“Un romanzo aperto verso l’avvenire”?
Sopralluoghi nei dintorni di Una vita violenta
Silvia De Laude
English abstract
“La concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro,
del manoscritto grezzo che ostenta le proprie informazioni
come un vendicativo fantasma che porta la sua testa sotto il braccio”.
Vladimir Nabokov
Una “ideale trilogia” che non si chiude
“Un romanzo aperto verso l’avvenire” è il titolo di una recensione del critico marxista Carlo Salinari a Una vita violenta, che come notavamo con Walter Siti lavorando all’edizione dei “Meridiani”, colpisce con icastica precisione il contrario della verità, quasi rasentando la profezia iettatoria (Siti 1998b, CXXXIII).
Una vita violenta esce nell’aprile del 1959 con un risvolto di copertina (non firmato, ma d’autore) che lo presenta come seconda anta di una “ideale trilogia” romana aperta da Ragazzi di vita (1955), e con una terza anta già in cantiere, Il Rio della Grana. “Il processo in atto”, si assicurava al lettore, “va avanti”.
In realtà, per il Pasolini narratore l’uscita di Una vita violenta segna una drammatica impasse, e apre a un “avvenire” incerto. Il ’59 è l’anno in cui lo scrittore trentacinquenne si sforza col più commovente dispendio di energia di accreditarsi come romanziere ‘oggettivo’, pubblicando per la prima volta con Una vita violenta un romanzo-romanzo: una trama solida, un vero protagonista, una accuratissima documentazione sociologica e dialettale, una auto-imposta resistenza alle spinte centrifughe che avevano fatto di Ragazzi di vita più una raccolta di racconti – o un atlante antropologico di azioni – che un romanzo vero e proprio (così lo avevano letto, all’epoca, critici anche diversissimi, da Anna Banti a Niccolò Gallo, Franco Fortini, Emilio Cecchi). Lo stesso risvolto insiste sul fatto che quella che il lettore sta per affrontare è, stavolta, “una vera storia”:
L’ambiente, col suo brulicare di episodi e di figure, non è più l’oggetto diretto del racconto, ma è in funzione di un unico personaggio centrale, la cui storia, pur nella sua violenza e nella sua confusione, è una vera storia: con quanto di epico ma anche con quanto di razionale questo significa (cfr. risvolto di Una vita violenta, Fig. 1).
La maggior parte dei progetti in cui Pasolini si impegna nel ’59 va nella stessa direzione, evitando il “brulicare di episodi e figure”, ma per un motivo o per l’altro senza riuscire a decollare. Scrive, in quell’anno, una sfortunata sceneggiatura, Puzza di funerale (Pasolini [1959] 2001, da cui ritirerà la sua firma per contrasti con la produzione): vi figura, fra l’altro, una scena di corteggiamento delicata e intensa come quella tra il protagonista di Una vita violenta Tommaso Puzzilli e la fidanzata Irene, e in uno scritto dell’anno successivo l’autore la definirà “una vera e propria storia, articolata, drammatica”, “forte, dura, tetra”, ma anche “allegra e spiritosa, come sono sempre allegri e spiritosi i ragazzi romani che muoiono”. Sempre nel ’59 progetta di trarre da questa sceneggiatura un racconto, ma poi non lo scrive (Siti, Zabagli 2001, II, 3190-3191). Da novembre, si butta anima e corpo nella stesura ‘dal vero’ di un’altra sceneggiatura da cui ritirerà la firma, La Nebbiosa (l’ultima edizione è del Saggiatore, Pasolini [1959] 2001, 2013, II), un noir che ha come cornice la Milano disperata dei teddy boys, e gronda di omaggi a Testori (“Insomma, vado a Milano, venti atroci giorni chiuso in un alberghetto a lavorare come un cane, lavoro ancora altri venti giorni a Roma” (Pasolini [1960] 1998, I, 1585). Ancora più faticosamente, in quei mesi, cerca di rabberciare il vecchio cantiere del romanzo friulano sull’occupazione delle terre (La meglio gioventù), intitolandolo Il giorno del Lodo De Gasperi; ma anche questo tentativo, a cui tiene moltissimo stando ai numerosi materiali preparatori, rimane interrotto (Siti, De Laude 1998a, II, 1934-1939).
La crisi, si può dimostrare, matura proprio durante la stesura di Una vita violenta, che si rivela, alla fine di un’elaborazione durata oltre quattro anni, un vicolo cieco. Già all’inizio degli anni ’60, l’orizzonte è completamente cambiato. In aprile Pasolini scrive le Poesie incivili, soffocate da un acuto senso di rabbia, solitudine e impotenza. Verso la fine dell’anno butta giù in forma di diario, nei due lunghi racconti Il 4 ottobre e Il 21 ottobre, la “sconfitta narcissica” e le ansie legate alle vicende di Accattone, che Fellini inizialmente si era offerto di produrre, fornendo al neo-regista i mezzi per realizzare due intere sequenze, ma poi non ne era rimasto convinto: “Disse che quello non era cinema (e infatti non era il suo cinema)” (De Giusti, Chiesi 2015, su cui Pontillo 2016). Pochi mesi dopo, propone a Garzanti un libro di diari estremamente privati, il cui titolo dovrebbe essere appunto La rabbia, o in alternativa L’enormità della mia vita (Pasolini 1988, 487, su cui Siti, De Laude 1989a, 1740-1741).
Quello di cui Pasolini si convince, scrivendo appunto Una vita violenta, è che la sua dimensione di scrittore è quella soggettiva:
L’io non potrà più sparire dalle sue narrazioni; se non altro come progettatore, sempre immanente in scena, di opere volutamente non-finite, frananti monumenti narrativi intesi come ferite sempre aperte. Metanarratore inesausto, sempre sulla linea del fuoco, a difendersi e a offendere (Siti 2007b, XX-XXI).
La citazione è da un’introduzione di Walter Siti a una riedizione UTET/Fondazione Maria e Goffredo Bellonci di Una vita violenta, dal titolo Un amore pagato caro. Quella alla riedizione di Ragazzi di vita, uscita nella stessa collana, si intitola Protagonista è il testimone (Siti 2007a), in linea con un’intuizione ripresa nel successivo, bellissimo spettacolo tratto dal romanzo che ha aperto la stagione 2016-17 del Teatro Argentina di Roma, con la regia di Massimo Popolizio, e drammaturgia di Emanuele Trevi. Lì, nello spettacolo di Trevi-Popolizio, il narratore-“testimone” era quasi sempre in scena insieme agli attori. Aveva scritto Trevi nel programma di sala:
In queste scene prevalgono una marcata gestualità e il parlato romanesco, o meglio quella singolare invenzione verbale, di gusto espressionista e non neorealistico, che Pasolini stesso definiva una lingua inventata, artificiale. Non è insomma la lingua in cui parlano effettivamente i “ragazzi di vita”, ma la loro lingua come viene percepita dal “narratore”, che è un uomo diverso da loro (interpretato da Lino Guanciale), e in tutti i sensi uno straniero. […] Da una parte ci sono i ragazzi immersi in quello che fanno, e incapaci di vedere oltre alle immediatezze che li tengono impegnati [...]. Dall’altra c’è questo straniero che li spia, e che a differenza di loro vede tutto, parla di Roma come se la sorvolasse come un uccello rapace o un drone. Ma non si accontenta di rimanere lassù. È attratto dal basso, dove brulicano le storie. E in queste storie è sempre presente, perché è lui a farle iniziare, a colmarne le reticenze, a rimetterle in carreggiata quando i loro protagonisti sembrano dimenticarsi di quello che stavano facendo e dicendo (Trevi 2016).
Quanto al Rio della grana, annunciato più volte in lettere, scritti e interviste, il riferimento al romanzo abortito è omesso a partire dal ’63 nel risvolto delle successive ristampe di Una vita violenta. L’idea era quella di un terzo romanzo romano che uscisse un po’ dalla gabbia del romanesco, esperienza stilistica che Pasolini cominciava a sentire non proprio come chiusa, ma limitante. Doveva essere la storia di un giovane calabrese, proveniente da una cultura arcaica e malamente inurbato nella Città di Dio (o di Dite): il ragazzo resta scandalizzato dal cinismo delle borgate e uccide alla fine una prostituta, che rappresenta per lui l’essenza della corruzione. La storia però sembra mancare di ossigeno, resta tutta ‘di testa’ e non va al di là delle intenzioni. Il 14 novembre 1959 del Rio della Grana esce un’anticipazione sul “Punto” con un titolo perentorio (Appunti per il libro che seguirà a “Una vita violenta”), ma a Gianni Rocca, che lo intervista sullo stesso numero della rivista, Pasolini confessa di aver scritto ancora pochissimo: solo “appunti”, “pochi fogli buttati giù a penna”, che avrebbero richiesto “quattro o cinque anni” per tradursi da “schema” in “capitoli”. Lo ripete qualche giorno dopo su “L’Unità” a Gian Carlo Ferretti, e più tardi su “Pese Sera” a un altro intervistatore, Adolfo Chiesa: “Forse riprenderò a lavorare al terzo romanzo romano del ciclo dei “ragazzi di vita”, ma per ora non se ne parla” (Siti, De Laude 1998, II, 1964-1965).
Del tanto nominato Rio della Grana – già nel dicembre del 1959 Luciano Lucignani, collaboratore di Vittorio Gassman, proponeva a Pasolini di trarne per il Teatro Popolare Italiano uno spettacolo, magari una specie di “Opera da tre soldi italiana, romana, con musiche, canti, coreografie” (Pasolini 1988, 464) – sopravvive un relitto in forma di “appunti” in Alì dagli occhi azzurri, datato in calce 1955-59 (Pasolini [1965] 1998, II, 584-598), e Pasolini si butta su un altro testo, apparentemente un abbozzo secondario, di quelli che sembrano “destinati a restare nel limbo delle trovate bizzarre”, e invece dimostra (ma col tempo, e cambiando più volte forma) un’inattesa fertilità” (Siti 1998b, CXXVII): è un esperimento di riscrittura dell’Inferno dantesco, La Mortaccia, che passerà con diverse tappe intermedie il testimone alla Divina Mimesis ed è presentato per la prima volta in un’intervista del 1960 su “Paese Sera” come la storia di una prostituta che ha letto la Divina Commedia a fumetti e una sera incontra Dante deciso a farle da guida nell’Aldilà (Siti, De Laude 1998, II, 1962-1964). Anche La Mortaccia si blocca, e qualche frammento ne andrà in stampa nello stesso Alì (Pasolini [1965] 1998, II, 584-598), con data in calce 1959, anche se l’idea della prostituta in viaggio all’Inferno non risulta abbandonata almeno fino al ’62, come si ricava, fra l’altro, dal racconto Il 21 Ottobre (cfr. Pasolini [1961] 1998, II, 1572) e da un’intervista rilasciata a Gaetano Scardocchia sul “Giorno” il 18 aprile 1962 (Siti, De Laude 1998, II, 1965).
La sostituzione dell’ultima anta della “ideale trilogia” romana con un pur embrionale progetto dantesco è un indizio importante. Si può leggere come esercizio di avvicinamento a un tipo di scrittura in cui l’io narrante, sacrificata nel secondo romanzo romano la propria soggettività per calcolo e per programma, trovi il modo di esprimersi confondendo i suoi tratti con quelli dell’autore, come appunto nella Commedia, oltre che nella Recherche proustiana, evocata per il poema dantesco da Contini (cfr. Siti 1996 e Cortellessa 2021, in questo stesso numero di “Engramma”), che parla per la risoluzione del brogliaccio dantesco operata nella Divina Mimesis di “un autentico colpo di genio”: un ‘Virgilio’ che non è più “una figura allegorica, magari un poeta del passato come aveva fatto Dante appunto con Virgilio, ma una figura che Pasolini conosce assai più da vicino: se stesso”).
Una divagazione infernale
Il Dante che si prende la briga di accompagnare la prostituta “Macrì Teresa detta Pazzia” nell’Aldilà è un Dante trasformato in novello Virgilio, parla come Gioacchino Belli ed è marxista. All’inferno era previsto che la prostituta ritrovasse padre, madre, parenti, sfruttatori, invertiti, colleghe, ma anche personaggi notissimi della cronaca e della politica contemporanea (un presagio di Petrolio, fin da allora?). Linguisticamente, il “romanzo”, spiega Pasolini ad Adolfo Chiesa su “Paese Sera” il 4-5 luglio 1960, si sarebbe ricollegato al filone romanesco, “essendo tutti gli avvenimenti visti con gli occhi della prostituta”, ma era prevista “qualche immissione linguistica” altra (Starace, per esempio, avrebbe parlato mezzo barese e mezzo italiano):
Quanto agli altri personaggi poi, avremo delle vere e proprie sorprese... Stalin sarà al posto di Farinata, Gadda fra i golosi, Migliori e Tupini fra i lussuriosi, i dorotei sotto la cappa di piombo degli ipocriti, Moravia nel limbo dei virtuosi non battezzati... li ritroveremo tutti, prima o poi, i personaggi più in voga del mondo contemporaneo; e nella bolgia dei ladri, ritroveremo, come dicevo, gli scippatorelli di Panigo che racconteranno la loro storia (in Siti, De Laude 1998a, 1964-1965).
Amici, quindi (Gadda, Moravia), personaggi storici (Stalin), avversari politici e persino “gli scippatorelli di Panigo” (o via di Panico), protagonisti di un fatto di cronaca nel quale Pasolini era stato coinvolto pochi giorni prima di rilasciare l’intervista. Clamore sui quotidiani, strascichi giudiziari e il rischio di una condanna a quattro anni di carcere per il presunto favoreggiamento di uno scippatore, fatto salire da Pasolini sulla propria auto per sottrarlo a una rissa, mentre se ne andava in giro guidando in centro con alcuni amici delle borgate (si sentirà in dovere di dare la sua versione dell’accaduto in una lettera aperta al direttore dello stesso “Paese Sera”; chi volesse avere un’idea del linciaggio mediatico e delle vicende processuali, può consultare la stampa dell’epoca al sito “Pier Paolo Pasolini – Le pagine corsare”). Evidente, quindi, il coinvolgimento personale e il desiderio di mettersi in primo piano.
Le dichiarazioni sulla stampa a volte si contraddicono. Già in marzo, accennando della Mortaccia a un altro intervistatore (Massimo Massaro, di “Nuova Generazione”), Pasolini pensa a se stesso come viandante e alla prostituta come guida (Siti 1998b, CXXXVII). Novità enorme, ma per il momento non perseguita, se sempre nel 1960, in dicembre, Pasolini torna a illustrare a un lettore di “Vie Nuove” il progetto infernale, facendo scendere nell’imbuto come nei primi annunci la prostituta in veste di viaggiatrice:
Ne La Mortaccia, il mio nuovo libro, userò lo stesso procedimento linguistico [di Ragazzi di vita e Una vita violenta]: ma con degli ovvi allargamenti. Infatti la prostituta Teresa scende all’Inferno, secondo la visione e lo schema dantesco: e l’Inferno è sempre “come visto da lei”: ci sarà dunque la fusione tra la sua lingua – il romanesco della mala vita – e la mia di relatore – l’italiano letterario. Ma poiché all’Inferno si incontreranno personaggi di tutti i generi – dai ministri democristiani a Stalin, dai ladri e dai magnaccia a Moravia, dai napoletani ai milanesi – è chiaro che, nelle storie particolari di questi personaggi – dovrò adottare diverse contaminazioni linguistiche (in Siti, De Laude [1960] 1999b, 920).
I materiali preparatori testimoniano che Pasolini aveva cominciato a lavorare proprio in quella direzione, cercando di ‘allargare’ il quadro: non solo il mondo delle borgate, ma una più ampia varietà sociale e linguistica. Questa, giusto per darne un’idea, una ‘scaletta’ del romanzo, dove il nome della prostituta figura per intero (“Macrì Teresa detta Pazzia”) ed è lo stesso del personaggio a cui Pasolini dà la parola, proprio nel ’60, in una delle canzoni scritte per lo spettacolo di Laura Betti Giro a vuoto (Pasolini [1960] 2003):
Macrì Teresa detta Pazzia (al Mandrione) ha letto la “Divina Commedia” a fumetti.
Dopo il lavoro, dorme nella sua baracca.
Sogna l’Inferno, secondo Dante.
Dante fa la parte di Virgilio (lei dapprincipio ne ha una soggezione maledetta, poi un po’ alla volta prende confidenza: alla fine scompare – per il cunicolo che riporta fuori: se ne sarà proseguito per il Purgatorio e il Paradiso).
Le bolge hanno tutte qualche riferimento con la realtà delle borgate.
Per ogni bolgia un peccatore – simile a quello dantesco – con la sua storia. Tutti personaggi viventi.
Lite violentissima con una puttana, per un fatto terreno; in cui la dannata e la visitatrice si rinfacciano cose tremende. Ugolino che mangia una testa abbuffandosi ecc. ecc.
Tra i personaggi minori anche persone grandi: Papa Pio XII (“Se già qua, a Roncà”), Cioccetti ecc.
In fondo Lucifero che mastica con tre teste è un personaggio spaventoso che in prima istanza è il pappone di Teresa che mastica mastica, magna, in seconda istanza qualche cliente ricco, in terza istanza le autorità e la burocrazia romana, in quarta istanza lo stato ecc. Tenere presente i barattieri, coi diavoli: tutti tipi con riferimenti reali a tipi di clienti e di conoscenti del Mandrione. Concerto orrendo di peti ecc. Scherzi ecc. Alla fine, in fondo al cunicolo buio, Teresa si ritrova su questa terra al Mandrione: una bella mattinata dolce dolce ecc.: “dappertutto sfarfallava e ardeva il bel sole di aprile”.
NOTE:
Paolo e Francesca: i due amanti suicidi di Centocelle (lei figlia di N.N.) o altri simili.
Farinata: Stalin. Teresa trova tutti i suoi famigliari all’inferno: padre, madre, due fratelli, una sorella, dei nipoti. Uno le racconta realisticamente i propri funerali (il paese, l’infanzia di Teresa).
A Wilma Montesi chiede chi è stato il colpevole: risposta sibillina di questa ecc. ecc.
Un poliziotto delle retate.
L’ingresso dell’inferno è simile a quello delle Mantellate. Gerione è Andreoli, Mossotti, un nome così (Andreotti). Teresa aiuta come Dante una volta i diavoli a tormentare un dannato (je ceca l’occhi). [...]
Scherzo dei diavoli (barattieri, pece bollente), a dannato pivello, come scherzo di carcerati: gioco orologio. Diavoli come giovinattacci zozzi, mezzi ubriachi, schifosi, con le code davanti.
I Dorotei all’Inferno in massa.
Il fratello […] è uno di quelli che hanno aggredito una tredicenne (tipo Alba Sbrighi ecc.).
Nella bolgia dei ladri: una dozzina di storie di ladri; l’ultima quella di Marcello Elisei, con la sua spaventosa tortura e morte.
– [...] a un certo punto Dante e Teresa stanchi, fanno un picnic (chiedono a un diavolo della coca cola e dei panini: diavolo furbesco, ammiccante, come un borsaro nero, procura, ecc.). Domande di Teresa: e il paradiso? Il paradiso non c’è, tutti all’inferno, perché tutti – parole misteriose – né carne né pesce. E Dante continua a masticare il suo panino, mentre Teresa aspetta a bocca aperta che si spieghi meglio (suoi pensieri confusi). (Pasolini [1965] 1998, 1967).
Evito una chiosa puntuale, ma tranne Ugolino “che mangia una testa abbuffandosi” e Lucifero (che è però “in prima istanza il pappone di Teresa”, o qualche suo “cliente ricco”, o “lo stato”), i personaggi sono tutti contemporanei, e ognuno, nelle intenzioni di Pasolini, avrebbe parlato con un suo linguaggio: papa Pio XII che in romanesco si sarebbe rivolto al futuro Giovanni XXIII (“Se già qua, a Roncà”) è uno sketch un po’ da avanspettacolo, ma avrebbe dovuto essere restituito l’idioletto di tutti, dal sindaco Urbano Cioccetti a Wilma Montesi, protagonista dello scandalo erotico-politico di quegli anni, che “risponde sibillina” a Dante e Teresa che le chiedono come sia morta; e uno Starace che avrebbe parlato metà in italiano metà in barese; Giulio Andreotti; gli amanti di Centocelle; Marcello Elisei ucciso in carcere come lo sarà Ettore di Mamma Roma; un teppista ricalcato sul modello di uno degli aggressori di Alba Sbrighi – un altro truce fatto di cronaca recente (la ragazza Sbrighi nel gennaio del 1959 per difendersi da quattro violentatori ne aveva ucciso uno con un coltello). Chissà poi come avrebbero parlato Gadda e Moravia, se davvero ci sarebbero stati anche loro, il primo tra i Golosi e il secondo nel Limbo dei non battezzati …
Nelle intenzioni, questa prima Mortaccia è un progetto tanto bizzarro quanto estrovertito, pieno di curiosità per il mondo contemporaneo e i suoi linguaggi, e della voglia (dantesca) di prendersi qualche rivincita mettendo in scena i propri personaggi. Niente di tutto questo resta nel frammento pubblicato in Alì dagli occhi azzurri, che appare piuttosto come una replica puntuale del mondo stilistico e ideologico e di Ragazzi di vita e Una vita violenta, proprio quello da cui Pasolini nel ’59 voleva evadere. A inficiare il progetto alla base, contribuisce probabilmente la difficoltà pasoliniana di affrontare un “indiretto libero” che non sia delle classi subalterne: e sarebbe stato fra le novità dell’opera (Siti 1998b, CXXVII). Nella versione frammentaria di Alì, il passo in cui comincia a essere descritto il sogno della protagonista è questo:
Era un montarozzo che sotto i ragazzi che ci giocano al pallone, e sulle coste è tutto pieno di puncicarelli e fratte, e, arrivati in pizzo, laggiù si vede l’Aniene, tra i canneti, e dall’altra parte Pietralata, e tutt’intorno le borgate più lontane, bianche come spuma al sole.
Ma mo i ragazzi non ce stavano: era notte alta […]. “Ma indò me trovo qua, vaffanculo! pensava Teresa, che già parlava da sola, con uno spagheggio che tremava. […] camminava camminava tutta col culo stretto, pora creatura, senza sapere dove andare, quand’ecco che, daje!, da dietro una gobba del monte, tre canacci lupi, abbaiando da torcersi i polmoni, secchi allampanati, con le code dritte sulle cosce spelate e piene di rogna (Pasolini [1959a] 1998, II, 592-593).
Sono le tre fiere (le ritroveremo, antropomorfizzate, anzi ‘pasolinizzate’, ricalcate un po’ mostruosamente sulla sua fisionomia, nella Divina Mimesis). Ma le fratte, i “puncicarelli”, i canneti, la vicinanza dell’Aniene rimandano pari pari al capitolo VII di Ragazzi di vita, Il bagno sull’Aniene, dove oltretutto compaiono anche dei “canacci” che si ringhiano addosso l’uno con l’altro versi del Belli. A un certo punto compare (con tanto di nome e cognome) Dante Alighieri, che lei non riconosce, e le ordina di seguirlo. Dante le parla solo due volte, per dirle sempre solo “Vieni”. I due si incamminano (muti) lungo un itinerario che dal Monte del Pecoraro passa il ponte sull’Aniene, poi imbocca via Casal dei Pazzi fino alla borgatella di Rebibbia. Non fanno alcun incontro e non parlano assolutamente con nessuno. Arrivati davanti al Carcere, lui la lascia e lei collassa:
“Vieni”, rifece Dante, e andò verso il Carcere, attraverso la prateria secca, fràcica.
Arrivarono davanti a una porta, piccola, in tutta quella parete gialla e nuda, dove stava scritto: ‘Carcere Penitenziario’. Teresa si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito le prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più, finché le vennero le convulsioni, e si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo come una ragazzina, perché sentiva come nel cuore che, da quella prigione non sarebbe uscita più (Pasolini [1965] 1998, II, 956).
Fine dell’incubo. E fallimento del progetto, che ad “allargare” l’operazione dei romanzi romani non riesce proprio. A un altro lettore di “Vie Nuove”, che gli chiedeva dell’annunciato Rio della Grana, ancora nel dicembre del ’62 Pasolini aveva risposto:
Sì, avevo in mente un terzo romanzo, Il Rio della Grana, che poi non ho scritto, dato che è stato sostituito prepotentemente nella mia fantasia da un libro simile e molto diverso, La Mortaccia, la discesa di una povera donna, che ha letto Dante a fumetti, nell’imbuto dell’Inferno, dove ci trova tutti (Pasolini 1992, 318-319).
Di fatto, nell’imbuto la povera donna “non ci trova tutti”, ma solo se stessa e l’incubo di finire a Rebibbia. Così che la Mortaccia, riconosciuta dall’autore stesso come primo incunabolo della metamorfica Divina Mimesis, più che rinnovare dimostra piuttosto l’esaurirsi di un filone, capace però (proprio a partire dal ’63) di rinnovarsi. In un’intervista rilasciata il 2 dicembre del ’64 ad Alfredo Barberis sul “Giorno”, Pasolini riprende l’idea già avanzata su “Nuova Generazione” nel marzo del ’60, quella di calarsi lui stesso all’Inferno:
Prima doveva essere una donna del mio mondo, la “mortaccia”, che scendeva all’Inferno e lo vedeva dal suo punto di vista. Ora sono sceso io stesso a fare il viaggio (in Siti, De Laude 1998, II, 1965)
Se La Mortaccia, insomma, resta a un punto fermo, consente pur sempre di traghettare verso una forma di narrazione in cui l’io torna in primo piano, testimone e giudice. E in cui verranno in soccorso, a completare ‘figuralmente’ l’opera, un allegato iconografico, o “una (peraltro assai leggibile) ‘poesia visiva’” (cfr. ora Bazzocchi 2021, 136-153). A ribadire il rapporto fra i due progetti è una pagina scartata dalla Divina Mimesis (alla c. 45 di uno scartafaccio del Fondo Pasolini al Vieusseux dal titolo Memorie barbariche-Frammenti infernali), dove l’immaginario editore dell’opera che si finge postuma racconta l’evoluzione del progetto così:
[...] e per concludere, vorrei ricordare che un frammento di due o tre pagine era stato pubblicato in un precedente libro dell’autore, col titolo “La Mortaccia”: si tratta di un primo embrione, evidentemente, di quest’opera incompleta, con cui mancano i legamenti: infatti il carattere stilistico e l’impianto strutturale dell’opera è completamente mutato rispetto a quel primo infelice embrione (in Siti, De Laude 1998, II, 1965).
Solo nel suo esito finale in effetti quell’“embrione”, che poteva sembrare una semplice presa alla lettera della metafora della ‘discesa all’Inferno delle borgate’, sia pure con aperture su altri mondi (o oltremondi) rivelerà appieno “la sua forza di far uscire Pasolini dall’impasse narrativa in cui si trova, in quanto lascia alle spalle, con una brusca virata, ogni dogma d’oggettività e si innesta sul tronco vigoroso dell’autobiografismo dantesco” (Siti 1998b, CXXXVII).
Una vita violenta, allora, con le sue inquietudini
Tornando a Una vita violenta e al suo legame con Ragazzi di vita, prima anta dell’“ideale trilogia” romana, parlano chiaro già le date. Ragazzi di vita esce alla fine di maggio del 1955, dopo un’elaborazione tormentatissima e piena di colpi di scena (De Laude 2018). Già il 2 luglio del 1955 Pasolini annuncia a Livio Garzanti di stare già lavorando al “secondo libro”: titolo previsto, Una vita violenta, che riprende in modo ostentato il ‘vita’ del precedente (ma è prospettata all’editore, nella stessa lettera, una possibile variante, non meno rivelatrice: Morte di un ragazzo di vita (Pasolini 1988, 80). Non c’è quasi intervallo fra la stesura delle prime due ante della trilogia (e stando alla testimonianza di Alì, al tentativo di realizzarne la terza, se il relitto del Rio della Grana si trova datato in calce nella raccolta di racconti “fatti”, “da farsi”, “non fatti” al 1955-59).
Una vita violenta, insomma, non è immaginabile senza il precedente dei Ragazzi, di cui vuole “correggere alcune immaturità e imperfezioni” e insieme “rincarare la dose” (Siti 2007b). I due romanzi devono essere letti insieme, e nel ’59, all’uscita di Una vita violenta, colpisce l’insistenza dispiegata nel ribadire il legame fra i due romanzi fin dalle “soglie” del testo, nel senso in cui usa il termine Genette [1987] 1997): la saldatura fra Ragazzi di vita e Una vita violenta è enfatizzata in ogni modo nella presentazione editoriale – attraverso titolo, dedica, quarta di copertina e persino nota bio-bibliografica finale, che indicano la ripresa di un filo e insieme una nuova immagine ‘autoriale’ di sé (nel senso in cui il concetto è stato illustrato da Gragnolati 2013).
La dedica, significativa, di Una vita violenta è: “A Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti, / miei testimoni nel processo contro ‘Ragazzi di vita’” (Pasolini avrebbe voluto aggiungere Alfredo Schiaffini, che molto aveva fatto anche al tempo del processo, ma lo storico della lingua, con una lettera di grande fragilità e tenerezza, aveva preferito declinare l’invito (De Laude 2018, 126 e n. 32). Anche quelli che negli anni ’50 si chiamavano “strilli editoriali” (le frasi ad effetto della quarta di copertina, tratte da recensioni o appositamente commissionate, come si usa anche oggi, per avallare sotto l’ombrello di firme importanti il lancio di un nuovo libro) riguardano soprattutto l’“oggetto formidabile” che è, secondo Gianfranco Contini, Ragazzi di vita), e questo anche nelle ristampe di Una vita violenta, quando cioè ci si sarebbe potuti concentrare nella scelta degli “strilli” solo sul libro nuovo.
Non insisto qui (lo ha fatto benissimo Siti 2007b) su come il secondo romanzo romano voglia appunto, rispetto al primo, ‘rincarare la dose’, con una surenchère esibita di violenza, un po’ per superare se stesso, un po’ per astuzia commerciale – se Pasolini, nel frattempo, aveva assunto pubblicamente per i media il ruolo di esperto massimo di disadattamento, violenza giovanile di borgatari e teddy boys. In Una vita violenta i ragazzini amorali di Ragazzi di vita sono diventati dei veri delinquenti, come se Pasolini “volesse stupire i buoni borghesi che già si erano scandalizzati del libro precedente, dicendo loro ‘quello era ancora nulla, ora ve la mostro davvero la durezza delle periferie’” (Siti 2007b, X-XI). Va a cercare allora le storie più sordide e scellerate, non esita a calcare le tinte del disgustoso e dello sgradevole, e sfida quasi la capacità di digestione dei lettori, ricollegandosi a tradizioni estreme di realismo della miseria, da Zola a Steinbeck.
Il punto che mi interessa, ora, è il ‘correggere le imperfezioni’ di Ragazzi di vita, presentando al lettore, com’è già dichiarato nel risvolto (cfr. Fig. 1), un romanzo-romanzo, con “una vera storia”, puntellata a una struttura inattaccabile (anche a una prima occhiata, divisa in due parti di lunghezza quasi identica, ciascuna di cinque capitoli, e quasi tutte divise a loro volta in tre sezioni separate da uno spazio tipografico). Una vita violenta si atteggia a one man novel, romanzo di formazione incentrato su un unico protagonista (Tommaso Puzzilli) e sulla presa di coscienza politica che lo porterà dal Msi al Pc, dopo l’esperienza dell’amore, della malattia e di un ricovero al sanatorio Forlanini, prima di una recrudescenza della tubercolosi che si rivelerà mortale. Se Ragazzi di vita aveva fatto una fatica enorme a prender forma, sempre in lotta con una spinta centrifuga che lo portava a disperdersi in mille episodi, o siparietti, o “pezzi” (“Stà a sentì ’sto pezzo” lo dice, a un certo punto, il Riccetto, introducendo una delle sue “sbrasate”; e “pezzo”, per Pasolini, era una specie di termine tecnico, per indicare l’unità di misura dei parlanti romani, specie se giovani – Pasolini [1957] 1999a, I, 695), Una vita violenta, si è detto, si propone come virata verso una narrazione ‘oggettiva’, con una più accanita documentazione linguistica e sociologica, meno divagazioni, meno frasi ‘rubate’, meno commosse stilizzazioni dal vero, quasi agguati o trappole che il narratore tende alla realtà per catturarla, o per dichiararle il proprio amore.
Un corrispettivo di quest’ansia documentaria si riflette nell’uso del dialetto: basta dare un’occhiata ai due glossarietti che seguono i romanzi, dalle 132 voci di Ragazzi di vita alle 412 di Una vita violenta. Pasolini frequentando i ragazzi ha imparato meglio la lingua, non c’è dubbio – quindi usa più romanesco e i dialoghi sono meno primitivi, ma c’è qualcosa di programmatico, di aggressivamente didattico, nel suo inzeppare la scrittura con termini pesantemente gergali: la “ciavatta” (i soldi), il “moresca” (il ricettatore), la “spiritosa” (la rivoltella), “fare a gazim” (spartire il bottino). Anche in sede di correzione di bozze, quindi, fuori dall’influsso diretto della voce popolare, “sedere” diventa “ghègano” e sorveglianza si trasforma in “pànfia”. Come se volesse imporre ai lettori una lingua parlata da una razza sconosciuta, aliena. Alla poesia e alla leggerezza dell’ascolto innamorato si sostituisce un progetto. L’indiretto libero scivola nei momenti più stanchi verso un abbassamento di temperatura, nei più risentiti in un gusto della ritorsione e del rincaro: “tengo ’na fame che me cago sotto” era stato criticato in Ragazzi di vita come volgare, e qui, puntualmente, Pasolini fa dire a un altro personaggio “tengo ’na sghecia che me cago sotto”.
Chiara, comunque, l’intenzione di mettersi in secondo piano e raccontare “una vera storia”, a cui si ricollegano, ancora qualche anno dopo l’uscita del romanzo, dichiarazioni come quella a un lettore di “Vie Nuove” relativo all’incontro, nel ’53 o nel ’54, con il ‘modello’ reale di Tommaso (Scoperta di Tommasino, episodio forse immaginario, ma rivelatore, come certi sogni inventati), che pare confezionato come una specie di mise en abyme del romanzo, riassumendone in uno spazio minimo i temi e le atmosfere. Dalla connotazione infernale delle borgate, allo squarcio ‘indeciso’ di cielo – sia Ragazzi di vita che Una vita violenta sono romanzi pieni di cielo:
La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54, quando stavo finendo di scrivere Ragazzi di vita. C’è un punto della Tiburtina, all’altezza di Pietralata, e poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo (dove allora abitavo), che si chiama il “Forte”. Vi si vedono una caserma, un bar, una fabbrica, un deposito di pullman, delle baracche, e, dietro, un'altura, un montarozzo spelacchiato e infernale, il “Monte del Pecoraro” (che ho tante volte descritto nei miei libri, e che ridescriverò nel primo Canto del mio nuovo romanzo, un Inferno, appunto, che si chiama La mortaccia).
Pioveva, o era appena cessato di piovere. C'era un'aria fradicia e dolente, con quell'azzurro cupo, funereo, troppo lucido che si scopre in fondo all'orizzonte quando il tempo si rasserena verso sera, ed è ormai troppo tardi.
Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell'autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l'ho dipinto ripetutamente nelle pagine di Una vita violenta, e vestiva, anche, nello stesso modo: un abituccio sbrindellato, ma “serio”, con la camicia bianca magari sporca, e la cravattina, violacea e lisa. Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e, in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia: l’episodio che ho poi raccontato nel primo capitolo, e la sua malattia al Forlanini.
Poi sparì. Non l’ho più rivisto. Né a Pietralata, né a Tiburtino; in nessuna di quelle misere strade che circondano la Città di Dite. Quando sono giunto al capitolo del Forlanini, ho dovuto documentarmi, perché in tutta la mia vita non avevo visto un ospedale se non per qualche visita. Ho parlato con due ex ricoverati – che sarebbero poi diventati due personaggi del romanzo – ho parlato con uno dei medici (fratello di un uomo politico comunista mio amico), e ho parlato, infine, con alcuni malati anonimi. Cinque o sei giorni di lavoro. Tutto qui (Pasolini [1962] 1999b, 1004-1005).
Questo aspetto di documentazione storica sociologica (la ‘documentazione’ per il capitolo del Forlanini, in particolare, dove oltretutto nel ’55 erano accaduti fatti simili a quelli raccontati nel romanzo), è più marcato in Una vita violenta che in Ragazzi di vita, ed è lo stesso che si osserva, nel capitolo Puzza di libertà, nel flashback sulla storia della famiglia di Tommaso inquadrata su uno sfondo ben preciso (dopo l’armistizio di Badoglio, la risalita dell’esercito di liberazione verso il Nord, le difficoltà dell’inurbamento forzato di tante persone che dalle campagne si erano riversate a Roma dopo aver perso tutto nel clima della guerra civile; Pasolini [1959] 1998, I, 1105-1108). È uno sfondo a cui negli stessi anni Pasolini stava dedicando, oltre al romanzo, interventi di tipo antropologico o sociologico, come vedi Roma malandrina, (Pasolini [1957] 1998, 1444-1447). Eppure la costrizione si sente, e quello che non riesce a tenere insieme la storia è proprio il personaggio di Tommaso, la cui conversione etica e civile, maturata al Forlanini, è annunciata con parole sotterraneamente manzoniane, che ricordano il cap. XXI dei Promessi Sposi:
Ma ecco che, piano piano, delle campane cominciarono a suonare. Arrivavano fioche, smorzate, come venissero da lontano, oltre i padiglioni e i giardini, forse sulla Portuense... Era un suono che Tommaso non aveva inteso mai: o forse lo aveva inteso da ragazzino, e non se ne ricordava. Pareva venisse su dal fondo della terra, o da qualche punto del cielo, di sopra le nuvole della prima mattina, dove c’è un po’ di luce che si colora appena, e pare già quella d’un giorno bello e felice. Era il suono del Mattutino. (Pasolini [1959] 1998, I, 1065; i corsivi sono miei).
Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. — Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro? — Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria (Manzoni [1827] 2014, 656; i corsivi sono miei).
La guida di questa conversione laica è “un certo Guglielmi”, segretario della cellula comunista dell’interno dell’ospedale e malato lui stesso, del quale Tommaso poco dopo l’arrivo al sanatorio vede una fotografia. Quella di Tommaso, però, è pur sempre una conversione che resta mitica e simbolica, semplicemente dichiarata, finché a inverarla non interviene l’occasione del sacrificio (l’opera prestata nel salvataggio degli alluvionati alla Piccola Shanghai, dove il ragazzo era cresciuto). Ed è questo uno dei paradossi del romanzo, o delle croci che hanno afflitto Pasolini nello scriverlo. Intorno a Tommaso, Pasolini ha costruito un romanzo a tesi, una macchina narrativa che vuol tenere il passo del Metello di Vasco Pratolini; come in Metello ci sono fastose scene di massa, quelle che tanto erano piaciute a Italo Calvino (la retata della polizia, la serenata alla Garbatella, la battaglia in sanatorio, l’inondazione) – c’è molto contesto, molta vita collettiva; la consecutio degli eventi funziona, la trama scorre in modo convenzionale e rassicurante. Eppure quello che non riesce a ‘ingranarsi’ nella macchina narrativa è proprio la figura del protagonista, Tommaso, che pure Pasolini deliberatamente ha eletto a mattatore unico della messa in scena. Come dice Siti, “Pasolini pretende troppo da Tommaso perché ha preteso troppo da se stesso”. Il suo “unico movimento reale, autonomo” è “l’amore per Irene”: ma il loro progetto matrimoniale si capisce che “li porterebbe inevitabilmente verso l’integrazione. È a questo punto, però, che Pasolini comincia a ribellarsi alla sua stessa scoperta e si tira indietro” (Siti 2007b, XVIII). Non ce la fa, Pasolini, a lasciare andare i due ragazzi dove l’amore li porterebbe. Non può impedirsi, sembra, di considerare la presenza di Irene come un inciampo per il destino di Tommaso, che passeggiando e guardando le vetrine con Irene rinnega le amicizie di un tempo, finge di non vedere Lello che chiede l’elemosina sul marciapiede, e arriva al desiderio di un vero e proprio spossessamento e negazione di sé:
Guarda, ’a conclusione è questa, tu m’hai capito: jo te vojo bbene, e pe’ questo che vojo cambià da come so’: nun vojo più essere Tommaso! (Pasolini [1959] 1998, I, 1039).
Ma Pasolini non può permettersi che Tommaso non sia più Tommaso. Per il suo progetto ideologico (ma anche, aggiunge Siti, “per l’equilibrio dei suoi fantasmi interiori”), Tommaso deve diventare comunista e quindi morire. È così che si crea fra il narratore e il suo personaggio una specie di ostilità, l’ironia complice si inacidisce in sarcasmo e si protende verso le future, terribili annotazioni di Petrolio:
Ora Tommaso e Irene camminavano abbracciati. Lui l’aveva presa sotto la vita, ch’era bella paccuta, e se la teneva stretta stretta, come se avesse paura che cascasse. Stavano zitti e ammusati come stanno i fidanzati, andandosene passo passo dove devono andare. A Tommaso, fatta tutta la Via di Pietralata e imboccata la Tiburtina, s’era indebolito il braccio di brutto, a forza di tenere stretto così la ragazza, di reggerla come si sentisse male. Ma non se ne sarebbe staccato manco se venivano le guardie. Quelli che passavano li smicciavano […]. Qualcuno, fijio de ’na mignotta, appena passato, qualche sparata la faceva: ‘Che, è un principio d’edera?’. Oppure: ‘Tutta colla!” […] Ma Tommasino e Irene non li filavano, e sempre più tristi e raccolti seguitavano la loro strada (Pasolini [1959] 1998, I, 1045).
Penso, per la simil-Pathosformel della coppia claudicante e chiusa in se stessa in Petrolio, alla sezione del romanzo postumo che segue di poco l’apparizione notturna di un inconfondibile personaggio “con il naso adunco”, intorno al quale un capannello di “povere creature” raccontano le loro “storie vissute” (Pasolini 2005, 342). La sezione è quella, lunga quanto o più La Divina Mimesis (Appunti 71a, 71b, 71c, 71d, 71e, 71f, 71g 71h, 71i, 71l, 71m, 71n, 71o, 71p, 71q, 71r, 71s, 71t, 71u, 71v, 71z, 72a, 72b, 72c, 72d, 72e, 72f, 72g). È una delle sezioni più compiute del romanzo, intitolata Il Merda (Visione), dove riaffiora senza alcun residuo di empatia per la realtà contemporanea il vecchio progetto di una Visione oltremondana tra Bolge e Gironi, e il protagonista Carlo, in una specie di sogno allucinatorio, assiste dall’alto di un carretto teatral-carnevalesco tirato da quattro improbabili ‘Dèi alla passeggiata muta’ in nuovo Inferno di una spaventosa coppia eterosessuale. A percorrere la Torpignattara e le sue traverse procedendo verso la Tuscolana sono un ragazzo repellente soprannominato “il Merda” (i Riccetti, si sa, non esistono più) e la sua fidanzatina Cinzia. I due camminano abbracciati, e il narratore sottolinea – sulle prime può parere sorprendente – che è questo “il fatto più importante e significativo” di “tutta questa Apparizione” (Pasolini 2005, 346):
Cioè il Merda ha passato un braccio sotto il fianco di Cinzia, fino a stringerle la spalla opposta con la mano. Ora, dato che il Merda è un po’ più basso di Cinzia, le cinge col braccio la spalla opposta – ed è costretto a tenerla ripiegata sopra di lui, e quindi a dare l’idea, a chi lo guardi, di camminare sorreggendola, come se fosse ammalata o impedita (Pasolini 2005, 346).
Su questa strana camminata, posizione, e sulla ragazza trascinata come se si sentisse male, il testo torna a insistere ben sette volte, l’ultima delle quali è detto, con una precisa ripresa dantesca, che lui non ce la fa più a sorreggerla, “e cade come corpo cade”:
In questo quarto paragrafo della Visione, si vedono il Merda e Cinzia, sempre strettamente allacciati, e lei sostenuta dal suo uomo, come se fosse ‘malata’ o impedita’, cioè praticamente come un sacco di patate – arrivare all’altezza di Via xxx xxx, che è la prima perpendicolare a destra di Via di Torpignattara (Pasolini 2005, 349).
In questo quinto paragrafo della Visione, si vedono il Merda e la sua ragazza – sempre allacciati in quel modo speciale che essi hanno l’aria di non voler abbandonare per nessuna ragione al mondo – arrivare all’altezza di Via xxx xxx, la seconda trasversale di Via di Torpignattara (Pasolini 2005, 358).
In questo sesto paragrafo della Visione il Merda e la sua ragazza passano, tenacemente abbracciati, davanti a Via xxx xxx […] (Pasolini 2005, 361)
In questo undicesimo paragrafo della Visione, come risulta chiaro al lettore che abbia tenuto bene i suoi calcoli, si giunge all’VIII Girone. Il Merda avanza. Sicuramente lo sforzo che è costretto a fare per tener stretta a sé la mecca sempre allo stesso modo, gli fa vedere gli infantiòli. Sicuramente il braccio non lo sente più (Pasolini 2005, 371).
In questo dodicesimo paragrafo della visione il Merda passa davanti a Via xxx xxx, il Girone IX. Tenendosi stretta Cinzia, che per carità non gli scappi, il Merda cammina lemme lemme – bianco come un lenzuolo per la stanchezza – e lancia un’occhiata ammiccante alla cricca dei suoi compari, ammassata sulla strada (Pasolini 2005, 373)
In questo ventitreesimo paragrafo contempliamo il Merda che arriva all’altezza della Via xxx xxx, la terza Bolgia. Il Merda deve essere sul punto di non farcela più. È bianco come un morto. Ma il suo braccio continua a stringere la quadrata Cinzia, come fosse incollato. Nessuno deve perdere il passaggio di quella coppietta fatale e allacciata esattamente in quel modo (Pasolini 2005, 397).
Possibile che nel contesto di Petrolio il dettaglio anticipato in Una vita violenta (l’andatura claudicante, l’avvinghiamento, la fatica di sostenere la compagna come fosse malata) abbia un sovrasenso, e che con il loro singolare e tanto enfatizzato modo di procedere (lui che la sostiene, lei i due personaggi siano leggibili anche come l’esito degradato di un etimo mitico sublime, Orfeo, che trascina con sé Euridice nell’Ade (“Cinzia” tra l’altro, oltre della funebre Ecate, è un appellativo di Diana Trivia – e la passeggiata si svolge proprio lungo via di Torpignattara e gli incroci con le sue trasversali). Qui, in Una vita violenta, niente di tutto questo, ma certo un mutato atteggiamento del narratore nei confronti di personaggi a cui nell’insieme, fino a poco prima, aveva guardato con affettuosa condiscendenza, se non con simpatia.
La paura di perdere il suo protagonista si congiunge per il Pasolini di Una vita violenta a quella di perdersi nei personaggi. Mentre Tommaso si getta nell’acqua dell’alluvione, il suo creatore rifiuta di lasciarsi portar via dal flusso del suo romanzo più tradizionalmente romanzo. Questa la conclusione di Siti:
Si dirà che a questo risultato hanno concorso molti fattori esterni: la pressione del cinema, il trasloco in un quartiere più borghese, le stesse vicende del luglio 1960 e delle manifestazioni contro il governo Tambroni, l’inizio di una collaborazione giornalistica stabile eccetera. Ma quell’amore, quell’amore tra Tommaso e Irene non potuto raccontare fino in fondo, deve aver lasciato un segno – uno spavento di sé, un soprassalto di narcisismo come garanzia di identità, una rassegnazione alla propria croce (Siti 2007b, XXII).
La tentazione delle immagini e della poesia
Mentre scrive Una vita violenta, Pasolini pubblica un’inchiesta illustrata in tre puntate sulla periferia di Roma (“ignota al turista, ignorata dal benpensante”) dal titolo Viaggio per Roma e dintorni (Siti,De Laude 1998a, 1738), in cui si legge fra l’altro, con un’anafora polemica:
Certi limiti di bassezza umana non si possono, pare, artisticamente toccare, certe deviazioni della psicologia coatta da un ambiente sociale abietto, non si possono, pare, rappresentare. Il pubblico borghese non ci crederebbe, la critica farebbe della facile ironia, attribuendo magari crudeltà e vizi psicologici a chi volesse occuparsi di tali argomenti (Pasolini [1958] 1998, II, 1463-1464; i corsivi sono miei).
È esattamente quello che vuole fare lui, ed essendo l’inchiesta accompagnata da fotografie “toccare artisticamente” e “rappresentare” (‘vedere’?) sembrano qui termini volutamente generici (o ambigui): far vedere, rispecchiare la realtà com’è, secondo una delle più abusate metafore del realismo oggettivo romanzesco (Stendhal, Zola…).
Di fatto la stesura di Una vita violenta si accompagna da parte di Pasolini a un interesse crescente per la fotografia, tematizzato in diversi luoghi del romanzo, oltre che da esperimenti iconotestuali coevi: non solo l’inchiesta illustrata del ’58 di cui si è appena detto, Viaggio per Roma e dintorni, ma già l’anno prima una anticipazione illustrata sul “Contemporaneo” del Pianto della scavatrice (1957); il reportage La lunga strada di sabbia (1959), presentato in questo numero di “Engramma” da Arianna Agudo e Ludovica del Castillo (Agudo, del Castillo 2021); Donne di Roma, la raccolta di racconti scritti ad hoc per contrappuntare una serie di fotografie di Sam Waagenaar, apparsa dal Saggiatore con una prefazione di Alberto Moravia nel gennaio del 1960; e, soprattutto, la partecipazione con un ruolo di primo piano al fotolibro di William Klein Roma, pubblicato da Feltrinelli alla fine del ’59, pochi mesi dopo l’uscita del secondo romanzo ‘romano’. Torneremo più avanti su questi esperimenti, e in particolare sulla collaborazione, per il fotolibro Roma tra Pasolini e William Klein, giovane e talentuoso fotografo americano che aveva pubblicato nel ’56 un irresistibile diario fotografico del suo ritorno a New York da Parigi, dove aveva vissuto qualche anno, e a Roma era approdato nello stesso anno, come aiuto regista di Federico Fellini per Le notti di Cabiria (cfr. l’ultimo paragrafo di questo saggio, Un americano a Roma e qualche altro sopralluogo).
Dice di più, d’altra parte, l’avantesto di Una vita violenta, che come lo “spettro” del libro o “il manoscritto grezzo” di cui parla Nabokov – il passo è citato da Mario Lavagetto come epigrafe in uno dei suoi libri più acuti, La macchina dell’errore (Lavagetto 1996, 102) – “ostenta le proprie informazioni come un vendicativo fantasma che porta la sua testa sotto il braccio”. I materiali preparatori del romanzo (alla Biblioteca Nazionale di Roma, con segnatura Vitt. Em. 1557/1 (I e II) testimoniano con segni e annotazioni marginali (come “inserire immagine”) l’intenzione di includere nella narrazione alcune fotografie, soprattutto nel cap. II, Notte nella città di Dio, successivo a un altro il cui titolo (Chi era Tommaso) non potrebbe essere più rivelatore se lo si confronta con l’oscuro Ferrobedò che è il cap. I di I Ragazzi di vita). Siamo nella sezione del Partito Comunista di Pietralata, e i ragazzi della Piccola Shanghai (Tommaso, Lello, il Zucabbo e gli altri) si adeguano spavaldi e strafottenti (“malandrini”, si direbbe in Una vita violenta), al rito sociale di mostrare le fotografie conservate nel loro portafoglio.
Già in Ragazzi di vita il Riccetto e il Lenzetta avevano chiesto a un certo sor Antonio, appena conosciuto in un’osteria, di mostrare loro le foto delle figlie (sguaiati, com’era prevedibile, i commenti), e lui, il sor Antonio, aveva rimestato nel portafoglio, non resistendo alla tentazione di far vedere ai nuovi amici anche la sua carta d’identità, con fototessera (“era lì, tutto ripulito, col colletto e l’abito nero, e un’espressione alla Rudi”, Pasolini [1955] 1998, I, 647-648). In Una vita violenta, i “ragazzi di vita” si sono adeguati alla pratica diffusissima dagli anni ’50 di tenere fotografie nel portafoglio, come il sor Antonio intrattenuto dal Riccetto e poco dopo di loro i ‘veri’ quattro o cinque “giovani romani” incontrati dall’autore nel racconto autobiografico Cronaca di una giornata:
Mi hanno riconosciuto, e – mi sembra incredibile – mi chiedono un autografo. Tirano fuori delle vecchie fotografie consunte dai portafogli, su cui farmi scrivere la mia firma (Pasolini 1961 [1998], I, 1597).
Notte nella città di Dio insiste come mai prima su questo tasto, ed enfatizza per tutta la prima parte del capitolo (con aperture iconotestuali di cui resta una traccia nella versione definitiva del romanzo) il tema dell’ostensione delle fotografie. Arrivato in ritardo nella sezione del Partito Comunista dove si svolge la festa da ballo, Tommaso, ancora vicino agli ambienti neofascisti, sorprende i suoi amici sottoproletari a ridere nell’osservare le foto che tengono con sé. Ognuno le estrae a turno dal portafoglio, e partono i commenti. Le foto descritte sono in genere scene d’insieme, in cui i giovani sono stati immortalati in momenti di sbruffoneria, complicità e condivisione. E le annotazioni al margine (ma da ricontrollare quando sarà possibile riconsultare il dattiloscritto), inequivocabili nella volontà di inserire immagini. Quando è la volta di Tommaso, escono prima due foto di gruppo, una scattata a Ostia e l’altra sul Ponte Garibaldi:
Nella prima fotografia, c’erano lui [Tommaso], Lello, il Zucabbo e Carletto, a Ostia. Il Zucabbo e Carletto stavano seduti sullo scalino del capanno facendosi le corna uno con l’altro dietro le capocce bagnate; lui stava mezzo seduto e mezzo appoggiato contro la ringhieretta di legno; nel centro, contro la porta, appartato, con un paio di slip stretti stretti, tutto caruccio, serio, dritto, bello piazzato, c’era Lello.
Tommaso sbatté la fotografia sotto il naso dei compari, senza nemmeno quasi fargliela vedere. La rinfilò nel portafoglio e ne levò un’altra. In questa c’erano solo lui, Lello e il Zucabbo, tutti apparecchiati, che camminavano fianco a fianco per Ponte Garibaldi: se l’erano fatta quell’estate, e dietro a loro si vedeva una truppa di pellegrini, che si voltavano di sguincio. Tutti tre camminavano con le mani in saccoccia: era bel tempo, avevano solo le camicie, e si vedeva benissimo che pettorali che si ritrovavano (Pasolini [1959] 1998, I, 854-855).
Sono brevi esempi di ekphrasis, che si limitano alla descrizione dei tratti esteriori dei soggetti ritratti e di alcuni personaggi di sfondo, ma alla fine Tommaso tira fuori un’ultima immagine, più minuscola:
Era una fotografietta piccola, più piccola ancora di quelle formato tessera, e Tommaso la reggeva per le cimose tra il pollice e l’indice: reggendola bene in alto la voltò verso il Budda e il Nazzareno. Era una fotografia di Mussolini, nero in faccia, sotto un berretto con l’aquila (Pasolini [1959] 1998, I, 855).
Una fotografia, cioè, del tipo ben noto di questa che qui di seguito riproduciamo.
Nella prima redazione del romanzo (trascritta nel suo bel lavoro da Van Geertuijden 1990), la descrizione della “fotografietta” era molto più lunga di quanto risulti nella redazione definitiva. E alcune annotazioni marginali del dattiloscritto (come “inserire foto”) autorizzano a supporre, da parte di Pasolini, l’effettiva intenzione di inserire riproduzioni fotografiche, sotto la suggestione forse di esperimenti fototestuali di quegli anni. È solo un’intenzione, appunto, e si possono fare unicamente congetture su quale strada Pasolini avesse scelto per realizzarla, se avesse deciso di portarla avanti. Solo immagini di ambienti e di luoghi (le borgate, il Forlanini, i quartieri dell’Ina-Case) e foto storiche (come il Mussolini con il cappello nero descritto così a lungo nella scena della balera)? o anche foto ‘rubate’, simili a quelle ‘introdotte’ da Pasolini nel libro fotografico di Klein (Klein 1959) da proiettare in qualche modo sul piano della fiction? Di queste ultime, riproduco fin d’ora qualche esempio, riservandomi di approfondire la questione appena sarà possibile.
Sul piano diegetico (senza ipotizzare l’effettiva inserzione di immagini nel testo), commentando la descrizione della fotografia di Mussolini, Corinne Pontillo ha fatto osservare come “l’esperienza politica di Tommaso si rifletta sulle fotografie che in diversi momenti salienti fanno la loro comparsa nell’opera”: dall’immagine di Mussolini, alla fotografia dell’appena morto Bernardini, il giovane segretario della sezione del PCI dell’ospedale Forlanini (Pontillo 2005, 59). Era stato attraverso una foto mostratagli dal compagno di stanza, in effetti, che Tommaso poco dopo l’arrivo al sanatorio era venuto a conoscenza della morte di Bernardini:
“’C’aveva l’età nostra, ‘na ventina d’anni... quello sì ch’era ’n omo vero... quando stava fermo stava fermo, ma quando se moveva sfondava... Mo’ te faccio vede ‘a fotografia...” Detto fatto, prese dal comodino uno di quei foglietti di carta lucida, con la fotografia e l’annuncio della morte: e l’appoggiò a Tommaso. Tommaso per fargli piacere la prese e la guardò, rigirandola fra le dita. Tommaso diede una guardata alla fotografia del morto: era uno con una faccia lunga e decisa, con gli occhiali, rassomigliava un pochetto al Papa (Pasolini [1959] 1998, I, 1072).
La foto funebre di Bernardini è il primo approccio di Tommaso alla cellula comunista dell’ospedale, e l’inizio della sua svolta, da subito ammantata in una perturbante dimensione onirica. È subito dopo aver visto la foto, su uno di quei “foglietti di carta lucida” l’annuncio della morte, che Tommaso fa il sogno angoscioso del suono di campane (il suono che “pareva venisse su dal fondo della terra”, e non si capiva bene s’era “un segno di festa […] oppure se annunciava un lutto, una disgrazia”, Pasolini ([1959] 1998, 1073). Ci sarebbe stata, nel libro che Pasolini aveva preso in considerazione al momento dell’avantesto, una foto del segretario finzionale della cellula del PCI al Forlanini (Bernardini), o la foto di un personaggio coi tratti che colpiscono Tommaso (“uno con una faccia lunga e decisa, con gli occhiali”, che “rassomigliava un pochetto al Papa”) o magari un’immagine del personaggio (pur nominato nel romanzo) a cui era effettivamente intestata la cellula del partito, Felice Salemme, malato giovanissimo che aveva organizzato un nucleo cospirativo all’interno dell’ospedale, e dei disordini (figura di ciò che avrebbe vissuto Tommaso), e denunciato dal direttore dell’ospedale era stato fucilato già nel 1944? Potrebbe essere in linea con quanto si legge in corsivo nell’Avvertenza finale del romanzo:
I riferimenti a singole persone fatti e luoghi reali qui descritti sono frutto d’invenzione: tuttavia vorrei che fosse ben chiaro al lettore che quanto ha letto in questo romanzo è, nella sostanza, accaduto e continua in sostanza ad accadere. Ringrazio i “ragazzi di vita” che, direttamente o indirettamente, mi hanno aiutato a scrivere questo libro, e in particolare, con vera gratitudine, Sergio Citti (Pasolini [1959] 1998, 1185).
Sarebbe bastato citare il primo periodo di questa Avvertenza, ma il riferimento ai “ragazzi di vita”, nel secondo, è da aggiungere agli elementi paratestuali indicati più sopra, volti a presentare Una vita violenta come continuazione, correzione e ‘rincaro’ di Ragazzi di vita. Persino ovvio, dopo Barthes [1980] 2003, ricordare l’istanza funeraria della fotografia, che isola un istante dal fluire della vita presentandolo come “ciò che è stato” – un tema, fra l’altro, presente in modo sottile già nella produzione friulana di Pasolini, come già hanno fatto notare Pontillo 2015 e Bazzocchi 2015, e non privo di rapporti con quella che in un saggio pasoliniano del 1974 pubblicato postumo nelle opere complete dei “Meridiani”, La luce del Caravaggio, è presentata come una delle principali ‘invenzioni’ di Caravaggio, il pittore con il quale Cesare Garboli ha messo in rapporto, mediatore Roberto Longhi, “tutta l’esperienza eversiva del Pasolini ‘romano’”: “Testi alla mano”, si legge in Garboli 1970 (prima dunque dell’apparizione del saggio postumo pasoliniano), “si direbbe che il Pasolini lavorasse allora non allo specchio del Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio romano così come ci è stato dipinto da Longhi” (lo stesso Pasolini [1974] 1999, ha dichiarato del resto: “Tutto ciò che io posso sapere intorno al Caravaggio è ciò che ne ha detto Longhi”: affermazione su cui cfr. De Laude 2018, 25 e n. 34 e soprattutto Bazzocchi 2021). L’‘invenzione’ di Caravaggio a cui allude Pasolini (oltre alla scoperta di “tipi nuovi di persone, nel senso sociale e caratteriologico, tipi nuovi di oggetti, tipi nuovi di paesaggi” e una nuova luce, “quotidiana e drammatica”, sostituita “al lume universale del Rinascimento platonico”, Pasolini [1974] 1999, 2672), è più propriamente tecnica, la più ‘emozionante’, e coinvolge uno “specchio” (l’immagine sorprendentemente usata dal rabdomantico Garboli) e un “diaframma” (ha insistito Bazzocchi 2021, 176-177 sulla “metafora cinematografica […] più volte sfruttata da Longhi per definire l’operazione di Caravaggio”:
La terza cosa che ha inventato il Caravaggio è un diaframma (anch’esso luminoso, ma di una luminosità artificiale che appartiene solo alla pittura e non alla realtà) che divide sia lui, l’autore, sia noi, gli spettatori, dai suoi personaggi, dalle sue nature morte, dai suoi paesaggi. Questo diaframma, che traspone le cose dipinte dal Caravaggio in un universo separato, in un certo senso morto, almeno rispetto alla vita e al realismo con cui quelle cose erano state percepite e dipinte, è stato stupendamente spiegato da Roberto Longhi con la supposizione che il Caravaggio dipingesse guardando le sue figure riflesse in uno specchio. […] Ciò che mi entusiasma è la terza invenzione del Caravaggio: cioè il diaframma luminoso che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in uno specchio cosmico. Qui i tratti popolari e realistici dei volti si levigano in una caratteriologia mortuaria; e così la luce, pur restando così grondante dell’attimo del giorno in cui è colta, si fissa in una grandiosa macchina cristallizzata. Non solo il Bacchino è malato, ma anche la sua frutta. E non solo il Bacchino, ma tutti i personaggi del Caravaggio sono malati, essi che dovrebbero essere per definizione vitali e sani, hanno invece la pelle macerata da un bruno pallore di morte (Pasolini [1974] 2008c, 2673-2674; i corsivi sono miei).
Alla luce di questo passo possono essere letti già passi del Pasolini friulano – agli esempi di Pontillo 2015 aggiungerei la straordinaria descrizione (declinata proustianamente) della foto incastonata su un portasigarette nel racconto Stefano, nel ciclo dei Parlanti, con un’immagine del protagonista scattata qualche anno prima:
Un giorno nell’osteria di Culòs, mentre si giocava alle carte, comparve sul tavolo, uscito dalle nitide tasche di Stefano, un portasigarette di metallo, sembrava d’un vecchio argento, minutamente e ingenuamente lavorato di fitti intrecci ornamentali ai bordi, così che nel centro rimaneva un vano di qualche centimetro di superficie liscia sulla quale intravidi, alla prima casuale occhiata, qualcosa come un vespro rosa e umido. Presi in mano il portasigarette, mentre Stefano me ne narrava la provenienza con la voce crescente di un tono e una vena di emozione melodica e secca dovuto al modo fortuito con cui ne era venuto in possesso, io lo fissavo incuriosito, già entrato potenzialmente in una condizione di batticuore poetico. Quel vespro rosa non era altro che una fotografia di Stefano, incastonata saldamente nella ghirlanda di minuti festoni argentei e lievemente tinta di rosa, il che, unito alla vaga consunzione, dava all’insieme quella colorazione delicata, sensuale e nostalgica che aveva sempre tinto nella mia memoria l’immagine di Casarsa. In questo rosa da fiore avvizzito, da cielo semispento o da carnagione lievemente accesa, come dietro a un velo teso e umido, compariva il volto fotografato di Stefano, ma di uno Stefano di due o tre anni prima, ancora adolescente, florido, tranquillo e malinconico, con le gote e le labbra addolcite dalla pinguedine infantile, che rendeva anche meno affilato il naso e più quieto il suo sguardo di vetro azzurro e insensibile. Quel volto di ragazzo già alto di statura, che si offriva all’obbiettivo con la lontananza di un fiore e con la coscienza appena adombrata di una presenza di sé alla propria bellezza orgogliosa dell’età e alla propria intrepidezza di neo-iniziato ai sistemi della vita invidiata degli adulti, mi evocò chiaramente in un istante il romanzo di una creatura viva appena per essere dotata delle stupende attribuzioni del sesso, e operante nel cerchio delle resistenze insormontabili delle istituzioni ambientali, eppure capace di compiere un suo ciclo, tenue, mai più rintracciabile, e simile, nella sua fulminea, fatale fragilità, al segno che lascia nel cielo estivo una stella cadente (Pasolini [1948] 1999, II, 172-173; il secondo e terzo corsivo sono miei).
Mai però come in Una vita violenta la fotografia è associata a una scoperta tematizzazione della morte. Appena uscito dal carcere, il protagonista raggiunge la famiglia nel nuovo alloggio piccolo-borghese all’INA Case, e sulla credenza vede la fotografia di Tito e Toto, i due fratellini morti durante la sua detenzione. Segue il sogno che si svolge a casa di Tommaso (non quella nuova dell’INA Case, ma la vecchia baracca sull’Aniene). Tito e Toto sono ancora vivi, coi loro stracci soliti, e ha luogo un incongruo ricevimento nuziale:
Gli sposi erano il padre e la madre di Tommaso. Essi sorridevano un po’ commossi a tutte quelle feste, e il sor Torquato aveva preso sotto la vita la sora Maria, con quel suo bel vestito bianco di seta, piccoletta e caruccia, come se si dovessero mettere in posa per farsi la fotografia (Pasolini [1959] 1998, I, 1067).
Dopo essersene stato a mangiare un po’ in disparte, “per non disturbare con la sua presenza la festa di nozze”, Tommaso accede al vano dietro un tramezzo dove dormiva di solito, e sulla sua brandina trova disteso Lello, l’amico-rivale più caro, che anni prima era stato investito da un tram ed era rimasto storpio: pareva volesse parlare, senza riuscirci, aveva la mano destra maciullata, “ridotta a un mucchietto d’ossicini e di brandelli di carne”, e “il cuoio della scarpa mischiato a una poltiglia sanguinosa”. Quando ci riesce, gli grida di scappare. La fotografia, qui, offre quasi una quinta alla scena inquietante del sogno. I personaggi si dispongono in posa, e si atteggiano come se di fronte a loro ci fosse una macchina fotografica nascosta che li riprende.
Il carattere funebre è ancora più evidente nel brano in cui Tommaso visita di nascosto l’ufficio di Bernardini, e riconosce sulla scrivania un ritratto fotografico nel quale il protagonista riconosce il segretario. Si ribadisce così che il contatto di Tommaso con il nucleo di cospirazione interno all’ospedale è veicolato dalla fotografia del giovane scomparso, e l’immagine induce il ragazzo a prefigurare la propria morte:
“E se dovessi morì pure io?” pensò. “Se dovessi da fa pure io qua’a fine?”. Con tutto quel caldo, che si sudava, Tommaso si sentì tremare, come ingelito, come, intorno a lui, a un tratto, fosse tornato notte (Pasolini [1959] 1998, I, 1083).
Tommaso scorge la fotografia di Bernardini dietro un vaso di garofani rossi e spinto dalla curiosità scopre in un cassetto una bandiera dello stesso colore, mentre c’è un altro dettaglio che colpisce nel brano preso in esame: l’ufficio è illuminato da un “sole, festoso, che assorbiva tutto, sfarfallava su tutto” (Pasolini [1959] 1998, I, 1082), e fa venire in mente la poesia Una polemica in versi – dove la luce del sole allude a un determinato rapporto tra presente e passato e assume delle connotazioni relative all’attività, ormai significativamente sbiadita, del Partito comunista (Pontillo 2015, 63).
Altro segno di inquietudine, durante la stesura di Una vita violenta, la tentazione di raccontare alcuni episodi in versi, quasi come antidoto all’auto-imposta solidità e compattezza della prosa (Siti, De Laude 1998a, 1719-1721). Questa per esempio, nell’avantesto, la morte di Tommaso, in terzine simili a quelle delle Ceneri di Gramsci (ricordo che la serie di xxx sta negli autografi pasoliniani a indicare parole o parti di parole da completare):
Che cazzo, proprio lui doveva morire?
E adesso poi ne masticava d’ospedali,
e sapeva quello che doveva dire
e che doveva fare per farsi rispettare.
Fin dal primo giorno stette attento
che niente di quello che gli dovevano dare,
gli fosse tolto: se ne stava col mento
tirato, l’occhio puntato, lottando
contro il tinticarello dello svenamento,
che lo pigliava di quando in quando.
Invece stava sempre più male.
Affondava nel male come nel fango.
Un giorno lo venne a trovare
Irene, con l’amica Diasira e Settimio.
Gli portò un po’ di frutta, un po’ di marsala,
e gliela mise lì, sul comodino,
in silenzio: e pure gli altri due tacevano,
e Tommaso, Tommaso, secco come un ragazzino,
sotto le pezze tese, non faceva
che guardare fuori dalla finestra:
non disse una parola. Arrendevole,
come sempre Irene, per un po’ stette mesta
a guardarlo, parlando a mezzo fiato
con la negretta: poi non poté trattenersi
e nascondendosi la faccia col braccio piegato,
cominciò a piangere, a piangere:
e siccome era tutto silenzio xxxxxxxato,
il suo pianto si sentiva intorno forte,
e tutti si voltavano a guardare.
Abbracciandola Diasira, cercava di reprimere
i suoi singhiozzi: ma Irene non poteva
più calmarsi, benché ormai piangesse piano,
con un lamento di bambina: sapeva
che non doveva farlo, e con la mano
si nascondeva il viso. Tommaso moriva:
e lui ormai, bene o male, xxxxxxxxxano
era il suo ragazzo, non aveva altra aspettativa
che sposarsi con lui: si sarebbe sposata,
avrebbe avuto dei figli xxxxx,
e questa sarebbe stata la sua vita.
Seguono altre tre terzine e i versi si interrompono alla fine della c. 191 (la c. 192 dello scartafaccio non era originariamente in sequenza). Così, invece, suona la versione definitiva (normalizzata) del romanzo apparso a stampa nel 1959:
Non si voleva convincere che proprio a lui, gli dovessero fare la fossa. Adesso poi ne masticava d’ospedali, e sapeva quello che doveva dire e che doveva fare, per farsi rispettare. Fin dal primo giorno stette di punta che non gli facessero mancare niente di quello che gli spettava. Se ne stava col mento stirato, l’occhi sveglio, lottando contro il tinticarello che gli veniva quando si stava per svenare. Invece stava proprio sempre più male. La domenica, venne a fargli visita pure Irene, con l’amica Diasira, e con Settimio. Gli portò un po’ di frutta e un po’ di marsala, aspettando un momento che non c’erano i suoi, e gliela mise lì sul comodino, in silenzio. Pure gli altri due tacevano. Tommaso, secco come un ragazzino, sotto le pezze tese, non faceva che guardare fuori dalla finestra: non disse una parola. Sottomessa come sempre, Irene per un po’ stette avvilita a guardarselo, parlando a mezzo fiato con la Negretta; poi non si poté trattenere e, nascondendosi la faccia contro il braccio, cominciò a piangere, a piangere. E siccome c’era tutto un silenzio, nella corsia, il suo pianto si sentiva intorno forte, tutti si voltavano a guardare. Tenendola stretta, Diasira cercava di calmarla, ma Irene non si poteva più reggere, con tutto che ormai piangesse piano, con un lamento di ragazzina. Sapeva che non lo doveva fare, che non stava, e con la mano si nascondeva la faccia, sempre più disperata, finché non lo portarono via [...]. Come Tommaso rifù nel suo lettino, gli sembrò quasi di stare un po’ meglio. In fondo, ancora non l’avevano benedetto; da qualche ora la tosse gli si era fermata, e aveva pure chiesto alla madre un po’ di quella marsala che gli aveva portato Irene. Ma poi, come diventò notte, si sentì peggio, sempre di più: gli prese un nuovo intaso di sangue, tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso (Pasolini [1959] 1998, I, 1181-1182).
Questa liricità per compensazione non era pensata come circoscritta alla morte di Tommaso. Un appunto alla c. 1 dell’allegato III registra l’intento di “mettere in versi tutte le rievocazioni”, dando questi esempi: “infanzia di ladri di Lello e T.”, “Storia di Lello”; e nella cartella con la segnatura Vitt. Em. 1649/16, c. 2, “Altro capitolo: un pomeriggio domenicale di T. [Tommaso] L. [Lello] Zucabbo e altri” (cfr. Siti, De Laude 1998a, I, 1720-1723, dov’è ricostruito anche nel finale dell’avantesto – parte in prosa – il recupero del dettaglio di “uno straccetto rosso” che congiunge “lo straccetto rosso” delle Ceneri di Gramsci con “rosso straccio rosso di speranza” del Pianto della scavatrice; altro dettaglio, presente nell’avantesto e espunto nella versione definitiva del romanzo, la presenza ai funerali di una fotografia del ragazzo sulla bandiera rossa, con flashback sul pomeriggio domenicale in cui se la era scattata, probabilmente quella evocata nella cartella con la segnatura Vitt. Em. 1649/16, c. 2. Una delle tante fotografie nel segno della morte, l’ultima.
Un americano a Roma e qualche altro sopralluogo
L’americano a Roma è William Klein, classe 1928, arrivato a Roma come assistente di Fellini per Le notti di Cabiria, allievo di pittura per qualche anno di Fernand Léger a Parigi, dove già aveva fatto il servizio militare, poi fotografo (la leggenda vuole che la sua prima Laica fosse stata acquistata a Parigi direttamente da Cartier-Bresson, in vista di un progetto sul suo ritorno a New York), artista multimediale non meno interessante di Andy Warhol e Man Ray, oltre che regista col film Qui êtes-vous, Polly Magoo? (1966), che è fra le più crudeli e intelligenti satire del mondo della moda, nel quale era entrato dopo scatti rivoluzionari, come dimostra un confronto fra le sue fotografie e quelle per esempio, pur innovative (e gli anni sono gli stessi), di Johnny Moncada (cfr. Moncada, Novelli, Perilli 2014). Ho già alluso agli esperimenti iconotestuali con i quali Pasolini si misura contemporaneamente alla stesura di Una vita violenta. Bisognerà sottoporli a uno studio approfondito, ma il quadro che disegnano è già tale da dimostrare nella seconda metà degli anni ’50, da parte di Pasolini, un interesse per la verbovisività che sarà recuperato negli anni della Divina Mimesis e Petrolio. Li ripercorro qui brevemente in forma di appunti, o resoconti di primi sopralluoghi.
Già nei primi anni del 1957 Pasolini sceglie di scrivere in versi, terzine non sempre regolari ancora nell’orbita delle Ceneri di Gramsci (Siti 1972), il contributo al catalogo di una mostra dell’amica pittrice Anna Salvatore (Salvatore 1957), accompagnando alla riproduzione fotografica del quadro Domenica all’Acqua Acetosa un esercizio ecfrastico invece di un saggio critico, come quello pubblicato nello stesso catalogo da Alberto Moravia. Riprendendo moduli antichi, è scelta la forma del ‘tu’ (anzi del ‘voi’): il poeta si rivolge a un gruppo di ragazzi e ragazze distesi al sole, in un momento domenicale, in una zona verde tra il parco di Villa Glori e il Tevere. Il quadro, di grandi dimensioni, fu poi acquistato da Federico Fellini. Abbiamo recuperato la poesia nei “Meridiani” (Pasolini [1957a] 2003, II, 866), dove è introdotta da una breve premessa che comincia in tono mondano così: “Cara Anna, ti mando una poesia invece che una nota critica. Mi è venuta meglio. Occorre che te ne spieghi le ragioni?” (in Siti, Careri, Comes, De Laude, Petrecca 2003, 1644-1645).
Pochi mesi dopo, la poesia ad alto contenuto autobiografico Il pianto della scavatrice appare parzialmente anticipata prima di confluire nelle Ceneri di Gramsci sul “Contemporaneo” (Pasolini 1957): le sezioni sono la II, la III, VI, e sono accompagnate da fotografie delle borgate scelte forse non solo redazionalmente, oltre che non in linea con le austere abitudini della rivista in quegli anni, che raramente pubblicava testi contemporanei illustrati, e tantomeno con fotografie, ma piuttosto con disegni d’autore.
Nel caso del Pianto della scavatrice, immagini e didascalie sono apparentemente generiche – ma non troppo, e credo non redazionali, se le si considera con attenzione. Quella posta in apertura, “Sulla spalletta del Lungotevere”, accompagna una foto insolitamente mossa, sovaesposta, con ragazzini che giocano. La seconda, “Il nuovo carcere di Rebibbia al Tiburtino”, ha un possibile aggancio biografico, se da quelle parti, a Ponte Mammolo, Pasolini aveva vissuto fra il ’51 e il ’54, proprio quelli della sua più frenetica esplorazione di Roma (la sezione II, a cui l’immagine è riferita, avrebbe consentito altri appigli, da Fiumicino al Gianicolo). La terza, “Donne sulla soglia di casa”, ricorda singolarmente una fotografia ‘ingiallita’ della Divina Mimesis (la n. 6). La quarta, “Estate piena sulla strada di una borgata”, con l’insistenza su quel “piena”, rimanda all’epopea dell’estate dei due romanzi romani”. La quinta, “La scavatrice al lavoro”, è certo suggerita dal titolo, ma coincide anche con un’immagine ossessiva in Pasolini, che arriverà a citarla in Teorema nella scena della morte di Emilia, È giunto il momento di morire (Pasolini [1968] 1998, I, 1038-1044), dove “la fonte di lacrime che sgorga da uno sterro, sotto le pazze urla d’una scavatrice, è la straziante presa-alla-lettera di una vecchia poesia delle Ceneri, quella intitolata appunto Il pianto della scavatrice (Siti 1998b, CXXXV)”. L’ultima, “Il fronte delle nuove costruzioni a Monte Sacro”, richiama il termine che l’anno dopo Pasolini sceglierà per la puntata introduttiva dell’inchiesta Viaggio per Roma e dintorni (Il fronte della città), che si apre proprio con un “Cos’è Roma? Qual è Roma? Dove finisce e dove comincia Roma?”, e sull’immagine del “fronte della città” conclude il periodo forse più intenso del testo, dove è detto che neanche al turista più idiota, quello che più stolidamente si benda gli occhi, non sfuggirà qualcosa “se appena guardi fuori dal finestrino o dal treno che lo trasporta”:
Allora, davanti al suo occhio che non vede, voleranno di qua e di la frammenti di villaggi di tuguri, distese di casette da città beduina, frane sgangherate di palazzoni e cinema sfarzosi, ex casali incastrati tra grattacieli, dighe di pareti altissime e vicoletti fangosi, vuoti improvvisi in cui ricompaiono sterri e prati con qualche gregge sparso intorno, e, in fondo – nella campagna bruciata o fangosa, tutta collinette, montarozzi, affossamenti, vecchie cave, altipiani, fogne, ruderi, scarichi, marane e immondezzai – il fronte della città (Pasolini [1958] 1998, I 1455; il corsivo è mio).
Quanto a Viaggio per Roma e dintorni, è l’inchiesta già ricordata sulla periferia di Roma (Pasolini [1958] 1998, 1454-1466), uscita in tre puntate (Il fronte della città, I campi di concentramento, I tuguri) nel maggio del ’58 su “Vie Nuove”, il settimanale illustrato diretto da Maria Antonietta Macciocchi dove Pasolini dal 1960 al 1970 terrà la rubrica di risposte ai lettori Dialoghi con Pasolini. “Vie Nuove” trattava di politica ma anche di costume: copertine coloratissime, molte immagini di grande formato all’interno, servizi di attualità ma anche di moda, spettacolo e in particolare gossip cinematografico. Il testo dell’inchiesta è stato ripubblicato (sempre privo di illustrazioni, per esigenze editoriali) nell’edizione dei “Meridiani”, ma un’occhiata all’uscita originale può essere utile, per misurare il crescente interesse pasoliniano per forme di scrittura che coinvolgano immagini accanto alle parole (interessante, fra l’altro, che la prima fotografia della prima puntata ritragga proprio l’autore nelle borgate).
Da aggiungere, fra l’altro, che il termine “fototesto” – in uso evidentemente prima che si affermasse, dagli anni ’70 e soprattutto ’80 del Novecento, “iconotesto” (Vangi 2005, 274-275 e Carrara 2020, 8 che ne individua un’occorrenza nella prefazione di Wright Morris alla seconda edizione del suo Inhabitants, del 1974).), si trova impiegato su una copertina di “Vie Nuove” del 3 maggio 1958, con questo annuncio a grandi caratteri: “Nell’interno un ampio fototesto sull’Esposizione Universale di Bruxelles” (il numero è quello del 3 maggio 1958).
Del 1959 è l’uscita a puntate del “piccolo, stenografato Reisebilder” La lunga strada di sabbia, con fotografie di Paolo Di Paolo sostituite nella recente edizione Contrasto (Pasolini 2009) da altre più recenti, di Philippe Séclier (cfr. Agudo, del Castillo 2021). E sempre di quel 1959 così difficoltoso sul piano della narrativa ‘pura’ è appunto l’attiva collaborazione di Pasolini con William Klein, arrivato a Roma come assistente di Fellini per Le notti di Cabiria (film del quale Pasolini aveva scritto e sceneggiato un episodio, prima di esordire a sua volta nel cinema con Accattone: Siti, Zabagli 2001, II, 2149-2173). Klein, poco prima, aveva pubblicato contemporaneamente a New York-Londra e Milano (da Feltrinelli) un magnifico fotolibro su New York (Klein 1956), Prix Nadar l’anno successivo, recensito sul “Contemporaneo” da Piero Dallamano. È difficile che a Pasolini fosse sfuggito il libro (che Fellini conosceva già: di lì, anzi, l’idea di chiamarlo a Roma come aiutoregista), e non si fosse imbattuto nella recensione, dal titolo certo attraente, per lui, Immagini di una città (recensione, fra l’altro, dove gli elementi stigmatizzati dal critico come deteriori, dovevano anzi essere apparsi a Pasolini altrettanti pregi e motivi di interesse): realismo che è in realtà oltranza espressionistica, immagini mosse e sovraesposte, “attraverso un finto disprezzo delle regole e l’ostentazione di una fretta che coglie fulminea l’occasione e di altro non si cura”, “violenze e manipolazioni” apportate alle fotografie attraverso il montaggio, assenza di una “necessaria contrapposizione […] tra bello e brutto”, predilezione per gli “aspetti squallidi […] e mostruosi dell’umanità newyorkese”, bambini “colti nell’attimo e nell’aspetto della degradazione e dell’animalità, talvolta bellissimi e immateriali come angeli” (Dallamano 1957).
Il libro su New York (New York in copertina; Life is Good & Good for You in New York nel frontespizio) è unicamente fotografico, e contiene solo un breve testo dell’autore alla fine (Manhadoes). Le foto sono senza didascalie, e i titoli si trovavano in una scheda staccata dal libro, mancante negli esemplari che sono riuscita a consultare.
Se anche non ci fosse stato il tramite di Fellini, insomma, Pasolini doveva sapere chi fosse l’estroso ragazzo americano arrivato in città come aiutoregista per Le notti di Cabiria, e che aveva deciso di realizzare un libro analogo su Roma visto il prolungato ritardo delle riprese. Ne sarebbe uscito un ritratto della città innamorato, irriverente, dadaista, da Giulio Cesare al Totocalcio, del quale “Pasolini accettò di scrivere i testi”, come dichiara Klein, seguendo la campagna fotografica con altri amici – una specie di gioco di gruppo, al quale avevano preso parte in formazione variabile altri amici, tra cui lo stesso Fellini, e Zavattini, Moravia, Flaiano, Laura Betti:
Ero un grande fan di Fellini e, quando venne a Parigi nel 1956 per presentare I Vitelloni, volli incontrarlo. Gli eroi erano ancora accessibili a quei tempi. Chiamai il suo albergo: “Mr Fellini s’il vous plaît” e loro me lo passarono. “Ho appena completato un libro su New York e mi piacerebbe mostrartelo”. Fellini rispose: “Vieni domani alle 16” e io ci andai.
Lui mi disse “Lo sai che c’è una versione italiana? Io ne ho una copia sul comodino. Mi piace molto”. E abbiamo parlato. Dopo qualche minuto Fellini mi chiese
“Perché non vieni a Roma a lavorare sul set del mio nuovo film? Fammi da assistente”. Non avevo mai assistito alla realizzazione di un film e non avendo assolutamente idea di cosa facesse un assistente regista, glielo dissi. E il maestro: “Nessun problema, se non sto bene, le riprese le fai tu”. Toccò quindi a me dire “Nessun problema. Allora, quando si parte?”. “Iniziamo fra un paio di settimane” fu la sua risposta. […]. Il film in questione era Le notti di Cabiria. Il casting non era ancora stato completato: c’era bisogno di reclutare altre puttane. Ma per quello non c’era davvero alcun problema. Per trovare delle puttane disposte ad apparire nel film feci un giro con Fellini nei luoghi in cui solitamente offrivano i loro servizi. Il mio compito era di fotografare le possibili candidate mentre qualcun altro prendeva i nomi e numeri di telefono. […]. Il film subì un ritardo. Cosa fare? Restare e aspettare l’inizio delle riprese o tornare a Parigi? Siccome l’attesa poteva durare anche due mesi, decisi di restare e, perché no, catturare delle immagini di Roma e realizzare un libro. Ne avevo già completato uno su New York, ma si trattava della mia città natale e il libro era una specie di autobiografia. Come potevo dare un senso fotografico a una città che conoscevo appena e dove parlavo a stento la lingua? Ma questo è il problema della fotografia in generale. […] Anche in questo caso, nessun problema. Ben presto trovai degli amici disposti ad aiutarmi e farmi da guida: Pasolini accettò di scrivere i testi, Moravia mi mise in contatto con il direttore della sua rivista “Tempi Nuovi”, Franco Cagnetta, Zavattini e Laura Betti si offrirono di darmi una mano e nel giro di poco tempo, mi sentii davvero a casa. Per 8 settimane fui ovunque e iniziai persino a parlare italiano. Le riprese di Cabiria finalmente presero il via, ma ora ero più preso dal mio progetto personale, una Roma fai da te (Klein 2009, 6-7).
La collaborazione tra Klein e Pasolini è poco nota (benché segnalata da Pontillo 2015,55-56 e Rizzarelli 2016, 214; Madesani 2008, 168 si limita a registrare l’apprezzamento pasoliniano del libro finito: “Pier Paolo Pasolini, quando esce il libro su Roma, manifesta stupore per il fatto che un newyorkese avesse permesso ai romani di conoscersi così a fondo”). Credo, in realtà, che Pasolini si possa considerare il ‘co-regista’ del libro, come risulta dalla differenza con New York (Klein 1956), dove compare solo un brevissimo testo dell’autore (il volume, per il resto, è interamente fotografico), e dalla costruzione stessa del libro su Roma (Klein 1959), una singolare edizione bilingue, italo/francese, pubblicata da Feltrinelli verso la fine dell’anno (Klein 1959), della quale consente di farsi un’idea molto imprecisa la ristampa in due volumi divisi arbitrariamente (in uno le fotografie, in uno i testi) dell’editore Contrasto (Klein 2009), nata in realtà come catalogo di una fortunata mostra fotografica (William Klein, Roma, fotografie 1959-1960), tenuta ai Mercati Traianei dal 14 aprile al 21 luglio 2010.
Nell’edizione del ’59, ormai quasi introvabile (ringrazio Christian Toson di avermi aiutato nella ricerca e nel controllo dell’originale), ognuna delle sezioni del libro (Cittadini di Roma, La strada, Città eterna, Ragazzi, Mondo cattolico, Moda), tranne l’ultima, è introdotta da un breve testo di Pasolini, in corsivo:
Cittadini di Roma
“Con l’aiuto di Dio e del ministro Togni, disse un giorno il sindaco di Roma, sig. Cioccetti, vinceremo!” Vinceremo che cosa? La lotta con le borgate. In Italia quando si dice “vincere” non si vince mai, è noto. Così le borgate resteranno. Nelle borgate vivono due o tre centinaia di migliaia di cittadini abusivi. Vengono specialmente sud, e si adattano a vivere come animali. Dalla guerra in poi, a Roma, si è formato un enorme mondo di anime di assedio. Brulicano sotto il sole e nel fango, viventi, parlanti, ma non residenti. A Roma c’è un sottoproletariato meridionale. Ben residenti, invece, sono le sconfinate falangi di burocrati; si sono stabiliti qui a Roma da quasi un secolo ormai, e hanno formato la borghesia, che prima non esisteva. La borghesia veramente romana è quella di una qualsiasi cittadina papalina o borbonica di centomila abitanti; si è molto arricchita col commercio del bestiame e degli ortaggi. Anche la nobiltà romana si è molto arricchita con la speculazione edilizia, essendo tutti i suoi terreni grassi e bruciati intorno alla città.
I cittadini romani sono di base ebrea, o, come sostiene il poeta Sandro Penna, derivano dagli antichi schiavi e liberti orientali. C’è dunque nella città eterna un’aria molto levantina, molta bellezza e pigrizia. Soraya e Faruk si trovano quasi come a casa loro.
La strada
A Roma, data la difficoltà di alloggio, si vive più nella strada che in casa.
La strada è concepita come un teatro. In casa non ti vedrebbe nessuno, per la strada hai un pubblico. Il proletario vi mette in mostra la sua dritteria, il borghese la sua seicento, il nobile il suo amore per il sole e per il popolo, l’artista di passaggio i suoi occhiali neri. L’adolescente mette in mostra il suo sesso, la comare il suo grasso, l’uomo d’affari il suo naso.
Ci sono certi vicoli di Campo dei Fiori o Trastevere in cui pare d’essere a Palermo o a New Orleans.
I romani sono felici solo quando camminano per le strade: le più orrende architettura del fascismo e del dopoguerra non sono riuscite a fare una sola strada disumana.
Città eterna
La gente di Roma o è analfabeta o cinica: non sa nulla della sua tradizione, se non le due sole parole retoriche. Per il popolo i ruderi sono quattro pietre rotte, per la borghesia delle cose tediose, viste tutti i giorni, di cui, in certe circostanze, bisogna andare fieri.
In compenso ci sono i turisti: la città eterna è loro.
Ragazzi
Roma è certamente la più bella città del mondo. Cammini per un vicolo e sei in piena controriforma tra stupendi rosoni barocchi; scantoni e ti trovi in un delizioso cinquecento: due passi ancora e sei a faccia con un frammento dell’impero romano, torni indietro e vedi uno scorcio di dolcissimo ottocento pinelliano, magari con delle pecore.
Ma Roma non sarebbe così bella, se non ci fossero i ragazzi; come in tutte le città meridionali e marittime sono i ragazzi che le danno il tono. Precoci, sensuali, belli, maleducati, aridi, avidi, spiritosi, i ragazzi sono i padroni. Dettano legge con l’autorità della gioventù, della bellezza e dell’incoscienza. Non ci sono teddy-boys perché non c’è bisogno di rivolta.
La gioventù pagana anarchica e stoica da scoli, ben conservata dal cattolicesimo. Non c’è pudore e non c’è senso del peccato: vige solo una regola dell’onore. Perciò le ragazze, bellissime, sono un po’ misteriose, amare, assenti, o si danno alla vita.
Mondo cattolico
Il mondo cattolico di Roma è formato quasi totalmente di “burini”, forestieri, contadini, romei. Del resto c’è un vecchio detto: “Davanti a Ponte Milvio si sbracciano due statue in cui il popolo riconosce S. Pietro e S. Paolo e che, col gesto barocco, uno indica “qui”, uno indica “là”, e il popolo: “A Roma si fa la fede e fuori ci si crede”.
Seguono ogni volta, in tondo, altri testi: commenti caustici e divertiti di Klein (che si firma sempre K), ed excerpta di Belli, Leopardi, Stendhal, Dickens, Taine, Rolland e altri, una specie di omaggio corale a Roma, fatto di citazioni scelte con ogni probabilità dallo stesso Pasolini. Nel volume si alternano foto in bianco e nero, senza didascalie, oggetto di montaggi spericolati, e alternate, nella parte che comprende i testi, a immagini di diversa natura (pubblicità, biglietti del cinema, schedine del totocalcio, ecc.)
Nella nuova impaginazione in due volumi (Klein 2009, ribattezzato Roma + Klein) il legame fra testi e immagini non è sempre immediato. Si intravedono nelle foto personaggi famosi, tra cui Fellini, Moravia, Soldati (Fig 20). Prevalgono però facce comunissime, con qualche sorpresa: una donna portatrice d’acqua che sembra la “ninfa del Ghirlandaio”) e tipi umani spesso a contrasto fra di loro, come quasi sempre nelle fotografie della sezione Moda):
I temi sono quelli più cari a Pasolini: la vita nelle strade, la teatralità del romanesco e dei suoi “parlanti” (c’è anche una scena a fumetti, con battute attribuite ai soggetti fotografati), la stratificazione della storia, e il contrasto fra il moderno e l’antico, a cui una città fitta di pubblicità, insegne e scritte pare indifferente. Le foto sono aggressive nell’impadronirsi del mondo romano nella sua caotica teatralità. Meno inventive le fotografie dell’olandese Waaagenaar (104 nel volume, tutte in bianco e nero), spunto del volumetto di racconti Donne di Roma (Pasolini [1960] 1998, I, 1542- 1542).
Si tratta di racconti scritti ad hoc, il cui incipit è sempre in stretto rapporto con una immagine di Waagenaar riprodotta nella pagina a fianco o in quella successiva, per poi sviluppare un’istanza narrativa autonoma. Alla sezione fotografica su Porta Portese, per esempio, corrisponde nel racconto IV di una tranche de vie del mercato (Pasolini [1960] 1998, I,1546); agli intensi ritratti delle donne anziane, posti alla fine del libro, a documentare anche la crescita e il passaggio dalla giovinezza, alla maternità e all’età adulta, corrisponde nel VI una descrizione delle donne che “fanno spavento” alla madre del narratore:
Com’è piccolina mia mamma, piccolina come una scolaretta, diligente, impaurita, ma decisa fino in fondo a compiere il suo dovere. Queste donne le fanno spavento, le guarda con un po’ d’angoscia negli occhi. Sono magari della sua età, o anche più giovani: ma lei, così gentile e sottile, è rimasta una ragazzetta, davanti a loro, così grandi. […] Dietro il loro banco carico di verdura fanno davvero un po’ di spavento: mia mamma ha ragione a tremare un po’ nel chiedere un carciofo o delle ciliegie, col suo povero, mite, antico, cristiano accento veneto. Quelle capano e incartocciano (carciofi e cerase con la rabbia di facchini (Pasolini [1960] 1998, I, 1548-49).
I racconti (senza titolo, contrassegnati solo da numeri romani) sono sette, e tutti appaiono tentativi ecfrastici di conferire alle immagini una storia, un movimento. A volte si distaccano dalla fotografia, o fondono in una sola situazione fissate dallo scatto di Waagenaar in diverse. Sono invariabilmente al presente, ed enfatizzano il ruolo dell’osservatore: “Osservo Anna Magnani, lì in fondo, sul divano del salotto elegante”; “Cammino con una cornice sotto il braccio e un calamaietto in mano, in mezzo a una folla che costringe a divincolarsi come bisce per girare tra le file di bancarelle e di bazar distesi a terra” (che è tra le scene immortalate da Waagenaar). La forte presenza dell’autore suggerisce una contemporaneità, a differenza di quanto accadrà nella Divina Mimesis, dove l’apparato iconografico è nel segno di uno scarto temporale che ne rivela il senso.
Non è, quello di Donne di Roma, un prosatore sorprendente. L’impressione è che Pasolini attinga un po’ stancamente al suo repertorio ‘romano’ (il ragazzetto che “viene fuori da un vicoletto laterale, tutto sbrecciolato, nella strada, anch’essa sbrecciolata, che costeggia i Parioletti”; “un mucchio di facce sudate di pischelli”; le fruttarole “potenti come mule, toste come il tufo”), pronto però, nella scelta delle immagini su cui imbastire i suoi racconti, a cedere alle sue ossessioni. Colpisce comunque che un intero raccontino, il III, prenda spunto da una postura, anzi dal modo di camminare claudicante di una coppia:
Il fidanzato accanto a lei, cammina lento, con passo sacro. Standole a sinistra, le appoggia una mano sulla spalla destra, tenendosela stretta. È un gesto che indica possesso e protezione: ha perso ogni significato di affetto o anche di sensualità, e compie, semplicemente, una specie di fattura. Tanto più che i due stanno camminando per Viale Trastevere: anzi, lo stanno attraversando, e non lungo la striscia pedonale, niente affatto, ma nel bel mezzo del traffico […]. Ma lui, tenendola così stretta con la mano sulla spalla, e con la faccia sfilata e un po’ bollita sopra di lei, non sente niente, né tram, né autobus, né automobili. Il gesto sacro, il passo sacro – allontanano da lui – da loro due, dalla coppia – ogni pericolo. […] Lei, posseduta, protetta, simboleggiata, pare in lutto. […] S’è fatta quasi nera di pelle, la bocca le si è ripiegata in giù, come chi cova qualche vecchio dolore […]. E lui, filone – calmo, tranquillo! – coltiva quella serietà profonda […]: è sicuro che le sta dicendo che lui ha delle conoscenze… Lui farà questo, lui farà quello: e lei zitta, afflitta, posseduta, complice, chiusa nel cerchio magico con lui, come una monaca (Pasolini [1960] 1998, I, 1545-1546).
E chissà che Pasolini non abbia pensato, qui, a Tommaso e Irene, e a quell’amore che non si era sentito di raccontare fino in fondo, anni prima che nella Visione di Carlo in Petrolio con la stessa andatura claudicante avessero fatto la loro passeggiata lungo via di Torpignattara il Merda e la sua Cinzia.
Ringraziamenti
Questo saggio, che considero l’anticipazione di un lavoro in corso, da completare in tempi più propizi alla ricerca, deve molto a molte persone: innanzitutto, già per la delimitazione di campo (ma non solo) ad Andrea Cortellessa, ma anche (per suggerimenti, osservazioni, aiuto nel reperimento dei materiali) a Monica Centanni e tutta la redazione di “Engramma”, in particolare Christian Toson; e a Roberto Chiesi, del Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, Antonello Frongia, Giulia Teodora Jacchia, Corinne Pontillo, Elena Scarfi dell’Istituto Ferruccio Parri di Milano, Luca Scarlini, Ilaria Schiaffini, Carole Simonetti del MuFoCo (Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, Milano), Walter Siti, Martine Van Geertruijden. A tutti un grazie di cuore.
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English abstract
The book jacket presents Una vita violenta (1959) as the second novel of an “ideal trilogy” inaugurated by Ragazzi di vita (1955) and with a third novel already in the pipeline, Il Rio della Grana. Right from the title, in fact, the second of the ‘roman’ novels presents itself as a continuation of the first, but it also strives to be something else: a novel-novel, with a solid plot, a real protagonist, more sociological and dialectal documentation, a programmatic resistance to the centrifugal thrusts that had made Ragazzi di vita a collection of stories or an anthropological atlas of actions more than a full-fledged novel. The enterprise of presenting himself as an ‘objective’ narrator seemingly succeeds, but it is a pensum, the effort is felt. It was precisely during the writing of Una vita violenta that Pasolini the narrator manifested a crisis to which the front matter of the novel bears witness, experimenting, almost out of an anxiety to compensate, with daring solutions abandoned in the final draft, but taken up again in various ways in subsequent texts: the attempt to recount certain episodes of the story in verse, as would happen in Teorema (1968) or the intention to include some images in the narrative, anticipating image-texts such as La Divina Mimesis (1975) and the posthumous Petrolio.
keywords | Pier Paolo Pasolini; Una vita violenta; Donne di Roma; William Klein; Sam Waagenaar
Per citare questo articolo/ To cite this article: Silvia De Laude, “Un romanzo aperto verso l’avvenire”? Sopralluoghi nei dintorni di Una vita violenta, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 67-121. | PDF dell’articolo