"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

181 | maggio 2021

97888948401

Le cose e le immagini

Dalla transustanziazione del segno alla polisemia della realtà

Davide Luglio

English abstract

“Poiché il cinema non è solo un’esperienza linguistica,
ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un'esperienza filosofica”.
Pier Paolo Pasolini, Poeta delle ceneri

Il grido e l’immagine

Può l’immagine del pensiero incontrare l’immagine cinematografica? È con questa domanda che Deleuze inizia uno dei suoi corsi sul cinema. Senza entrare nei dettagli del concetto di “image-pensée”, creato dal filosofo in questa occasione, potremmo riformulare l’interrogativo chiedendoci: può esserci convergenza tra pensiero filosofico e lavoro cinematografico, ovvero è possibile pensare filosoficamente attraverso il cinema, facendo cinema?

1 | Pasolini si specchia nella vetrina di una città africana.

Per Deleuze, che pensa che la filosofia sia una pratica che può riflettere su una pratica, una “pratica dei concetti” da valutare in funzione delle altre pratiche con cui interagisce, questo è non solo possibile ma in qualche modo evidente. Una teoria dell’immagine o una teoria del cinema non è una costruzione che si elabora “sul” cinema o “su” l’immagine, ma “sui concetti che il cinema suscita, e che sono essi stessi in rapporto con altri concetti corrispondenti ad altre pratiche” poiché è al livello “dell’interferenza delle pratiche che le cose si fanno, gli esseri, le immagini, i concetti, ogni genere di eventi”. I grandi cineasti sono “come i grandi pittori o i grandi musicisti: nessuno parla meglio di loro di quello che fanno. Ma, parlandone, diventano qualcos’altro, diventano filosofi o teorici” (Deleuze 1985, 365-366: traduzione nostre).

Di cinema, Pasolini ha parlato molto, in particolare teorizzando la propria pratica e mettendola, tra l’altro, in relazione con la propria filosofia: “Ho detto che faccio il cinema per vivere secondo la mia filosofia, cioè la voglia di vivere fisicamente sempre al livello della realtà, senza l’interruzione magico-simbolica del sistema di segni linguistico” (Pasolini [1972] 1999, 1553-1554).

Pasolini ha spesso ribadito il proprio “allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà” (Pasolini [1972] 1999, 1544). E sebbene il cinema fosse stato la scoperta di un mezzo espressivo che gli permettesse di rimanere nell’ambito della realtà senza interrompere “la sua continuità attraverso l’adozione di quel sistema simbolico e arbitrario che è il sistema di linsegni” (Pasolini [1972] 1999, 1544) va sottolineato che, quanto meno nell’analisi retrospettiva che ne offre il poeta, era questo stesso amore ad animare il suo interesse per le lingue dialettali a cominciare dal friulano:

Da cosa deriva questo mio amore per la lingua orale? Tanto da essere giunto adesso, venticinque anni dopo la prima adozione scritta di un suono – di un puro suono, emesso da bocche di puri parlanti – a pensare la lingua orale, come una categoria distinta da ogni langue e da ogni parole, una specie di ipo-, o meta-struttura di ogni struttura linguistica (non c’è segno, per quanto arbitrario, che, senza soluzione di continuità, attraverso decine di millenni, non sia riconducibile al grido, cioè all’espressione linguistica orale biologicamente necessaria)? (Pasolini [1972] 1999, 1318).

Rimanere più vicino alla realtà significa in fondo avere accesso a quello a cui permetteva di attingere la lingua del contadino friulano e poi del sottoproletario romano: un universo sostanzialmente ignorato dalla lingua e dalla cultura dominanti e una vita, la vita, vissuta perlopiù senza filtri, “pura”, “barbara”, nella sua musicalità pre-culturale che affonda le radici nella notte dei tempi.

Il grido e l’immagine cinematografica andrebbero dunque posti quasi sullo stesso piano. Tuttavia, una certa lingua orale, pura espressione biologica, possiede una caratteristica che l’immagine non ha. Il grido è infatti una realtà linguistica che sta a fondamento del segno scritto verbale, ulteriore entità linguistica. La realtà che sta a fondamento dell’immagine, secondo la doxa teorica, non è invece linguistica. Non lo è nella teoria della lingua e nemmeno nella semiologia contemporanee al poeta. Restituire il “puro suono, emesso da bocche di puri parlanti” significa attingere alla realtà. Ma riprodurre la realtà attraverso la sua immagine cinematografica o fotografica significa restituire attraverso uno strumento tecnico-espressivo e quindi linguistico un’entità che linguistica non è. Nel primo caso abbiamo una restituzione, nel secondo una traduzione e una trasvalutazione. Come può dunque pensare Pasolini di rimanere sempre al livello dei fenomeni muovendosi in quella caverna di spettri della realtà che è il cinematografo? Non solo, il mondo in cui si muove il cineasta mentre gira Accattone, Mamma Roma o Teorema è il mondo a lui contemporaneo con tutte le stigmate culturali che lo caratterizzano e che pesano nella percezione che ne hanno gli spettatori. È nota la teoria pasoliniana del cinema come lingua scritta della realtà ma è noto altresì che il cinema è un’astrazione ovvero, per l’analogia linguistica attraverso la quale il poeta guarda al cinema, l’equivalente della saussuriana langue. La lingua scritta della realtà è un postulato. Va da sé che un film non è mai la semplice trascrizione della realtà ed è anche evidente che questa trascrizione, se mai fosse possibile, non potrebbe interessare l’artista per l’avversione che ha sempre manifestato nei confronti di ogni espressione naturalistica. Concretamente, dunque, la lingua scritta della realtà, vale a dire il segno iconico o “l’im-segno”, come dice Pasolini, è fruibile soltanto in un film che nel linguaggio ininterrotto della realtà, qualsiasi essa sia, opera prima una selezione e poi una ricomposizione o montaggio. Di che cosa sta dunque parlando il poeta quando evoca il concetto di realtà e come può l’immagine e più precisamente l’immagine cinematografica darvi accesso?

Res sunt nomina

In un testo del 1971, intitolato Res sunt nomina, Pasolini si scaglia contro il nominalismo in quanto teoria che guarda al linguaggio come a una sfera separata dalla realtà. Il linguaggio, pensa invece il poeta, non è il prodotto di uno spirito che si confronta col mondo come con una realtà che, nella sua empiricità e materialità, sia qualcosa di radicalmente diverso dai nomi che gli diamo e dalle categorie che usiamo per comprenderlo. Non vi è da una parte la realtà con le sue caratteristiche e dall’altra l’uomo che, in posizione trascendentale rispetto ad essa, elabora un insieme di linguaggi che la interpretano dando vita a quell’universo meta-naturale che chiamiamo cultura. No, sostiene Pasolini, la realtà in tutte le sue manifestazioni è essa stessa linguaggio. Per questa ragione può formulare il principio fondamentale della sua filosofia, ovvero che “il cinema è la lingua scritta della realtà. Questa è il riferimento paradigmatico di cui dispone il regista, è quell'infinito bacino di potenziali elementi di linguaggio visivo che egli nomina “im-segni”.

Ora è proprio questo assunto, che innerva tutta la teoria del cinema pasoliniana, che diviene oggetto di contestazioni in quegli anni in particolare da parte di Umberto Eco e Emilio Garroni (vedi sul dibattito Paolucci 2008; De Lauretis 1980; Desogus 2018). Dico in quegli anni perché trent’anni dopo, quando scrive Kant e l’ornitorinco, Eco avrà abbandonato le posizioni radicalmente antireferenzialiste che avevano motivato le sue critiche a Pasolini. Tra queste, quella centrale è appunto l'accusa di scambiare il segno con il suo referente e di “ridurre i fatti di cultura a fenomeni di natura” (Eco 1968, 152). Questo fa dire a Eco che Pasolini, semiologicamente parlando, è un ingenuo.

A suo avviso è frutto di ingenuità semiologica studiare le unità che costituiscono il linguaggio del cinema, ovvero i cinèmi, come elementi dotati di proprietà legate alla realtà. Nessuna immagine instaura con ciò che riproduce una somiglianza non mediata, “naturale” o “istintiva”; nessun cinèma, o icona in generale, stabilisce uno spontaneo rapporto di analogia con il reale. Come Eco mostra negli Appunti per una semiologia della comunicazione visiva (Eco 1967), la semiotica considera qualsiasi tipo di segno un fatto di cultura che in virtù di questo suo statuto può essere interpretato solo alla luce di un codice socialmente condiviso, che conduce ad attribuire un contenuto a una data formazione espressiva.

Eco, insomma, al contrario di Pasolini si attesta su posizioni nominaliste. Egli intende togliere ogni residuo naturalistico alla dimensione del segno, la realtà ha sempre una consistenza culturale e sociale, ed entra a far parte del dominio della semiotica solo attraverso i codici che la rendono disponibile negli scambi comunicativi.

A Res sunt nomina si aggiungono almeno altri due testi, Il non verbale come altra verbalità e Il codice dei codici, in cui Pasolini cerca di precisare il proprio pensiero e di rispondere alle accuse di ingenuità. Come scrive Deleuze, che è uno dei primi a capire profondamente la posizione di Pasolini: “il destino dell’ingegnoso è di sembrare troppo ingenuo agli occhi degli ingenui troppo eruditi”. Il carattere ingegnoso dell’assunto filosofico pasoliniano, ovvero che il cinema è la lingua scritta della realtà, sta infatti nel tentativo di superare la distinzione che pongono i semiologi tra natura e cultura in direzione non tanto di una naturalizzazione del codice linguistico quanto di una culturalizzazione radicale della realtà assunta come naturale. È quanto spiega Pasolini ne Il codice dei codici rivolgendosi a Umberto Eco:

Caro Eco, le cose stanno esattamente al contrario di come tu le interpreti. Che io sia ingenuo, non c'è dubbio: e anzi, poiché non sono – con tutta la violenza di un maniaco anche nel non voler esserlo – un piccolo-borghese – non ho paura dell'ingenuità: sono felice di essere ingenuo, e anche magari qualche volta ridicolo. Ma non era certamente questo che tu volevi dire: hai detto “ingenuità” come eufemismo per “sprovvedutezza”. Sarei disposto ad accettare anche la sprovvedutezza (che c'è), ma non in questo caso. Perché tutte le mie caotiche pagine su questo argomento (codice del cinema uguale codice della realtà, nell'ambito di una Semiologia Generale) tendono a portare la Semiologia alla definitiva culturalizzazione della natura (ho ripetuto sette otto volte che una Semiologia Generale della realtà sarebbe una filosofia che interpreta la realtà come linguaggio). Io vorrei cioè che si andasse fino in fondo. Non vorrei arrestarmi sul ciglio dell'abisso su cui tu ti fermi (Pasolini [1972] 1999, 1614).

L’abisso al quale fa riferimento Pasolini sono i “rapporti sensoriali che costituiscono la nostra conoscenza psicofisica della realtà naturale che si attua secondo il più sottostante (ma ciò nondimeno interagente) dei codici” (Pasolini [1972] 1999, 1615). Tali rapporti attraversano tutta la realtà senza soluzione di continuità ed essi, poniamo la relazione tra un toro e un drappo rosso, tra un gatto e un topolino, tra un navigatore e un cielo che all’orizzonte si fa improvvisamente nero ecc. sono chiaramente rapporti di carattere semiologico. In Kant e l’ornitorinco che, come dicevo, può essere letto come una palinodia delle critiche mosse a Pasolini negli anni ’60, il semiologo bolognese riformula quasi negli stessi termini l’idea pasoliniana quando scrive:

In tal senso la condizione elementare della semiosi sarebbe uno stato fisico per cui una struttura è disposta a interagire con un’altra (Prodi avrebbe detto: “è disposta a essere letta da”). In un dibattito svoltosi tra immunologi e semiotici, e in cui gli immunologi sostenevano che a livello cellulare avvenivano fenomeni di “comunicazione” […] la posta in gioco era di decidere se alcuni fenomeni di “riconoscimento” da parte di linfociti nel sistema immunitario potevano essere trattati in termini di “segno”, “significato”, “interpretazione” […]. Rimango sempre cauto nell’estendere oltre la soglia inferiore della semiosi termini che indicano fenomeni cognitivi superiori; ma è certo che bisogna postulare quello che ora sto chiamando iconismo primario per spiegare perché e come “i linfociti T hanno la capacità di distinguere i macrofagi infetti da quelli normali perché riconoscono come segni di anormalità piccoli frammenti di bacteri sulla superficie del macrofago” (Eco 1997, 92).

Ciò a cui allude qui Eco è quello che Pasolini esprime, non senza ambiguità, dicendo che intende “portare la semiologia alla definitiva culturizzazione della natura” (Pasolini [1972] 1999, 1614). Tale intento corrisponde alla volontà di mostrare che il codice della realtà è naturalmente un codice semiologico, in altri termini che esso funziona come un codice culturale senza per questo essere il frutto di un’operazione di astrazione convenzionale relativa a una data cultura. Insomma la realtà, spiega Pasolini, è un tutto auto-rivelantesi e prima di essere oggetto di interpretazione di un codice culturale, ogni suo elemento mostra se stesso, mostra il miracolo della sua esistenza. L'importanza del linguaggio del cinema risiede quindi nella sua capacità di rivelare il codice primario della realtà e dunque la sua forma preculturale, barbara, primitiva, non ancora convenzionalizzata perché svincolata da ogni astrazione linguistica.

Pasolini conclude il proprio ragionamento accusando il suo avversario di mancanza di coraggio: riparandosi dietro la nozione di codice culturale, Eco non sarebbe capace di ammettere l'esistenza di questo fuori non convenzionalizzato, un fuori cioè fatto di pure occorrenze singolari, di cui la scrittura per mezzo di immagini mostrerebbe la natura linguistica. Lo invita quindi a guardare oltre il ciglio dell'abisso, oltre la convenzione, attraverso il riconoscimento del ruolo della percezione nell'interazione prelinguistica con le cose.

Sotto la crasse spirituelle, l’immagine

È molto probabile, come ha proposto Hervé Joubert-Laurencin, che Pasolini sia stato un lettore precoce di André Bazin (cfr. Joubert-Laurencin 1987 e 1995) di cui pubblicherà Che cosa è il cinema nel 1972 nella collana che dirigeva per Garzanti. Che cosa è il cinema è del resto il titolo, probabile omaggio a Bazin, che aveva pensato per il suo progetto di film comico in dodici episodi che avrebbe dovuto illustrare la sua semiologia del cinema e di cui girò soltanto La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole. Al di là di alcune apparenti divergenze di fondo che attengono per lo più al filtro linguistico utilizzato da Pasolini per parlare del cinema e alla distinzione essenziale tra cinema-langue e film-parole, bisogna riconoscere che le più importanti proposte teoriche del cineasta italiano trovano una forte risonanza, se non la loro fonte, negli scritti del critico francese. Lasciando per ora da parte una rassegna sistematica delle convergenze tra le due proposte teoriche, vorremmo concentrarci sulla questione centrale del realismo dell’immagine cinematografica. In un articolo del 1948, significativamente intitolato Le réalisme cinématographique et l’École italienne de la libération, Bazin osserva che anche a supporre che il “cinema totale” fosse oggi possibile – dove per cinema totale si deve intendere la riproduzione completa della realtà analogamente all’“infinito piano sequenza” di cui parla Pasolini – con questo non faremmo altro che tornare sic et simpliciter alla realtà. Ma la riproduzione totale, immediata e oggettiva di essa, osserva Bazin, ha ben poco a che vedere col realismo cinematografico. Al contrario, è realista ogni sistema espressivo, ogni procedimento narrativo atto a far apparire sullo schermo un surplus di realtà. Per quanto in questo articolo Bazin sottolinei il carattere illusorio del procedimento cinematografico – che “sostituisce alla realtà iniziale un’illusione di realtà frutto di un complesso insieme di astrazione (il bianco e nero, la superficie piatta), di convenzioni (ad esempio le leggi del montaggio) e di autentica realtà” (Bazin 2002, 270) – in un testo precedente, intitolato Ontologia dell’immagine fotografica (1945), egli sottolinea la capacità che ha la fotografia di forzare lo spettatore “a credere nell’oggetto rappresentato, effettivamente ri-presentato, cioè reso presente nel tempo e nello spazio. La fotografia si avvale di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione” (Bazin 2002, 14). Tale credenza, però, non è il risultato di una semplice illusione ma della portata ontologica dell’immagine che opera uno specifico svelamento dell’essere della realtà. In effetti, scrive Bazin:

Le virtualità estetiche della fotografia risiedono nella rivelazione del reale. Quel riflesso sul marciapiede bagnato, quel gesto di un bambino, non mi era dato distinguerli nella trama del mondo esteriore; solo l’impassibilità dell’obbiettivo, spogliando l’oggetto dalle abitudini e dai pregiudizi, da tutte le scorie spirituali in cui l’avvolgeva la mia percezione, poteva restituirgli quella verginità che ora coglie la mia attenzione e suscita il mio amore. Sulla fotografia, immagine naturale di un mondo che non sapevamo o non potevamo vedere, la natura finalmente fa più che imitare l’arte: essa imita l’artista (Bazin 2002, 16).

Esiste, in altri termini un “fuori” non convenzionalizzato, fatto di pure occorrenze singolari, come scrive Pasolini, che l’immagine fotografica è in grado di catturare. Certo, Bazin non si esprime sulla sostanza segnica della realtà. Ma, alludendo a una natura artista, sottintende di fatto che l’oggetto colto dall’obbiettivo non è altro che espressione, linguaggio, analoghi a quelli dell’arte. L’obbiettivo, insomma, ci consente di accedere a una percezione purificata da ogni connotazione e così “di ammirare attraverso la sua riproduzione l’originale che i nostri occhi non avrebbero saputo amare” (Bazin 2002, 16).

Bazin, come dicevo, non propone un approccio semiologico all’immagine preferendo parlare di ontologia. È però chiaro che l’essere in questione non è una realtà che nella sua coseità sarebbe distinta dalla sua espressione. Al contrario, la realtà è l’essere in quanto espressività e questa possiede due caratteristiche essenziali: è singolare, ovvero è sottratta, grazie al lavoro dell’obbiettivo, dallo spazio-tempo della percezione quotidiana, ed è priva di abitudini e pregiudizi, ovvero delle denotazioni e delle connotazioni di cui è oggetto nell’ambito della visione ordinaria. L’accento posto da Bazin sulla percezione e i suoi limiti e qualità ci permette di sottolineare un aspetto del discorso sul rapporto realtà-immagine particolarmente importante e sul quale Pasolini, a modo suo, ha insistito nell’articolo Res sunt nomina. Vale a dire che non vi è nessun piano ordinario della realtà. Essa, in quanto tale, non possiede né un ordine né un significato. Tanto il piano denotativo quanto il piano connotativo della realtà sono il risultato della nostra percezione e l’immagine ci aiuta a capirlo disessenzializzando l’oggetto e restituendolo alla purezza del suo essere che non è altro che potenzialità di significato e di senso e cioè appunto espressività.

Resta da chiedersi che cosa sia sul piano più strettamente semiologico tale espressività dell’immagine. Se l’essere è espressività, infatti, esso deve potersi esprimere in quanto essere al di qua di ogni denotazione e connotazione. In altri termini, qual è il segno, il marchio espressivo dell’essere? Lo spessore filosofico di questa domanda non eccede affatto le preoccupazioni poetiche pasoliniane a riprova di quanto immagine-pensiero e immagine-cinematografica si incontrino nella sua riflessione teorica. La troviamo implicitamente formulata, infatti, in uno dei testi precedentemente citati, ovvero Il non verbale come altra verbalità. Si chiede Pasolini:

Che io sappia, tutta la linguistica “scientifica”, fino allo strutturalismo compreso, col grande De Saussure ecc., nel definire il rapporto tra segno e significato, ha sempre ignorato il momento magico originario; naturalmente, la linguistica è scienza, e scienza dell'Ottocento e del primo Novecento – quando ancora vigeva il Razzismo allo stato puro e innocente ecc. – la grande Europa – la grande borghesia bianca ecc. – la magia era tutta di colore. Che cosa fa il “segno” del “significato”: lo “significa”? È una tautologia? Lo indica? Non è scientifico? Vi si identifica? È vecchia bega tra nomen e res ecc. ecc. In realtà non c'è “significato”: perché anche il significato è un segno (Pasolini [1972] 1999, 1593-1594).

Il “momento magico originario” è naturalmente quello dell’associazione tra segno e significato. Ponendosi ancora una volta sul piano del rapporto tra res e nomen, Pasolini ribadisce la natura segnica della res, che chiama significato. Sul piano della realtà noi non abbiamo mai significati o res ma soltanto segni o significanti. Il significato, la res, non è altro che una fissazione storica del segno, il frutto di un processo che Pasolini chiama “traduzione”:

Le lingue scritto-parlate sono traduzioni per evocazione; le lingue audio-visive (cinema) sono traduzioni per riproduzione. Il Linguaggio tradotto, dunque, è sempre il linguaggio non verbale della Realtà (Pasolini [1971] 1999, 1595).

La scelta della metafora della traduzione è particolarmente interessante perché offre un’indicazione essenziale per rispondere alla domanda che ponevamo, ovvero: quale sia l’indicatore, il segno dell’espressività dell’essere o, per dirlo altrimenti, dell’essere in quanto pura espressione a monte di ogni significato. La traduzione, infatti, è un’operazione che non può mai avvenire senza residui. In essa la fonte è inesauribile e irriducibile. La lingua di partenza e la lingua di arrivo sono due parallele che corrono all’infinito senza mai incontrarsi e sovrapporsi. Ora è precisamente la natura residuale dell’essere o della Realtà rispetto alla sua traduzione a costituire il segno della sua espressività. L’espressività dell’essere resiste, insomma, alle sue traduzioni, parole o immagini che siano.

Il senso ottuso dell’immagine

Se volessimo trovare un’esplicitazione del discorso pasoliniano o forse, addirittura, un’altra sua fonte, potremmo guardare a quello che Roland Barthes scriveva all’incirca un anno prima in un saggio dedicato al cinema di Eisenstein intitolato Le troisième sens. Notes de recherche sur quelques photogrammes de S.M. Eisenstein, pubblicato sui “Cahiers du cinéma” nel 1970. Analizzando alcuni fotogrammi di Ivan il terribile di Eisenstein, Barthes distingue prima due livelli di lettura dell’immagine: un primo livello, comunicativo, che riunisce tutte le informazioni e il sapere relativi agli elementi presenti nell’immagine e al contesto in cui si inserisce. Poi un secondo livello, quello del significato, che contiene al suo interno vari tipi di lettura simbolica (referenziale, diegetica, storica) e che presuppone un’analisi semiotica più elaborata del primo: una “semiotica o neo-semiotica, aperta, non tanto alla scienza del messaggio quanto alle scienze del simbolico (psicanalisi, economia, drammaturgia)” (Barthes [1970] 2002, 485-86).

A ben guardare però, aggiunge Barthes, a questi due livelli, che sembrano poter esaurire l’approccio semiotico dell’immagine, se ne aggiunge un terzo che nomina, al seguito di Kristeva, della “significanza”. Si tratta di un livello che non ci riconduce al significato ma al significante e a quello che in esso non appartiene né all’ordine comunicativo o denotativo né all’ordine simbolico o connotativo. A questo livello la percezione non si risolve in un’intellezione ma in un’interrogazione, forse anche in un dubbio e comunque in qualcosa di indecidibile che è dell’ordine del “poetico”. Lasciando da parte il primo livello, puramente referenziale, Barthes si concentra sul secondo e sul terzo e, opponendo l’uno all’altro, nomina il secondo “senso ovvio” e il terzo “senso ottuso”. Ovvio significa etimologicamente “che va incontro” e si tratta in effetti di un senso intenzionale, per quanto costruito simbolicamente, che l’autore destina al fruitore. Ottuso rimanda invece etimologicamente all’azione di battere, percuotere una punta per smussarne l’acutezza o l’affilatezza, e indica infatti un senso aggiuntivo, una sorta di “supplemento che il mio intelletto non riesce ad assorbire, al tempo stesso ostinato e sfuggente, senza presa ed elusivo” (Barthes [1970] 2002, 488). Ma il termine rimanda anche all’angolo ottuso, più aperto dell’angolo retto e l’apertura, aggiunge Barthes, è proprio la caratteristica di questo terzo senso che si dispiega nell’infinito del linguaggio al di fuori della cultura, del sapere e dell’informazione.

Barthes cerca di descrivere il valore del senso ottuso a partire da alcuni fotogrammi di Eisenstein concentrandosi su dei particolari, la barba posticcia di Ivan, il cappello e i tratti del viso di una vecchia che piange per il dolore. Cerca di farlo emergere dal contrasto che operano certi minimi dettagli rispetto all’intenzione dell’immagine come se dovesse scaturire dalla contraddizione tra la verità dell’intenzione autoriale e il suo necessario e in parte involontario travestimento (“dire il contrario senza rinunciare alla cosa contraddetta”) in una sorta di inconcettualizzabile coincidentia oppositorum. Nelle pagine dedicate a Eisenstein, Barthes mette visibilmente in scena la difficoltà che incontra il critico a render conto di questo terzo senso e la difficoltà è relativa all’irrazionalità, per così dire, che lo caratterizza e che fa sì che non sia circoscrivibile concettualmente anche perché, se lo si eliminasse dalle immagini analizzate, né il primo senso, quello comunicativo, né il secondo, quello simbolico, ne soffrirebbero minimamente:

il senso ottuso non è situato strutturalmente, un semantologo non ammetterà la sua esistenza oggettiva (ma poi che cos’è una lettura oggettiva?), e se mi appare in modo evidente (a me), è forse anche (per ora) per lo stesso motivo ‘aberrante’ che obbligava soltanto il povero Saussure a sentire una voce enigmatica, incausata e ossessiva, quella dell’anagramma, nel verso arcaico […] il senso ottuso è un significante senza significato e da qui deriva la difficoltà a definirlo: la mia lettura resta sospesa tra l’immagine e la sua descrizione, tra la definizione e l’approssimazione. La ragione per cui non si può descrivere il senso ottuso è che, contrariamente al senso ovvio, non copia nulla: come descrivere ciò che non rappresenta nulla? (Barthes [1970] 2002, 500)

Appare dunque chiaro che il senso ottuso rimanda a ciò che nel significante resiste al significato, ovvero alla sedimentazione e alla fissazione storiche del senso. Riprendendo la metafora pasoliniana, potremmo dire che il senso ottuso è ciò che nella realtà resiste alla sua traduzione e che l’immagine fotografica – traduzione per riproduzione – può dare a vedere come caratteristica dell’espressività della Realtà, ovvero la sua irriducibilità a un significato. Ciò che rivela il senso ottuso, precisa infatti Barthes, è che

[...] il significante (il terzo senso) non si riempie; esso è in uno stato permanente di deplezione (termine della linguistica, che designa i verbi vuoti, utili a tutto, come precisamente, in francese, il verbo fare); potremmo dire anche, inversamente – e sarebbe altrettanto esatto – che questo stesso significante non si svuota (non riesce a svuotarsi); si mantiene in uno stato di perpetuo eretismo; in esso il desiderio non giunge a quello spasmo del significato che, di solito, fa ricadere voluttuosamente il soggetto nella pace delle nominazioni. Infine, il senso ottuso può essere visto come un accento, la forma stessa di un’emergenza, di una piega (o addirittura di una brutta piega), da cui è segnato il pesante drappo delle informazioni e dei significati. Se potesse essere descritto (contraddizione nei termini), avrebbe la stessa sostanza dell’haïku giapponese: gesto anaforico senza contenuto significativo, sorta di cicatrice da cui è sbarrato il senso (la voglia di senso) (Barthes [1970] 2002, 501).

È abbastanza chiaro, dunque, che la prospettiva semiologica attraverso la quale Barthes guarda all’immagine giunge allo stesso risultato a cui era pervenuto da un punto di vista ontologico Bazin e a cui giungerà, di lì a poco, con un approccio linguistico, Pasolini. Il “terzo senso”, di cui parla Barthes, mette in evidenza ciò che nella riproduzione fotografica della realtà può resistere al significato e per ciò stesso rivelare la sua espressività, quel surplus di realtà che la percezione quotidiana, spiegava Bazin, finisce per occultare. Certo, Barthes è meno interessato dal rapporto immagine-realtà che dalle possibilità che il terzo senso offre in materia di testualizzazione, in senso kristeviano, del linguaggio cinematografico. Ma la possibilità di testualizzare, ovvero di passare dal linguaggio alla significanza cinematografici, in altri termini di sottrarre il film alle modalità di lettura convenzionali, riposa sull’espressività di ciò che è catturato nel fotogramma, su quel significante che non “si svuota”, “non riesce a svuotarsi” e che “si mantiene in uno stato di perpetuo eretismo”.

Atene africana

Per Bazin, lo abbiamo visto, ciò che evidenzia per la prima volta la tecnica fotografica è il fatto che la natura imita l’artista. Può sembrare un paradosso, è in ogni caso un rovesciamento del principio kantiano e poi romantico dell’arte come prodotto di un genio al quale è la natura stessa a dettare le regole della creazione artistica. Per Bazin, come per Pasolini, invece, è l’artista il modello attraverso il quale pensare e interpretare la creazione della natura. Concretamente, ciò significa, contrariamente a quanto postula l’estetica kantiana, ad esempio, che l’arte non si distingue dalla natura dal punto di vista della causalità: non vi è da una parte l’arte prodotta dalla libertà dell’artista e dall’altra la natura prodotta meccanicamente dalle leggi che la governano. Ciò che l’immagine e segnatamente l’immagine cinematografica mi insegna, insiste Pasolini, è che il mio rapporto con la realtà è linguistico o, se vogliamo, semiologico. Ma ciò non significa soltanto che io mi comporto semiologicamente nei confronti di un segno linguistico nello stesso modo, che questo sia nella realtà o su uno schermo. Ciò significa che le potenzialità che quel segno ha sullo schermo le ha anche nella realtà, anzi, le ha sullo schermo, perché le ha nella realtà. Se vi è libertà artistica sullo schermo ciò è dovuto al fatto che la realtà è liberamente artistica, che la sua essenza è libera espressività. Torneremo più avanti sulle importanti conseguenze politiche di questo assunto. Osserviamo intanto che è a questo che si deve l’insistenza pasoliniana sulla finzione di un ‘cifratore’ della realtà:

la res è un nomen perché come tale va sentita o letta o decifrata. Resta, ripeto, il mistero del Cifratore. Un cattolico direbbé Dio, che attraverso la polisemia infinita di un'infinità di “cose come parole” (ivi compresa la lingua umana scritto-parlata) si esprime. (Il nominalismo riguarda soltanto la lingua scritto-parlata, come operazione arcaica e magica, fissata poi in una convenzione – che non ha perso i suoi caratteri evocativi) (Pasolini [1972]1999, 1586).

Presupporre un cifratore della realtà è una finzione utile, infatti, a ‘liberare’ e garantire l’espressività della realtà, a darle, per così dire, un fondamento. Al cinema principalmente, e più generalmente alla poesia, è invece devoluto il compito di offrirne la dimostrazione e questa, in Pasolini, possiede un nome specifico: ‘transustanziazione’. In questo quadro teorico la scelta di questo termine risulta particolarmente significativa. La ‘transustanziazione’, infatti, è un termine della teologia cattolica che designa la totale conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Paradossalmente, dunque, l’immagine filmica, lungi dall’essere una riproduzione derealizzata della realtà, è al contrario il procedimento attraverso il quale il segno prelevato dalla realtà può ritrovare corpo e sangue ovvero, per dirla con Bazin, il suo surplus di realtà.

L’espediente utilizzato da Pasolini per illustrare tale procedimento è la narrazione dell’iter di un segno dalla realtà allo schermo e da questo al film. Il segno in questione si chiama Joaquim:

Prendiamo questo Joaquim: egli si presenta ai miei occhi, in un ambiente (la spiaggia di Barra, sotto il Corcovado), e si esprime, prima con la pura e semplice presenza fisica, il suo corpo; poi con la mimica (il modo di camminare non solo espressivo in sé, ma reso appositamente tale per comunicare certe cose e in un certo modo all'osservatore), infine con la lingua orale. Ma questi tre mezzi del suo esprimersi non sono che tre momenti di un solo linguaggio: il linguaggio di Joaquim vivente (Pasolini [1971] 1999, 1585).

Pasolini immagina poi di trasportare il corpo di Joaquim dalla spiaggia allo schermo, non in un film, ma astrattamente su uno schermo, come in un piano sequenza infinito come soggettiva dell’osservatore. Sia qua che là la percezione di Joaquim come segno rimane invariata perché “Joaquim vivente è segno di se stesso, in quanto ogni res è nomen, cioè segno” (Pasolini [1971] 1999, 1587). Se ora trasportassimo Joaquim da uno schermo astratto allo schermo dove si proietta un film, in altri termini se lo togliessimo da un contesto comunicativo per inserirlo in un contesto espressivo, che cosa avverrebbe? Nulla sul piano del segno, Joaquim rimarrebbe sempre il segno di se stesso, ma cambierebbe la sua funzione che da strumentale diverrebbe estetica, esattamente come se invece di leggere il nome Joaquim in un elenco telefonico lo leggessimo in una poesia. In tale passaggio, dallo strumentale all’estetico, “i segni subiscono una ‘transustanziazione’ semantica. Anziché soddisfare un’attesa, la deludono (Jakobson)” (Pasolini [1971] 1999, 1588). Pasolini rimanda a Jakobson ma avrebbe potuto rinviare al senso ottuso di Barthes e infatti aggiunge:

In cosa consiste la transustanziazione semantica di un segno quando questo passa dal campo comunicativo al campo espressivo? Consiste specialmente in una sua infinitamente maggiore disposizione alla polisemia. Molte persone intelligenti […] affermano che una res al cinema (essi intendono in un film – empirici, in questo campo, come sono) è irrimediabilmente monosemica: essa è quella che è, senza lasciar spazio all'immaginazione dello spettatore. Chi dice questo non tiene conto: a) Che la realtà è un linguaggio, e anche nella vita reale, come dialogo pragmatico tra noi e le cose (comprendenti il nostro corpo), mai, nulla è rigidamente monosemico: al contrario quasi tutto è enigmatico perché potenzialmente polisemico […] Da ciò si deduce una polisemia e quindi una enigmaticità “naturale” (pragmatica) nelle Cose. Si può scrivere o leggere poesia anche semplicemente vivendo (Pasolini [1971] 1999, 1588-89).

Se la transustanziazione è possibile, dunque, ciò è soltanto perché il film esalta in qualche modo “l’enigmaticità ‘naturale’” e “pragmatica” della realtà. Non è forse stato sottolineato abbastanza, insomma, che il cinema per Pasolini è lì per ricordare che la poesia si fa innanzitutto vivendo.

Più o meno nello stesso periodo in cui immagina la figura di Joaquim per illustrare la sua teoria della transustanziazione semantica, il cineasta gira Appunti per un Orestiade africana. L’immagine su cui si apre quest’opera straordinaria è un primo piano di Pasolini che si specchia in una vetrina. La voce off del regista dice: “Mi sto specchiando con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana ” [Fig. 1] e poi aggiunge: “sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film”. Come ho già avuto modo di sottolineare (Luglio 2015), si tratta di un inizio a prima vista enigmatico e che naturalmente non può essere considerato un puro vezzo. Esso, infatti, va sicuramente messo in relazione con una dichiarazione rilasciata da Pasolini in un’intervista apparsa su Cinema e film nell’inverno 1966-67 e inclusa in Empirismo eretico col titolo Battute sul cinema. In questa intervista, alla domanda: “ci è rimasta a ronzare in testa la sua idea della ‘semiologia della realtà’: può darci qualche precisazione?” Pasolini risponde:

Be’. Sì. Il titolo del libro in cui raccoglierò i miei saggi sul cinema […] si intitolerà forse Il cinema come semiologia della realtà. Mi è successo, insomma, quello che succederebbe a un tale che facesse delle ricerche sul funzionamento dello specchio. Egli si mette davanti allo specchio, e lo osserva, lo esamina, prende appunti: e infine cosa vede? Se stesso. Di che cosa si accorge? Della sua presenza materiale e fisica. Lo studio dello specchio lo riporta fatalmente allo studio di se stesso. Così succede a chi studia il cinema: siccome il cinema riproduce la realtà, finisce col ricondurre allo studio della realtà. Ma in un modo nuovo e speciale, come se la realtà fosse stata scoperta attraverso la sua riproduzione, e certi suoi meccanismi espressivi fossero saltati fuori solo in questa nuova situazione “riflessa”. Il cinema, infatti, riproducendo la realtà, ne evidenzia la sua espressività, che ci poteva essere sfuggita. Ne fa, insomma, una semiologia naturale (Pasolini [1966-67] 1999, 1548).

La lunghezza di quella inquadratura iniziale in primo piano dà la misura del modo in cui saranno girati gli appunti, costruiti soffermandosi spesso a lungo su singole inquadrature che alternano primissimi piani a primi piani e piani medi quando si tratta, ad esempio, di individuare i personaggi dell’Orestiade in giro per la Tanzania e l’Uganda. Senza entrare nella dimensione ideologica del progetto pasoliniano e per soffermarci soltanto sull’evidenziazione dell’espressività della realtà, possiamo osservare che Pasolini sottopone lo spettatore a una triplice procedura di straniamento. La prima, e la più evidente, consiste nell’individuazione della profondità mitica e dello spessore tragico-poetico dei personaggi di Eschilo tra la gente comune, immersa nella propria quotidianità, nell’Africa degli anni ‘70. Questo primo straniamento è storico, geografico e socio-culturale. Naturalmente Pasolini non è il primo a proporre l’attualizzazione di una tragedia antica ma è sicuramente il primo a proporne l’attualizzazione sotto forma di repérage. E in questo consiste il secondo livello di straniamento. Il regista non ci immerge in una narrazione o in una ricostituzione. Anzi, liquida la questione del racconto dell’Orestea attraverso un breve riassunto iniziale durante il quale, del resto, le immagini della città africana che scorrono sullo schermo sembrano un mero sottofondo senza reale aggancio con la trama. Tutto cambia, invece, quando ha inizio l’individuazione dei personaggi, quando la voce narrante di Pasolini, soffermandosi su un giovane seduto, o su un vecchio contadino nei campi, ci dice: “questo potrebbe essere un Agamennone” (fig. 2) e “anche questo. Il vecchio Agamennone che torna stanco dalla guerra di Troia” [Fig. 3]. Allora, soffermandosi su ognuno e inquadrandoli in piani diversi, il regista costringe lo spettatore a fare in qualche modo l’esperienza di un puro segno. La res contadino della Tanzania scompare per lasciare lo spazio alla pura realtà, ovvero al nomen, al significante che magicamente, ovvero espressivamente, ci appare come un possibile Agamennone o un verosimile Oreste [Fig. 4]. La ‘transustanziazione del segno avviene sotto i nostri occhi in modo stupefacente anche quando dal personaggio si passa all’azione, come nel caso del gesto magico di Cassandra [Fig. 5]. L’enigmaticità e la polisemicità della realtà si materializzano sotto il nostro sguardo tanto più che i referenti Agamennone, Oreste o il gesto di Cassandra sono necessariamente puramente immaginari. Il terzo livello di straniamento è invece interno, in quanto propriamente cinematografico. Esso ha a che vedere con la forma dell’appunto e la scelta di non proporre una diegesi filmica classica, ovvero di non inserire la realtà nello spazio-tempo di un film che riprenda l’Orestiade di Eschilo. Per capire il senso di questo livello di straniamento ci soccorre ancora una volta il testo precedentemente citato di Roland Barthes, dedicato al “terzo senso” e significativamente all’analisi, come precisa il sottotitolo, di alcuni fotogrammi di Eisenstein.

Come abbiamo visto il terzo senso, o senso ottuso, indica il passaggio dal linguaggio alla significanza la quale, precisa Barthes in conclusione del suo saggio, costituisce l’essenza stessa del cinema e che propone di designare con l’espressione: “il filmico”. In quanto essenza, il filmico è un’astrazione e sta al film come il romanzesco al romanzo. Per lo più, dunque, e per quanto paradossale possa sembrare, il filmico non può essere individuato in corpore vili, in un film, perché l’essenza del cinema, insiste Barthes, non è nel movimento e nel montaggio sintagmatico, bensì nel fotogramma. Questo, infatti, “ci libera dalla costrizione del tempo filmico; una costrizione forte che fa ostacolo a ciò che potremmo chiamare la nascita adulta del film (nato tecnicamente, a volte anche esteticamente, il film deve ancora nascere teoricamente)”. In altri termini, citando Eisenstein, Barthes invita a spostare il centro di gravità del film “all’interno del frammento, negli elementi inclusi nell’immagine stessa. Il centro di gravità non è più l’elemento ‘tra le inquadrature’ – l’urto, ma l’elemento ‘nell’inquadratura’ – l’accentuazione va posta all’interno del frammento” (Barthes [1970] 2002, 505). Leggere filmicamente un film implica insomma che si “scruti” il frammento affrancandosi dall’illusione referenziale che contribuiscono a creare il movimento e la temporalità dettati dalla diegesi del film. La scelta pasoliniana dell’appunto può trovare qui una sua spiegazione. Privilegiare l’inquadratura, il singolo frammento o appunto, significa sovvertire la logica dinamica e temporale sulla quale è costruita la convenzione linguistica cinematografica e pertanto contribuire a fare quella “semiologia della realtà” che passa per la transustanziazione del segno. È a questa questione, del resto, che Deleuze ha dedicato l’essenziale de L’image-temps ed è a questo, in parte, che allude quando afferma che:

La situazione puramente ottica e sonora suscita una funzione di veggenza, al tempo stesso fantasma e constatazione, critica e compassione, mentre le situazioni senso-motorie, per quanto violente siano, si rivolgono a una funzione visiva pragmatica che tollera o sopporta all’incirca qualsiasi cosa, a partire dal momento in cui è colta in un sistema di azioni e reazioni (Deleuze 1985, 30).

La questione, detto altrimenti, è come passare dal cliché all’immagine. E questa è una questione innanzitutto politica. Per Deleuze, al seguito di Bergson, il cliché è sempre un’immagine senso-motoria ovvero filtrata dal nostro interesse che la amputa di una parte dandoci a vedere meno di quello che contiene. Vediamo ciò che ci conviene vedere, la nostra è una percezione coatta, per interessi esterni o esigenze interiori. Ma qualora i nostri “schemi senso-motori si inceppassero o si rompessero, allora potrebbe apparire un altro tipo di immagine: un’immagine ottico-sonora pura […]” (Deleuze 1985, 33). Per Pasolini – “non credo a un cinema di poesia lirica ottenuta attraverso il montaggio e l’esasperazione della tecnica” (Pasolini [1967] 1999, 1581) come poi per Deleuze, per passare dal cliché all’immagine non bastano gli artifici formali. La parodia, l’ironia, lo svuotamento dall’interno o l’espressionismo non bastano. Alterare il legame senso-motorio non è sufficiente. “È necessario aggiungere all’immagine ottico-sonora delle forze immense che non sono quelle di una coscienza semplicemente intellettuale, o anche sociale, ma una profonda intuizione vitale” (Deleuze 1985, 33-34). Ma non è appunto questo che intende Pasolini quando afferma che “si può scrivere o leggere poesia anche semplicemente vivendo”? Se il cliché è l’immagine priva della sostanza espressiva della realtà, quella che potremmo anche semplicemente definire poesia, in che modo la transustanziazione filmica del contadino africano può portare con sé “una profonda intuizione vitale”?

Credere nel mondo

Per Pasolini il cinema, lo abbiamo ripetuto più volte, è un modo per realizzare una semiologia della realtà. Esso è, in altri termini, un modo per esplorare le possibilità della realtà. Scoprire, al di là dei clichés, che la realtà è un serbatoio di possibili, è un modo per aiutare a liberarsi da quella crasse spirituelle, da quelle scorie che, come diceva Bazin, non solo atrofizzano la percezione ma con essa anche il nostro spirito. Transustanziare la realtà è insomma un modo per tornare a credere che un’altra realtà non solo è possibile, ma è possibile perché possiamo farla esistere. In Qu’est-ce que la philosophie Deleuze, interrogandosi sulla condizione moderna, individua nella crisi del legame che ci unisce alla realtà la sua specificità. Il problema sembra essere oggi

l’esistenza di colui che ancora crede nel mondo, non tanto all’esistenza del mondo, ma alle sue possibilità sul piano dei movimenti e delle intensità per far nascere ancora dei nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce. Può darsi che credere in questo mondo, in questa vita, sia divenuto per noi il compito più difficile, o il compito di un modo di esistere da scoprire sul piano di immanenza che è il nostro oggi. È la conversione empiristica (abbiamo tante ragioni di non credere al mondo degli uomini, abbiamo perso il mondo, peggio che perdere una fidanzata, un figlio o un dio…). Sì, il problema è cambiato (Deleuze 1991/2005, 72).

Il grande dato della modernità, per Deleuze, è che non crediamo più in questo mondo, e non crediamo nemmeno agli eventi più importanti della nostra vita, all’amore, alla morte come se non ci riguardassero fino in fondo. Il problema dell’arte e del cinema in particolare non può dunque più essere la rappresentazione realistica della realtà. Non c’è immagine, per quanto reale, che possa far esistere ciò in cui non crediamo. E a fortiori non c’è cambiamento, rivoluzione o utopia che prospettando la trasformazione di ciò in cui non crediamo possa risultare in qualche modo credibile o auspicabile. Ciò che più conta, dunque, non è sapere, ma credere:

Solo la credenza nel mondo può legare l’uomo a ciò che vede e sente. È necessario che il cinema filmi, non il mondo, ma la credenza in questo mondo, nostro unico legame. Ci si è spesso interrogati sulla natura dell’illusione cinematografica. Ridarci la credenza nel mondo, questo è il potere del cinema moderno (quando cessa di essere cattivo) (Deleuze 1985, 223: traduzione di chi scrive).

Configurandosi come un ponte verso il mondo, come una vetrina o uno specchio attraverso il quale andare alla vita per coglierne i sensi prima di ogni discorso, il cinema di Pasolini è un invito a credere nel mondo. Per tornare a credere, dice ancora Deleuze, bisogna “restituire il discorso al corpo, e, per questo, raggiungere il corpo prima dei discorsi, prima delle parole, prima che le cose siano nominate” (Deleuze 1985, 225). Ma la transustanziazione non è appunto la restituzione del segno al corpo e al sangue? La credenza intrattiene da sempre un rapporto complesso con la visione. Quel che è certo è che non è possibile gettare un ponte verso la realtà oscurandola dietro la parola, è necessario, al contrario, renderla leggibile strappandola appunto ai discorsi. E questo è il compito affidato al cinema come semiologia della realtà, un compito che Pasolini persegue anche nel suo ultimo film poiché questo è il senso che si deve dare, mi sembra, a quella che definisce come una nuova forma di engagement, l’impegno “ad una maggiore leggibilità”:

L’Italia […] non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente […]. Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?) (Pasolini [1975] 1999b, 603).

Immagini tratte dal film di P.P. Pasolini, Appunti per un’Orestiade africana (1970): 2 | un possibile Agamennone; 3 | un possibile vecchio Agamennone; 4 | Oreste; 5 | il gesto di Cassandra.

Bibliografia
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    P.P. Pasolini, I segni viventi e i poeti morti, in "Rinascita", 33, 25 agosto 1967; poi in Id., Empirismo eretico cit; ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte cit., 1572-1581
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    P.P. Pasolini, Res sunt nomina, in "Bianco e Nero", 3-4, marzo-aprile 1971; poi in Id., Empirismo eretico cit.; ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte cit., 1584-1591
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English abstract

The essay intends to explore the relationship between image and reality in Pasolini's thought starting from a comparison with other theoretical proposals that influenced him, in particular, those of André Bazin and Roland Barthes. For these French critics, as for the Italian filmmaker, the cinematographic image has the capacity to reveal the expressive nature of reality, that is, its irreducibility to a conventional code and meaning. The revelation of the expressive nature of reality occurs in the cinematic work through a process that Pasolini calls “transubstantiation” and that is part of his "philosophy of cinema". Starting from Appunti per un'Orestiade africana (Notes for an African Orestiad), the essay aims to illustrate the mechanism of semantic transubstantiation and its function of semiological highlighting of the expressive nature of reality. This operation, which can be traced back to what Pasolini calls a "semiology of reality", pursues a political aim, which, following Deleuze, we can define as an attempt not so much to represent reality as to restore the possibility of believing in reality.

keywords | Pasolini; transubstantiation; cinema and reality; Appunti per un’Orestiade africana, semiology of reality.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Davide Luglio, Le cose e le immagini. Dalla transustanziazione del segno alla polisemia della realtà, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 199-221. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.181.0011