Tra il 1968 e il 1969, Pasolini lavora ad Appunti per un’Orestiade africana (1970), una delle sue opere cinematografiche più ambizione e insieme problematiche. Tramite la formula del “film da farsi”, Pasolini propone un inedito parallelo tra l’Africa moderna, alle prese con il processo di decolonizzazione, e la trilogia di Eschilo, che aveva tradotto in italiano nel 1960, su commissione di Vittorio Gassman, per il Teatro greco di Siracusa. La formula degli appunti cinematografici è uno dei modi in cui il tardo Pasolini manifesta l’importanza della presenza autoriale nella sua opera. Lo fa attraverso l’esposizione o la messa in scena di un fallimento creativo, reale o fittizio, che corrisponde al rifiuto o all’impossibilità di completare l’opera originariamente progettata. È anche il caso di Appunti per un film sull’India (1967-68). Nonostante entrambi i film siano indicati come “appunti” o “film da farsi”, quelli di Pasolini non sono solo film potenziali, ma anche verifiche del potenziale concettuale e creativo del loro autore.
Come il pittore che interpreta nel Decameron (non a caso autore di un trittico affrescato ancora incompiuto alla fine del film), Pasolini si chiede per quale ragione si dovrebbe realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto. La messa in scena del momento pre-filmico (il sopralluogo, il casting ecc.) è in un certo senso il sogno di un’opera cinematografica, la condivisione di una dimensione interiore in cui Pasolini espone completamente il suo processo creativo, permettendo al pubblico di assistere a quello che in Petrolio, romanzo programmaticamente incompiuto, viene chiamato “il teatro della mia testa” (Pasolini [1998] 2005, 442). L’opera cinematografica nata da questo sogno non è un prodotto finito e, in quanto tale, inconsumabile dal mercato. È invece un “processo formale vivente”, secondo la nota formula impiegata a proposito di La Divina Mimesis (Pasolini 1975, 57). È insomma, quella incompiuta, un’opera doppiamente legata al suo autore, non solo perché egli ne fa prepotentemente parte, ma anche perché solo la sua morte cancella ogni possibilità di compimento futuro.
Sovrimpressioni
In Appunti per un’Orestiade africana Pasolini si domanda se la società tribale africana possa avere qualcosa in comune con la civiltà della Grecia arcaica e se la scoperta che fa Oreste della democrazia, portandola nel suo paese (Argo nella tragedia e l’Africa nel film) possa corrispondere alla scoperta della democrazia del continente africano negli anni della decolonizzazione. Sebbene si debba riconoscere a Pasolini di essere stato uno dei primi intellettuali italiani ad impegnarsi nel dibattito sul neocolonialismo, la condizione postcoloniale e il diritto all’autodeterminazione dei paesi africani, il suo approccio a queste questioni, modellato sull’universalismo antropologico di Jean-Paul Sartre, non è privo di contraddizioni problematiche (Gragnolati 2012; Ricciardi 2000; Vighi 2002).
Al principio di Appunti per un’Orestiade africana, subito dopo i titoli di testa, che scorrono sull’immagine fissa del volume della traduzione pasoliniana di Eschilo vicino a una mappa dell’Africa, lo spettatore non si trova di fronte al parallelo annunciato da quell’immagine così didascalica, che sembra già suggerire un’insuperabile antinomia tra la cultura razionale (il logos greco) e la natura irrazionale del continente. Ciò che vediamo è invece una sovrimpressione, quella del riflesso sfuocato di un volto maschile sulla vetrina di un negozio. Per tre secondi ci troviamo davanti a una figura spettrale che non conosciamo [Fig. 1]. Quando, finalmente, una voce inizia a parlare, la colleghiamo immediatamente all’autore e al riflesso sul vetro, in un vero e proprio rispecchiamento acustico, analogo alla sutura prodotta visivamente da campo e controcampo: “Mi sto specchiando con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana” (Pasolini 2001b, 1178). Come la vetrina anche la voce dell’autore funge da specchio, che permette di vedere al contempo ciò che sta davanti alla macchina da presa e ciò che le sta dietro. Il film non è dunque un documentario; Pasolini non è un osservatore passivo, come sostiene Alessia Ricciardi (Ricciardi 2000). Piuttosto, Appunti per un’Orestiade africana è un film-saggio in prima persona, un diario cinematografico in cui l’autore manifesta la sua presenza attraverso una performance vera e propria.
Donatella Maraschin, che al genere del film-saggio ha dedicato un volume importante, sostiene che è l’immagine del regista sullo schermo a suggerire che è un soggetto autoriale quello che agisce all’interno del film (Maraschin 2014, 256). Eppure, non è il riflesso spettrale, di per sé indecifrabile, a dirci che l’autore è Pasolini, ma la sua voce, che, come ha scritto Luca Caminati, dichiara la “partecipazione diretta e autoriflessiva dell’autore” nel film (Caminati 2007, 69). Occorre però notare che la voce di Pasolini non proviene direttamente dal corpo che vediamo sullo schermo. Come il suo volto sfuocato si sovrappone alla vetrina del negozio africano, anche la sua voce è sovrapposta al riflesso del volto. Le labbra del regista, infatti, non si muovono. Quella che sentiamo è una voce extracorporea, non meno spettrale del riflesso. Proprio questa separazione tra sguardo e voce corrisponde alla doppia posizione dell’autore, che osserva e commenta dall’interno e dall’esterno il film.
La presenza della voce dell’autore serve anche a problematizzare il genere a cui l’opera appartiene: “Sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film” (Pasolini 2001b, 1177). L’incapacità di definire cosa l’autore stia girando da un lato colloca l’opera in una zona liminare, dall’altro pare una manifestazione strategica dell’idea di autore come “protesta vivente”; un autore che produce inevitabilmente un senso di ostilità da parte del suo pubblico (Pasolini 1999a, 1600-10). Anche l’impulso esibizionistico che lo porta a specchiarsi nella vetrina serve infatti a minare le convezioni cinematografiche e a frustrare le aspettative del pubblico. È solo da questa prospettiva che è possibile comprendere lo “stile senza stile” che, proprio secondo la voce dell’autore, caratterizza Appunti per un’Orestiade africana. Proprio questo stile negativo ridefinisce il valore dell’incapacità o del fallimento autoriale e ne fa una forma di resistenza strategica al sistema omologante della cultura di massa.
Attraverso il suo riflesso iniziale Pasolini dichiara la sua poetica di esposizione performativa, che sovrappone Africa e autore nello spazio spettrale del limite. La visione dell’Africa contemporanea che emerge da questo film da farsi non è dunque impersonale e non ha alcuna pretesa di oggettività. Al contrario, essa riflette – letteralmente – l’autore e la sua poetica, i suoi interessi, la sua ideologia e le sue idee. Tutta l’opera di Pasolini non è altro che una struttura poliedrica in cui tutto viene sdoppiato e moltiplicato in un gioco di specchi e superfici riflettenti, già presente nella sua poesia degli esordi tramite il riflesso del soggetto nell’acqua della fonte (“Fontana di aga dal me paìs”, Pasolini 2003, 9) in cui il poeta-Narciso si osserva osservando il mondo. Visualizzando la presenza dell’autore all’interno dell’opera tramite il suo riflesso, uno stratagemma già suggerito anche in Calderón sul modello figurativo di Velázquez (“Forse, anch’egli riflesso / qui dentro, c’è con me l’autore”, Pasolini 2001, 718), Pasolini pone nuovamente il problema della divisione e moltiplicazione dell’identità autoriale: un’identità sdoppiata tra medium e performance. Tuttavia, in Calderón l’autore si rivolge al pubblico solo attraverso la voce fuori campo dello ‘Speaker’. In Appunti per un’Orestiade africana è la vera voce dell’autore, con la sua barthesiana ‘grana’ a rivolgersi direttamente al pubblico.
Se ci rivolgiamo alle categorie con cui Kaja Silverman ha discusso la presenza della voce nel cinema, la presenza vocale di Pasolini sembra scardinare l’idea classica della voce fuori campo, una voce incorporea che “speaks from a position of superior knowledge, and [...] superimposes itself onto the diegesis” (“parla da una posizione di conoscenza superiore e [...] si sovrappone alla diegesi”, Silverman 1988, 57). Per Silverman, questo tipo di voce rappresenta la posizione del soggetto maschile nel cinema classico, che vede senza essere visto e parla da un punto di vista privilegiato e inaccessibile. La componente metalinguistica di questa voce è a volte enfatizzata da elementi che riconducono direttamente al regista del film, come nel caso di Orson Welles in L’orgoglio degli Ambersons (1942), in cui la voce del narratore esterno e la figura autoriale si fondono tramite una sorta di firma verbale alla fine del film. Solo al termine dei titoli di coda, infatti, si scopre che il narratore anonimo che ci ha accompagnato fino a quel momento altri non è che il regista stesso: “Ho scritto e diretto questo film; il mio nome è Orson Welles”.
Anche in Appunti per un’Orestiade africana la voce di Pasolini presenta il regista del film, ciononostante non si tratta di una voce senza corpo. Pasolini offre infatti il suo volto alla cinepresa e dunque allo spettatore. La voce dell’autore proviene in qualche modo dal centro del film, non da uno spazio-tempo differente. Quella di Pasolini è dunque una voce fuori campo anomala che designa non solo un’interiorità psicologica ma anche diegetica (Silverman 1988, 62). Questa voce autoriale è ciò che funge da punto di sutura tra le contraddizioni radicali al centro del film. Tra di esse, c’è anche l’incongruenza tra la voce e il corpo dell’Africa. A coloro che dovrebbero essere i veri protagonisti del film, i popoli dell’Africa, non viene di fatto chiesto nulla sulla democrazia o sul mondo occidentale: sono solo corpi, volti e profili, incarnazioni di personaggi del teatro greco, totalmente privi di una voce individuale o collettiva. È dunque difficile individuare nel popolo “il grande protagonista” del film, come invece afferma Pasolini. Le donne e gli uomini dell’Uganda e della Tanzania sono muti, soggetti subalterni estetizzati e senza parola. Nonostante le intenzioni anticoloniali del film, la voce che sentiamo è infatti quella di un autore maschio, bianco, occidentale, che rappresenta un paese dal vergognoso passato coloniale. È lui che parla dell’Africa e per l’Africa. Secondo Keith Richards proprio questo aspetto è uno dei maggiori limiti dell’anticolonialismo pasoliniano: un paternalismo occidentale che si sovrappone alla voce legittima del soggetto coloniale (Richards 2006).
È con questo in mente che dobbiamo considerare le due sequenze che rappresentano l’unico tentativo pasoliniano di dare direttamente voce all’Africa. Mi riferisco ai due momenti in cui Pasolini intervista un gruppo di studenti africani dell’Università di Roma dopo aver mostrato loro parte del girato. Questi studenti, che sono tutti giovani maschi poliglotti di ceto medio, non rappresentano la maggioranza della popolazione africana. La loro è la voce di giovani intellettuali cosmopoliti, e il loro scambio con Pasolini funziona come il tipo di dibattito tra pubblico e autore descritto in Manifesto per un nuovo teatro. In altre parole, è un dibattito tra intellettuali posti dinnanzi a un’opera dal senso tanto ambiguo da mettere in discussione le loro convinzioni. Infatti, proprio quando gli studenti mostrano resistenza verso l’opportunità dell’analogia pasoliniana tra Africa e tragedia greca, il regista li incalza e mette in dubbio le loro nozioni di tribalismo e identità nazionale. Manuele Gragnolati ha certamente ragione a sostenere che nell’includere la prospettiva degli studenti africani Pasolini problematizza il suo progetto e presenta l’immagine non dialettica di due mondi differenti (Gragnolati 2012, 130). Allo stesso tempo, però, come nota Maurizio Viano, mostrare il dibattito serve anche a proteggere Pasolini dall’accusa di etnocentrismo e colonialismo culturale (Viano 1992, 253). Non è però la presenza fisica di Pasolini regista a produrre questo effetto, poiché nelle sequenze del dibattito non lo si vede che di schiena. È piuttosto il tono della sua voce, scettico, polemico, paternalistico e perplesso a rappresentarlo nel dibattito: è la sua performance vocale che espone l’autore al giudizio dello spettatore, senza nascondere le contraddizioni che non presentano possibilità di sintesi.
Appunti per un’Orestiade africana mette insomma in evidenza un aspetto non secondario della performance autoriale pasoliniana, quello della voce, che non è stata, finora, oggetto di studio sistematico. In maniera particolarmente significativa anche Giacomo Manzoli, nel suo volume dedicato proprio alla voce e al silenzio nel cinema di Pasolini, non affronta questa questione direttamente (Manzoli 2001). Pasolini, tuttavia, era pienamente consapevole dell’importanza di questa componente del suo lavoro: “il cinema non è pura immagine, è una tecnica audiovisiva in cui parola e suono hanno la stessa importanza dell’immagine” (Pasolini 1999c, 1384). Ma cosa succede quando il suono in questione è la voce dell’autore? Nelle sue incursioni cinematografiche, la voce di Pasolini assume funzioni differenti. È la sua voce reale quando si presenta come autore, come nei documentari e negli esperimenti ibridi come l’Orestiade. È la voce di un doppiatore quando Pasolini interpreta il ruolo di un personaggio diegetico, come nel caso del pittore allievo di Giotto o Chaucer nella Trilogia della vita. Ma qual è la differenza concettuale tra queste due voci? È possibile che anche il doppiaggio rappresenti una forma di performance autoriale? E cosa succede quando la voce dell’autore, improvvisamente, lascia spazio al silenzio?
La doppia voce di Edipo
Spesso usato da Pasolini con effetti antinaturalistici di particolare straniamento, il doppiaggio, lungi dall’essere un elemento estetico casuale, è riconducibile a precise pratiche di controllo autoriale e costituisce una parte fondamentale del processo creativo pasoliniano, nel quale la voce viene trattata esattamente come fosse un’immagine: “mi piace elaborare una voce, combinarla con tutti gli altri elementi di una fisiognomia, di un comportamento […]. Amalgamare” (Pasolini 1999c, 1513). In pratica, anche col doppiaggio, Pasolini si rifà alla nozione di “magma stilistico” propria del suo cinema di poesia (Pasolini 1999b, 2899) e, scegliendo anche per sé una voce differente, dichiara la natura volutamente composita dei personaggi-autori che ha interpretato sullo schermo.
Un esempio del valore performativo del doppiaggio pasoliniano si trova in Edipo Re (1967), il film in cui Pasolini interpreta – per la prima volta nella sua opera cinematografica – un personaggio di finzione. Il ruolo scelto, che a prima vista sembrerebbe non aver nulla a che vedere con la posizione autoriale, è quello del gran sacerdote. Per via della peste che affligge Corinto questo personaggio si rivolge a Edipo a nome della comunità per chiedergli di trovare un rimedio, non sapendo che proprio la sua presenza è la causa di tale sciagura: “Edipo, nostro Re, tutti noi ti scongiuriamo in ginocchio: trovaci un rimedio, non importa quale, sia che te lo suggerisca un dio o un uomo come noi” (Pasolini 2001a, 1014). A pronunciare questo monologo, il più lungo di tutto il film, è una voce dal chiaro accento meridionale e non quella di Pasolini, che appare lungamente in primo piano sullo schermo, con indosso uno splendido copricapo di conchiglie. La separazione tra la dimensione vocale e quella corporea è sottolineata dal movimento della macchina da presa, che abbandona il volto del personaggio che parla per salire, senza apparente motivazione, verso l’alto. Proprio questo movimento di camera serve a isolare la voce dal corpo del sacerdote, creando un effetto che rimanda alla voce di un narratore esterno e dunque alla presenza dell’autore.
In un’intervista del 1967, pubblicata su “Cahiers du Cinéma”, Pasolini spiega di aver scelto d’interpretare il ruolo del sacerdote per due ragioni: “la prima perché, sul momento, non ho trovato nessuno adatto. La seconda, perché questa frase è la prima del testo di Sofocle (così comincia la tragedia), e mi piaceva introdurre io stesso, in qualità di autore, Sofocle all’interno del mio film” (Pasolini 2001b, 2929). Da quanto Pasolini sostiene emergono con evidenza due elementi: da un lato la sua volontà di essere associato, in qualità di autore del film, alle prime parole del testo (così come nell’Orestiade africana sono le sue parole, non quelle di Eschilo, a introdurre il film); dall’altro emerge la consapevolezza del valore aggiunto che la sua presenza sullo schermo comporta nella nostra fruizione e interpretazione di quella scena. Già in Edipo re, dunque, Pasolini gioca con la sovrapposizione tra sé, il personaggio interpretato e l’autore dell’opera che sta riadattando come avverrà, successivamente, nel Decameron e nei racconti di Canterbury.
L’efficacia della sua operazione è confermata dal fatto che nel film del regista marocchino Daoud Oulad-Syad, Fi ntidhar Pasolini (Aspettanto Pasolini), che prende spunto proprio dall’Edipo re, il ruolo del sacerdote è stato letto nei termini di una performance autoriale pasoliniana e non come la semplice interpretazione di un ruolo da parte del regista italiano. Il film di Oulad-Syad, vincitore nel 2007 del premio come migliore film in arabo al Cairo International Film Festival, è un esempio del “realismo sociale” che, secondo Valerie K. Orlando, caratterizzare la scena del cinema marocchino contemporaneo (Orlando 2009; 2011). Il film – tra finzione e documentario – si svolge a Ouarzazate, a Sud del Marocco, un villaggio che, a partire dagli anni ’60, aveva attirato l’industria del cinema occidentale per il suo paesaggio adatto a film in costume, soprattutto colossal biblici, e la manodopera a basso costo. Proprio ad Ouarzazate, nel 1966, Pasolini aveva girato alcuni episodi del suo Edipo Re, impiegando i volti nordafricani e i colori bruciati del deserto per ricreare la sua Grecia antica immaginaria e barbarica (Annovi 2010).
Aspettando Pasolini inizia quando Thami, un uomo ormai anziano, apprende che dopo anni sta per tornare al villaggio una troupe di italiani, per girare un film importante. Da ragazzino, Thami era stato l’assistente personale di Pasolini durante le riprese dell’Edipo re e per questo crede, e fa credere agli altri abitanti, che proprio il regista italiano stia per tornare da loro. Quando un amico lo informa che Pasolini è stato ucciso trent’anni prima, Thami non riesce a farsene una ragione e soprattutto non sa come dare la notizia al villaggio, dove tutti ormai attendono l’arrivo del regista. Alla fine decide di mentire perché’, confessa, vuole che gli abitanti del villaggio “credano in qualcosa”. Questo inganno permette a Oulad-Syad di mettere in moto un complesso meccanismo performativo, che trasforma l’impossibile arrivo di Pasolini nella metafora di un Terzo Mondo inerte, che attende passivamente che sia l’Occidente a fornirgli supporto e speranza. Che si tratti di una metafora tragica e paradossale ce lo dice il titolo del film, con il suo riferimento all’attesa impossibile di Aspettando Godot di Beckett.
Puntualmente, quando la troupe italiana sospende improvvisamente i casting e annulla la produzione, la disperazione – esattamente come la peste nella storia di Edipo – piomba sul villaggio. È a questo punto che il film si concentra proprio sulla scena di Edipo Re in cui Pasolini interpreta il sacerdote [Fig. 2]. La scena compare ben tre volte, tanto da assumere un ruolo centrale nell’arco narrativo e concettuale del film. La prima occasione è quando Thami sfoglia un album che contiene alcune fotografie risalenti al set pasoliniano del 1966. Quando si sofferma sull’immagine di Pasolini con il copricapo sacerdotale, Aoulad-Syad sovrappone all’immagine il monologo tratto dalla colonna sonora originale del film, che come sappiamo è il frutto di un lavoro di doppiaggio. Per Thami, tuttavia, ciò che sentiamo non è la voce di un doppiatore, ma quella di Pasolini, la performance vocale dell’autore del film, con il quale inizia a parlare esprimendo la sua disperazione e chiedendogli aiuto, come fa il sacerdote con Edipo. La seconda volta, Thami si trova con alcuni amici nel negozio del barbiere e insieme guardano la scena del monologo del sacerdote su un piccolo televisore. La loro attenzione è concentrata nell’individuare le persone che conoscono tra le comparse. Uno di loro si mette a piangere nel momento in cui riconosce il padre ormai morto, mentre un altro vi ritrova l’amata di un tempo. Proprio come Thami non distingue Pasolini dal sacerdote che interpreta, anche gli altri non vedono sullo schermo gli abitanti dell’antica Tebe, ma i membri della loro comunità.
La terza ed ultima volta in cui Aoulad-Syad evoca la scena è dopo che la verità sulla morte di Pasolini viene rivelata a tutti. È a questo punto che Thami decide di vestire i panni del personaggio del gran sacerdote, ossia di prendere il posto lasciato vuoto da Pasolini, e di affrontare i dirigenti della casa di produzione a nome degli abitanti del villaggio [Fig. 3].Trasponendo la finzione cinematografica nella vita reale, Thami imita la performance di Pasolini e, come il sacerdote, si rivolge ai membri della casa di produzione italiana che come Edipo hanno portato una catastrofe nel loro villaggio. Con in testa lo stesso copricapo indossato da Pasolini, Thami reinterpreta la scena che, a questo punto, gli spettatori hanno già visto due volte: prima attraverso la sola voce e poi in video. Seguito dagli abitanti di Ouarzazate, Thami cammina solennemente verso i dirigenti della casa di produzione che, come l’Edipo-Citti, si trovano sulle scale del finto palazzo della Tebe di cartapesta. In uno stentato italiano pronuncia allora una versione leggermente modificata del monologo originale, diventando, per utilizzare le parole di Frantz Fanon, un intellettuale colonizzato che sente il bisogno “di comporre la frase che esprime il popolo, di diventare il portavoce di una nuova realtà in atto” (Fanon [1961] (1962), 185).
Aoulad-Syad mostra dunque quanto sia difficile per il soggetto postcoloniale superare il complesso edipico nella sua relazione con la cultura occidentale. E al contempo fornisce una precisa lettura della scena originale, rivelando così la presenza e la funzione della voce autoriale di Pasolini nell’Edipo re. L’interpretazione di Aoulad-Syad suggerisce che, nonostante il doppiaggio, Pasolini abbia stabilito un legame tra la sua figura di autore e quella del sacerdote, rappresentando l’impotenza dell’intellettuale organico, inteso come rappresentate e guida morale della comunità. Se Pasolini ha dato voce a Sofocle, l’autore della tragedia, Thami rivela attraverso le parole del sacerdote che la persona che parla in Edipo re è invece Pasolini, l’autore del film. Il remake di questa scena mostra dunque che per Aoulad-Syad Pasolini attore e Pasolini regista, a dispetto del doppiaggio, non possono essere distinti.
Il doppiaggio, insomma, anche quando impiegato contro la propria vera voce è un modo di parlare a favore di una poetica in cui l’identità dell’autore, la sua storia, occupa un ruolo centrale. Non si deve infatti dimenticare che Edipo Re è anche “una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata” di Pasolini, un film dove l’autore mostra letteralmente la propria nascita e la propria infanzia, narrata sin dalle prime inquadrature di Tebe, che non è una ricreata cittadina ellenica, ma una trasposizione della friulana Sacile degli anni venti, il suo paese natale (Pasolini 1999c, 1362). Che in questo film il doppiaggio sia parte integrante del realismo poetico pasoliniano e che venga dunque impiegato con la medesima funzione artistica con cui sono usati i “grandangolari deformanti” (Pasolini 1999c, 1376) lo dimostra poi il fatto che anche il personaggio del messaggero interpretato da Ninetto Davoli, dapprima doppiato nelle scene che si svolgono a Corinto, riacquista la propria vera voce, dal riconoscibilissimo accento di borgataro romano, nell’ultima parte del film, ambientata tra Bologna, città che Pasolini associa alla propria formazione intellettuale, e la reinventata Sacile dell’inizio. Il passaggio dalla voce doppiata alla voce reale dimostra che il doppiaggio non è scevro di significato ma piuttosto una componente della performance autoriale di Pasolini all’interno dello spazio meridionale mitico e poetico della storia di Edipo.
A viva voce
La voce dell’autore, di qualsiasi autore, parla sempre anche laddove non sembrerebbe parlare, attraverso proiezioni, alter ego e personaggi. È quanto avviene nel cinema, nel teatro e nella letteratura. Tale voce può però anche presentarsi in maniera cosciente come voce autoriale e rivolgersi direttamente al lettore. È il caso riscontrabile, ad esempio, in Petrolio, o nell’abitudine pasoliniana di orientare la lettura delle proprie opere tramite varie soglie testuali, o – addirittura – nel ricorso a strategie non interne all’opera come l’auto-recensione. Più raro è il caso di una diretta interpellazione dello spettatore nel cinema. Ne è un esempio un “vecchio amore” pasoliniano (Pasolini 2001b, 2888), Alfred Hitchcock, per la sua abitudine di presentare, a volte in forma di sagoma, il suo celebre show televisivo Alfred Hitchcock Presents. Sempre Hitchcock ha poi in comune con Pasolini la tendenza a introdursi nei propri film attraverso fuggevoli camei, che mai intaccano il livello diegetico. “Il solo scopo di queste apparizioni – ha scritto infatti Thomas Leitch, che a questi giochi hitchcockiani con lo spettatore ha dedicato un interessante volume – […] è di essere riconosciuto” (Leitch 1991, 3). Anche il discorso cinematografico di Pasolini si basa in parte sul riconoscimento dell’autore da parte del pubblico e sul suo desiderio di essere riconosciuto come tale. Ciò non avviene solo attraverso l’interpretazione di personaggi veri e propri, come l’allievo di Giotto, Chaucer o il sacerdote. Ben prima degli Appunti per un’Orestiade africana, infatti, la voce autoriale ha un ruolo primario all’inizio de La ricotta, in cui Pasolini la impiega per offrire un esempio davvero particolare d’interpellazione diretta dello spettatore.
Nel breve film del 1964, celebre per il ritratto caricaturale di Pasolini nella figura del regista interpretato da Orson Welles, è infatti possibile ascoltare anche la voce dell’autore. Rifacendosi alla consuetudine, ereditata dal cinema muto, di far precedere l’inizio dei film da un cartello che inquadra la vicenda, fornisce dettagli sugli antefatti o sul contesto storico, ne La ricotta Pasolini usa la propria voce per rivolgersi al pubblico, leggendo un testo di natura apparentemente cautelativa, visto il delicato tema affrontato:
Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati. Ebbene io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, la storia della Passione – che indirettamente La ricotta rievoca – è per me la più grande che sia mai accaduta, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti (Pasolini 2001b, 2059).
Data la lunghissima storia processuale del film, è evidente che la cautela, lungi dall’aver sortito l’effetto sperato, ha forse contribuito ad attirare quei giudizi scandalizzati (Betti 1977). Se consideriamo però La ricotta anche come il primo tentativo pasoliniano di affrontare – tramite l’espediente della rappresentazione meta-cinematografica – la questione della rilevanza dell’autore nella società spettacolare, possiamo individuare un modo alternativo di leggere questa premessa e vedere nell’uso della voce di Pasolini una vera e propria performance autoriale. Seguendo questa lettura ciò che importa non è tanto il messaggio letterale, ma il fatto che esso costituisca un espediente per introdurre – per la prima volta in un suo film – la presenza dell’autore nell’opera tramite la sua voce, facendo dunque di essa il primo elemento di contatto del pubblico con il film, come poi avverrà, ma all’interno della diegesi, all’inizio di Appunti per un’Orestiade africana. Spente le luci in sala, prima di ogni altra immagine, è una voce apparentemente incorporea – il verbo, insomma – a introdurre gli spettatori al mistero dell’opera creata, secondo un modello demiurgico fin troppo facilmente leggibile, che richiama “il commento autorevole della Voce-Dio” del documentario griersoniano, in cui la voce dell’autore pretende di esercitare un’autorità epistemica rispetto al pubblico (Plantinga 1997)[1]. Questo è il tipo di voce fuori campo discusso da Silverman in relazione a L’orgoglio degli Ambersons di Welles, un riferimento interessante per l’analisi de La ricotta, visto che proprio il celebre regista americano vi interpreta il ruolo del regista.
Un esempio più complesso dell’autorità epistemica della voce dell’autore si trova nel cortometraggio di soli dodici minuti intitolato La sequenza del fiore di carta (1968), che solo di rado ha ricevuto attenzione critica. Lo scarso interesse per questo stranissimo oggetto cinematografico, ambiguo e tecnicamente imperfetto, è forse dovuto alla difficoltà di inquadrarlo nel complesso dell’opera pasoliniana. Inizialmente costituiva il terzo episodio del film collettivo Amore e rabbia, presentato al XIX Festival del Cinema di Berlino nel 1969. Pasolini l’aveva girato a colori l’anno precedente, pochi mesi prima di Appunti per un’Orestiade africana, dove, come ho mostrato, la sua performance vocale costituisce un elemento essenziale del film da farsi.
Amore e rabbia, una collaborazione tra Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio, e Pasolini doveva inizialmente intitolarsi Vangelo ’70 perché’ i registi avrebbero dovuto ispirarsi a parabole e altri passi del Vangelo (Pasolini 1999c, 1368). In realtà, solo L’indifferenza di Lizzani, un’amara riflessione sulla parabola del buon samaritano, e Agonia di Bertolucci, che, come il corto di Pasolini s’ispirava alla parabola del fico infruttuoso, fanno riferimento esplicito al Vangelo. L’episodio di Bellocchio non ha nulla a che vedere con quel testo e fu aggiunto all’ultimo momento per rimpiazzare il contributo di Valerio Zurlini, che il regista aveva deciso di trasformare nel lungometraggio Seduto sulla destra (1968). Fu proprio questa sostituzione in corsa a motivare il nuovo titolo e l’eliminazione dei titoli d’apertura, girati da Pasolini come “una riunione in una sala della televisione (con un gran Cristo in croce, sacrilego, sul tavolo) dei registi del film” (Pasolini 1988, 629). Sebbene con stili eterogenei e approcci concettuali differenti, i cinque registi colsero la possibilità di sperimentare con il mezzo cinematografico.
John David Rhodes ha persino suggerito che La sequenza del fiore di carta è il più avanguardistico tra i film di Pasolini (Rhodes 2007, 150). Questa valutazione non trova la sua giustificazione solo nel magma stilistico del cortometraggio, comune ad altri progetti pasoliniani di questo periodo, ma anche e soprattutto nella componente meta-cinematografica, segnalata ancora una volta dalla presenza della voce di Pasolini. In questo senso, La sequenza del fiore di carta è da considerarsi come un altro esempio di film-saggio in cui Pasolini riflette sul suo cinema.
Come già ricordato, il cortometraggio s’ispira alla parabola evangelica del fico maledetto (Mt. 11, 11). Ecco come Pasolini ha spiegato a John Halliday l’idea e il significato del cortometraggio, che doveva intitolarsi inizialmente Il fico innocente:
[Il film] ricorda quando Cristo vuol cogliere qualche fico, ma essendo marzo l’albero non ne ha prodotto ancora nessuno, e Cristo lo maledice. A me questo episodio è sempre parso molto misterioso e se ne hanno parecchie interpretazioni contraddittorie. Il modo in cui l’ho interpretato io è più o meno questo: vi sono momenti della storia in cui non si può essere inconsapevoli; bisogna essere consapevoli, e non esserlo equivale a essere colpevoli. Perciò ho fatto camminare Ninetto per via Nazionale, e mentre lui cammina senza un pensiero al mondo, inconsapevole di tutto, passano sullo schermo, sovrapposte a via Nazionale, le immagini di alcune delle cose importanti e pericolose che stanno avvenendo nel mondo: cose di cui lui, appunto, non è consapevole, come la guerra del Vietnam, le relazioni fra Est e Ovest e così via. Sono solo ombre che gli passano sopra, delle quali lui è ignaro. Poi a un certo punto si sente la voce di Dio, in mezzo al rumore del traffico, che lo sprona a conoscere, a rendersi consapevole. Ma, come il fico del vangelo, il ragazzo non capisce, perché è immaturo e innocente, e così alla fine Dio lo condanna e lo fa morire (Pasolini 1999c, 1369).
Nonostante la spiegazione di Pasolini, tutta concentrata sull’asse del significato, la scelta del termine ‘sequenza’ per il titolo definitivo del film suggerisce una lettura meta-cinematografica della passeggiata di Ninetto lungo via Nazionale. È forse sintomatico che nel saggio “Il cinema di poesia” Pasolini impieghi proprio il termine ‘parabola’ per parlare del linguaggio del cinema (Pasolini 1999a, 1468), che si basa sull’esistenza di un “ipotetico sistema di segni visivi”. Sono quest’ultimi che permettono di leggerlo nella stessa maniera in cui interpretiamo la realtà di tutti i giorni. Come esempio di questa interazione tra soggetto e ambiente, Pasolini suggerisce l’immagine di qualcuno che “cammina da solo per strada” (Pasolini 1999a, 1462). La passeggiata di Ninetto, che include il piano sequenza più lungo tra quelli girati da Pasolini, pare confermare l’idea che “la vita stessa nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente” concepito come un “continuo e infinito piano sequenza” (Pasolini 1999a, 1514 e 1547).
La conferma che Pasolini abbia girato il suo episodio di Amore e rabbia per testare la sua teoria cinematografica si trova nel saggio del 1967 intitolato “Essere è naturale?”. All’inizio di questo saggio, per postulare l’identità tra film e realtà, Pasolini descrive un esempio davvero importante per comprendere La sequenza del fiore di carta: “in un film, appare l’inquadratura di un ragazzo coi capelli ricci e neri, gli occhi neri e ridenti, una faccia coperta dall’acne, la gola un po’ gonfia, come di ipertiroideo, e un’espressione giuliva e buffa che emana da tutto lui. Questa inquadratura di un film rimanda forse a un patto sociale fatto di simboli, come sarebbe il cinema se definito per analogia con la ‘langue’? Sì, esso rimanda a questo patto sociale, ma questo patto sociale, non essendo simbolico, non si distingue dalla realtà, ossia dal vero Ninetto Davoli in carne e ossa riprodotto in quella inquadratura” (Pasolini 1999a, 1563). Come ha osservato Marco Antonio Bazzocchi, nell’opera di Pasolini “il Ninetto personaggio non è mai separato dal Ninetto reale”, di modo che il corpo del ragazzo coincide simbolicamente con “il corpo della Realtà” (Bazzocchi 2012, 24). Il lungo piano sequenza che forma la spina dorsale di La sequenza del fiore di carta rappresenta dunque ciò che Pasolini chiama il “momento naturalistico” della storia, lo scorrere temporale della realtà e della vita che il montaggio deve superare e sintetizzare.
La morte di Ninetto alla fine del film, al di là del senso metaforico in relazione alla parabola del fico maledetto, assume anche un significato meta-cinematografico per via del legame con la teoria pasoliniana della morte come montaggio. L’azione della vita umana, proprio come un lungo piano sequenza, manca unità e senso se non è conclusa: “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita” (Pasolini 1999a, 1560). Ninetto ‘deve’ morire per permettere il passaggio dall’infinità del cinema alla sintesi poetica ed espressiva del film. Quest’idea è suggerita propria dalla presenza riconoscibile della voce dell’autore fuori campo, inserita in un caleidoscopico montaggio sonoro di voci differenti, che comprende quelle di amici quali Elsa Morante e Bernardo Bertolucci. Nel cortometraggio, questo montaggio vocale rappresenta la voce di Dio che si rivolge a Ninetto per ordinargli di “conoscere e volere”, ossia di farsi consapevole della violenza della storia che gli passa letteralmente davanti agli occhi attraverso la sovrimpressione di immagini in bianco e nero tratte da documentari o cinegiornali che mostrano guerre, proteste e massacri. Tuttavia, è proprio la voce di Pasolini, e dunque la voce dell’autore del film, che rivolge al ragazzo le parole finali, annunciandogli che deve “morire, morire, morire” (Pasolini 2001a, 1095). Subito dopo queste parole il film si conclude con l’immagine del giovane che cade al suolo senza vita.
Questa voce di Dio incapsula perfettamente il tipo di voce fuori campo che Pasolini mette in discussione in Appunti per un’Orestiade africana attraverso il riflesso della sua immagine all’inizio del film. La natura aperta, embrionica e dialettica del film-da-farsi non poteva permettere all’autore di compiere il tipo di sintesi che costituisce il passaggio dal cinema al film. In La sequenza del fiore di carta, però, la performance vocale dell’autore conferma il suo controllo totale sulla sequenza, concepita in termini metalinguistici come una dimostrazione in nuce della sua teoria della morte come montaggio. Inoltre, la colonna sonora, che alterna frammenti di dialoghi insignificanti, rumori di sottofondo, l’esplosione di bombe e il twist scanzonato composto da Gianni Fusco, rinforza l’importanza del suono per l’interpretazione meta-cinematografica del film. In particolare, la voce di Dio è introdotta dall’ultimo brano della Passione secondo Matteo di Bach, “Wir Setzen uns mit Tränen nieder,” che Pasolini aveva già impiegato in Accattone e in Il Vangelo secondo Matteo. Oltre a indicare la tendenza manierista all’ auto-citazione che caratterizza il suo cinema, questo brano serve anche a saldare il tema evangelico a quello del mondo subalterno e, al contempo, a introdurre quello che Pasolini, riferendosi ad Accattone, chiama “il motivo della morte” (Pasolini 2001b, 2826). La morte di Ninetto è dunque già inscritta nel film ancora prima della sua conclusione. Essa va dunque intesa sia come destino inevitabile degli innocenti, ma anche come necessità dell’autore di trasformare “il cinema naturale vivente” dell’esistenza in film (Pasolini 2001b, 2826). L’idea di Bazzocchi che Ninetto sia una figura liminare “al confine tra spazi differenti della realtà” (Bazzocchi 2014, 26) va dunque riformulata in termini intertestuali e metalinguistici. Non solo, infatti, il ragazzo si chiama Riccetto, come il protagonista di Ragazzi di vita, ma la musica di Bach lo collega agli altri due film (uno ispirato al mondo del sottoproletariato romano, l’altro al Vangelo) in questo modo i differenti livelli della realtà rappresentati nell’opera complessiva di Pasolini convergono e si intersecano nel corpo di Ninetto. In breve, Ninetto rappresenta la superficie corporea sulla quale possiamo leggere in termini metalinguistici l’idea del cinema come depositario della “lingua scritta della realtà”, una lingua, scrive Pasolini, fatta di testi differenti (Pasolini 1999a, 1507).
Silenzio
Un ultimo esempio della presenza della voce di Pasolini si trova negli esperimenti tra inchiesta e documentario in cui l’autore prende parola sullo schermo ed entra in contatto diretto con il suo pubblico, soprattutto tramite la forma dell’intervista. Penso in particolare a Comizi d’amore, realizzato, ancora una volta, nel 1963, l’anno delle riprese di La ricotta e La rabbia. Con Comizi d’amore Pasolini si era proposto di percorrere l’Italia da Nord a Sud come “una specie di commesso viaggiatore” (Pasolini 2001a, 421) per scoprire cosa pensassero gli italiani di argomenti come la libertà sessuale, il divorzio, la prostituzione e l’omosessualità. Come gli autori dei vari documentari incentrati sul tema del sesso realizzati nei primi anni ’60, da Ugo Gregoretti a Enzo Biagi, da Alberto Caldana a Virgilio Sabel[2], anche Pasolini ha in mente il modello del cinéma vérité. In particolare quello rappresentato da Cronaca di un’estate (Chronique d’un été, 1961) dell’antropologo Jean Rouch e del sociologo Edgar Morin che, sperimentando con la presa diretta, rivolgono a varie generazioni di francesi una domanda apparentemente semplice: “Come vivi?”. A metà del loro reportage, Rouch e Morin iniziano a mostrare a chi hanno intervistato il materiale girato fino a quel momento e registrano le loro reazioni, non sempre positive, formulando ipotesi interpretative e mettendo in discussione le proprie premesse teoriche. Si tratta del modello documentaristico a cui Pasolini farà poi esplicitamente ricorso anche in Appunti per un’Orestiade africana, per la sequenza girata in un’aula dell’Università di Roma insieme al gruppo di studenti provenienti da diversi paesi dell’Africa.
Ciò che deve aver senz’altro affascinato Pasolini in Cronaca non è solo l’aspetto meta-cinematografico, ossia la messa in scena del processo di realizzazione e montaggio del film, ma il fatto che i due ‘colleghi’ francesi, nel loro tentativo di scoprire come vivono i loro compatrioti, non abbiano cercato affatto di nascondere la propria presenza, ma anzi l’abbiano esposta sin dalla prima inquadratura. Da un certo punto di vista, la vérité del loro esperimento non sta nella forma, o nella pretesa di realismo e oggettività delle immagini, ma nella dichiarazione dell’impossibilità di una verità che esuli dalla prospettiva di un soggetto creatore (Viano, 122).
Nel 1977, a due anni dalla scomparsa di Pasolini, Michel Foucault pubblica su “Le Monde” una recensione al suo film-inchiesta. Ecco come il filosofo sintetizza la sua impressione generale sulla performance di Pasolini nel doppio ruolo di intervistatore e regista: “gli adulti parlano sovrapponendosi e discorrono, i giovani parlano rapidamente e si intrecciano. Pasolini l’intervistatore sfuma: Pasolini il regista guarda con le orecchie spalancate. Non si può apprezzare il documento se ci si interessa di più a ciò che viene detto rispetto al mistero che non viene pronunciato” (Foucault [1977] 2010, 55). Con grande acume Foucault coglie che il vero significato di Comizi d’amore non è in quello che viene detto – che risulta conforme alle convezioni sociali cui gli intervistati credono di dover ottemperare – ma in quello che generalmente viene taciuto, nelle bugie dette per conformismo, vergogna, o ipocrisia, senza nemmeno preoccuparsi troppo di mostrare di star mentendo. Allo stesso tempo, Foucault rileva un interessante tipo di sdoppiamento: quello tra il Pasolini-intervistatore, che a suo dire si farebbe invisibile di fronte alla performance degli intervistati, e il Pasolini-regista, che si limiterebbe invece ad osservare quanto avviene davanti ai suoi occhi.
È importante notare che questo sdoppiamento tra regista e intervistatore si manifesta soprattutto attraverso la voce, o meglio, nella dialettica tra la voce del Pasolini che intervista, non importa se inquadrato o meno, e la voce incorporea del Pasolini che commenta, fuori campo, le risposte e le reazioni della gente. A dimostrare l’importanza della dimensione vocale, infatti, il film inizia con il solo audio, una serie di domande su come nascono i bambini che Pasolini rivolge a dei picciriddi napoletani. È solo in un secondo momento che intervistatore e intervistati acquistano corpo sullo schermo, sottolineando così l’importanza di quell’iniziale intrecciarsi puro di voci. Contravvenendo a tutti i principi estetici del suo cinema Pasolini entra nell’inquadratura di quinta, reggendo il microfono in mano. La sua presenza fisica segue – o insegue – simbolicamente la sua voce, che ancora una volta funge da primo elemento di contatto tra pubblico e opera. Ciò detto, né il Pasolini che intervista, né il Pasolini-regista scompaiono o si limitano ad osservare increduli quanto si presenta loro davanti. La profonda incongruenza tra la lettura di Foucault e la realtà del film-inchiesta mi porta a supporre che la versione francese sottotitolata non abbia permesso al filosofo francese di cogliere appieno il doppio registro della voce dell’intervistatore e la frequente manipolazione compiuta sugli intervistati e sul pubblico. D’altra parte, nonostante la sua propensione al doppiaggio, lo stesso Pasolini riteneva che il film non avrebbe potuto trovare spazio oltre i confini italiani proprio per motivi linguistici: “avrebbe presentato grossi problemi di traduzione: sarebbero andati persi accenti dialettali e i giochi di parole; d’altronde sarebbe stato impossibile doppiarlo, e le didascalie in sottotitolo l’avrebbero reso troppo freddo. Chi non avesse conosciuto bene l’italiano non avrebbe potuto capirne il significato” (Pasolini 2001a, 1324). Al problema della lingua va aggiunto quello dell’intrinseca intraducibilità della voce, con i suoi toni e le sue sfumature.
La presenza di Pasolini sullo schermo non è affatto invisibile. Al contrario, ha ragione Miguel Andrés Malagreda quando sostiene che “in the film’s interviews the viewer is confronted continually with the presence of Pasolini by his repetitive insistence on certain questions” (“nelle interviste del film lo spettatore si confronta costantemente con la presenza di Pasolini per via della sua insistenza a ripetere certe domande” Malagreda 2007, 92). È insomma la voce a rendere Pasolini costantemente presente nella prima metà del film. Inoltre, a rimarcare quanto prominente e invasiva sia la sua presenza, il Pasolini-intervistatore da suggerimenti agli intervistati (“Ecco, ecco: io credo che le cose non siano poi molto cambiate”), riformula risposte quando l’intervistato di contraddice (“ma però tu hai detto prima che vorresti essere libera come un ragazzo”), si premura di accompagnare con un “bravo” o un “giusto” le affermazioni conformi al suo pensiero, e non si trattiene dal commentare, fuori campo, le risposte che invece non gli aggradano (“non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”). Proprio questa attitudine, accompagnata da constanti richieste di argomentare e chiarire le risposte mai troppo esaustive (“Ma le sembra giusto che sia così o no?”) cessa improvvisamente nella seconda parte del documentario, dedicata al rapporto degli italiani con l’omosessualità. È a questo punto che il modello della nuova antropologia visiva rappresentato da Rouch e Morin, viene sostituito da un modello “(auto)etnografico” (Malagreda 2007, 92). L’argomento del film non riguarda più solo la società italiana ma l’autore del film.
L’inchiesta di Pasolini si svolge ben prima della nascita del movimento di rivendicazione omosessuale. Fino al 1973, l’omosessualità è stata considerata dalla comunità scientifica internazionale come disturbo sociopatico della personalità. Tuttavia in molti hanno accusato il Pasolini del 1962 di omofobia interiorizzata per il suo evitare con cura il termine “omosessualità” nel rivolgere le sue domande. Infatti, facendo sfoggio di un notevole ventaglio di sinonimi, Pasolini parla di “invertiti”, “anormalità sessuale”, “anomalie”, “inversioni sessuali”, “irregolarità sessuali”, “perversioni sessuali”. I giudizi che raccoglie su queste categorie vanno dallo “schifo” al “ribrezzo”, dal “disgusto” alla “pietà”, dalla “ripugnanza” all’“orrore”. Il termine “schifo”, ad esempio, viene impiegato sei volte nel giro di pochi minuti. Paradossalmente, in tutto Comizi d’amore, questi sono forse gli unici giudizi completamente sinceri espressi dagli intervistati. La disinvoltura con cui tutti condannano l’omosessualità davanti a Pasolini, mentre considerano “furbi” prostitute e clienti o approvano le case di tolleranza, fa supporre che, nonostante la sua fama fosse in ascesa, ancora in pochi tra le masse meno acculturate fossero a conoscenza del suo orientamento sessuale, già però motivo di pesanti attacchi sulla stampa dell’epoca. Non si spiega altrimenti il fatto che un ragazzo, intervistato in una balera, dopo aver affermato il proprio ribrezzo per gli “invertiti”, cerchi addirittura una conferma in Pasolini: “È giusto, no?”.
Quando Thomas Waugh ricorda che nell’Italia degli anni ’60 “gays were entirely invisible, including queer Pasolini himself” (“i gay erano completamente invisibili, compreso l’omosessuale Pasolini” (Waugh 2000, 255), non intende tanto dire che gli omosessuali si nascondessero, ma che non fossero leggibili dalla maggior parte delle persone, invisibili secondo i codici sociali dominanti. Chi risponde alle domande di Pasolini non può minimamente concepire che un personaggio pubblico sia omosessuale e che in quanto tale si esponga. L’idea di fondo è che la diversità sessuale, in quanto aberrante e vergognosa, non può che essere nascosta. In Comizi d’amore la voce di Pasolini pronuncia dunque l’impronunciabile e nel farlo dissocia il suo corpo autoriale dal suo corpo desiderante[3].
Non si può non avvertire un profondo imbarazzo nell’osservare Pasolini travolto e coperto da giudizi – per non dire insulti – che non possono non averlo toccato profondamente. Un imbarazzo acuito dal fatto che i suoi commenti alle risposte degli intervistati spariscono improvvisamente, e insieme ad essi la sua insistenza nel cercare di capire le ragioni dei giudizi espressi. È come se Pasolini, conoscendole già, rinunciasse a cercare le ragioni dell’omofobia che sta documentando. Il disagio dello spettatore non è però, come qualcuno ha sostenuto, un segno dell’omofobia interiorizzata da Pasolini, ma il risultato della critica pasoliniana al conformismo del pensiero etero-normativo. L’impressione di Foucault che a un certo punto l’intervistatore sfumi s’applica forse allo sfumare del soggetto sessuale, che rinuncia a controllare vocalmente le persone che intervista. Pasolini neutralizza la sua presenza vocale in maniera strategica per incoraggiare le persone a condividere il loro giudizio negativo sugli “anormali” (“Ha mai sentito parlare di quelle cose terribili che sono le anormalità sessuali?”), come succede intervistando una ragazza in una balera milanese:
Pasolini | Ma senta, se lei a un certo punto si sposerà ed avrà i figli; i figli a un certo punto possono essere anche loro di queste persone.
1a Signorina | Ah … speriamo di no.
Pasolini | Speriamo di no, glielo auguro di cuore, ma comunque certi problemi bisogna conoscerli, per poterli curare in ogni caso, no? (Pasolini 2001a, 443).
Le insistenti sollecitazioni di Pasolini alle persone intervistate lasciano il posto a una retorica silenziosa, in cui il suo pensiero e la verità sono taciuti. Ciò potrebbe apparire come un caso esemplare per l’epistemologia delle Stanze private di Eve Kosofsky Sedgwick, ovvero quegli spazi omosessuali separati costruiti attraverso un complesso reticolo di sapere, ignoranza e silenzio (Kosofsky Sedgwick [1990] 2011). In realtà, il silenzio di Pasolini sulla propria identità sessuale ha una funzione completamente differente. Esso non va interpretato come una manifestazione di omofobia interiorizzata ma come una sovversiva quanto sottile performance queer che anticipa l’uso militante e strategico del desiderio omosessuale nei film della Trilogia della vita. La passività vocale di Pasolini nella seconda parte di Comizi d’amore ha più a che fare con Judith Butler e la sua idea che la formazione dell’identità eterosessuale avvenga attraverso il rifiuto malinconico del desiderio omosessuale (Butler [1997] 2013).
Esponendosi con il suo silenzio al giudizio indiretto degli intervistati Pasolini fa emergere senza alcun filtro la violenza omofobica della società italiana degli anni ’60. Come ha infatti scritto Derek Duncan in uno dei contributi più brillanti sulla problematica omosessuale in Pasolini, bisogna anche considerare la possibilità paradossale che proprio un discorso omofobico interiorizzato “might have provided Pasolini with a language for talking about a subject that otherwise was silenced” (“potrebbe aver fornito a Pasolini una lingua per parlare di un soggetto altrimenti taciuto”, Duncan 2006, 88). Una lingua, occorre sottolineare, espressa dall’assenza della sua voce.
Note
* Si riproduce qui, con alcune modifiche, la traduzione del saggio intitolato Voce e contenuto in G. M. Annovi, Pier Paolo Pasolini: Performing Authorship, New York 2017.
[1] Il termine “griersonaniano” si riferisce a John Grierson, considerato il caposcuola del movimento documentaristico britannico degli anni ’30. L’unico film di Grierson è Drifters (1929), documentario sulla pesca delle aringhe nel Mare del Nord.
[2] Ugo Gregoretti, I nuovi angeli (1962); Enzo Biagi, Italia proibita (1961); Virgilio Sabel, In Italia si chiama amore (1962); Alberto Caldana, I ragazzi che si amano (1963). Cfr. Viano 1992, 120-121.
[3] In una lettera del 1950 all’amica Silvana Mauri, tra le poche persone con cui Pasolini parla esplicitamente e in termini particolarmente intimi della propria omosessualità, è proprio l’immagine di uno sdoppiamento fisico a individuare nel corpo sessuato un corpo altro da sé, un anti-corpo: “Io ho sofferto il soffribile non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro” (Pasolini 1986, 391-92).
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English abstract
The essay discusses the effects produced by Pasolini’s use of the author’s voice, an aspect of his practice that has not previously been studied. In his cinema, Pasolini’s voice changes according to the function of his presence. The use of voice is part of Pasolini’s creative process, and he treats it just as he does a manipulable image. When he presents himself as the author, as in Appunti per un’Orestiade africana (1970) and Comizi d’amore (1963), the audience hears his real voice. When he plays a character in a fictional narrative, as in the case of Giotto’s pupil and Chaucer, his voice is dubbed. In Edipo re (1967), where Pasolini played the apparently marginal role of the High Priest, dubbing is also far from a random aesthetic element. Pasolini’s use of dubbing can in fact be traced to specific practices of authorial control. In La sequenza del fiore di carta (1969), for example, the author’s voice represents his epistemic authority; in Love Meetings, it is a subtle and subversive queer intervention.
keywords | Pasolini; Voice; Authorship; Cinema; Performance.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Gian Maria Annovi, Pasolini, autoritratto per voce sola, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 239-263. | PDF dell’articolo