Dalla voce alla presenza
Il corpo del poeta nel tempo dello spettacolo
Stefano Chiodi
English abstract
“La poésie doit être faite par tous. Non par un”.
Lautréamont
In spiaggia
“Tutti gli uomini sono a loro modo anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura”. Così parla Giuseppe Ungaretti, ripreso sulla spiaggia di Viareggio da Pier Paolo Pasolini nel film-inchiesta Comizi d’amore del 1963 (1964, b/n, 89’)[1]. Il poeta siede su una sedia a sdraio, in gilet e maniche di camicia, un abbigliamento irrimediabilmente datato a confronto con le magliette e gli shorts dei vacanzieri che si intravedono sullo sfondo. Il contrasto è emblematico: in quei primi anni ‘60 Ungaretti appare come un uomo di un’epoca lontana, estraneo al mondo del consumo, a riti di massa per lui del tutto inaccessibili. Le sue parole, il suo corpo, i suoi gesti, la sua stessa voce sembrano in effetti provenire da uno spaziotempo remoto, una proiezione nella proiezione del film. Introdotte da un cartello con un interrogativo severo – “Schifo o pietà?” – e da un breve testo che dettaglia una “domanda precisa, brutale, bruciante” sull’omosessualità, le frasi di Ungaretti, con la loro caratteristica mescolanza, un po’ autentica, un po’ studiata, di candore e lucidità, mirano – questa è proprio la funzione che Pasolini dà loro – a illuminare la parte oscura dell’attualità, a mostrarne la piega più incerta e profonda, la faglia nascosta: la schiena spezzata del tempo.
Sullo sfondo dell’incontro tra Pasolini e Ungaretti vi è certamente l’ammirazione espressa dal primo fin dagli scritti giovanili e poi confermata in recensioni e interventi critici succedutisi nel corso dei decenni successivi[2], e certo la stima dell’anziano poeta per il più giovane, testimoniata ad esempio dall’importante sostegno pubblico in favore di Ragazzi di vita, messo sotto processo per oscenità nel 1956. Ancor più, nei pochi minuti della sua durata, l’incontro riflette la concezione pasoliniana della poesia come coscienza ed espressione umana che trova in un’altra dimensione, nel dialogo ininterrotto con le voci della tradizione, con la profondità psichica ed esistenziale dell’Io, così come con la tragicità della storia, la propria durata e persistenza e il senso stesso della sua azione[3]. Una visione nutrita da Marx e da Gramsci, ancora convinta, almeno fino a quei primi ’60, della possibilità di un autentico progresso umano, ma che deve anche di necessità confrontarsi con la dissipazione dell’ideale e il golfo delle pulsioni.
Non vi è forse momento più intenso da questo punto di vista dell’intervista televisiva di Pasolini al vecchio Pound del 1967[4], confronto faccia a faccia col testimone diretto e anzi incarnazione stessa della tragica ambivalenza della modernità, in cui il solco ideologico che li divide, spesso ribadito da Pasolini nei suoi scritti sul poeta americano[5], deve conciliarsi con la profonda ammirazione che gli impone la sua parola poetica. Con Pound, ancor più che con Ungaretti, Pasolini è di fronte alla prova vivente della divergenza, dell’inconciliabilità tra vita e letteratura. Se “il serpentaccio fascista” non aveva potuto ingoiare lo “spropositato agnello pasquale”[6] cui Pound viene paragonato, ciò è stato possibile proprio perché il linguaggio poetico, non adattabile alla norma sociale, nativamente impossibilitato a conformarsi a una regola esterna, fosse pure quella seguita dall’autore, appare a Pasolini una forma di esperienza radicale della vita e insieme un potente strumento di conoscenza delle sue essenziali contraddizioni, della sua costitutiva compromissione col tempo e la mortalità. Una testimonianza unica delle trasformazioni profonde della storia umana.
E dunque, per tornare a Comizi d’amore, se quella di Ungaretti è al tempo stesso un’impensabile, ritrovata innocenza e la cognizione della linea della morte, un’acuta “inquietudine sensuale” e un’ancor più lancinante (e per Pasolini pressoché giansenista) attesa della “grazia”[7], la trasgressione della norma di cui si ragiona nel film non è una scelta per il poeta, ma una condizione immanente al suo operare: “Io sono un poeta – dice appunto Ungaretti – e quindi incomincio col trasgredire tutte le leggi facendo della poesia. Ora sono vecchio e allora non rispetto più che le leggi della vecchiaia, che purtroppo sono le leggi della morte”. Proprio perché incarna un anacronismo, proprio perché si espone alla coscienza della fine, Ungaretti diventa agli occhi di Pasolini l’emblema vivente di un’accettazione non rassegnata della mortalità e un emissario della debole forza messianica della poesia.
Non è questa certo d’altro canto la prima volta che l’immagine di un poeta contribuisce a definire una nuova, moderna unità comunicativa, a stabilire una inconfondibile cifra individuale. I ritratti fotografici di Charles Baudelaire come quelli ad esempio di Walt Whitman, Ezra Pound, André Breton veicolano tutti consapevolezza dandystica e sprezzatura, e si propongono insieme in quanto effigi veritiere e come manifestazioni di stile. Una fusione di testo, corpo e voce nel segno di un’ibrida performatività, di un superamento della dimensione verbale del dettato poetico è già potenzialmente nell’impaginazione rivoluzionaria e nella vertigine grafico-fonica del Coup des dés… di Stéphane Mallarmé. Ma è solo con le avanguardie moderniste che questa dimensione diviene essenziale: Hugo Ball abbigliato da “vescovo magico” che declama le sue combinazioni onomatopeiche al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 1916; le letture di Vladimir Majakovskij a Mosca tra anni ’10 e ’20; le performance dei poeti americani della Beat generation, come quella di Allen Ginsberg con Howl alla Six Gallery di San Francisco nel 1955. Ma l’affermazione dello spettacolo come paradigma culturale dominante nel mondo occidentale segna il passaggio a una nuova fase. Il corpo del poeta diventa allora l’epicentro e lo specchio di una trasformazione che riguarda lo statuto stesso della poesia e più in generale della creazione artistica, così come i ruoli del pubblico e dei media, e rivela nuove forme di sensibilità collettiva. Sono tutte questioni decisive che non possono essere trattate nei limiti di questo testo, ma che costituiscono nondimeno il suo sfondo essenziale e la prospettiva da cui osserverò un numero ristretto di casi, tutti concentrati in Italia tra fine anni ’60 e ’70, e in cui la figura, la parola, il pensiero di Pasolini appaiono sempre in forme diverse coinvolti.
Alla “morte dell’autore” profetizzata da Roland Barthes su “Manteia” nel 1968, alla sua idea che “la scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine”, il “dato neutro, composito, obliquo […], il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive”[8], si contrappone simultaneamente un’ambigua forma di sopravvivenza, una condizione postuma dello stesso autore segnata dal trauma di una fine vissuta come una ripetizione infinita, in cui proprio il corpo, la voce, l’immagine dei poeti guadagnano una visibilità in precedenza negata dal primato della pagina scritta.
A Ungaretti, come agli altri intellettuali e scrittori che appaiono in Comizi d’amore, Pasolini attribuisce ancora il compito intellettuale e civile di interpretare e illuminare la natura del presente alla luce di un tempo lungo e di una complessità non apparenti. Ma è un compito che nel 1964 si rivela già difficile o irrealizzabile nelle nuove condizioni di una cultura di massa di cui presto Pasolini stesso sarà severo censore. I poeti hanno già iniziato in quel momento a deterritorializzare le loro poesie, a espanderle in un campo non più limitato alla parola ma divenuto (come accadeva negli stessi anni nelle arti visive, nel teatro e molti altri campi espressivi) instabile, poroso, eterogeneo, e in cui il confronto con il quotidiano, l’entropia, il caso, si spinge ben oltre la visione pasoliniana. Alla lettura per una cerchia ristretta succede un formato che integra la dimensione del concerto rock e quella di una counterculture ormai di massa, come nel caso di The International Poetry Incarnation, un evento svoltosi alla Royal Albert Hall di Londra nel giugno 1965, di fronte a un pubblico di migliaia di spettatori e con la partecipazione di diciassette poeti, tra cui lo stesso Ginsberg[9].
È una trasformazione riassunta e in qualche modo conclusa molto più tardi con un’immagine emblematica: l’invasione da parte del pubblico del palco su cui si erano appena esibiti i poeti nel primo Festival Internazionale dei Poeti sulla spiaggia di Castel Porziano, vicino Roma, un pubblico che reclama ormai il diritto a prendere direttamente la parola. A quel punto è ormai chiaro che la visione modernista della poesia come forza antagonista che “esprime il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti”, come “forma di reazione alla reificazione del mondo, al dominio della merce sull’uomo”[10] secondo le parole di Adorno, è diventata del tutto illusoria. La poesia non può più essere la “meridiana della filosofia della storia”[11], una protesta contro una società ostile, alienante, soffocante, ma un grido, o piuttosto una cacofonia di voci, rauca e monotona, che ripete il mantra di Castel Porziano: “io, io, io”.
La profezia di Lautréamont citata in epigrafe[12] – e che Guy Debord e i situazionisti avevano ripreso nel loro “progetto di mettere il linguaggio, le relazioni, il tempo e lo spazio in situazione, di “poétiser la vie”[13] – sembra così realizzarsi in modo perverso. La poesia moderna era stata essenzialmente lirica e basata sulla “liberazione del talento individuale, la conquista del diritto a scrivere senza rispettare regole prestabilite e a intendere lo stile come espressione anarchica di sé”[14]. Nell’epoca della sua democratizzazione, la poesia diviene mezzo per esprimersi, una trascrizione in apparenza immediata dell’esperienza individuale. Il corpo oscuro e luminoso del poeta si trasforma allora nel corpo acefalo di una moltitudine che vive in modo indebolito, sotto forma di narcisismo di massa, gli ideali romantici di autorivelazione e di originalità, annegati da un imperativo di comunicazione che diventerà un elemento essenziale della nostra contemporaneità.
Dalla spiaggia di Viareggio a quella di Castel Porziano si assiste insomma alla fine del ruolo di supplenza metafisica che la cultura occidentale ha attribuito all’arte, e alla poesia in particolare, negli ultimi due secoli. C’è in questo forse la realizzazione della necessità, per la poesia come per ogni opera d’arte, di affidarsi “al contenuto materiale storico del proprio tempo senza riserve e senza la presunzione di stare al di sopra di questo”, per divenire, come suggeriva Adorno con un’altra delle sue formule memorabili, “la storiografia a se stessa inconscia della propria epoca”[15]. La crisi della parola poetica moderna, a lungo annunciata, è ora consumata. Nel numero che “Les Cahiers de l’Herne” dedicano a Henri Michaux nel 1966, Ungaretti rifletteva su questa nuova condizione tornando a un tema essenziale dei suoi inizi poetici, la “frantumazione” del verso e del significato:
L’uomo, mi pare, non riesce più a parlare. C’è una violenza nelle cose che diventa la sua propria violenza e gli impedisce di parlare. Una violenza più forte della parola. Le cose mutano e ci impediscono di nominarle, e quindi di fondare delle regole per nominarle e per permettere agli altri di goderne l’evento. Forse è perché testimoniano di un mondo apocalittico dove l’uomo vive con la possibilità di autodistruggersi […]. Più sappiamo e più ci allontaniamo e più ci è difficile decifrarne il nome, e più ci sembra d’essere colpiti d’afasia. Le ragioni di tutto diventano sempre più oscure. No, le parole non ci servono. Le parole delle vecchie rettoriche sono parole senza sufficiente forza di segreto[16].
È questo silenzio, questa afasia, il vuoto che il nuovo corpo mediale del poeta cerca di colmare.
Una santità anarchica
Seduto su un letto disfatto dall’incongrua struttura di bambù, in una stanza traboccante di panni, carte, libri, quadri, cianfrusaglie, il poeta Sandro Penna legge ad alta voce, in un tono cantilenante in cui è ancora sensibile l’accento umbro: “La vita… è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba…”. La camera stringe sul suo corpo: Penna si ferma, sfoglia le pagine dell’edizione Garzanti che tiene in mano, si distrae, commenta, fa battute, si schernisce (“sono cose un po’ romantiche”, dice). L’immagine inquadra ora il suo volto in primo piano: sceglie un’altra poesia, la recita con voce cadenzata (“io leggo i versi proprio come sono scritti”), poi smette, si lamenta dei suoi malanni, parla al telefono, chiede di fermarsi, tace.
È una sequenza straordinaria di Umano non umano, un lungometraggio realizzato da Mario Schifano tra il 1968 e il 1969 (1969, 16 e 35 mm, 95’), che forma con Satellite (1968) e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1969) una trilogia, unica nel panorama underground italiano, in cui l’artista utilizza il mezzo cinematografico per esaminare le trasformazioni dell’immaginario nell’epoca dei media e della società di massa[17].
Il film vede scorrere senza apparenti nessi narrativi scene di vita urbana contemporanea – un picchetto di scioperanti, un livido party mondano, cortei di piazza, ecc. –, immagini di attualità riprese direttamente da uno schermo televisivo in bianconero – si riconoscono frammenti della guerra in Vietnam, della rivoluzione culturale cinese, dell’occupazione sovietica di Praga nella primavera ’68 –, quadri di desolata vita coniugale. Alcuni segmenti contengono cammei di celebrità del rock (Mick Jagger, Keith Richards), di artisti e scrittori contemporanei, da Alberto Moravia ripreso sulla spiaggia di Sabaudia, a Jean-Luc Godard (uno dei modelli di riferimento per il cinema di Schifano), a Carmelo Bene e a Franco Angeli, quest’ultimo filmato mentre realizza su un pendio, con gesto a metà tra performance e intervento ambientale, una grande falce-e-martello bianca.
Con Umano non umano Schifano aspira a fornire un fermo immagine del mondo contemporaneo attraverso una modalità, come scrissero Adriano Aprà e Piero Spila, né “caotica né astratta, ma selezionata e soprattutto, selezionabile”:
La tensione del film al cerchio, all’armonia, porta alla giustapposizione di blocchi di realtà il più possibile diversi tra loro, e tali da esaurire un campo ideale di possibilità. Lo spettatore è posto di fronte a questo cerchio come a un muro uniformemente scandito dalle immagini televisive. Nessun percorso definito che lo aiuti ad orientarsi, nessuna evoluzione e consequenzialità che stabiliscano per lui una dialettica di prima-dopo, o di interno-esterno (come in Satellite e Trapianto): il loro ritmo è quello di un cosmico presente continuo[18].
Il “non umano”, secondo il titolo di ispirazione nietzschiana del film, è dunque la società dei consumi, il suo quotidiano violento, spettacolare e mercificato, la guerra e l’imperialismo occidentale, che Schifano contrappone agli impulsi e ai desideri “umani”, alla ribellione giovanile, alle creazioni degli artisti, alle lotte dei lavoratori. I “blocchi di realtà” del film, osservati con un distacco che ricorda sia lo stile dei film di Andy Warhol che la sensibilità di Jean-Luc Godard, non mostrano alcuna evoluzione: non c’è un prima né un dopo, nessun sbocco emotivo, nessun dénouement narrativo; nessuna rivoluzione è annunciata.
La successione di quadri statici, il montaggio parallelo degli episodi, convergono verso un centro di gravità: il motivo del corpo, un corpo ambivalente, erotico e politico, gioioso e luttuoso al tempo stesso, esplorato nelle sue manifestazioni pubbliche e private, nel suo potenziale sessuale, nella sua apoteosi narcisista, come agente od oggetto di violenza, come epicentro di un doppio movimento di emancipazione individuale e collettiva. Un corpo estetico, anche, rifratto nell’accumularsi ritmico di frammenti di una realtà non più circoscrivibile alla misura del quadro e della pittura (“Oggi la pittura sembra finita” è la prima battuta del film, pronunciata in voice over dallo storico d’arte Maurizio Calvesi) perché dimostratasi definitivamente indocile, contraddittoria, refrattaria ai tentativi di imporle una coerenza estetica, una finalità cognitiva. Tanto più ironica e malinconica risulta allora l’ultima sequenza del film, una manifestazione sindacale in Piazza San Giovanni a Roma dove un gruppo di operai porta in corteo lo striscione del loro stabilimento occupato – un nome che deve aver colpito Schifano come un’apparizione inattesa, un’improbabile epifania: “Apollon” –, vicenda alla quale Ugo Gregoretti dedicherà il documentario Apollon: una fabbrica occupata (1969), uno dei più noti esempi di cinema militante, forse già noto a Schifano durante la lavorazione del suo film.
Penna è ripreso nella casa in cui abitava ormai da tre decenni e dove rimarrà sino alla morte nel 1977 – quattro stanze al numero 28 di via della Mola dei Fiorentini, in un angolo della Roma rinascimentale prossimo al Tevere – una casa-tana dall’indescrivibile disordine in cui Elio Pecora ritrovò dopo la morte del poeta un tesoro di manoscritti inediti, lettere, appunti, scartafacci e registrazioni su nastro[19]. La cinepresa di Schifano penetra senza esitazioni in questo interiéur così particolare. La prima inquadratura – a camera fissa, come le successive – rivela la stanza dove aveva vissuto la madre di Sandro, ora traboccante di tele addossate le une alle altre o appese alla rinfusa, di cornici ammucchiate sul letto, scenario fantasmatico e angusto in cui il poeta interpreta allo stesso tempo i ruoli del disincantato spettatore dei capricci del gusto e del rapido mutare delle maniere, dello scaltro mercante (“la gente che viene da me, insomma, non è molto per l’avanguardia, compra più che altro roba molto figurativa, spesso brutta”, confessa) e dell’amico e tempestivo sostenitore degli artisti a lui vicini in quegli anni ’60, da Tano Festa (“Guarda, adesso dipinge così, una pittura che potrebbe anche essere commerciale”, dice sollevando un suo quadro) a Francesco Lo Savio e allo stesso Schifano.
Nella sequenza, accompagnata dall’elegiaco terzo movimento de Le Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e dal ritmo del battito cardiaco, onnipresente nel film, Schifano riprende con tipico détournement il formato delle visite-interviste di artisti e scrittori trasmesse all’epoca dalla televisione italiana, dove la voce dell’intervistatore, autoritaria o melliflua, sottoponeva il malcapitato al rituale al rito della lettura o della pennellata “in esclusiva” per gli spettatori. In Umano non umano, tuttavia, la voce fuori campo è assente: ne rimangono solo tracce nel “tu” familiare, nei gesti e negli sguardi del poeta al suo invisibile interlocutore.
La pantomima del candore, della svagatezza, dell’affabile reclusione inscenata di fronte alla cinepresa, i vezzi, la faccia rugosa di vecchio bambino, i grandi occhi malinconici, i capelli impomatati e probabilmente tinti, ci mettono di fronte, con la forza di una testimonianza oculare, all’eccezionale estraneità di Penna, alla sua singolare protesta contro tutto e tutti, all’ingannevole e testarda strategia di salvezza dal male per tramite paradossale di un ideale erotico, l’omosessualità, paragonabile secondo Cesare Garboli a “una forma di resistenza alla propria oscurità e modernità”[20].
Del poeta e dell’uomo Penna Umano non umano offre un’immagine composita, certo, in cui al poeta, creatura spaesata e timida, si affianca il conoscitore d’arte, e tuttavia ancora capace di un accesso diretto e innocente alle cose, di una sorta di felicità naturale. Un referto che è anche un raro ritratto dell’artista da vecchio, studio obiettivo e insieme indulgente di un’ispirazione esaurita. Ma anche se prigioniero di un corpo colpito dalla malattia e dall’età, dove l’eros non è altro che un’eco malinconica, inquadrato dalla cinepresa di Schifano, Penna rimane un esempio di vitalità adolescenziale rimasta sorprendentemente intatta persino al suo tramonto, un esempio di autenticità e di purezza resistenti all’assalto del tempo.
L’innocenza ispirata, una certa primitiva e in apparenza ingenua felicità che il film mette in evidenza, sono del resto tratti già consolidati nell’interpretazione dell’opera di Penna sin dagli anni ’30. Proprio Pasolini – che al poeta dedicò una lunga fedeltà critica, commentandolo già negli interventi giovanili, in cui parlava di “nuda e candida purezza”[21] del poeta, o dei primi anni ‘50, quando lo chiama “ribelle infantile e assolto”[22] paragonandolo a Rimbaud – avrebbe al contrario puntato a mettere in crisi la concezione di una atemporale “grazia” penniana, a contestare insomma l’idea, per seguire alcune osservazioni recenti di Marco Bazzocchi[23], che la sua opera fosse, come aveva detto Piero Bigongiari, un “fiore senza gambo visibile”[24]. Già in effetti da un intervento del 1956 Pasolini legge ormai Penna in modo diverso, alla luce di una complessità che mina l’immagine di “puro poeta”, di “mero vivente, capace di conoscenza solo sensibile, o tutt’al più pseudologica”[25] che la critica ermetica gli aveva attribuito. Al contrario, vi è in Penna tanto una storia poetica che una vicenda interiore per nulla statica, e tormentata anzi dal sentimento della “colpevolezza di non essere nella coscienza e nella storia: di aver ridotto il mondo a teatro delle vicende e dei trascorsi dell’io”[26], un giudizio che Pasolini avrebbe potuto del resto applicare anche a se stesso. La sua psicologia, “così profondamente lesa da funzionare quasi fuori dall’umano”[27], si manifesta nella capacità unica di maneggiare il contenuto erotico “scabroso, drammatico e scandalizzante”[28] della sua poesia. È proprio questa componente che farà nascere tra i due una complicità, nonostante la radicale differenza tra l’eros di Penna, “femminile, androgino, da discreto mistero umbro”, come dice ancora Garboli, e quello virile, sadomasochista, “da flagellazione caravaggesca”[29], di Pasolini.
Nel maggio del 1975 esce Scritti corsari, il libro in cui Pasolini ha raccolto i suoi articoli usciti sul “Corriere della Sera” tra il ’73 e il ’75 e gli scritti critici, perlopiù recensioni, comparsi nello stesso periodo sul settimanale “Tempo”. Il primo di questi brevi saggi, una recensione al libro di Penna Un po’ di febbre (1973), rivela la visione dell’Italia che Pasolini ha maturato negli anni che conducono alle prove estreme di Salò e Petrolio. L’attacco è famoso e controverso: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!”[30]. Quella dello scrittore è la descrizione potentemente nostalgica di un corpo luminoso, delle sue forme, del suo paesaggio, dei suoi giovani, dei loro caratteri e comportamenti, e un accorato compianto per il drastico cambiamento che quel corpo ha subìto. Sono i ragazzi, gli stessi amati dal poeta che sta recensendo, i veri protagonisti del ragionamento di Pasolini, sono loro la chiave della trasformazione, il metro sul quale misurare l’ampiezza della perdita, i ragazzi nei quali brillava “una intensità e una umile volontà di vita […], un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo”[31]. Così erano i giovani uomini che vivevano un tempo in quella “Arcadia cristiana” che era per Pasolini l’Italia, l’“umile Italia” anzi, con la sua civiltà di borghi, campagne e città cantata nelle trenodie delle Ceneri di Gramsci (1957).
In quell’Italia vagheggiata il corpo dei ragazzi e il corpo del paesaggio appaiono legati nella scrittura pasoliniana da un vincolo di autenticità, sono materia di una inappagabile, idealizzante, sentimentalizzata tensione erotica. Nel 1975 tutto questo è ormai solo un’eco spettrale. La diagnosi è nota: “tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione”[32]. Tragiche sono infatti per Pasolini le conseguenze di una “mutazione antropologica” – la definizione è diventata proverbiale – che avrebbe strappato l’Italia dal suo millenario assetto contadino e paleoindustriale per proiettarla nel mondo omologato dalla tecnica e dal consumo. Ora, scrive, tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa. I ragazzi sono divenuti “brutti, pallidi, nevrotici”, la stupidità li ha catturati, sono presuntuosi, ghignanti. La recensione a Penna pubblicata in Scritti corsari è dunque il pendant, simmetrico e rovesciato, dell’esordio della prima parte del libro, un articolo apparso sul quotidiano milanese e dedicato ai “capelloni”[33]. Là erano i ragazzi con i capelli lunghi, falsi e imbruttiti, qui sono i ragazzi dalle belle nuche. Due mondi o meglio due corpi che si fronteggiano, secondo una dialettica centrale nell’ultimo periodo della vita di Pasolini e che nello stesso anno trova il suo apogeo luttuoso e terribile nello spaccio sadico dei giovani prigionieri di Salò per opera di carnefici loro coetanei.
In una lettera scritta a Penna nel febbraio 1970[34], e poi usata come “segnalibro” per la seconda edizione di Poesie pubblicata nello stesso anno, Pasolini aveva ravvisato nella personalità del poeta una singolare fusione di santità e buffoneria. Ma in cosa consisteva questa santità? “Nel silenzio con cui [Penna] ha rinunciato alla vita”, risponde Pasolini, cercando “il suo godimento altrove, in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti”, e praticando una santità anarchica che riguarda “più la sua poesia vissuta che la sua poesia scritta”. Ed è la prima a dover “contare veramente, per chi – appunto perché educato e come tolto a se stesso da un lungo amore per la poesia – riesce a intravedere in essa ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla”[35]. È questa paradossale qualità, questo abbandono, incarnati da Penna fino allo sfinimento, che Schifano presenta in Umano non umano: una vita esemplare, testimonianza di un’aspirazione al di sopra di ogni distinzione sociale, al di sopra della dignità, del decoro persino, in cui si afferma la strana regalità dell’artista, sovrano malinconico e martire del proprio intransigente universo.
Ostensione
Nei giorni dell’uscita degli Scritti corsari, a Bologna si inaugura nel quartiere della Fiera il nuovo edificio della Galleria d’Arte Moderna, progettato in forme brutaliste dall’architetto Leone Pancaldi. La sera del 31 maggio 1975, in cima alle scale che conducono all’ingresso del museo, Pier Paolo Pasolini siede su uno sgabello di fronte a un folto pubblico: indossa una camicia bianca su cui viene proiettato il suo film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo. Scorrono sul suo petto (lo vediamo nelle immagini del fotografo bolognese Antonio Masotti, le uniche testimonianze visive dell’evento), i protagonisti e i luoghi del film, i volti noti di scrittori e intellettuali che avevano partecipato alle riprese (tra gli altri, Francesco Leonetti, Giorgio Agamben, Natalia Ginzburg, Enzo Siciliano), quella della Vergine straziata dal dolore interpretata dalla madre del poeta, Susanna. La performance, dal titolo impegnativo, Intellettuale, è opera di Fabio Mauri, amico e compagno di strada dello scrittore fin dai tempi del liceo bolognese. Nelle parole dell’artista, essa “rivela fisicamente la nascita del ‘segno intellettuale’, dentro il ‘corpo’ dell’autore. Possiede la precisione tecnica di una radiografia dello spirito”[36].
La colonna sonora è mantenuta a un volume intenzionalmente elevato, così che i dialoghi e il commento musicale sovrastano il brusio della folla acuendo il disorientamento sensoriale di Pasolini. Con il volto in ombra, l’espressione assorta (“Durante l’azione s’irrigidì in uno spasmo duro, di sofferenza. Gli chiesi se si sentiva male. Fece cenno di no con la testa. Poi mi ringraziò a lungo, salutandomi per l’occasione che gli avevo dato di ripensarsi ‘dentro’ una sua opera. Era l’intenzione di quel mio atto”[37], Pasolini è offerto agli spettatori in una esposizione sintetica, immediata, della sua personalità pubblica e insieme come un’allegoria vivente del ruolo di artista-creatore, luminoso per chi guarda, oscuro per se stesso. È una vera e propria ostensione rituale.
Un mese prima, l’8 aprile a Roma, Mauri aveva presentato una performance con lo stesso titolo nell’ambito di Oscuramento, un complesso progetto articolato in sequenza in tre luoghi della città. Protagonista era stato il regista ungherese Miklós Jancsó, all’epoca residente a Roma; sul suo petto veniva proiettato il film Salmo rosso (Még kér a nép, 1971)[38], certamente scelto da Mauri per il suo valore di testimonianza esemplare di una rivolta contro un potere oppressivo. Come scriveva Alberto Boatto nel testo di presentazione della performance, qui il film rappresentava tutte le opere, e il regista “tutti gli autori (gli intellettuali)”, in quella “assolutezza che l’opera anche la più spregevole simula sempre” e che pure fa di essa “una forma di compiutezza, di verticalità buttata fuori dal tempo, sottratta all’usura della durata”[39].
Se l’autore può sperare, creandola, di essersi liberato dell’opera, dando per risolti i problemi e i dubbi che essa ha sollevato, ecco che Mauri glieli rilancia sadicamente addosso, aggiunge Boatto, proiettandoglieli sul torace, come in una radiografia della sua soggettività, della sua coscienza. Più tardi Mauri tornerà sulla performance bolognese, sottolineandovi, oltre il valore appunto “radiografante”, l’imposizione dall’esterno di una volontà di smascheramento, quasi che l’autore coinvolto fosse chiamato a rispondere del suo lavoro nel momento stesso in cui esso si sottraeva al suo controllo. La sua presenza interferisce infatti con la percezione dell’opera, la costringe in una misura nuova, creando sotto gli occhi del pubblico un’inedita unità plastica e temporale, corpo+proiezione+schermo, che si presenta come un vero proprio dispositivo decostruttivo dell’opera stessa, “una scultura di carne e di luce, un’unità compatta”[40] in cui echi cristologici (quella di Pasolini è una “passione”[41]), polemica estetica e gesto poetico si sommano in un vero e proprio compendio di temi e ossessioni dei due artisti.
In entrambe le versioni di Intellettuale così come nell’intero ciclo delle Proiezioni (1975-1980) vengono utilizzati come schermi sia corpi che oggetti inanimati (una bilancia, un ventilatore elettrico, recipienti, ecc.), e vengono proiettate pellicole di maestri del cinema, ad esempio Metropolis di Fritz Lang, Alexander Nevskij di Eisenstein, Viva Zapata! di Elia Kazan[42]. L’idea della proiezione dal vivo su corpi non è in sé inedita. Mauri la riprende da spettacoli di danza e concerti di avanguardia del tempo, come quello di La Monte Young e Marian Zazeela tenuto alla galleria L’Attico di Roma nel giugno 1969 e di cui parla Achille Bonito Oliva nel suo libro del 1971 Il territorio magico. Sul loro corpo, scrive il critico,
[…] scorre la proiezione di diapositive dipinte a mano dalla Zazeela, che subiscono leggerissime variazioni al limite della percezione, variazioni di colori e spostamenti di singoli segni geometrici. Uno spettacolo in cui la caduta del tempo avviene nella fissità spaziale dei due e nella virtualità dei passaggi delle diapositive, attraverso il sottile sfaldamento della voce[43].
Ciò che interessa Mauri nelle sue Proiezioni non è tuttavia la dinamica smaterializzante dei segni luminosi ma da un lato la dimensione fisica del raggio di luce che materializza l’immagine su uno schermo non bidimensionale, a volte di forma irregolare o instabile, e dall’altro la lettura di questo dispositivo come metafora dello scontro tra intenzione estetica e consistenza fenomenologica di corpi e oggetti. In questa nuova dimensione, che è poi in definitiva quella comune alle varie forme di expanded cinema praticate sin dagli anni ’60 nella scena internazionale, il film perde la sua unità formale, temporale e narrativa tradizionale e viene fruito per frammenti, come esperienza ibrida e delocalizzata. Proprio a questo riguardo, in un suo taccuino del 1975 Mauri accostava significativamente i termini “proiezioni” e “incarnazioni”, sottolineando come proprio la diversa dimensione spaziale e performativa nella visione cinematografica delle Proiezioni complichi la temporalità della pellicola[44].
In Intellettuale, regista e film non solo diventano la stessa cosa, ma a Pasolini viene sottratto il controllo della sua opera e, soprattutto, gli viene impedito di guardarla. Mauri vuole creare le condizioni per una riflessione sull’esperienza creativa e le sue componenti politiche: vuole “responsabilizzare” il regista facendogli sperimentare sulla propria pelle gli effetti del suo lavoro. “Attraverso questo rituale, ho voluto ricordare un fatto ovvio: che le forme di espressione erano solo significati ‘reali’, cioè impliciti nell’universo morale dell’uomo. Il termine “intellettuale” includeva, per me, questo fatto”. Proiettare un film sul suo regista, trasformarne il corpo in uno schermo, era dunque un modo per riflettere in pubblico sulla particolare responsabilità dell’artista, costretto nella circostanza a offrire letteralmente se stesso come supporto, come condizione di esistenza materiale del proprio lavoro.
Il bersaglio implicito delle azioni sceniche e delle installazioni che Mauri progetta nei primi anni ‘70 è la radicale smaterializzazione dell’esperienza artistica perseguita in varie forme dall’arte concettuale e “processuale” che domina lo scenario artistico a partire dalla seconda metà del decennio precedente. Al radicalismo teorico e all’iconoclastia delle tendenze internazionali (Arte povera inclusa) Mauri oppone una scelta fondata su un’adesione morale ed empatica al Reale e alla Storia, notando più tardi come questo fosse “un assioma non così elementare come sembra per gli interlocutori delle varie scuole ‘concettuali’”. Il suo scopo, aggiunge l’artista, era “ricreare un legame ‘fisico’ tra poesia e mondo fuori della tautologia concettuale, richiamando “pur con diversi mezzi e da provenienze non ‘realiste’, il concetto indispensabile di realtà” (il corsivo è mio) che nell’opera e nel pensiero di Pier Paolo Pasolini era rimasto sempre “instancabilmente centrale, mai trasgredito”[45].
Una rilettura critica di Intellettuale non può tuttavia evitare di spingersi oltre queste intenzioni, imposte dalla seduttiva prosa dell’artista come una chiave di interpretazione esclusiva e finora quasi mai messa in discussione. Di fatto, mentre sovraccarica fisicamente il legame tra autore e opera, tra corpo e immagine, tra luce e materia, e si dichiara dunque alla ricerca di un metodo figurativo capace di contrastare la potenza del simulacro, Mauri riprende in modo tacito, appropriandosene e insieme sottoponendolo a un caratteristico misreading, l’impianto formale dei ritratti foto-serigrafici e soprattutto degli Screen Tests (1964-1966) di Andy Warhol. Il primo piano, l’inquadratura frontale del volto, in apparenza l’immagine più ‘immediata’, più resistente alla manipolazione – e per questo associata alla foto segnaletica e al photomaton delle cabine automatiche – si rivela in effetti particolarmente adatta alla creazione di una antiespressiva, oggettiva esibizione della presenza dell’artista, un tratto questo visibile in numerosi lavori di artisti italiani dello stesso periodo che utilizzano la stessa formula, da Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) di Giulio Paolini, a opere di Giovanni Anselmo (Lato destro, 1970), Giuseppe Penone (Rovesciare gli occhi, 1970) o Gilberto Zorio (Odio, 1971)[46].
Mauri – e questa è la sostanza del suo misreading – sembra leggere implicitamente in Warhol (come del resto molti all’epoca, da Pasolini stesso, che ne scrisse proprio nel 1975[47], a Barthes qualche anno dopo)[48]) il trionfo della pura superficie, di una frontalità inespressiva, non articolata. Vi oppone la stessa logica derivata dagli esercizi spirituali e dal teatro didattico gesuita che anima le sue azioni sceniche più famose, come Cosa è il fascismo (1971). Esercizi spirituali dove l’esercitante, come ora lo spettatore, è sollecitato a rivivere la Passione di Cristo mediante un procedimento di immedesimazione basato anzitutto su corpo e affetti.
Per questo, scrive Mauri nel 1971:
Rivivere due volte lo stesso (o quasi) evento trova più modificato l’osservatore che l’evento stesso. L’osservatore non può essere ricostruito, nemmeno per approssimazione, come l’evento. Lo spazio culturale in cui ha proseguito a vivere, contro ogni resistenza della sua volontà di capire, lo fa partecipe di profonde modificazioni. Un’opinione patristica spiega l’Apocalisse come giudizio non di Dio ma dell’uomo sugli atti e i sensi della propria vita ripresentati a lui esattamente nella successione di quando erano accaduti e con le loro attenuanti, però in pubblico. La socialità in questo caso garantisce per tendenza il successo della precisione critica, cioè quasi della verità[49].
Intellettuale si presenta dunque come un dispositivo ermeneutico della stessa opera pasoliniana, trasposta su un piano discorsivo inedito, in cui la dissezione linguistica del meccanismo della rappresentazione si attua in parallelo a una presentazione di carattere ‘estatico’ e performativo del suo corpo. La proiezione si rivela così nell’interpretazione di Mauri uno strumento di demistificazione sia dello stile warholiano – identificato con quello del tardocapitalismo consumista e riletto d’après Marcuse come espressione di una condizione reificata, “a una dimensione” –, che del coevo dibattito sulla posizione sociale dell’artista e dell’arte come istituzione sociale in genere. Rispetto a queste due dimensioni tanto lo scrittore che l’artista adottano risolutamente il registro brechtiano dello straniamento, della discontinuità, nel caso di Pasolini senza far ricorso a una poetica dello choc giudicata fallimentare in partenza, e in quello di Mauri rifiutando l’essenzialismo concettuale in nome di una visione alternativa, allegorica e creaturale, della modernità. In entrambi i casi, distanziandosi dalla neoavanguardia e dalle sue strategie.
La proiezione cerca in definitiva di far emergere e allo stesso tempo sanare in senso terapeutico l’irrimediabile frattura tra simulacro e realtà, prendendo in prestito il dispositivo degli Screen Tests (che può essere ricondotto alla sequenza presenza → camera → film → proiezione) per invertirne la direzione e ribaltarlo su se stesso (camera → film → proiezione → presenza), al fine di trasformarlo in una macchina per produrre un’allegoria vivente anziché il definitivo trionfo dell’inorganico. La ‘realtà’ corporea del poeta diventa così materia dell’opera. Invertendo il processo formale warholiano, letto in senso riduttivo come alienazione, come straniamento terminale del soggetto a se stesso, cercando di ridare un corpo al dispositivo cinematografico, Mauri offre allo spettatore qualcosa di solo in apparenza non consumabile: lo spessore esistenziale dell’artista.
Autoscopia
Il 28 e 29 ottobre 1975, il giovane fotografo Dino Pedriali, allora esordiente, scatta una serie di fotografie di Pasolini nella casa di campagna del poeta a Chia, vicino Viterbo. Pedriali era assistente del gallerista torinese Luciano Anselmino, che aveva commissionato nel 1973 ad Andy Warhol alcuni ritratti di Man Ray, poi esposti nella sua galleria, e l’anno successivo Ladies and Gentleman, l’importante serie di dipinti e serigrafie, basata su polaroid, concepita intorno al tema dei travestiti e delle drag queens newyorchesi[50] ed esposta nella omonima mostra di Warhol al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nell’ottobre del 1975.
Proprio a proposito di questa serie Pasolini aveva scritto il suo ultimo testo dedicato all’arte, Ladies and Gentlemen, poi pubblicato postumo nel maggio 1976 nel catalogo della mostra di Warhol alla galleria milanese di Anselmino.
Pasolini vi scriveva di due “ordini” o “strati” sovrapposti presenti nelle serigrafie dell’artista americano: “sulla superficie bianca viene fatta prima esplodere la realtà (fisica, psicologica, sociologica): e poi, sui suoi ultimi, consunti brandelli, diviene incollata l’affiche funebre che la fissa nel suo attimo inestinguibile di pura vitalità”[51]. “L’ontologia formale e l’ontologia psicologica […] violentemente aggressiva e disperatamente impotente”[52] di cui parla il poeta-regista ricorda la dialettica evocata dalla performance di Fabio Mauri così come il doppio movimento di attrazione e divergenza tra poesia vissuta e poesia scritta che Pasolini, come abbiamo visto, individuava nell’opera di Penna.
Durante un incontro a Fregene in agosto nella casa di Anselmino e Pedriali dove Pasolini si era recato per incontrare Man Ray, lì ospite[53], il giovane fotografo gli propone di ritrarlo. L’appuntamento decisivo avviene ad ottobre, dapprima a Roma e poi a Sabaudia, sul mare a sud di Roma, nella casa che Pasolini divideva con Moravia.
Le fotografie mostrano lo scrittore e regista in casa, intento a scrivere, o in jeans, camicia e occhiali scuri, in giro per le strade della cittadina littoria o accanto alla sua Alfa Romeo GT, l’automobile-simbolo con cui Pino Pelosi straziò il suo corpo nella notte tra l’1 e il 2 novembre.
Un nuovo appuntamento viene concordato tra i due per la settimana successiva, a Chia, nella casa di campagna dove Pasolini si rifugiava a scrivere. In un primo gruppo di fotografie[54], Pedriali mostra Pasolini al suo tavolo da lavoro, chino su un manoscritto – l’immagine cliché dell’intellettuale – o mentre disegna sul pavimento profili di Roberto Longhi, suo professore di storia dell’arte a Bologna nei primi anni ‘40.
Una seconda serie, scattata alla fine della giornata, presenta una scena molto diversa: osservato dall’esterno, Pasolini appare nudo nella sua stanza, sorpreso nella sua intimità. Sarebbe stato lo stesso Pasolini a chiedere a Pedriali di fotografarlo così, secondo la testimonianza di quest’ultimo riferita da Barth David Schwartz:
Domani mi fotograferai nudo [...]. Ti chiedo soltanto di riprendermi come di sorpresa, o come se io fossi inconsapevole della presenza del fotografo. Solo a un certo momento arriverò a capire che qualcuno mi sta guardando di nascosto[55].
Contro ogni apparenza, le immagini sono dunque il risultato di una richiesta esplicita e di una complicità stabilita in anticipo tra il modello e il fotografo. Il desiderio di Pasolini di essere rappresentato si unisce a quello di Pedriali di farsi strumento di questa autorappresentazione: la strutturale ambivalenza del mezzo fotografico, la sua esitazione tra verità e finzione, dà ai nudi – formalmente simili a immagini ‘rubate’ da un paparazzo – il valore di una consapevole messa in scena.
Le fotografie ci mostrano nudi intimi, obiettivi. Sono state scattate – è un aspetto interessante – in due diverse condizioni di luce: prima del tramonto, con il cielo ancora chiaro, le mura esterne della casa visibili e l’interno illuminato dalla luce naturale, e subito dopo, con le finestre ritagliate nella facciata ormai scura e l’interno rischiarato dall’illuminazione elettrica. Ha detto Pedriali:
Gli dissi allora che volevo aspettare che facesse buio, per riprenderlo alla luce di una sola lampada, all’interno. Come a invadere ulteriormente la sua privacy, catturare la sensazione di una spia che osservava dall’esterno”)[56].
Secondo un’opinione condivisa dalla critica più recente[57], le fotografie commissionate a Pedriali avrebbero dovuto essere incluse in Petrolio, il grande romanzo rimasto incompiuto al momento della morte di Pasolini e pubblicato in forma frammentaria nel 1992.
Se la sessualità e l’omosessualità giocano nel libro un ruolo decisivo, l’autorappresentazione ne rappresenta un elemento chiave, testimonianza di una compenetrazione tra corpo dell’autore e corpo dell’opera, tra biografia e scrittura, ottenuta in primis con la mediazione dal senso della vista[58].
Si prenda ad esempio il sogno raccontato nell’appunto 17, La ruota e il perno[59], dove Pasolini rivela il mondo onirico del protagonista Carlo in una visione oscura e premonitoria.
Il personaggio è legato a una ruota, come quelle “riprodotte nelle illustrazioni che rappresentano le torture della Santa Inquisizione”, ma per un fenomeno di autoscopia osserva se stesso: “Carlo era legato, nudo, alla ruota. Ma, come accade nei sogni, l’essere lì, legato e nudo, era contemporaneamente un’azione e la contemplazione di essa. Carlo era legato nudo a quella ruota, e, contemporaneamente, vi si vedeva”.
Nella stessa fenomenologia autoscopica possono essere fatte rientrare anche le fotografie scattate da Pedriali, la cui diversa esposizione diurna e notturna, come si è detto, potrebbe riflettere la doppia incarnazione, o la schizofrenia, di Carlo – il “Carlo di Tetis” e il “Carlo di Polis” – annunciata nell’Appunto 2 di Petrolio, nel quale si legge tra l’altro come, dopo aver perso i sensi, Carlo osservasse ai suoi piedi
[…] il proprio corpo supino: ecco il suo viso pallido, quasi bianco o giallastro di adenoideo, la fronte di persona intelligente e ostinata sotto i capelli lisci e incolori, che, nella sgradevole circostanza, si erano un po’ scomposti, in modo ridicolo, ecco gli occhi tondi e cerchiati, che, non protetti dagli occhiali (che nella caduta si erano sfilati dal naso, e giacevano lì accanto, con le loro sottili stanghette di metallo) parevano denudati e troppo espressivi[60].
Presentandosi nudo, esaminato da uno sguardo estraneo che è anche il suo, Pasolini offre una testimonianza vertiginosamente narcisista di un corpo che è anche un corpo-testo: l’uomo in carne ed ossa che scrive Petrolio ne diventa elemento finzionale, sua figura.
L’inserimento della fotografia in un contesto letterario – una modalità ibrida cui si applicherebbe oggi il termine iconotesto – non era un procedimento nuovo per Pasolini. Nei giorni del suo incontro con Pedriali lo scrittore consegna infatti all’editore Einaudi La Divina Mimesis, un testo scritto in gran parte più di dieci anni prima, tra il 1963 e il 1965, frammento di un progetto molto più ambizioso che riprendeva lo schema del poema dantesco trasportandolo nella biografia dell’autore.
Pasolini immagina in effetti un viaggio nell’aldilà eleggendo se stesso come guida, sia pure un sé più antico: Virgilio è in effetti un doppio del ‘poeta civile’ che era stato negli anni ‘50, con la sua passione per il popolo, la storia, l’ideologia, che Pasolini-Dante vede ormai nella luce della fine inevitabile di un’epoca.
Una sezione della Divina Mimesis, intitolata Iconografia ingiallita (per un “Poema fotografico”), allinea una serie di venticinque fotografie di cronaca politica, sociale e letteraria contemporanea, di personaggi noti o anonimi, di partigiani e di fascisti, che compongono nel loro insieme una autobiografia ideale di Pasolini.
La selezione comprende fotografie delle manifestazioni di Reggio Emilia contro il governo Tambroni nel 1960, la tomba di Gramsci a Roma, ritratti di Gianfranco Contini, Carlo Emilio Gadda (insieme a Pasolini), Sandro Penna, secondo una “logica” che l’autore definisce “meglio che di una illustrazione, di una (peraltro assai leggibile) ‘poesia visiva’”[61].
In quello stesso 1975 appaiono altri due libri – Barthes par Roland Barthes di Roland Barthes e Lettura di un’immagine (poi rinominata Romanzo di figure e infine Nuovo romanzo di figure) di Lalla Romano[62] – in cui la fotografia gioca un ruolo decisivo. Entrambi utilizzano immagini tratte dagli archivi familiari dei loro autori, ma i loro approcci sono molto diversi.
Mentre il testo di Barthes è frammentario, cronologicamente espanso, e comprende fotografie di famiglia e scatti anonimi, il corpus di fotografie commentate da Romano è compatto e coerente: le immagini sono tutte scattate da suo padre Roberto tra il 1904 e il 1914, e tutte rappresentano Lalla o sua madre[63].
In tutti e due i libri tuttavia la questione è sempre la relazione tra l’io narrante, la sua localizzazione biografica e temporale e l’io fotografato nel passato. Una relazione che Barthes articola sotto il duplice segno di una “inquietante familiarità” e di una scissione:
Il repertorio di immagini agisce come un medium e mi mette in rapporto con l’es del mio corpo; suscita in me una specie di sogno opaco, le cui unità sono denti, capelli, naso, una magrezza delle gambe con le calze lunghe che non mi appartengono, senza peraltro appartenere a nessuno tranne me: eccomi allora in uno stato di inquietante familiarità: vedo la crepa del soggetto (proprio ciò di cui non posso dir nulla). Ne consegue che le fotografie di gioventù sono allo stesso tempo molto indiscrete (è il disotto del mio corpo che si offre a una lettura) e molto discrete (non è di “me” che parlano)[64].
L’immagine fotografica testimonia dunque non solo la preistoria dell’Io, ma viene inscritta da Barthes in una oscillazione dialettica distacco/appartenenza che la investe e la attraversa di continuo, fin nel presente, in una latente schizofrenia non lontana dalla dinamica interna di Petrolio.
Pur se inscritte nella dialettica autore-personaggio e quindi nella prospettiva di un iconotesto non realizzato, non è facile d’altro canto sfuggire al fascino funebre e premonitorio che emana dalle fotografie di Pedriali, segnate come sono, per noi che le guardiamo oggi, dal presentimento della morte imminente del poeta.
Al tempo stesso esse testimoniano un interesse per la messa in scena di sé di cui troviamo tracce nella cultura visiva di artisti e letterati contemporanei di Pasolini, secondo una modalità in cui “l’artista pone se stesso al centro di un trivio fra il proprio corpo, il suo mascheramento teatrale e la riproduzione fotografica dell’evento come testimonianza di un’azione performativa e, nel contempo, santino narcisistico-sacrificale”[65].
Alcuni esempi di questa attitudine sono il ritratto dello scrittore Yuko Mishima, fotografato nel 1966 da Kishin Shinoyama nei panni di un San Sebastiano martirizzato, motivo iconografico che ossessionava l’autore giapponese; gli autoritratti di Urs Lüthi, che visualizzano il doppio androgino dell’artista; le immagini di Luigi Ontani, che nei primi anni ‘70 si presenta nudo in una serie di tableaux vivants fotografici, in pose desunte dalla storia dell’arte, dal San Sebastiano di Guido Reni al caravaggesco Bacchino.
Sono tutti esempi che ci ricordano – contro ogni retorica dell’autenticità, contro ogni tentazione di identificare soggetto e immagine, autore e rappresentazione – l’ambivalenza costitutiva dell’autoritratto e dell’immagine fotografica in genere, il significato allegorico del nudo e la relazione con il suo correlato, il corpo spogliato.
Esporre il proprio corpo allo sguardo degli altri segna tanto un’affermazione quanto una sottrazione a se stessi. L’autore entra nella propria morte: Pasolini si offre allo sguardo di Pedriali, e al nostro, come oggetto del proprio desiderio narcisistico.
Trasportando l’immagine del proprio corpo nudo nel romanzo, Pasolini avrebbe creato un iconotesto in cui non sarebbero più stati in questione né l’archivio familiare né l’archeologia dell’Io, ma una trionfante istantanea della propria intimità, esposta a uno sguardo anonimo, dall’esterno.
Un testo-corpo offerto alla lettura. L’identificazione o, per meglio dire, l’unione mistica tra opera e autore che Fabio Mauri aveva ricercato nel teatro allegorico gesuita, e che lo aveva condotto al dispositivo delle Proiezioni, diventa nelle fotografie per Petrolio l’evocazione di un’identità sfuggente ed enigmatica. Il ‘doppio corpo’ dell’artista, corpo carnale e corpo poetico, corpo immaginale e corpo desiderante, è destinato a non ritrovare mai la propria unità: ciò che rimane è il fantasma seducente di un impossibile ricongiungimento.
Note
[1] Cfr. Pasolini 2005. Il film riprende il formato del cinéma vérité e in particolare il suo prototipo, Chronique d’un été (1960) di Edgar Morin e Jean Rouch.
[2] Si vedano, ad esempio, le annotazioni sul dualismo tra “Autorità” e “individuale e violenta Libertà” in Ungaretti, sulla sua “tanto incarnata fiducia nella poesia, e nella letteratura”, sulla sua oscillazione esistenziale quanto poetica definita dalla doppia triade di aggettivi “timido, ribelle, torbido” e “puro, libero, felice” ritrovata nella poesia Gridasti: soffoco (da Un grido e paesaggi), in La nuova “allegria” di Ungaretti [1953], ora in Pasolini 1999a, 443-444. Si veda anche il lungo saggio Un poeta e Dio compreso in Passione e ideologia [1960], ivi, 1092-1114, e la sua accanita disamina della peculiare religiosità ungarettiana.
[3] In una più tarda nota Pasolini parlerà appunto di “innocenza (meravigliosa)” di Ungaretti, “imbarazzante, perché, come ogni vera innocenza, è spudorata”, v. Pier Paolo Pasolini, Imbarazzante innocenza [1960], 1999a 1268-1269.
[4] L’intervista venne realizzata a Venezia il 26 ottobre 1967 e poi trasmessa dalla RAI nella rubrica Incontri nel giugno 1968 col titolo Un’ora con Ezra Pound. V. Ronsisvalle 1985.
[5] Si vedano ad esempio Alcuni poeti [1973], in Pasolini 1999a, 1773-1777; Campana e Pound [1973], in Pasolini 1999a, 1961-1964; Alcuni poeti [1974], in Pasolini 1999a, 2029-2030.
[6] Campana e Pound, in Pasolini 1999a, 1964.
[7] Un poeta e Dio [Campana e Pound], in Pasolini 1999a, 1101-1104.
[9] Cfr. Virtanen 2017, 27-53.
[11] Ivi, 57. Sul carattere e valore della poesia in epoca moderna si veda l’ampia e sottile analisi di Mazzoni 2005.
[12] Lautréamont [1870] 1990, 465.
[13] Theodoropoulou 2015, 106.
[17] Il film fu presentato il 1 settembre 1969 alla Mostra del Cinema di Venezia. Sul cinema di Schifano cfr. Calò 2002 e Di Marino 1999; su Umano non umano cfr. anche Perretta 2000. Giudizi d’epoca sull’attività cinematografica di Schifano tra anni ‘60 e ’70 sono in Bertetto 1970 e Luginbühl 1974.
[19] Cfr. Pecora 1984, 11-13. Cfr. anche Pecora 1997.
[20] Garboli 1984, 38. Sulla personalità e la poetica erotica di Penna cfr. Garboli 1996 e Marcheschi 2007.
[21] Collezioni letterarie [1942], in Pasolini 1999a, 28.
[22] “Gli appunti” di Sandro Penna [1950], ivi, 352.
[25] Penna. Una strana gioia di vivere [1956], in Pasolini 1999a, 1132.
[30] Sandro Penna: “Un po’ di febbre” [1973], in Pasolini 1999a, 421; altri testi su Penna sono Gli appunti di Sandro Penna, ivi, 349-52; [“Segnalibro” in S. Penna, “Tutte le poesie”, 1970], ivi, 2543-44. L’articolo Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio è in Pasolini 1999b, 674-80.
[31] Sandro Penna: “Un po’ di febbre”, cit., in Pasolini 1999a, 422.
[32] Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio, cit., 676.
[33] 7 gennaio 1973. Il “discorso dei capelli”, in Pasolini 1999b, 271-277. Su questo testo e le sue implicazioni cfr. Bazzocchi 2005, 11-33.
[34] Pasolini a Sandro Penna, febbraio 1970 (Pasolini 1988, 664-665).
[35] “Segnalibro” in S. Penna, Tutte le poesie], in Pasolini 1999a, p. 2544.
[36] Il titolo fa riferimento sia alla figura di Pasolini sia al valore di “esperienza intellettuale” attribuito da Mauri al suo lavoro. V. Mauri [1985] 2008a, 205. Sulla performance v. Da Costa 2018, 183-209.
[38] Cfr. Christov-Bakargiev-Cossu 1994, 152-153; Da Costa 2018, 179-183. Cfr. anche Mauri 1995.
[42] Cfr. Da Costa 2018, 200-201.
[44] Mauri, taccuino n. 12, datato 1975 (Archivio Studio Fabio Mauri, Roma), cit. in Da Costa 2018, 200.
[46] Sulla diffusione in Italia del motivo dell’autoritratto fotografico v. Belloni 2018, 15-16.
[47] Cfr. Pasolini 1975b e Del Puppo 2019.
[49] Mauri [1973] 2008, 31. Sull’importanza degli esercizi spirituali Mauri [1971] 2008, 21-22, dove si legge: “Per nutrire orrore dell’inferno, ci si concentra sui suoi mali, sperimentando fisicamente per qualche attimo l’ustione del fuoco”.
[50] Cfr. per questa vicenda Schwartz 2017 (edizione Kindle).
[53] La vicenda è ricostruita in Del Puppo 2019, 50, e in Schwartz [2017] 2020 (v. in particolare il capitolo Dissolvenza in nero, edizione Kindle).
[54] La sequenza venne pubblicata in Pedriali 1975, quindi riedita in Pedriali 2011. Sulla cronologia v. Belpoliti 2020, 59-60 e 131-133.
[55] Schwartz 2017 (edizione Kindle).
[56] Pedriali cit. in Schwartz 2017 (edizione Kindle).
[57] Cfr. Bazzocchi 1998, 38-39; Belpoliti 2010, 59-85
[58] V. Siti 1998, LXXXIII-LXXXIV, a proposito della onnipresenza dello “spessore biografico” tra “gli elementi formali della scrittura” nell’ultimo Pasolini.
[59] Pasolini 1992, 1252-1257.
[62] Barthes 1975; Romano 1975 (poi rinominato nelle edizioni successive Romanzo di figure e quindi Nuovo romanzo di figure).
[63] “Informazioni utili (se non indispensabili) sono le seguenti: tutte le fotografie qui raccolte sono state fatte dalla stessa persona (mio padre) e quasi tutte nello stesso luogo (il mio paese natale) nel giro di una decina d’anni: tra il 1904, anno del matrimonio dei miei genitori, e il 1914, anno fatale” (Romano 1975, IX).
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J. Virtanen, Poetry and Performance During the British Poetry Revival 1960-1980, London 2017. - *Una prima versione di questo saggio è stata presentata in francese nel convegno L’espace des images. Art et culture visuelle en Italie, 1960-1975, a cura di Stefano Chiodi e Valérie Da Costa, Istituto italiano di cultura, Parigi, 8 novembre 2019, i cui atti sono in corso di pubblicazione presso Manuella Éditions, Paris.
English abstract
In Italy in the 60s and 70s, poetry and the very image of poets underwent a radical metamorphosis. The body of the poet becomes fully visible for the first time thanks to new media (photography, cinema, television) and their mass diffusion, while the poetic experience allows closed literary circles to open themselves to other arts in search of a new intertextual dimension. The transformation of the poet into a performer is part of a widespread trend to dissolve the borders between various media, traditions, and contexts. Poetry – like the visual arts, theater, music, dance, etc. – is featured in art magazines and performed in public places, as well as in cinema and on television screens. The essay examines this transformation in a series of exemplary cases where the body of the poet becomes the object of the attention of other artists: Giuseppe Ungaretti and Pier Paolo Pasolini in Comizi d’amore (1964), Mario Schifano and Sandro Penna in the experimental film Umano non umano (1969), Pasolini again in a performance by Fabio Mauri (Intellettuale, 1975), and Dino Pedrali’s intimate series of photographs shot just two days before Pasolini’s death in 1975.
keywords | poetry; media; body; performance; cinema; spectacle; intertextuality
Per citare questo articolo/ To cite this article: Stefano Chiodi, Dalla voce alla presenza. Il corpo del poeta nel tempo dello spettacolo, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 363-394. | PDF dell’articolo