Romanzi per figure
Pasolini con-temporaneo
Andrea Cortellessa
English abstract
“Tuttavia, per lui, non si tratta di ritrovare un pre-senso, una origine del mondo, della vita, dei fatti, anteriore al senso, quanto piuttosto di immaginare un dopo-senso: occorre attraversare, come lungo un cammino iniziatico, tutto il senso per poterlo estenuare, esentare”.
Barthes di Roland Barthes
1.
Con l’avanguardia – quella cosiddetta ‘storica’ e, più aspra ancora, quella del suo tempo – Pasolini ha ingaggiato una battaglia senza quartiere: una battaglia durata gli ultimi vent’anni della sua vita. Eppure contro l’avanguardia – o, sarà più corretto dire, contro l’ideologia dell’avanguardia – in molti casi, e soprattutto negli ultimi anni della sua bruciante traiettoria, ha avuto un atteggiamento che è difficile definire altrimenti che ‘avanguardistico’: non peritandosi di schierare in battaglia, contro quelli che non esitava a chiamare i suoi “nemici”, modalità comunicative e concrete soluzioni artistiche molto simili alle loro. Se non, in alcuni casi, precisamente le stesse. La sua instancabile polemica era dunque, altresì, un certame; e al suo atteggiamento non era estranea una – a tratti assai percettibile – “angoscia dell’influenza” (fra i pochi contributi ad averlo sottolineato vanno citati il pionieristico Caminati 2010, Annovi 2017 e ora Merjian 2020). Esemplare, in tal senso, l’ultimo film che Pasolini abbia fatto in tempo a realizzare. Perché non si capisce Salò – e spesso non lo si è capito, infatti – se non lo si vede per quello che è: un film d’avanguardia che vuole essere il più implacabile atto d’accusa contro il fascismo dell’avanguardia[1].
Questo rapporto ambivalente con la modernità è stato espresso per tempo, da Pasolini, nel memorabile mediometraggio La ricotta. Colui che si proclama “una forza del Passato”, e che “solo nella tradizione” riconosce “il suo amore”, quindici versi dopo fieramente aggiunge di essere “più moderno di ogni moderno” (nei versi di Poesia in forma di rosa anticipati nel volume con la sceneggiatura di Mamma Roma, che in questa scena del meta-film viene letto dal personaggio del regista: Pasolini 1964, 1099). Ambivalenza e anzi vera e propria scissione, questa, che va psicologicamente ascritta al manierismo di Pasolini: una categoria (desunta dalla scuola critica a lui più cara, in storia dell’arte: quella di Roberto Longhi e del suo allievo Giuliano Briganti) da lui abbracciata in quegli anni non solo ‘ri-figurando’ Pontormo e Rosso Fiorentino, nei tableaux vivants appunto della Ricotta, ma anche in sede di critica letteraria (indicando fra l’altro, come suo consanguineo in tal senso, Giorgio Bassani – colui al quale, cioè, fa prestare la voce a Orson Welles per pronunciare quei versi ominosi: cfr. Bazzocchi 2019, 63-4). Manierismo che non solo anticipa il postmodernismo (un suo esponente-chiave come Peter Greenaway, per esempio, replicherà a più riprese – creativamente mis-interpretandola – la meta-manieristica mimesi pittorica della Ricotta), da parte di chi negli stessi versi dice di “assistere […] ai primi atti della Dopostoria”, ma che soprattutto annuncia l’intenzione di gareggiare in modernità con chi al moderno – in una concezione progressiva e teleologica del moderno, quale gliela attribuisce Pasolini – si riferisce: appunto le nuove avanguardie. È il programma di un cimento. Ed è appunto il 1963.
2.
Il 1963 è anche l’anno in cui si colloca il piano temporale, in parte reale e in parte fittizio, della Divina Mimesis. Il libro esce presso Einaudi verso la fine di novembre del 1975, pochi giorni dopo la morte di Pasolini dunque, ma da lui curato in ogni dettaglio; sicché è opportuna la precisazione per la quale “non è un’opera postuma, ma solo un’opera che l’autore non ha potuto vedere stampata” (Siti, De Laude 1998, 1988).
Il cortocircuito più eloquente, fra quelli dell’“Iconografia ingiallita (per un ‘poema fotografico’)” che mette capo al testo (le venticinque fotografie, cioè, inserite dall’autore alla sua conclusione: soluzione adottata, con ogni probabilità, non prima dell’arrivo delle bozze da Einaudi), è quello delle immagini 19 e 20 che ritraggono (così suonano le didascalie relative, accluse alla fine dell’“Iconografia ingiallita”)[2] rispettivamente “Alcuni del ‘Gruppo 63’” (si riconoscono fra gli altri – ultimi sulla destra – Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti e il curatore dell’antologia dei Novissimi, Alfredo Giuliani) e “Primi anni ’60: fascisti”. Peraltro le due immagini non sono ‘montate’ l’una a fronte dell’altra: quella dei ‘nemici’ della Neoavanguardia è collocata a specchio del “Frontespizio di Poesia in forma di rosa”, la raccolta poetica pubblicata da Pasolini nell’aprile del ’64[3], mentre a fronte dei “fascisti” l’immagine 21 è un’altra foto di gruppo, presa “Al Ninfeo di Valle Giulia” (cioè la sede tradizionale del Premio Strega)[4].
Anche la ‘società letteraria’ italiana nel suo complesso, che Pasolini demonizza facendone parte appieno – contraddizione stigmatizzata da compagni di strada d’antan, quali Fortini o Roversi, più ‘apocalittici’ di lui – viene così assimilata alla parte ideologicamente avversa. Ma non pare dubbia l’altra e più sferzante analogia in questo modo istituita da Pasolini – contrapponendo la sua opera poetica del ’63 ai poeti tanto antipatici che a quell’anno hanno intitolato il loro “Gruppo” – fra le due compagnie malvage e scempie: la loro e quella dei “fascisti”, appunto, in tal modo entrambe segnate a dito come “suoi ‘nemici’”.
Ecco infatti la brevissima Prefazione al testo pubblicato nel ’75. Consta di due paragrafetti (rispettivamente di cinque e tre righe nell’edizione del testo nel ’98 inclusa nei “Meridiani” dei Romanzi e racconti), che in queste pagine dovrò sottoporre entrambi a una lettura au ralenti, ché in questo poco spazio contengono in effetti una quantità incredibile di spunti (Pasolini 1975, 1071):
La Divina Mimesis: do alle stampe oggi queste pagine come un ‘documento’, ma anche per fare dispetto ai miei ‘nemici’: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno.
Iconografia ingiallita: queste pagine vogliono avere la logica, meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) ‘poesia visiva’.
“Nemici”, si diceva, tanto i Neoavanguardisti che i Fascisti. Accomunati anzitutto, si capisce, dal loro agire in gruppo (a fronte di chi si presenta eroicamente solo, nudo e impavido, con l’unico usbergo della poesia evocata in effigie): con un comportamento, e un’attitudine, che Pasolini in più occasioni definisce “teppismo”[5]. Nella congerie ‘pseudo-filologica’ in cui si organizza il testo consegnato alle stampe nel ’75, una delle note – in cui prende la parola l’immaginario ‘filologo’, appunto, che raccoglie le carte lasciate dall’autore (in un aggiornamento, che sarà adottato anche in Petrolio, dello stratagemma tradizionale del ‘manoscritto ritrovato’) – dà la notizia della morte dell’autore: precisando che è stato “ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso” (Pasolini 1975, 1119). La nota è datata “1966 o ’67” e, menzionando la sede del fattaccio, chiaramente allude ai “nemici” del Gruppo 63: la cui riunione inaugurale s’era tenuta appunto a Palermo, nell’ottobre del 1963, e che tornarono a incontrarsi nella stessa città nel settembre del ’65, per un convegno sul Romanzo sperimentale nel corso del quale non mancarono ‘bastonate’ – cenni criticamente liquidatori, cioè – nei confronti appunto di Pasolini[6].
In un saggio pubblicato su “Nuovi Argomenti” sul finire di quel ’66, La fine dell’avanguardia (poi compreso in Empirismo eretico), Pasolini esplicitava i moventi antropologici, diciamo, della propria avversione (Pasolini 1966b, 1414):
I letterati d’avanguardia, riassociati, si presentano per l’unica cosa che essi sono e che vogliono essere: ossia dei vecchi piccolo borghesi, riuniti secondo l’orrenda tradizione in gruppo (massoneria, mafia, accademia, chiasso al caffè, tornate congressuali, spirito di corpo).
E in una nota velenosissima, quattro pagine dopo, aggiungeva il vulnerante paragone cogli “squadristi”, che provvedeva pure a specificare il riferimento alle assise palermitane dell’anno precedente sull’“anti-romanzo” (Pasolini 1966b, 1418n):
Ci sarà ancora qualche convegno, in cui dei giovanotti cretini e petulanti parleranno di anti-romanzo come se parlassero di prosciutto di Parma. Poi la fine: e chi avrà qualche qualità, sia pure da abatino, potrà continuare, mentre sugli altri cadrà il meritato silenzio, come sui gruppi ingialliti di fotografie di poeti ermetici al caffè, o di squadristi: proprio in tal modo.
Si noti la qualifica di ingiallito, che otto anni dopo passerà a designare l’intera “iconografia” in coda alla Divina Mimesis (allorché sarà riferita soprattutto, come vedremo, alla propria stessa biografia e traiettoria autoriale; si veda, su questo stesso numero di “Engramma”, il saggio di Marco Antonio Bazzocchi), è qui un connotato-clic[7] attribuito da Pasolini a quello che, parafrasando Adorno e Brandi (un cui titolo d’un quindicennio prima qui tacitamente riutilizza), potremmo chiamare l’invecchiamento dell’avanguardia (cfr. Adorno 1954 e Brandi 1950; quest’ultimo volume è schedato in Chiarcossi, Zabagli 2017, 203). Due anni dopo, nella versione romanzesca di Teorema, lo stesso connotato attribuirà infatti alla carta “ingiallita; poveramente ingiallita; pare di sentirvi l’odore di vecchio, di stantio, di biblioteca” di un libro sulle avanguardie appunto ‘storiche’ che l’Ospite sfoglia insieme al giovane Pietro, complessato e pretenzioso artista ‘neoavanguardista’ (dalle quali, pure, ambiguamente si sente spirare un alito di liberazione e “iniziazione”: Pasolini 1968, 926-7)[8].
3.
Reale e insieme fittizia, s’è detto, la collocazione della Divina Mimesis all’altezza di quell’annus per Pasolini horribilis che fu il 1963. Proprio come aveva fatto il “Dante poeta” nella Commedia, riferendosi alla data convenzionale del 1300 alla cui altezza colloca il viaggio ultraterreno del “Dante personaggio” (per mutuare la sempre utile dittologia antinomica di Contini 1958; cfr. Annovi 2017, 52-54), nel testo definitivo Pasolini recupera infatti pagine scritte davvero a quel tempo, traguardandolo ‘da dopo’ (dal ’75, cioè, in cui organizza il testo e lo consegna alle stampe) ma ‘congelandolo’ in una sorta di ‘fermo-immagine’ testuale: un piano temporale, cioè, rispetto al quale finge di non progredire (così, nel testo del “poeta” Dante, le sue ‘false profezie’ fingono non vi sia stato un futuro, per il “personaggio”, dopo il fatidico 1300).
Il sintagma del titolo allude a due opere, e ha infatti una duplice valenza: “imitazione della Commedia”, ma anche “imitazione della sublime mimesi dantesca” (Siti 1983, 111). Da un lato, naturalmente, c’è appunto la Commedia (che da un pezzo, come vedremo, Pasolini vagheggiava di ‘mimare’) ma dall’altro la summa critica di Erich Auerbach, scritta durante l’esilio del grande filologo ebreo tedesco in Turchia durante la Seconda guerra mondiale e pubblicata in Italia nel ’56, che seguiva gli sviluppi della “Rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale”[9] ponendo al suo centro, appunto, Dante. Un libro che s’intitolava proprio Mimesis e che aveva nutrito l’idea di ‘realismo’ del Pasolini a cavallo dei ’50 e ’60: ivi compreso, appunto, il progetto di un rifacimento moderno della Commedia, che nelle carte di Pasolini risale almeno al 1959.
Se Auerbach ispira il titolo della Divina Mimesis, un altro illustre dantista doppiamente evocato nel testo è appunto Contini: a sua volta incluso in effigie, all’immagine 16, subito dopo la tomba di Gramsci[10]. Fra il tanto che Pasolini doveva a Contini, anche sul piano personale (sempre ricordando la malleveria nel ’42 accordata alle Poesie a Casarsa), c’era appunto la direzione nella quale tentare di proseguire la lezione dantesca: quella del plurilinguismo e del pluriprospettivismo ‘narrativo’ che Contini aveva posto alla base di ogni possibile ‘sperimentazione’ poetica novecentesca. A partire da quella di Pascoli che, com’è noto, è il punto di partenza dello ‘sperimentalismo’ di Pasolini.
Risalgono al 1963, s’è detto, i primi capitoli, o meglio “canti”, della rivisitazione dell’Inferno: come dice Pasolini in un’intervista, quello che ha in mente è un “romanzo” completamente diverso da quelli d’impianto naturalistico e dalla lingua intrisa di dialetto che gli hanno dato la fama fra il ’55 e il ’59, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Si tratterà stavolta di “un Inferno degli anni ‘60, popolato di miei contemporanei: amici, personaggi, eroi della cronaca rosa o criminali, capi di governo e di partito, con tanto di nomi e cognomi: una summa ironica e pantagruelica dello spirito contemporaneo” (Pasolini 1964b, 2941-2). Per la verità il progetto dell’“‘Inferno’ contemporaneo” deriva da un abbozzo precedente (datato dall’autore al 1959) che continuava proprio i romanzi ‘romani’: aveva per titolo La Mortaccia e sua protagonista era una prostituta che, conosciuta la Commedia attraverso una versione a fumetti, a sua volta ha una Visione appunto dell’Inferno[11].
4.
Il nuovo progetto, che in un’intervista del ’63 ha già per titolo La Divina Mimesis[12], presenta evidenti differenze rispetto alla Mortaccia: non vi è più traccia del plurilinguismo ‘romanesco’, e soprattutto il Pellegrino allegorico ora non è più un avatar come la Prostituta, ma direttamente un io narrante i cui tratti volutamente si confondono con quelli dell’autore: come appunto nel poema dantesco (nonché nella Recherche proustiana, a tal riguardo evocata da Contini; cfr. Siti 1996). A fare di questo tormentato brogliaccio che si porta dietro per più d’un decennio la “più significativa e controversa confessione poetica della sua carriera” (Patti 2016, 132) è un autentico colpo di genio di Pasolini, che consente alla Divina Mimesis di distaccarsi non solo rispetto alla Mortaccia ma ai tanti altri tentativi novecenteschi di misurarsi col modello della Commedia: la scelta quale ‘Virgilio’ non di una figura allegorica, magari un poeta del passato come aveva fatto Dante appunto con Virgilio, ma una figura che Pasolini conosce assai più da vicino: se stesso.
Come alla fine del primo canto dell’Inferno Dante incontra Virgilio, “che per lungo silenzio parea fioco” ma che da quel momento in avanti gli farà da guida, l’io narrante di Pasolini s’imbatte in “una figura […] ingiallita dal silenzio” (Pasolini 1975, 1081): quell’“ombra”, quella “sopravvivenza”, gli dice di essere una forza del passato: “sto ingiallendo pian piano negli anni ‘50 del mondo, o, per meglio dire, d’Italia” (Pasolini 1975, 1082); aggiunge poi che “in Friuli è nata sua madre, in Romagna suo padre”, di essere vissuto “a lungo a Bologna”, di essere “nato sotto il fascismo” eccetera. L’identikit, naturalmente modellato su quello di Virgilio nella Commedia (“li parenti miei furon lombardi, / mantoani per patria ambedui. // Nacqui sub Iulio […] / al tempo de li dei falsi e bugiardi”: Inf. I, 68-72), è trasparente: il Virgilio del Dante-Pasolini è lo stesso Pasolini, ma un Pasolini che appartiene a un piano temporale precedente, quello dei ’50 (in un certo senso, dunque, davvero un poeta del passato: “un piccolo poeta civile degli Anni ‘50”, come sprezzante poco dopo si definisce: Pasolini 1975, 1084).
Questo sdoppiamento della personalità, prima che psichico (come sarà invece, vedremo, in Petrolio), è storico-letterario e storico-politico: in quanto legato, anzitutto, a una dialettica di piani temporali. Sicché, oltre che alla scissione ‘proustiana’ fra il “personaggio” e il “poeta”, messa in luce da Contini riguardo a Dante, nasce da un cortocircuito ‘temporale’ illustrato da Auerbach: soprattutto per questo omaggiato nel titolo. Sono diversi gli spunti che Pasolini riprende da Auerbach in quegli anni, e tuttavia il principale messo a frutto nella Divina Mimesis non proviene dal saggio di cui parafrasa il titolo bensì da un testo precedente, Figura, che risale al 1939 ma nella silloge italiana degli Studi su Dante viene incluso proprio nel ’63: il concetto di “integrazione figurale” (comunque ripreso anche in Mimesis). Con essa Auerbach, com’è noto, spiega la concezione medievale del tempo, sospesa tra una pre-figurazione rivolta al futuro e l’adempimento, a posteriori, di quella stessa promessa (cfr. Bazzocchi 2021a, 144-5; e si veda ora il suo contributo in questo numero di “Engramma”). Ma Pasolini la fa sua per costruirsi appunto l’avatar “ingiallito” del “piccolo poeta civile degli Anni ‘50”, capace di prefigurare – come appunto il Virgilio dell’Ecloga Quarta, nell’interpretazione medievale, l’avvento di Cristo – il nuovo protagonista che sale al proscenio.
Come faceva spesso, comunque, Pasolini si appropria di concetti altrui senza troppi riguardi per la loro valenza originaria: per lui infatti, che in questi anni è impegnato soprattutto nel cinema, l’“integrazione figurale” allude pure alla potenza icastica, alla capacità della scrittura letteraria di evocare immagini virtuali. Una potenza che però richiede di essere completata da immagini in atto: come, nel cinema appunto, una sceneggiatura pre-figura le riprese effettive che, sulla sua base, verranno materialmente effettuate da chi realizza il film. È quella che in un saggio fondamentale del ’66 Pasolini chiama “struttura che vuol essere altra struttura”: modo di ragionare che è alla base della sua prassi delle opere da farsi, le quali vanno considerate “strutture diacroniche […] morfologicamente in movimento”, cioè “processi”, anziché “testi” isolati e dati una volta per tutte (Pasolini 1966, 1498-9).
Sin dall’inizio anche La Divina Mimesis è concepita quale “opera da farsi” (tale viene definita nel Progetto di opere future, un componimento di Poesia in forma di rosa: Pasolini 1964, 1251). In una delle note del testo risalenti al ’64 così viene descritta la sua struttura:
Il libro deve essere scritto a strati, ogni nuova stesura deve essere a forma di nota, datata, in modo che il libro si presenti quasi come un diario […]. Alla fine il libro deve presentarsi come una stratificazione cronologica, un processo formale vivente: dove una nuova idea non cancelli la precedente, ma la corregga, oppure addirittura la lasci inalterata, conservandola formalmente come documento del passaggio del pensiero.
Così il testo avrà “la forma magmatica e la forma progressiva della realtà (che non cancella nulla, che fa coesistere il passato con il presente ecc.)” (Pasolini 1975, 1117). Mutuando dunque la struttura temporale che Auerbach gli ha mostrato tipica del tempo di Dante, Pasolini costruisce un testo che retroattivamente si modifica a ogni aggiunta (‘si aggiorna’, potremmo dire con metafora informatica; viene in mente la geniale, davvero profetica Nota sul ‘notes magico’ pubblicata da Freud nel 1925)[13], facendo coesistere il passato con il presente e di volta in volta integrando nella sua facies le nuove concezioni letterarie dell’autore, ma anche le nuove suggestioni offerte dalla storia del tempo (e in questo doppio livello – di una cronaca quasi live della società e della politica del presente, che coesiste con una riflessione trascendentale sul mondo e il proprio posto in esso – davvero La Divina Mimesis ‘mima’ uno degli aspetti più originali del modello dantesco).
Più in generale, in questo modo, Pasolini ‘magicamente’ realizza un testo con-temporaneo: nell’accezione, del termine, che Giorgio Agamben (che a suo tempo Pasolini aveva del resto frequentato, figurando fra gli interpreti degli Apostoli nel Vangelo secondo Matteo; cfr. Agamben 2017, 165) – in una conferenza di una quindicina di anni fa ormai assurta a classico del pensiero, è il caso di dire, contemporaneo – ha ri-codificato come con-vergenza, e al limite con-flitto, di più tempi, di diverse prospettive temporali. Agamben impiega un termine, “anacronismo”, che nel lessico intellettuale e nel suo uso denotativo equivale più o meno a un insulto: al proprio tempo la contemporaneità aderisce “attraverso una sfasatura e un anacronismo” (Agamben 2008, 9). È una concezione che a sua volta ha una lunga storia alle spalle; qualche anno prima Georges Didi-Huberman aveva parlato del “montaggio di tempi eterogenei che formano anacronismi” (Didi-Huberman 2000, 19) ma sia lui che Agamben, naturalmente, alle spalle hanno Walter Benjamin (il quale a sua volta elaborò questo concetto in dialogo, e parzialmente in conflitto, con Ernst Bloch: che aveva parlato, dal canto suo, di “non contemporaneità del contemporaneo”; cfr. Bloch 1935 e 1955, Benjamin, Bloch 2017, Bodei 1979 e Cortellessa 2020b), e in particolare la sua idea di “immagine dialettica” (Benjamin ne parla nelle testamentarie tesi Sul concetto di storia, oltre che nel libro sui ‘Passages’ di Parigi)[14].
È nell’immagine dialettica che s’incontrano appunto due prospettive temporali, il presente e il passato, le quali convergono in un medesimo luogo: da questo incontro-scontro sortiscono scintille, un bagliore che getta luce tanto sul presente che sul passato (cfr. Bazzocchi 2021a, 142-3). Il presente fa capire il passato, e questo tipo d’illuminazione è frequente negli storici (anche se non sempre, oggi, si mostrano disposti ad ammetterlo), ma anche il passato fa capire il presente: gettando su di noi un fascio di luce o, magari più spesso, un raggio d’ombra; come dice Agamben, “contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebre che proviene dal suo tempo” (Agamben 2008, 14-5). Quel buio che ci investe è premessa necessaria all’illuminazione profana: il momento in cui prende senso all’improvviso, cioè, quanto in precedenza ci era oscuro.
5.
“Illuminazione profana” è la memorabile definizione data da Benjamin (1929, 255) al più tipico procedimento dei surrealisti, che dell’ideario freudiano avevano messo a frutto uno dei principi-guida del testo più canonico, L’interpretazione dei sogni: quello della dialettica, nell’immagine sognata, fra senso latente e senso manifesto. E non si può escludere che quando nella citata prefazione alla Divina Mimesis afferma di “dare alle stampe oggi queste pagine come un ‘documento’”, Pasolini alluda al Dispaccio ritardato col quale André Breton, proprio nel ’63, aveva a sua volta ripreso in mano, dopo la leggendaria princeps del 1928, il suo (ovviamente freudianissimo) ‘romanzo figurato’, Nadja, parlandone come di un “documento ‘preso sul vivo’” (Breton [1928] 1963, 4)[15].
In quel ’75, terminate le riprese di Salò e nel bel mezzo del cantiere di Petrolio, Pasolini mostra un’attrazione per lui inedita – ancorché al solito ambivalente, come sempre nei confronti delle avanguardie storiche – per i surrealisti e in particolare per il massimo interprete del medium, la fotografia, che dopo i fratelli maggiori dadaisti spettava a loro aver fatto assurgere a espressione d’arte: Man Ray. Nella fattispecie, però, ad attrarre Pasolini era il suo celebre “ritratto immaginario” di Sade (eseguito in diverse versioni, a partire dal 1936, come stampa, dipinto e infine busto in bronzo): l’autore cioè – variamente feticizzato dai surrealisti, appunto – che aveva appena ispirato il suo ultimo film.
La figura è identificabile nel malefico Duca di Blangis delle Centoventi giornate di Sodoma, uno dei Signori protagonisti del film (quello interpretato da Paolo Bonacelli): in tutte le versioni del “ritratto” Man Ray raffigura il suo profilo come materiato degli stessi mattoni dei quali è costruito l’edificio, che si vede sullo sfondo, dove vanno in scena le sue elaboratissime malefatte (il Castello di Silling, che ripete spettralmente la Bastiglia recluso nella quale il Divino Marchese scrisse il romanzo nel 1785). Questa surreale, è il caso di dire, sovrimpressione ‘disumana’ fra autore, personaggio e set delle sue imprese (e dei suoi sogni deliranti), non poteva che incuriosire chi aveva appena trasfigurato il Castello di Sade nella Villa, nei pressi di Salò, covo dei torturatori fascisti e carcere delle loro sventurate vittime. In quello stesso autunno del ’75 di Man Ray fa menzione, Pasolini, anche nell’ambivalente pezzo dedicato ad Andy Warhol in occasione della sua mostra Ladies and Gentlemen, annotando però che il vecchio leone dell’avanguardia non riesce a capire il cortocircuito, operato appunto da Salò, fra Sade e il fascismo (cfr. Pasolini 1976, Del Puppo 2019)[16].
Un riferimento più evidente della Divina Mimesis alle avanguardie, e stavolta non solo a quelle ‘storiche’, è nella definizione dell’“iconografia ingiallita” come “poema fotografico” e, nella prefazione iniziale, come “poesia visiva” (ancorché ribaldamente si aggiunga, fra parentesi e in corsivo, “peraltro assai leggibile”). Non c’è dubbio che con l’espressione poesia visiva Pasolini alluda a quello che – magari non ancora all’altezza nel ’63, ma senz’altro nel ’75 – era nel frattempo diventato un vero e proprio ‘genere’ assiduamente praticato, appunto, dalle avversate neoavanguardie (cfr. Spignoli 2020): giusto nel ’63 aveva inserito Balestrini dei collage verbali, da lui definiti “Cronogrammi”, nella sua prima raccolta organica Come si agisce (cfr. Balestrini 1963, 211-21 e 473-83; Cortellessa 2015; il volume è schedato in Chiarcossi, Zabagli 2017, 38), mentre quella primavera s’era riunito a Firenze un altro gruppo di poeti e artisti d’avanguardia (capeggiati da Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini) che aveva preso il nome di “Gruppo 70” e si era specializzato appunto nella “poesia visiva”, promuovendo incontri e pubblicando riviste e antologie (cfr. Spignoli, Corsi, Fastelli, Papini 2014); del ’64 sono le prime ‘cancellature’ di Emilio Isgrò e del ’68 il suo ‘romanzo cancellato’ Il Cristo cancellatore (rinvio a Cortellessa 2008); del ’67 Obsoleto, ‘romanzo visivo’ di Vincenzo Agnetti che a sua volta si concludeva ‘cancellandosi’ e inaugurava una collana (destinata peraltro a effimera esistenza) che provocatorio Vanni Scheiwiller aveva intitolato “I denarratori” (rinvio a Cortellessa in c. di s.; cfr. Merjian 2020, 67-9).
Fra le immagini della Divina Mimesis ce ne sono in particolare due (la 3 e la 4, che riproducono momenti traumatici degli scontri sanguinosi dell’estate ’60, a Reggio Emilia e altrove, in rivolta contro il governo Tambroni) che ricordano un dittico di immagini pubblicate da Alberto Boatto a commento del suo saggio Evento come avventura, sul numero 3 della rivista “cartabianca” dedicata alle sperimentazioni dell’arte contemporanea, apparso nel novembre del ’68. In quel caso una scena di guerriglia urbana a Parigi durante il Maggio, nella quale un giovane ripreso di spalle trasporta il corpo di un compagno esanime in una sorta di Pietà rovesciata, si affianca all’epifania gloriosa del corpo di Pino Pascali come era apparso nel film d’avanguardia di Luca Patella, SKMP2, girato nell’agosto dello stesso anno: subito prima, cioè, della sua morte prematura in un incidente motociclistico a Roma[17].
Insomma non c’è dubbio che nell’occasione Pasolini intendesse sarcasticamente gareggiare coi propri “nemici” – appunto proclamando la sua “poesia visiva”, a differenza della loro, “assai leggibile”[18]. Da Dante, del resto, Pasolini aveva pure appreso l’arte di convocare nei suoi testi i propri rivali, performativamente con loro gareggiando negli stessi versi che li ospitano (o piuttosto, a futura memoria, li intrappolano): si pensi solo alla figura fatta da Guittone d’Arezzo nelle parole di Bonagiunta Orbicciani, nel XXIV del Purgatorio (cfr. Barolini 1984). Non solo i rivali, in effetti, ma anche i più o meno venerati predecessori: a loro volta, però, destinati a venire “cacciati dal nido”. È il caso di Carlo Emilio Gadda, che nell’immagine 7 dell’“iconografia ingiallita” è convocato in compagnia dell’“autore” – quale Pasolini si definisce nella didascalia.
In uno di questi ‘doppi testi’, Il castello di Udine del 1934, Gadda aveva attribuito la propria dilagante auto-annotazione a un eteronimo di fantasia cui aveva dato un nome dantesco, “Feo Averrois” (giocando con la definizione di Averroè, ricordato appunto quale commentatore di Aristotele, nel IV dell’Inferno: “Averoìs che ’l gran comento feo”). Proprio la Commedia, si capisce, viene subito in mente pensando a un testo dal proliferante commento. Ma con questo sdoppiamento onomastico Gadda evidenziava altresì la scissione della personalità comportata, per lui, da una simile geminazione testuale. È il Gadda che in Come lavoro, fondamentale testo di poetica del ’50, giunge a definire se stesso un “dissociato noètico” (Gadda 1950, 431): sicché non si sbaglia a indicare (lo ha fatto Bazzocchi 2017, 107 e 151) in Carlo Emilio – ingegnere omosessuale represso dallo scottante, abiurato passato fascista – il principale modello del Carlo protagonista della nuova avventura narrativa di Pasolini che in molti sensi prosegue ed estremizza, sino a farle esplodere, le soluzioni adottate dalla Divina Mimesis. Parlo naturalmente di Petrolio.
L’ingegner Carlo Valletti – che adombra anche il padre dell’autore, il militare fascista Carlo Alberto Pasolini – si presenta a sua volta “dissociato”, infatti, in due contrapposte entità: Carlo di Polis – che ubbidisce alle norme borghesi del proprio ruolo professionale in una multinazionale di idrocarburi – e Carlo di Tetis – che invece si lascia andare a tutti gli eccessi e le sfrenatezze sessuali immaginabili (polis è la città civilizzata dei commerci e della tecnica, tetis è invece pseudoetimologia greca che rinvia “alla sessualità, cioè alla parte nascosta e pulsionale dell’individuo”: De Laude 2015, 18). Tutti e due gli avatar, nel corso di Petrolio, giungeranno sino a trasformarsi in donne, per poi tornare uomini: metamorfosi a più riprese designata da Pasolini come “momento basilare del poema” (cfr. Pasolini 1992, 207, 281, 421, 537-8; lo sottolinea De Laude 2015, 13 e 38 sgg.; cfr. anche Fusillo 2006).
6.
Del “poema” più in generale è sdoppiata, lo si accennava, la struttura. Non solo per la doppia natura del suo protagonista, e per il ‘gaddiano’ doppelgänger testuale che vi fa di continuo alternare parti narrative e ‘commenti’ metanarrativi (da Pasolini rispettivamente definite “Mistero” e “Progetto”), ma in primo luogo per la geminazione dei piani temporali – l’impianto ‘figurale’ sperimentato con La Divina Mimesis – che innerva sottilmente l’intero impianto di Petrolio per farsi evidente nell’episodio chiave della “Visione” (corrispondente agli Appunti 71 e 72, che si articolano però in ventotto paragrafi – ventisei di cui il quarto è suddiviso in tre parti – con l’aggiunta di ben tre finali: cfr. Pasolini 1992, 344-412).
Qui s’incontrano in un’“immagine dialettica”, che insiste sul medesimo paesaggio suburbano delle borgate romane, appunto due piani temporali sfalsati fra loro: da una parte quello delle borgate romane “di una volta” (cioè quelle immortalate dai romanzi romani e soprattutto, vedremo, da Accattone e Mamma Roma), nelle quali Pasolini a suo tempo aveva sognato di incontrare una natura popolare edenica e inconcussa (“la condizione incontaminata e autentica del sottoproletariato prima della degenerazione imposta dallo sviluppo economico”, secondo l’analisi in quei mesi condotta nei saggi poi raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane), e che ora ambiguamente definisce “Realtà”, e quello sconsacrato e infernale del presente (cioè “la sua versione corrotta […] presentata come un vero e proprio ‘museo degli orrori’”: Gragnolati 2013, 53; la citazione dall’Appunto 71c; cfr. Pasolini 1992, 351), che definisce invece “Visione”. Le due immagini, la Realtà e la Visione, sono come sovrapposte (Appunto 71b; cfr. Pasolini 1992, 347), e sotto la più recente “balugina” quella primitiva (Appunto 71z; cfr. Pasolini 1992, 389): ma la “Visione” a tutti gli effetti esautora e smentisce la cosiddetta “Realtà”, che all’improvviso appare “ingiallita come una vecchia fotografia” (Appunto 71g; cfr. Pasolini 1992, 361)[20]. A fronte di questa “Realtà” opaca e ingiallita, la “Visione” si mostra vivida e squillante, artificialmente sovrailluminata come se fosse investita dal riflettore di un set cinematografico; e in effetti è contemplata dal protagonista Carlo da “un carretto”: nella posizione cioè, scrive Pasolini, di “un regista sopra un carrello” (Appunto 71a; cfr. Pasolini 1992, 345).
Questa luce innaturale e spettrale ricorda da vicino quella evocata da una curiosa pagina coeva, dedicata da Pasolini ai celebri scritti su Caravaggio del maestro Roberto Longhi, e forse da lui in un primo momento pensata come recensione al suo “Meridiano”, curato da Contini nel ’73. In un secondo momento, però, Pasolini la deve aver sentita inadatta alla circostanza e l’ha messa da parte (sostituendola col pezzo memorabile poi incluso in Descrizioni di descrizioni: Pasolini 1974)[21]. Il titolo, datole dai curatori dei “Meridiani” dei Saggi sulla letteratura e sull’arte, suona La luce di Caravaggio e in effetti tutto il pezzo – ricordando l’ipotesi, appunto di Longhi, che lo scandaloso ‘realismo’ del pittore non fosse che un gioco di prestigio derivante da un sistema di specchi – s’incentra sul “diaframma (anch’esso luminoso, ma di una luminosità artificiale, che appartiene solo alla pittura e non alla realtà) che divide sia lui, l’autore, sia noi, gli spettatori, dai suoi personaggi, dalle sue nature morte, dai suoi paesaggi”, e che “traspone le cose dipinte dal Caravaggio in un universo separato, in un certo senso morto”: dentro quella visione allo specchio “tutto pare come sospeso come a un eccesso di verità, a un eccesso di evidenza, che lo fa sembrare morto” (Pasolini 1999, 2673-4).
Anche la “Visione” di Petrolio ha una luminosità artificiale, che appartiene solo al cinema e non alla realtà, potremmo dire parafrasando le parole di Pasolini su Caravaggio. Se nel pittore è lo specchio a isolare gli oggetti della realtà in un eccesso di evidenza che li fa sembrare morti, in Petrolio è comunque la mediazione di un diaframma di immagini già-date (il repertorio cinematografico del Pasolini ‘piccolo regista vitalista’ d’antan, per parafrasare la sua auto-definizione nella Divina Mimesis) a conferire alle cose questo eccesso di evidenza mortifero. Ed è questa la prova più convincente a favore dell’ipotesi da più parti avanzata che, come nel testo licenziato in quel ’75, Pasolini intendesse dotare anche questo suo iperbolico spin-off di un apparato iconografico.
Della Divina Mimesis, di certo, Petrolio avrebbe senz’altro mantenuto la forma deliberatamente incompiuta: presentandosi come assemblaggio di materiali restaurati da un immaginario filologo e accompagnati, s’è visto, da assidui commenti ‘saggistici’. Un meta-romanzo “più moderno di ogni moderno”, dunque, nonché una storia frammentaria dell’Italia contemporanea e una non meno frammentaria – e come al solito auto-punitiva – auto-biografia. La tragica morte di Pasolini, però, interrompe la stesura del testo e come si sa i suoi materiali vengono pubblicati, nel 1992, in forma per così dire doppiamente incompiuta: non si sa con esattezza, cioè, quali parti sarebbero state completate e quali, invece, volutamente lasciate in bianco. La mutilazione antropologica, la devastazione sociale che il Pasolini ‘corsaro’ denuncia nell’Italia dei ’70 si sarebbe dovuta riflettere anche nella struttura del romanzo che la raccontava: e in effetti questo testo mutilo e slabbrato, pieno di buchi incoerenze e parti irrisolte, è per noi oggi l’immagine più fedele di un’Italia a sua volta costellata di zone d’ombra, misteri e particolari enigmatici.
Malgrado lo statuto di incertezza che lo avvolge, o forse proprio per questo, Petrolio è senza dubbio il capolavoro letterario del suo autore. Fra i materiali che Pasolini avrebbe voluto includere in questa satura lanx straordinariamente spuria ed eterogenea (“un Satyricon moderno” viene definito a più riprese Petrolio, cfr. Pasolini 1992, 95 e 472: anche il capolavoro di Petronio – nome col quale pure, con ogni probabilità, gioca il titolo di Pasolini: cfr. Bazzocchi 2017, 91 – lo possiamo infatti leggere solo a brandelli, appunto in ricostruzione filologica; cfr. Lago 2007), con ogni probabilità, c’erano anche delle fotografie. E sappiamo pure, con un certo grado di approssimazione, quali sarebbero state. Nel caso di Pasolini, dunque, la decurtazione dell’apparato iconografico – tante volte in passato comminata, a testi così concepiti dai loro autori, da editori micragnosi e filologi pavidi – non è dipesa altro che dalla sorte che si abbatté su di lui. E in fondo la spettrale sovrimpressione che finì in questo modo per prodursi – fra la sorte del poeta, quella del suo libro e quella del suo paese – è la sigla più pasoliniana che, per questa storia, si possa immaginare.
Le fotografie che probabilmente sarebbero entrate nella satura lanx di Petrolio Pasolini le realizza nelle sue ultime settimane di vita, quando è tutto calato in questo suo tentacolare progetto narrativo. È l’ottobre del ’75 quando incontra un giovanissimo fotografo, Dino Pedriali, che lo incuriosisce in quanto appena reduce dall’aver conosciuto (e ritratto) il vecchio Man Ray che dopo aver terminato Salò, abbiamo visto, tanto lo attrae. A Pedriali (che è fra l’altro assistente del gallerista Luciano Anselmino che a Pasolini ha appena commissionato il testo su Warhol, e che anche su quest’ultimo ha appena realizzato un servizio fotografico) commissiona due distinte serie di immagini, eseguite a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Una lo ritrae nella sua casa di Sabaudia, sul litorale romano, dove lo scrittore si presenta nella sua icona ‘ufficiale’, al lavoro alla macchina da scrivere. Nell’altra invece si fa fotografare mentre accovacciato a terra disegna il profilo dell’antico maestro Longhi, ma anche nudo nella sua camera da letto, dietro la vetrata di un’altra sua casa nell’alto Lazio nei pressi di Viterbo, la cosiddetta Torre di Chia: come se fosse spiato a sua insaputa, dal fotografo, con sguardo ‘voyeuristico’.
Quella dell’impegnarsi nella realtà con tutto il proprio corpo, un vissuto che è tutt’uno con la propria ideologia, è per lui sempre stata una bandiera; ma questo atto di esibizionismo terminale (e involontariamente testamentario) è un autoritratto scisso: “come se quello che si vede non fosse solo un corpo, bensì il fantasma di un corpo. Meglio: il doppio corpo di Pier Paolo Pasolini” (Belpoliti 2010, 72). L’episodio rientra nell’attitudine del Pasolini tardo di “darsi in pasto alla curiosità dei lettori, come se gli fosse ormai impossibile tener nascosto qualsiasi dato della propria vita” (Bazzocchi 2017, 8): ma questo gesto auto-sacrificale – che inscena su se stesso la persecuzione tante volte subita in passato – come detto è accompagnato da una scissione non meno sintomatica e, una volta di più, sadomasochistica: svolgendo tanto il ruolo della vittima spiata che quello del carnefice-voyeur. La situazione del film ‘sadiano’, appena girato, si basa proprio su questa ambivalenza intollerabile: e in una di queste fotografie, infatti, si vede Pasolini scrutare dalla finestra mettendo le mani ‘a binocolo’ attorno agli occhi – esattamente come avevano fatto i Signori di Salò (cfr. Bazzocchi 2017, 162-3).
Questa scissione è segnalata dal diaframma della vetrata, attraverso il quale lo sguardo indiscreto del fotografo riprende la vita privata del poeta: “diaframma” che funziona proprio come il dispositivo dello specchio che Longhi ipotizzava avesse impiegato Caravaggio (riassumo in questi ultimi paragrafi un’analisi più ampiamente svolta in Cortellessa 2017, 211-7).
Attraverso il diaframma delle immagini riprodotte, i tratti del volto di chi si auto-ritrae si ‘fissano’ in un eccesso di evidenza, così allontanandosi dallo statuto ‘mosso’ della vita, facendolo sembrare morto. Quella così mediata di Pasolini è davvero (per dirla con De Man 1979) un’“autobiografia come ‘sfiguramento’”, che si realizza ingiallendo i propri stessi lineamenti. S’è visto come quella dell’ingiallimento sia sempre, in Pasolini, la sorte che nella temporalità figurale dell’opera da farsi subisce quanto invece, in passato, si caratterizzava per vitalità, freschezza, confidente apertura al futuro (cfr. Rizzarelli 2014, 11n): così, s’è visto in Petrolio, la “Realtà” a fronte dei colori corruschi della “Visione” infernale che ad essa si sovrappone emendandola e letteralmente s-figurandola. Ha fatto notare Bazzocchi come ancora più diretto sia il riferimento autobiografico nella Nuova gioventù, la raccolta poetica pubblicata l’anno prima della Divina Mimesis nella quale Pasolini sfigura i versi per antonomasia freschi e sorgivi della Meglio gioventù; sulla copertina della prima edizione einaudiana, infatti, è “riprodotta la fototessera di un Pasolini giovane militare” (Bazzocchi 2017, 131): un’immagine risalente al periodo delle originarie Poesie a Casarsa, appunto, la quale ha la medesima funzione che di lì a poco, nell’“Inferno contemporaneo” della Divina Mimesis, avranno le immagini 9-13 raffiguranti “Ragazzi, com’erano alla fine degli anni ’50”.
Il “carattere… necrologico” (Pasolini 1975, 1119) della nota ‘filologica’ apposta alla Divina Mimesis, come non senza ironia lo definisce Pasolini, torna su quella che è sempre stata una sua ossessione: la pre-figurazione della propria stessa morte. In un poemetto di Poesia in forma di rosa, il celebre e bellissimo Una disperata vitalità, tale prefigurazione è talmente precisa (menzionando in particolare il litorale di Ostia, dove effettivamente undici anni dopo si consumerà il suo assassinio) da aver indotto qualche lettore a immaginare che Pasolini abbia finito per programmare nei minimi dettagli, in quel luogo, la propria morte: in modo da tragicamente adempiere alla propria stessa passata prefigurazione.
Al di là di questa ipotesi, tanto macabra quanto inverosimile, non c’è dubbio che le immagini dell’“Iconografia ingiallita” svolgano una funzione simile a quella che, con ironia più evidente, una volta aveva associato Luigi Capuana a quello che definiva il proprio ritratto profetico (in cui lo scrittore si raffigurava appunto da morto). L’episodio, che chissà quanto consapevolmente ripeteva un’immagine pionieristica nella storia della fotografia (quella di Hyppolite Bayard che, forse per amor di polemica avanti lettera ‘pasoliniano’, si era autoritratto come affogato nella Senna; cfr. Muzzarelli 2014, 44), è riportato – appropriatamente nel necrologio dello stesso Capuana – dal suo discepolo geniale, Federico De Roberto (si veda il suo testo del 1916 cit. in Sorbello 2008, 17); e secondo Leonardo Sciascia illustra meglio di ogni altro “il senso, la premonizione, che la fotografia abbia a che fare con l’identità e con la morte” (Sciascia 1988, 1146).
Proprio l’introduzione della fotografia, tra i paraphernalia dell’ultimo Pasolini preso nel cimento con l’attitudine ‘visiva’ della Neoavanguardia, dà un giro di vite alle sue annose fantasie necrologiche. Naturalmente Pasolini non può conoscere La camera chiara – opera testamentaria del 1980 che istituirà una volta per tutte, con tetra e scintillante eloquenza, il legame strutturale tra fotografia e morte cui alluderà Sciascia – ma come mostra Empirismo eretico, quasi ad apertura di pagina, proprio Barthes è l’autore della nouvelle vague strutturalista (e post-) col quale ha maggiore confidenza (cfr. Pontillo 2015, 24-7, che ricorda anche La luce di Caravaggio, e in questo numero di “Engramma” i contributi di Davide Luglio e Gianfranco Marrone)[22].
Tutta La Divina Mimesis “assume così l’aspetto di una forma sepolcrale, di una cripta, la cui funzione è di conservare e di evocare ombre del passato, per farle agire di nuovo sul presente” (Bazzocchi 2017, 143)[23]. Quest’aura spettrale, che la particolare temporalità della Divina Mimesis proietta sul suo autore, si troverà dispiegata appieno – lo abbiamo visto – nel testo narrativo che avrebbe dovuto seguirla, appunto Petrolio. E non è detto che l’idea dell’“integrazione figurale” si trasmetta dalla prima al secondo, seguendo una progressione cronologica lineare: altrettanto se non più verosimile è l’ipotesi contraria (di Gragnolati 2013, 52), e cioè che l’apparato di immagini che per Petrolio, prima di incontrare Pedriali, Pasolini non aveva ancora realizzato ma già aveva immaginato di impiegare, gli abbia dato l’idea decisiva per l’ideale completamento, il ‘colpo di pollice’ dato alla Divina Mimesis al momento di finalmente pubblicarla. In questo caso, nel concreto della sua opera, egli avrebbe realizzato quella temporalità paradossale, retroversa e prefigurante, che i suoi maestri gli avevano insegnato. Davvero un adempimento.
7.
Il paradosso temporale messo a fuoco, è il caso di dire, dalla Divina Mimesis è l’arcano che, più o meno dissimulato, soggiace a ogni discorso autobiografico. L’autobiografo, esattamente come il fotografo, deve considerare morto, cioè fermo e non più passibile di sviluppo, il proprio oggetto: e proprio come il fotografo lo fa divenire tale, a tutti gli effetti, nell’‘immagine’ di sé che consegna al testo. Ma nella Divina Mimesis Pasolini – col sofisticato apparato ‘figurale’, desunto da Auerbach, che ho provato a descrivere nelle pagine precedenti – si sforza in tutti i modi di introdurre un elemento invece di movimento e sviluppo, una disperata vitalità, in un vissuto in cui una spinta contraria è impressa dall’elemento strutturalmente mortifero della fotografia (in altri termini, cioè, appunto il suo sviluppo).
A valervi in ogni caso è la medesima domanda, “Chi sono, io?”, che risuona all’attacco di Nadja (Breton [1928] 1963, 5) ma è il vero interrogativo di qualsiasi testo ponga la questione di “come si diventa ciò che si è”. Un modello di autobiografia per interposta “iconografia” – o auto-icono-grafia, se si preferisce – destinato a notevoli fortune a venire, ma che verosimilmente Pasolini non fece in tempo a conoscere in quanto pubblicato nello stesso 1975 della Divina Mimesis e della sua morte, è il Barthes di Roland Barthes. Anche questo testo si presenta sdoppiato su due piani temporali: nella prima parte una raccolta di foto del Barthes bambino e adolescente viene commentata dal Barthes adulto (in modi che, solo in parte depurati del riflesso autobiografico, torneranno nella Camera chiara); nella seconda i frammenti di un ‘contributo alla critica di se stesso’ vengono illustrati, invece, da riproduzioni della grafia dell’autore adulto: come se la presa di parola in forma scritta sussumesse, a tutti gli effetti, quanto Barthes chiama “l’irriducibile” dell’infanzia, “l’emozione interna esclusa da ogni espressione per la sua infelicità” (Barthes 1975, 30).
Il principio all’opera, tanto nella Divina Mimesis che in Petrolio, risponde in qualche modo obliquo al più sibillino degli insegnamenti impartiti, nel primo, testo dal Pasolini-Virgilio al Pasolini-Dante. Nella parte metalinguistica del “canto II” Pasolini discute le scelte linguistiche del testo, e dichiara improseguibile la strada del plurilinguismo cioè il lessico ‘allargato’, di matrice appunto dantesca (e continiana), usato in precedenza: soluzione resa ormai impossibile dal prevalere, nella società del suo tempo, di un monolinguismo ‘omologato’ che chiama “Lingua dell’Odio”. Si mostra dunque incerto sulla strada da prendere: cioè, in concreto, sulla lingua da impiegare. Allora ‘Virgilio’ gli dà una ‘dritta’ per la verità, sul momento, non così perspicua: “Anziché allargare, dilaterai!” (Pasolini 1975, 1090). Indicazione così ‘tradotta’ dal discepolo: “Asimmetria, sproporzione, legge dell’irregolarità programmata, irrisione della coesività, introduzione teppistica dell’arbitrario”. Dopo di che cita il testo originale (Inf. II, 33): “Me degno a ciò né io né altri crede”. Nel contesto della Commedia è questo il commento di Dante all’evocazione dei propri più alti modelli letterari e religiosi: “Io non Enëa, io non Paulo sono”. Passaggio quanto mai ambiguo, allora: i caratteri specificamente stilistici della dilatazione, paradossalmente suggeriti al poeta dei ’60 da quello in tal senso ben poco ‘dilatato’ dei ’50, sono gli stessi della detestata avanguardia del suo tempo (si noti il tic dell’aggettivo “teppistico” che, come abbiamo visto, Pasolini volentieri affibbiava ai suoi “nemici” di allora), dichiarati infatti indegni di sé. Eppure sa benissimo, Pasolini, che con questa preterizione Dante vuole precisamente indicare quelli che saranno, nell’opera a seguire, i suoi modelli (le sue guide, appunto, sussunte dal Virgilio cristianizzato che non a caso viene chiamato da Pasolini a dare questa indicazione). Si può ben capire che, poche righe dopo, commenti: “Ciò che volevo disvolevo […] col nero, scorticato dolore del nevrotico” (ivi, 1091). Non potrebbe essere più evidente l’ambivalenza del suo rapporto con le prassi dell’asimmetria, dell’irregolarità programmata e dell’introduzione teppistica dell’arbitrario: cioè i caratteri che, lui volente o disvolente, alla fine della sua parabola troveremo tanto in Salò che in Petrolio.
Comunque si voglia leggere l’episodio, il principio della dilatazione si può interpretare anche in senso più lato. Rispetto alla sua scrittura poetica dei ’50 – quella delle Ceneri di Gramsci: alta, sonora, non sempre esente da retorica – non c’è dubbio che il Pasolini del decennio seguente abbia operato una straordinaria dilatazione: non solo nelle ben più mosse partiture specificamente letterarie di Poesia in forma di rosa, ma soprattutto nell’abbracciare la lingua del cinema. Una mossa che va letta nel contesto della crescente insoddisfazione mostrata in quegli anni, per i codici letterari ereditati, dagli scrittori della sua generazione e di quella seguente: appunto i “nemici” della Neoavanguardia.
Anche nella nostra letteratura, infatti, nei ’60 – trasversalmente allo ‘scisma’ ideologico (ma anche temperamentale e in molti casi, magari, squisitamente personalistico) prodottosi nel decennio precedente fra le due ali dello ‘sperimentalismo’ – si afferma la dilatazione di quella che si può definire un’expanded poetry. Analoga cioè, sotto molti aspetti, a quello che di lì a poco Gene Youngblood, definirà Expanded Cinema (cfr. Youngblood 1970): per l’innesto nel corpus del cinema delle nuove tecnologie che fanno ricorso alle immagini in movimento, ma anche per la connessione che lo stesso cinema ha operato fra le arti dell’immagine, del suono e della parola: di esse nutrendosi e, al tempo stesso, in esse espandendosi (basti pensare a come il principio del montaggio abbia informato di sé la letteratura del Novecento).
Non troppo diversamente, la spregiudicatezza con la quale la fotografia entra allora, dopo lunga ‘latenza’, nei testi letterari anche italiani [24] ha, fra i molti altri, l’effetto cruciale di provvidenzialmente de-generarli: rispetto ai ‘generi’ cui – in un’ottica ‘subordinata’ – si riferirebbero. Per esempio La Divina Mimesis ri-fa il ‘poema’ per eccellenza della nostra tradizione letteraria ma viene considerata dall’autore un “romanzo” (ed è infatti inclusa, dai suoi curatori, in questa parte della sua opera); di contro Petrolio si presenta come ri-capitolazione complessiva, e persino enciclopedica, del ‘genere’ romanzo: ma come abbiamo visto l’autore lo definisce “poema”.
Per capirli meglio, allora, entrambi i testi guadagnerebbero dall’essere considerati, piuttosto, nella tradizione trans-mediale e trans-genre dell’iconotesto [25] e dell’expanded poetry. Se facciamo ancora fatica a farlo è perché, in troppi casi, continuiamo a combattere una battaglia cominciata più di sessant’anni fa. Una battaglia che era sbagliata anche allora, forse: e da ambo le parti.
Note
[1] Rinvio a Cortellessa 2017, 197-9; su questo cortocircuito deve ancora essere indagato appieno il trauma che deve aver rappresentato, tanto per Pasolini che per Fabio Mauri, la loro partecipazione in giovanissima età ai Ludi Juveniles organizzati a Firenze, nel maggio 1938, per festeggiare la visita in Italia di Adolf Hitler. Sulla collaborazione di Pasolini con Mauri, suo amico dai tempi appunto dell’adolescenza, si veda ora Stefano Chiodi su questo numero di “Engramma”.
[2] Dopo il Piccolo allegato stravagante che riproduce in corsivo un passo della recensione alla Letteratura italiana Otto-Novecento di Contini, poi passata in Descrizioni di descrizioni: Pasolini 1975, 1147-8 = Pasolini 1975b, 2203-4.
[3] Ma comprendente componimenti scritti prima della fine dell’ominoso ’63, anche se il relativo ‘montaggio’ prosegue sino al gennaio seguente: cfr. Siti, Careri, Comes, De Laude 2003, 1704-7.
[4] Ricorda opportunamente Siti 1983, 113 che nell’edizione del ’68 questo riconoscimento finì assegnato, anziché alla versione romanzesca di Teorema che vi concorreva, all’Occhio del gatto di Alberto Bevilacqua.
[5] Per esempio in uno dei pezzi che nel ’79 saranno inclusi nell’altro libro ‘semi-postumo’ Descrizioni di descrizioni, recensendo il Lunario dell’orfano sannita di Giorgio Manganelli: “Quasi sempre i conformisti sono teppisti”, è la formula di Pasolini (1973, 1912). Rinvio a Cortellessa 2020, 118-9 e 249.
[6] Nei relativi atti, curati l’anno seguente da Nanni Balestrini, per la verità l’unica sua menzione – in forma di allusione, comunque negativa – è in un intervento di Alberto Arbasino (che in seguito con Pasolini intratterrà, a differenza di quasi tutti gli altri membri del Gruppo, rapporti abbastanza buoni): cfr. Gruppo 63 1966, 139.
[7] Come quello di “quatriduana” affibbiato, all’apparire di Laborintus, alla “merce notevole” di Sanguineti: merce da lui stesso, peraltro, l’anno dopo proposta nella Piccola antologia neo-sperimentale di “Officina”. Questa ospitalità diciamo pelosa costò la parodica Polemica in prosa dello stesso Sanguineti e lo ‘scisma’ che ne seguì, fra ‘neo-sperimentali’ officineschi e futuri Novissimi, destinato a segnare il corso della nostra poesia di secondo Novecento. Cfr. Pasolini 1956, 664 e Weber 2004, 19-34.
[8] A conferma dell’ambivalenza dell’episodio, l’immagine in questione è attribuita al notoriamente fascistoide ‘vorticista’ inglese Wyndham Lewis (cfr. Siti, De Laude 1998, 1982), mentre nella scena corrispondente del film omonimo è riprodotto un dipinto del connazionale Francis Bacon, pittore da Pasolini invece ammirato.
[9] Questa la traduzione corretta del sottotitolo, reso nell’edizione italiana del 1956, invece, come Il realismo nella letteratura occidentale: assai opportuna la precisazione di De Laude 2009, 468; aveva già fatto notare la traduzione scorretta del sottotitolo Giglioli 2007.
[10] Alla “possibile integrabilità” delle due figure, ancorché presentata come uno “scandalo”, è dedicato l’inserto del “Piccolo allegato stravagante” posposto all’Iconografia ingiallita e ivi mondato delle pointes polemiche presenti su rivista, ma come detto destinate a riapparire in Descrizioni di descrizioni (Pasolini 1975, 1147-8).
[11] “Dante nella Mortaccia è trasformato in novello Virgilio che parla come Gioacchino Belli ed è marxista”, annuncia Pasolini in un’intervista dell’estate 1960. Caduto il progetto ne pubblicherà dei frammenti nel ’65, nel volume Alì dagli occhi azzurri che è un po’ lo zibaldone delle sue ‘devianze’ e dei suoi sentieri interrotti di narratore, spesso più suggestivi dei romanzi portati a termine (cfr. Pasolini 1965b; la figura allegorica della prostituta sacra torna però nei suoi primi due film, che mutuano l’ambientazione dei romanzi accentuandone i connotati appunto ‘infernali’: la Stella di Accattone, 1961, interpretata da Franca Pasut, e Mamma Roma nel film omonimo del ’62, interpretata da Anna Magnani; verosimilmente anzi è proprio Accattone che subentra al progetto della Mortaccia e lo sussume). A sua volta, però, La Mortaccia aveva preso il posto di un terzo episodio ‘romano’ che proseguiva l’impianto tradizionale dei precedenti e aveva per titolo Il Rio della Grana (cfr. Pasolini 1965): se ne fa menzione in uno dei Dialoghi di “Vie Nuove”, il 6 dicembre 1962 (cfr. Pasolini 1992b, 318-9, cit. in Gragnolati 2013, 173n; e cfr. Siti, De Laude 1998, 1963).
[12] Cfr. Pasolini 1963. Si veda pure l’intervista radiofonica Incontro con Pier Paolo Pasolini, a cura di Giorgio Fubiani, Radio Svizzera Italiana, 1 febbraio 1964, in appendice a Pasolini [1975] 2011, 105-7.
[13] Su Pasolini lettore di Freud cfr. De Laude 2019.
[14] Sulle diverse possibili – ma solo in parte documentabili – convergenze fra Pasolini e Benjamin si vedano i saggi di Bazzocchi, Fantini, Mannelli, Picconi e Luglio sul numero 13 di “Studi pasoliniani”, 2019.
[15] Naturalmente l’accezione bretoniana di “documento” non va presa nell’accezione denotativa del termine – si pensi solo al precedente rappresentato da “Documents”, la rivista fondata l’anno dopo la pubblicazione di Nadja dal discepolo-nemico Georges Bataille – pena i gravi equivoci interpretativi cui ancora oggi va incontro il capolavoro del ’28. Rinvio a Cortellessa 2018, 335.
[16] Il nesso fra i due artisti americani, curiosamente entrambi originari della Pennsylvania, era stato istituito in effetti da colui che era allora in Italia il gallerista di entrambi, il torinese Luciano Anselmino, che nel ’73 commissionò a Warhol un ritratto di Man Ray, e due anni dopo a Pasolini il testo su Warhol: cfr. Del Puppo 2019, senza n. di p. Condivisibile il giudizio di quest’ultimo che, dati i suoi presupposti ideologici, Pasolini non poteva cogliere gli aspetti divertitamente camp e deliberatamente ‘superficiali’ del lavoro di Warhol: il cui film Sleep (altra epifania mostruosa dell’horribilis 1963 in cui per tre ore e venti minuti, con la tecnica del long take, veniva ripreso il poeta John Giorno dormiente) a suo tempo del resto aveva preso a emblema, senza nominarlo, dello “stato di orrore per la realtà” ingenerato dal “lungo, insensato, smisurato, innaturale, muto piano-sequenza del nuovo cinema” (Pasolini 1967, 1566-7; cfr. Tricomi 2005, 298-304; Annovi 2017, 100-1; Cortellessa 2017, 206-9).
[17] Su questo ‘montaggio’ sessantottino, ivi riprodotto, si veda ora Chiodi in c. di s.; di Boatto nella biblioteca di Pasolini è conservato Ghenos Eros Thanatos, opera del ’74: cfr. Chiarcossi, Zabagli 2017, 203.
[18] La pointe sulla ‘leggibilità’ allude probabilmente a una delle polemiche più aspre, e più spettacolari, che avevano contrapposto agli autori della Neoavanguardia i sodali più stretti di Pasolini: quella consumatasi fra Alberto Moravia e Giorgio Manganelli, nel ’67, dalle colonne rispettivamente di “Nuovi Argomenti” e di “Quindici” (cfr. Menechella 2002, 63-76). A questa modalità allusiva, nel contendere cogli avversari, Pasolini aveva già fatto ricorso almeno una volta: quando nella già incontrata intervista del ’64 aveva detto, della Divina Mimesis in fase di travagliata elaborazione, “si tratterà di un romanzo apertissimo, di una cosa magmatica” (Pasolini 1964b, 2941). Così alludendo all’Opera aperta che due anni prima aveva dato la fama a un critico allora organico, appunto, al Gruppo 63: Umberto Eco).
[19] Come nella Divina Mimesis tale apparato è relegato nelle note, per esempio, nell’Adalgisa – che già aveva salato il sangue all’Arbasino dell’Anonimo lombardo – o nella versione in rivista di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana; mentre il diverso ‘sdoppiamento’ metadiscorsivo allestito in Petrolio trova un precedente impressionante nel cahier d’études allestito da Gadda per il Racconto italiano di ignoto del Novecento, romanzo iniziato nel ’24 e da lui lasciato incompiuto nonché, al tempo dell’ideazione di Petrolio, del tutto inedito; tuttavia Pasolini poteva averne avuto notizia a suo tempo dallo stesso Gadda o, più verosimilmente, dai depositari delle sue carte presso Garzanti ed Einaudi: dove infine il testo, a cura di Dante Isella, verrà pubblicato (cfr. Gadda 1983).
[20] Questo passaggio cruciale contempla un omissis, indicato nell’edizione a stampa da parentesi uncinate, che potrebbe forse consentire una lettura diversa da quella qui proposta. Silvia De Laude, che ringrazio, ha però verificato che questo omissis è indicato dallo stesso Pasolini nel dattiloscritto.
[21] Può darsi che questa intemperanza – quasi una ‘stroncatura’ di Caravaggio! – fosse dovuta all’impazienza, da parte di Pasolini, nei confronti della vulgata (spesso ripetuta da Cesare Garboli, per esempio) che schiacciava la sua biografia su quella del pittore ‘maledetto’ calato a Roma dal Nord (cfr. Galluzzi 1994, 80 sgg.).
[22] Il Sade, Fourier, Loyola (Barthes 1971; cfr. Chiarcossi, Zabagli 2017, 162 e 279) è uno dei cinque titoli (tutti francesi) citati nella “Bibliografia essenziale” dei titoli di testa di Salò, e del film Barthes scrisse su “Le Monde” nel ’76, cercando di descrivere lo “strano effetto” fattogli dalla visione. Anche il pezzo di Barthes, peraltro, fa uno “strano effetto”: definisce il film di Pasolini “fallito come figurazione (sia di Sade che del sistema fascista)”, eppure gli fa una concessione non da poco quando scrive che “non è più il mondo tratteggiato da Pasolini a essere messo a nudo, ma il nostro sguardo: il nostro sguardo messo a nudo”, così impedendo agli spettatori di “riscattarsi”. Sicché Barthes in clausola si chiede se questo non faccia a dispetto di tutto, del film, “in fin dei conti un oggetto propriamente sadiano: assolutamente irrecuperabile” (Barthes 1976, 158-60).
[23] Vengono in mente le Time Capsules, come le chiamava Andy Warhol, nelle quali l’artista amava conservare ammassi di ritagli di giornale. Cfr. Warhol Headlines 2012.
[24] Una soglia significativa credo vada indicata nel reportage giapponese di Barthes, L’empire des signes, che proprio nello stesso anno in cui esce il saggio di Youngblood, il ’70, dichiara in abbrivo: “Il testo non ‘commenta’ le immagini. Le immagini non ‘illustrano’ il testo: ognuna è stata per me soltanto l’inizio di un vacillamento visivo, analogo probabilmente alla perdita di sensi che lo Zen chiama un satori; testo e immagini, nel loro intreccio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di questi significanti: il corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il distacco dei segni” (Barthes 1970, 3). Questo che Barthes chiama vacillamento è il distacco dei segni dalla funzione ‘subordinata’ di ‘illustrare’ o ‘commentare’ altri segni che mi piace definire “principio di insubordinazione”, e che sarà alla base dell’“iconotesto” come si affermerà definitivamente nei ’90 (rinvio a Cortellessa 2011). Nel 1974 il futuro traduttore del Barthes di Roland Barthes, Gianni Celati, realizza – in collaborazione col fotografo Carlo Gajani – Il chiodo in testa, il primo testo italiano che si ponga consapevolmente su queste coordinate: la quarta di copertina, non firmata ma almeno in parte attribuibile allo stesso Celati, ripete infatti il disclaimer di Barthes quando dichiara che “la fotografia non ha qui la funzione di illustrare il racconto scritto, né il racconto scritto di fornire didascalie a quello fotografico” (Celati 1974; rinvio a Cortellessa in c. di s.b).
[25] Ancorché La Divina Mimesis fatichi a esservi annoverata dalla pionieristica critica italiana sul tema; lodevoli eccezioni sono costituite da Rizzarelli 2014, Pontillo 2015, 147-165, Rizzarelli 2016 e Carrara 2020, 177-181.
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English abstract
Starting from La Divina Mimesis (1975) and Petrolio (the posthumous novel published in 1992), the essay analyzes the use of images within texts, postulating their iconotextual nature and discussing the consequences that this use entails in the construction of disjointed and convergent temporal plans: "dialectical images" of an anachronistic and conflicting "con-temporaneity"– an "avant-garde" fight against the avant-garde.
keywords | iconotext; contemporaneity; anachronism; conflict; avant-garde.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Andrea Cortellessa, Romanzi per figure. Pasolini con-temporaneo, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 309-348. | PDF dell’articolo