Nel gennaio 1974, recensendo sul settimanale “Tempo” la raccolta degli scritti d'arte di Roberto Longhi, curata da Gianfranco Contini, Pier Paolo Pasolini ricordava quando, nella piccola aula dell'Università di Bologna dove si teneva il corso sui Fatti di Masolino e Masaccio, nell'anno accademico 1941-1942, assistette per la prima volta ad una lezione del grande critico d'arte. Nel buio dell'aula si apriva uno schermo luminoso:
Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una “inquadratura” rappresentante un campione del mondo masoliniano – in quella continuità che è appunto tipica del cinema – si “opponeva” drammaticamente a una “inquadratura” rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco” (Pasolini [1974] 1999, II, 1978).
Il giovane Pasolini era rimasto colpito dal dispositivo che conferiva un movimento illusorio alle fotografie in bianco e nero dei dipinti e dei loro dettagli (originariamente a colori), proiettate in successione. Quell’esperienza non fu soltanto all’origine della “folgorazione” figurativa di Pasolini e della sua passione per l’arte ma gli ispirò anche le prime suggestioni estetiche da cui in seguito sarebbe nata la sua idea di cinema, di matrice pittorica, dominata dalla frontalità dell'immagine e dove il movimento, in genere, è dei soggetti filmati, non della macchina da presa.
Oltre all'illusione del movimento, un altro elemento significativo di quel dispositivo era il bianco e nero di immagini che, in origine, erano a colori. Nel testo Pasolini non accenna a questa differenza fra le diapositive e gli originali pittorici cui si riferivano ma non sembra troppo arbitrario pensare che fosse rimasto colpito anche dal carattere fantasmatico o comunque dalla trasformazione indotta dalla perdita di colore delle immagini. Quando diventerà regista cinematografico, dichiarerà di preferire il bianco e nero: “continuerei a preferire il bianco e nero perché è meno naturalistico e più poetico” (Pasolini [1970] 2001, 2739).
Nel 1941 il giovane Pasolini conosceva già il cinema, ma è probabile che soltanto dopo l’incontro con la dialettica longhiana, lo abbia considerato una forma d'arte a tutti gli effetti. In attesa di riscontri documentali, sembra verosimile che abbia scritto il suo primo testo cinematografico, Il giovine della primavera – una sorta di poemetto visivo destinato ad un concorso del GUF (Gioventù Universitaria Fascista) – non nel 1940, come è stato congetturato finora, ma nel 1941, appunto in conseguenza della sua frequentazione del corso dedicato a Masaccio e Masolino (anche se nel progetto filmico i riferimenti sono all’arte greca antica, mutuati da L’arte classica di Pericle Ducati). Infatti sembra probabile che una piena consapevolezza dell'estetica dell’arte cinematografica gli sia stata ispirata soprattutto dalle lezioni di Longhi che si soffermava a parlare con interesse di alcuni film agli studenti e in particolare di quelli del Realismo poetico francese, nonostante fosse un cinema inviso al fascismo.
Le fotografie, ossia le diapositive proiettate, rientrano in questo episodio inaugurale della relazione fra Pasolini e il cinema, e probabilmente fu anche l’immobilità delle immagini ad affascinarlo, un’immobilità che rimanda agli affreschi, alle pale d’altare, di cui Longhi proiettava i dettagli fotografati nello schermo dell’aula universitaria.
Vent'anni più tardi, nel 1962, quando preparava il suo quarto film, La rabbia (1963), dove si misurava per la prima volta con un progetto cinematografico anomalo, né film narrativo e neanche documentario, Pasolini volle accostare al montaggio di sequenze non girate da lui ma tratte da cinegiornali (la serie Mondo libero), anche ottanta fotografie, reperite in archivi diversi o tratte dai rotocalchi dell'epoca, cui si univano anche riproduzioni di quadri e, in minor misura, sequenze di altri film. La rabbia è un “poema filmico” basato su materiale composito, sottoposto ad una pratica di found-footage – rielaborazione di sequenze filmate e montate da altri, nella fattispecie i mediocri e reazionari notiziari d'informazione audiovisiva – per modificarne radicalmente il senso con un nuovo commento dalla duplice forma, alternativamente in poesia e in prosa.
In questo ordito visivo, le fotografie hanno una funzione importante. La loro immobilità segna sempre un mutamento ritmico rispetto al fluire delle immagini di repertorio, lo arresta, lo interrompe e al tempo stesso ne accentua un motivo, che può essere ulteriormente sottolineato quando di una stessa fotografia viene isolato e mostrato un dettaglio.
Spesso le fotografie sono ripetute più volte, diventando una sorta di leit-motiv: è il caso dell'immagine che mostra alcuni soldati mentre estraggono da una cassetta un teschio e altre ossa umane [Fig. 1].
Quell’immagine viene adottata da Pasolini in violenta contrapposizione alle sequenze relative alla ‘vanità’ fatua e superficiale della società dello spettacolo, esaltata dai media del dopoguerra: le apparizioni divistiche di Ava Gardner all'aeroporto di Ciampino e di Sophia Loren che in Polesine assiste allo sventramento dei capitoni (quasi un rituale primitivo e crudele) durante una pausa delle riprese del film La donna del fiume (1954) di Mario Soldati, vengono investite dalla luce funerea proiettata dalla fotografia di quelle ossa umane, che funge da memento mori.
Ma in realtà quasi tutte le ottanta fotografie inserite nel corpo del film evocano la morte o hanno una tonalità funebre. A cominciare dai casi più evidenti, già all'inizio del film: le fotografie dei cadaveri di uomini trucidati durante l’insurrezione in Ungheria dell'ottobre 1956 contro il comunismo. Il corpo di un uomo dagli occhi aperti, sotto un quadro che riproduce le fattezze di Lenin e una macchia di sangue sulla parete; seguono le fotografie di un corpo insanguinato appeso per i piedi (la macchina da presa si muove lungo il corpo, dall’alto al basso), di un altro impiccato e con il volto trasformato in una maschera di sangue. A queste immagini atroci Pasolini accosta quelle della folla che dà alle fiamme i ritratti di Stalin e che demolisce una statua del dittatore sovietico, mentre il commento in versi recita: “Le colpe di Stalin sono le nostre colpe”.
Pasolini inizia il film (più precisamente l'edizione ridotta del film, da cui ha dovuto tagliare i primi venti minuti su sollecitazione del produttore per lasciare il posto all’“orrenda” seconda parte di Giovannino Guareschi) affrontando subito un nodo drammatico per un artista e intellettuale marxista come lui: la feroce repressione sovietica in Ungheria, che provocò una crisi profonda in molti comunisti dell'epoca. A questo incipit – dove però si evita di nominare il principale responsabile delle repressioni, che non era più Stalin (deceduto nel 1953) ma Nikita S. Krusciov, segretario del PCUS dal 1953 al 1964 – corrisponde, con voluta, e problematica specularità, la sequenza finale con il trionfo del cosmonauta Gherman Titov in un'imponente parata in Piazza Rossa, alla presenza dello stesso Krusciov, nell'agosto del 1961, una sequenza interamente dominata dal movimento (dei veicoli che sfilano, dei soldati motociclisti, della folla festante), espressione di una retorica propagandistica che il testo del commento di Pasolini non riesce a trascendere e a rendere epica e sublime, come non riesce ad evitare che venga assimilato allo stesso trionfalismo fasullo dell'insieme.
L’unico elemento interessante di questa specularità, è il contrasto netto fra l'immobilità delle nove fotografie che scandiscono la prima sequenza e i movimenti euforici dei festeggiamenti nell'ultima, dove le uniche fotografie che campeggiano sono quelle di Titov, Gagarin e dei gloriosi padri del comunismo (Marx e Lenin), esposte fra le bandiere rosse. Delle due sequenze è indubbiamente quella iniziale, attraversata da un lacerante rimorso, da un'assunzione di colpa politica e storica di fronte ai crimini dello stalinismo e sotto il segno di una morte violenta e rubata, ad essere la più sincera, anche perché esprime un pessimismo che rientra nelle corde più autentiche del poeta.
Le immagini di morti, insepolti e abbandonati, ritorna ossessivamente in quelle parti del film dove Pasolini esalta l’affrancamento di alcuni paesi dopo una lotta lunga e dolorosa dal giogo di un regime coloniale o dittatoriale, come l’Algeria e Cuba. Si pensi alle fotografie dei cadaveri di uomini, donne e perfino giovanissime che giacciono riversi sulle strade di Cuba durante la guerra per la liberazione dell'isola. Sono immagini in un bianco e nero fortemente saturo e contrastato dove il cinema è spogliato di qualsiasi artificio, di ogni finzione: sono autentiche fotografie di cadaveri, di vite stroncate prematuramente e violentemente [Figg. 2, 3]
L’immobilità delle fotografie corrisponde quindi all’immobilità della morte, alla riduzione di corpi a oggetti inanimati. La rabbia è un film interamente dedicato a commentare il quadro sociale e politico in Italia e all'estero come si è configurato nel dopoguerra, fra gli anni ’50 e il boom economico, che rappresenta il trionfo del neocapitalismo, dell'industrializzazione di massa e quindi la fine di quel mondo contadino che, per Pasolini, era il mondo originario e autentico. Non è quindi un caso che la morte, declinata in forme diverse (compresa la rituale solennità del potere, per esempio le sequenze dei funerali di Pio XII, con il dettaglio non troppo occulto del cadavere gonfio del pontefice a causa di un'imbalsamazione sbagliata), sia uno dei motivi conduttori del film, che emerge anche quando il poeta esalta la liberazione di un popolo dall'oppressione coloniale.
Ne La rabbia Pasolini ha inserito anche immagini dove la morte è imminente: alcune fotografie mostrano infatti i ribelli algerini catturati dai soldati francesi e messi in fila e in piedi, o di spalle davanti a un muro, in attesa della fucilazione, che avviene fuori campo o in una fotografia inserita successivamente. Hanno i volti contratti, gravi, chiusi nella disperata dignità di chi attende nell'impotenza. Pasolini inserisce anche la cruda, provocatoria flagranza delle fotografie di partigiani algerini i cui corpi recano i segni delle torture dei parà, come la schiena ulcerata di un partigiano algerino, con le piaghe delle bruciature, mostrate anche in dettaglio [Fig. 4], e le fotografie dei volti e delle mani ustionate o scorticate dalle torture, fino ai cadaveri dei partigiani, uno dei quali viene mostrato completamente nudo, vittima anche di una degradazione fisica, con una pecetta bianca dell'autocensura a celare il dettaglio del sesso.
In un’immagine sgranata si vede un parà consumare al suolo lo stupro di una donna davanti agli altri algerini tenuti sotto la minaccia dei fucili. Pasolini insiste su questa immagine atroce, che sembra prefigurare gli orrori di Salò, mostrandola prima in dettaglio e poi in totale, sia pure soltanto per pochi secondi. È probabile che alla censura sia sfuggita proprio per la sua definizione approssimativa, altrimenti sarebbe intervenuta per interdire il film.
La sgranatura di alcune di queste fotografie, evidentemente catturate in condizioni di precarietà, ne evidenzia la realtà di documenti bruti, colti dal vivo e talvolta di nascosto, forse anche al di fuori dei canali ufficiali dell'informazione. Ad un primo livello, le fotografie vengono usate da Pasolini come documenti per denunciare le efferatezze commesse dai militari francesi e, per estensione, dal colonialismo che costituisce uno dei bersagli privilegiati dalla poesia civile del film. Ad un secondo livello, per riunire referti reali e concreti che rimandano sempre ad un unico massimo comune denominatore: la morte nei suoi termini di abuso, violenza, umiliazione.
Rispetto alle annotazioni del copione originale, Pasolini rinunciò nel montaggio definitivo all'inserimento della fotografia del cadavere di una donna internata nel campo di concentramento di Buchenwald che avrebbe dovuto chiudere una parte del film dedicata ai campi di sterminio, anch’essa eliminata dal montaggio definitivo (Pasolini [1963] 2001, 363).
Quella fotografia doveva introdurre la sequenza dedicata a Marilyn Monroe, la cui morte improvvisa, avvenuta nell’agosto 1962 (appena pochi mesi prima della sessione di montaggio cui lavorava il poeta-regista) assurge a simbolo tragico della fragilità della bellezza sfruttata e alienata dal mondo neocapitalistico. È la parte della Rabbia dove ricorre il maggior numero di fotografie, trentasette per la precisione, quindi quasi metà di quelle usate per l'intero film, forse a causa dell'impossibilità di avere a disposizione sequenze filmate. Ma, al di là delle ragioni pratiche, quello che conta è il valore espressivo di questa sequenza, interamente dominata dall'immobilità fotografica, un'immobilità dove tutto è ormai passato, cristallizzato, concluso, defunto: il contrasto fra la bellezza e la giovinezza luminosa della donna ritratta in età diverse e l'immobilità funerea delle fotografie è cupamente stridente. La sequenza dedicata a Marilyn è il canto funebre di una diva, ossia una dea famosa in tutto il mondo e paradossalmente sola e infelice, bruciata dal suo stesso successo mondano e dal processo che l'ha condotta a diventare un prodotto. Un processo vissuto con enormi sofferenze, fino a sfociare nell'autodistruzione.
Pasolini sembra interrogare le immagini, enucleate da rotocalchi, di Marilyn bambina, quando ancora era libera dalla catena industriale di sfruttamento che l'avrebbe messa in vendita. Ritorna più volte proprio uno dei primi piani dove il volto della diva è reso perfetto e levigato dal make-up e il suo sorriso, che dovrebbe essere luminoso e felice, diviene invece un'immagine funebre, una maschera artificiale.
Pasolini aveva previsto di concludere la sequenza con due fotografie: una di Marilyn sul letto di morte (forse il primo piano pubblicato con sciacallaggio giornalistico dalla rivista “Life” immediatamente dopo la tragedia) e infine con un’altra di lei bambina che sceglierà di inserire alla fine, forse già anticipando, in un certo senso, le parole che concludono Edipo re, “la vita finisce dove comincia”.
Pasolini mostrerà nuovamente un personaggio famoso, circondato da un alone mitico e deceduto tragicamente, nell’episodio di Amore e rabbia, La sequenza del fiore di carta (1968), Che Guevara. Stavolta adotterà proprio una fotografia del suo cadavere, una di quelle scattate quando l’esercito boliviano lo esibì come un trofeo di caccia dopo averlo assassinato, ma la userà in sovrimpressione, evidenziandone proprio l’aspetto fantasmatico. La fotografia del Che, un eroe morto per coerenza con i propri ideali e utopie, rende inconciliabile il contrasto rispetto all’inconsapevolezza e all’ignavia del Riccetto (Ninetto Davoli), un ragazzo che percorre le strade centrali di Roma, trascinato dalla sua stessa vitalità, espressione di un’innocenza che diviene paradossalmente colpevole di indifferenza nei confronti dei drammi della cronaca e della storia, che egli non soltanto non conosce ma che non vuole neanche conoscere. Per questo Dio punirà il Riccetto facendolo morire come un ragazzo vietnamita la cui immagine appare subito prima di quella del suo cadavere riverso sul marciapiede.
L’ultima fotografia che appariva nella Rabbia era una piccola immagine stretta fra le mani di una donna, probabilmente rimasta vedova di uno dei minatori periti nella tragedia delle “morti bianche” di Morgnano del 1955 [Fig. 8]. In questo caso, non vediamo i dettagli del volto del morto ma soltanto la piccola superficie di carta su cui la donna piange disperatamente.
La fotografia che invece stringe fra le mani Assurdina Caì in La terra vista dalla luna (1966), episodio di Le streghe, poco dopo che ha sposato Ciancicato Miao e lo ha seguito nella miserabile e caotica baracca dove egli vive in una borgata alla periferia di Roma, è una citazione: un’immagine di Charles Chaplin, truccato da Charlot, che riemerge da un’enorme confusione dove si mescolano gli oggetti più disparati (addirittura un ordigno che Assurdina getta all’esterno, dove esplode) [Figg. 9, 10].
Da notare che nel film ricorre per due volte la stessa situazione di Ciancicato e del figlio Basciù affranti davanti alla tomba della donna di casa (la prima moglie di Ciancicato e, appunto, Assurdina) e in entrambi i casi non appare nessuna fotografia mortuaria ma una scultura (che ha una fisionomia da personaggio di fumetto) a raffigurare le fattezze della defunta. In La terra vista dalla luna i personaggi sono calati in una miseria tale che non esiste differenza apprezzabile fra essere morti e essere vivi: le due condizioni sono pressoché equivalenti e infatti i morti ritornano con leggiadra disinvoltura dall’aldilà.
Ritorna Assurdina, identica a come era da viva, e ritorna anche l’immagine di Chaplin, in questo caso come una sorta di nume tutelare, di ombra benefica che ispira l’intero, breve film, uno spettro (pur essendo il regista-attore ancora vivo all’epoca delle riprese), adombrato proprio nell’immagine della baracca dove vive la strana famiglia, in un curioso cortocircuito figurativo e narrativo con le tavole del “Corriere dei Piccoli” anch'esse ispiratrici del film. In questo caso, la tonalità funebre viene alleviata da una leggerezza fiabesca (il film è appunto una fiaba) e dalla vivacità cromatica della fotografia di Giuseppe Rotunno.
Ancora funebre, ma con una diversa, profonda risonanza, è il valore delle fotografie in Teorema (1968), valore struggente perché si tratta delle immagini scattate dalla giovane Odetta, ragazza incapace di emanciparsi dalla famiglia cui è morbosamente legata, finché non incontra l'ospite, il dio visitatore che la inizia alla carnalità e al sesso e al tempo stesso, rivelandola a se stessa, ne mina la fragilità esistenziale. Odetta ritrae più volte l’ospite intento alla lettura di un libro con le poesie di Rimbaud, come un gioco innocente e ripetuto. Ma il gioco di fotografarlo, alla fine, si rivelerà pericoloso e anzi letale quando il visitatore se ne sarà andato e la ragazza scoprirà la vertigine paurosa dell’assenza dell’essere amato.
Il momento della seduzione della ragazza da parte dell’ospite si verifica nella stanza dove lei gli mostra un oggetto cui è intimamente legata: l’album con le fotografie di famiglia.
Odetta sembra infatti incapace di vivere nel presente come appare incapace di “vedere” senza ricorrere al dispositivo della macchina fotografica (questo elemento è più sottolineato nel romanzo che non nel film). Il suo attaccamento alle fotografie di famiglia, espressione del suo ‘culto familiare’ – cui esplicitamente Pasolini attribuisce una valenza culturale e ideologica: “culto conservatore (tante volte, nei secoli, affidato alle vergini)” (Pasolini [1963] 1999, 974) – cela un ossessivo legame con il passato, cristallizzato nel bianco e nero di quelle immagini che pure ritraggono persone vive e presenti accanto a lei e quindi sottintende l'impossibilità di vivere pienamente il presente.
È interessante osservare che nel romanzo Teorema l’album, che ha una “copertina di velluto, pieno di ghirigori liberty rosa e rossi”, assenti nel film, mentre, ancora a differenza del film, “è tutto vuoto”, “solo la prima pagina è inaugurata da una grande fotografia: la fotografia del padre”. Invece nel film l’album è scuro, viene conservato dalla ragazza in una cassapanca di legno della sua camera ed è pieno di fotografie in bianco e nero. Nel passaggio dalle pagine alle immagini, l’iconografia del passato di Odetta si è arricchita di reperti, così da rendere ancora più eclatante la loro perdita di valore, una volta che è stata sedotta dall’ospite.
Teorema, del resto, è costellato di oggetti, feticci che hanno un valore sacrale (il libro dedicato alla pittura di Bacon, la tela dove il fratello di Odetta cosparge a caso i colori, gli indumenti usati dallo studente con cui la madre ha un amplesso occasionale, gli abiti dello stesso padre, l’industriale Paolo) ma il feticcio più struggente sono proprio le fotografie dell’ospite, che finiscono per subentrare, rendendole irrilevanti, a quelle dei membri della famiglia, in una sostituzione che corrisponde evidentemente all’imporsi di quel sentimento amoroso ed esclusivo per lo sconosciuto rispetto ai “vecchi” affetti per i congiunti.
Quando si chiude da sola nella sua stanza dopo l’abbandono dell’ospite, Odetta compie un gesto che ricorda quello di Assurdina nella Terra vista dalla luna: toglie con fretta ansiosa gli oggetti di ogni genere che, nella cassapanca, si sono disordinatamente affastellati sopra l’album fotografico. Poi stringe una piccola chitarra e ne tocca lentamente le corde, emettendo qualche debole nota. Finalmente apre l’album ma non quello di famiglia, bensì soltanto il più recente, che contiene le fotografie che ha scattato all’ospite, incollate accanto a quelle del padre, che lei ignora, per soffermarsi, invece, sulle immagini del giovane. Con le dita accarezza l’immagine del volto, del torace, le gambe e il grembo immortalati dalla fotografia, come se cercasse un palliativo all’assenza del dio (e del suo corpo) che la sta consumando dall’interno. Ma appunto la carezza compiuta e ripetuta sull'ombra fotografica stampata su carta ha soltanto l’effetto di farle avvertire lo straziante vuoto provocato dall’assenza di lui e quindi la conduce ad ammalarsi, a cadere in una catatonia che non è altro se non una forma di morte in vita: Odetta diviene una morta vivente, murata nell’immobilità contratta del suo corpo.
L’ultima fotografia nel cinema di Pasolini è, in modo non dissimile da Teorema, il relitto di un’esistenza perduta per sempre: nell’infernale collegio di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), uno dei giovani prigionieri, Claudio, in ansia per la propria sorte, ferma il vescovo, impegnato nella sua ronda di sorveglianza notturna, per barattare un’informazione in cambio della propria salvezza: “Io so una cosa che nessuno di voi sa: qualcuno nella villa tradisce i vostri regolamenti. Graziella tiene una fotografia sotto il cuscino”.
Il vescovo ordina alla ragazza di dargli la fotografia e da quel momento inizia una sordida catena di denunce e delazioni che conduce alla scoperta dell’amore di uno dei miliziani con una domestica (il giovane ha un gesto di rivolta contro gli aguzzini che stanno per ucciderlo e mostra loro il pugno chiuso del comunismo ma l’effetto sorpresa li arresta soltanto per pochi istanti prima di sopprimerlo). La fotografia di Graziella raffigura un ragazzo su una bicicletta, la tipica immagine che una fidanzata conserva nel portafoglio ed è l'unico squarcio dell'esterno, della libertà perduta, del mondo di fuori, nell'orrore di mortificazioni, abusi, sevizie e uccisioni di Salò. Pasolini mostra la sorpresa del vescovo e il suo immediato accanimento nel pretendere la consegna della fotografia dalla ragazza. Tutte le nefandezze compiute dai quattro signori nel film, sulla falsariga del romanzo di Sade, sono compiute in nome del regolamento ed è la trasgressione al suo codice che dovrebbe giustificare la spietata severità dell'intervento del vescovo. Ma al di là della logica della fabula, il senso della sequenza allude alla volontà del potere incarnato dai quattro signori, di sradicare dalle loro vittime ogni affettività, ogni sentimento, ogni umanità.
Una fotografia nascosta, come scampolo visivo di un sentimento amoroso nascosto agli occhi degli altri, è un misero spazio intimo, sentimentale, che nell'inferno di Salò (a differenza perfino dei lager nazisti) non è più consentito. Quell'immagine che la macchina da presa rivela per pochi istanti è un frammento del passato della ragazza e anche quello viene requisito:
è l'unico elemento visibile nel film proveniente dall'esterno e riconducibile ad una vita precedente l'ingresso nel palazzo, è la disperata sopravvivenza di una tenera affettività che si situa in un tempo altro, sospeso, ma solo per un istante. Ancora una volta, dopo Calderón, una fotografia penetra all'interno di un universo concentrazionario, ma a differenza del dramma, dove quell'elemento metatestuale restava sospeso tra i sorrisi dei prigionieri pronti ad accogliere la rivoluzione operaia e la coscienza di un'illusione, l'immagine di Salò, agevolando l'irruzione di una spensierata anteriorità, funge da motore dell'azione come nel caso di Teorema e innesca una catena di delazioni” (Pontillo 2015, 138).
Pasolini, nel momento in cui mostra la violenza dell'abuso, contemporaneamente rivela anche il suo potere contagioso di corruzione perché la ragazza subito denuncia un'altra vittima come lei. In quel momento, anche la vittima si fa carnefice e il ciclo della corruzione è compiuto: l'unica gioventù che sopravvive, nel finale di Salò, è composta da complici e conniventi.
Riferimenti bibliografici
- Pasolini [1968] 1998
P. P. Pasolini, Teorema, Milano 1968, poi in Romanzi e racconti, II, 1962-1975, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano 1998, 895-1067. - Pasolini [1974] 1999
P. P. Pasolini, Illusioni storiche e realtà nell'opera di Longhi, “Tempo”, 18 gennaio 1974, poi col titolo Roberto Longhi, “Da Cimabue a Morandi”, in Id. Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, e ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, 2 voll., a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, Milano 1999, 1977-1982. - Pasolini [1970] 2001
P. P. Pasolini, L'evoluzione della mia poetica fotografica, “Progresso fotografico”, settembre 1970, poi in Id., Per il cinema, 2 voll., a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano 2001, II, 2790-2794. - Pontillo 2015
C. Pontillo, Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia, Lentini 2015.
English abstract
In Pasolini's cinema, from La rabbia (1963) to Salò (1975), photographs marks a halt in the flow of images, which is interrupted, transformed and dilated by the stillness of the images. Stillness always has a funeral tone: the photographs' still time refers to the loss of life and to the past as a dimension forever lost. In La rabbia, the sequence dedicated to Marilyn Monroe is entirely composed of photographs of the actress from childhood to adulthood, which, deciphered by Pasolini's lyrical commentary, tell a tragedy of alienation and loneliness. In Salò a photograph, hidden by one of the victims, became an indication of a now generalized corruption.
keywords | Pasolini; photography; cinema; La rabbia; Salò.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Roberto Chiesi, Le ombre immobili. La fotografia nel cinema di Pasolini, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 161-173. | PDF dell’articolo