the work of the Argentinian writer is quite conspicuous. From the first articles included in the repudiated collections (The Ballad of Reading Prison, in The Measure of my Hope) to the essays of his maturity (On Oscar Wilde, in Other Inquisitions), Borges’ argument delves into the cleavage between the public person and the artist and between genuineness and artificiality. Such concepts allow him to relocate Wilde in the context of late Symbolism. But the most interesting aspect certainly concerns the role played by the Irish writer within the eccentric genealogies of authors and works Borges creates. Thanks to the demon of comparison, the often-risky affinities and differences that he conceives (such as Whitman and Chesterton) shed new light on Wilde’s texts and themes.
keywords | J.L. Borges; Oscar Wilde; The Happy Prince; Symbolism.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Alessandra Ghezzani, Una specie di simbolista. Borges legge Wilde, “La Rivista di Engramma” n. 187, dicembre 2021, pp. 47-63. | PDF dell’articolo