Le storie di Lucrezia Tornabuoni
Presentazione di: Storia di Hester e Vita di Tubia, Roma 2020
edizione critica e commento a cura di Luca Mazzoni
English abstract
Edizioni di Storia e Letteratura ha recentemente pubblicato l’edizione critica delle due opere di Lucrezia Tornabuoni, Storia di Hester e Vita di Tubia. Di seguito, presentiamo degli excerpta dal primo capitolo “I poemetti di Lucrezia” (pp. 16-21), e dal testo della “Storia di Hester” (pp. 127-136), con il commento curato da Luca Mazzoni. Trattasi di un poema in terzine della produzione di Lucrezia Tornabuoni (1427-1482), madre di Lorenzo il Magnifico (1449-1492), figura di riferimento nella vita culturale fiorentina della seconda metà del Quattrocento. L’Introduzione, invece, si propone di analizzare i poemi sia in relazione al contesto culturale e poetico della Firenze della metà del XV secolo, sia da un punto di vista linguistico e metrico. Anche Aby Warburg si interessò alla studio delle poesie di Lucrezia, tanto da includere quattro fogli del manoscritto fiorentino nella Tavola 46 del Mnemosyne Atlas.
Sommario del volume
Prefazione di Andrea Canova
Introduzione
1. Lucrezia Tornabuoni
2. I pometti di Lucrezia
3. Intertestualità interna
4. Intertestualità esterna
4.1 Pulci
4.2 Poliziano
4.3 Lorenzo
5. Dante e Petrarca: un reticolo intertestuale laurenziano
6. Altri ricordi danteschi, petrarcheschi e boccacciani
7. I cantari e la letteratura cavalleresca
8. Feo Belcari
9. Un milieu letterario e molte incertezze cronologiche
10. Le fonti
10.1 Ester
10.2 Tobia
10.3 I volgarizzamenti biblici
10.4 Gli inserti di altri luoghi biblici
11. Tobia in Luigi e Antonia Pulci: citazioni poligenetiche?
12. Il manoscritto
13. Note grafiche e linguistiche
13.1 Grafia e fonetica
13.2 Morfologia e microsintassi
13.3 Sintassi
13.4 Conclusioni
14. Nota metrica
15. Criteri di edizione
Storia di Hester
Vita di Tubia
Bibliografia
Indice dei manoscritti
Indice dei nomi e delle opere anonime
da I poemetti di Lucrezia
Nel 1978 Fulvio Pezzarossa ha pubblicato i poemetti in ottave di Lucrezia Tornabuoni, la Vita di sancto Giovanni Baptista (d’ora in poi B) e la Ystoria di Iudith (d’ora in poi I), preceduti da un’ampia introduzione alla quale si può ancora ricorrere, non solo, come ho già detto, per le note biografiche su Lucrezia, ma anche per il puntuale bilancio degli studi precedenti e l’attenta analisi strutturale dei poemetti, letti anche nei loro rapporti con la tradizione canterina e religiosa. Negli anni successivi, grazie alla pubblicazione delle 49 lettere di Lucrezia, nonché di 120 missive a lei dirette, queste ultime scelte fra le oltre 470 che costituiscono l’insieme della corrispondenza inviatale, si sono venuti precisando i dati biografici, e anche la grafia stessa di Lucrezia, donna che ha un “rapporto difficile” con la scrittura, è stata oggetto di riflessione. Dal punto di vista della produzione poetica, una recentissima edizione delle laudi ha sostituito quella che Giuseppe Volpi aveva procurato all’alba del Novecento, mentre la Istoria della devota Susanna (d’ora in poi S), uno dei tre poemetti biblici in terzine della Tornabuoni, dopo un’edizione del 1926, è stata pubblicata da Paolo Orvieto nel 1992. Laudi e tutti i poemetti sono stati tradotti in lingua inglese (senza testo a fronte), prima, quindi, dell’edizione italiana dei due restanti poemetti in terzine, la Storia di Hester (d’ora in poi H) e la Vita di Tubia (d’ora in poi T) – lacuna che la presente opera va a colmare. Vanno attribuiti a Lucrezia anche la canzone Della stirpe regale è nato il fiore e un sonetto indirizzato a Bernardo Bellincioni.
È stata ribadita più volte l’appartenenza della Tornabuoni alla componente oligarchica della cultura fiorentina, espressione di una fazione almeno inizialmente antimedicea che guardava al volgare e alla poesia come ai propri strumenti linguistici e culturali. Se Cosimo de’ Medici fu cultore degli studi filosofici e dell’erudizione latina e greca, suo figlio Piero seguì orientamenti diversi, volti alla promozione del volgare. La Raccolta aragonese, grande antologia della poesia toscana dalle origini al Quattrocento raccolta da Lorenzo nel 1476-1477, è la manifestazione più evidente della volontà di annettere alla cultura medicea il volgare, strumento espressivo tipicamente oligarchico. Lucrezia è stata efficacemente definita “la first lady che in vita è stata il tessuto connettivo del potere mediceo con la cultura della vecchia oligarchia da un lato e con i ceti popolari dall’altro”. La lettera di Gentile Becchi, il precettore di Lorenzo scelto dalla stessa Lucrezia, nella quale egli raccomanda a quest’ultima la scelta di un professore per lo Studio pisano, oltre a essere un comprensibile omaggio alla propria patrona, testimonia degli interessi culturali della Tornabuoni e della rete di rapporti al centro della quale ella si trovava:
Voi havete sempre tanto lecto, sì pieno lo scriptoio di libri, udito pìstole di sam Paolo, praticho tutto il tempo di vostra vita con valenti huomini che, non che vi si disdica racomandare j’doctore, ma è sì vergogna che voi non habbiate hauto a provedere voi tutto chodesto Studio. [...]
A proposito dei libri di Lucrezia, sappiamo con sicurezza che possedette almeno una Logica di Aristotele in greco, un Tolomeo (greco?) e un Sallustio, e che fece allestire un codice con la Vita del Battista di Francesco Filelfo. I personaggi con i quali ebbe maggiore consuetudine furono il poeta burchiellesco Bernardo Bellincioni, che le dedicò alcuni sonetti (e l’unico sonetto di Lucrezia, come abbiamo già detto, è indirizzato a lui; anche Lorenzo gli inviò un sonetto, il burchiellesco Un pezzo di migliaccio mal avìa), Luigi Pulci e Angelo Poliziano. Sono anche conservate alcune composizioni in suo onore.
Sgomberato il campo da fuorvianti pregiudizi che dipingono erroneamente il Quattrocento fiorentino come un secolo antireligioso, resta ancora da trovare una collocazione storico-culturale adeguata ai poemetti sacri di Lucrezia. Come ha notato Marco Villoresi, archiviarli “semplicemente come storie devote scritte per il consumo esclusivo dei familiari e l’autocontemplazione degli stessi, leggerli come letteratura per fanciulle di buon rango o come passatempo quaresimale per gli adepti della Compagnia dell’Evangelista, sarebbe criticamente ingenuo e storicamente infondato”: si tratta infatti di opere che obbediscono anche a una funzione politica e culturale, perché consolidano l’immagine devota dell’intero casato dei Medici, e non solo della Tornabuoni e di suo figlio.
Qualche riflessione merita la scelta della terza rima dantesca come metro di H, T e S, a fronte della più scontata ottava per gli altri due poemi. Come ha notato Pezzarossa, nel XV secolo a Firenze “la terzina si offriva come risorsa poetica connaturata ai poeti colti, in contatto dialettico coi grandi autori del Trecento”, mentre era la scelta spesso connessa a tematiche religiose da parte dei “protagonisti della cultura volgare e popolaresca”: sono scritte con questo metro la preghiera alla Vergine di Benedetto Accolti, la parafrasi dell’Annunciazione di Antonio di Meglio, la Confessione di Giovanni Ciai, simile a quella di Pulci, e una schiera di opere anonime. Su un altro piano, sono in terzine anche la parafrasi del prologo del Vangelo di Giovanni e altre composizioni religiose di Francesco d’Altobianco Alberti, le tre preghiere (a Dio, a nostra Donna, a tutte l’anime sante) del prosimetro Trattato d’una angelica cosa, mostrata per una divotissima visione ammaestrandoti come perfettamente la tua vita menare si debbi di Giovanni Gherardi da Prato. La famiglia Pulci usò spesso la terza rima: sono scritte con questo metro, a parte la citata Confessione di Luigi, un capitolo in morte di Cosimo, la Vita della Vergine e il Pianto della Maddalena di Bernardo e le Pístole di Luca. Lucrezia sembra quindi inserirsi in una tradizione fiorentina ben consolidata di verseggiatori “sacri” in terza rima; è inoltre possibile che un’opera non fiorentina, la Vita del Battista, poema in terzine di Francesco Filelfo commissionato da Filippo Maria Visconti, abbia fornito un modello, non solo per il poema dedicato dalla Tornabuoni allo stesso soggetto, ma anche per l’uso stesso di questo metro applicato alla materia sacra. Conosciamo infatti due manoscritti dell’opera di Filelfo allestiti a Firenze in ambito mediceo: il Riccardiano 1721, esemplato nel 1454 da Iacopo di Niccolò Cocchi, lo stesso funzionario dei Medici autore di un sonetto in lode di Lucrezia, e il Magl. VII.49 della Nazionale di Firenze, magnifico esemplare in cui campeggia uno stemma bipartito: a sinistra le palle medicee, a destra un leone rampante verde su sfondo giallo: l’arme di Lucrezia Tornabuoni. Il manoscritto, miniato attorno al 1455 da Francesco d’Antonio del Chierico, decoratore di punta dei Medici, fu molto probabilmente commissionato da lei. Questo codice a quanto sappiamo è l’unico, insieme a quello nel quale si trovano tutti i poemetti di Lucrezia, il Magl. VII.338, ad avere lo stemma bipartito Medici-Tornabuoni. Allo stesso Francesco d’Antonio del Chierico è stata attribuita la decorazione di un codice con B e I, il Magl. VII.1159 della Nazionale di Firenze. Un’altra commissione libraria di Lucrezia di cui abbiamo traccia è in una lettera del primo gennaio 1476, un messale in corso di allestimento a Venezia da parte di un certo “ser Giovanni” per il quale la Tornabuoni forniva i quinterni di pergamena e pagava il decoratore, tale “maestro Girolamo”.
Veniamo ora alla trama testuale delle “storie sacre” di Lucrezia, tanto in ottave quanto in terzine. Esse “mantengono un garbato livello di intrattenimento” e rappresentano una sorta di collettore di immagini, stilemi, topoi e cliché che può essere caratterizzato con le parole con cui Paolo Orvieto parla della poesia fiorentina “anteriore ai tempi del Magnifico”: “Espressionismo e stilizzazione con relativa perdita dello spessore semantico, petrarchismo di maniera [...] e modularità canterine farcite di topoi inflazionati, sempre connessi ad una captatio benevolentiae ad attrazione interclassista tipica della recitazione pubblica”. Possiamo tuttavia meglio puntualizzare alcuni aspetti: stilisticamente i poemetti di Lucrezia (nello specifico, H e T) presentano tre centri focali: Dante e Petrarca, la tradizione canterina e cavalleresca, ma anche la produzione poetica di Lorenzo, Pulci e Poliziano. Non a caso Mario Martelli, a proposito dei poemetti di Lucrezia, parla di “scarsità di mezzi”, ma anche di “deliberata volontà di parlare un linguaggio a tutti chiaramente comprensibile, perché da tutti immediatamente riconoscibile”. L’analisi delle armoniche letterarie che si sprigionano da H e T conferma senz’altro l’intuizione di Martelli: il gradiente intertestuale di H e T è altissimo, non solo sul fronte “esterno”, cui alludeva Martelli parlando di “linguaggio a tutti chiaramente comprensibile”, ma anche su quello “interno”.
Storie di Hester
Incomincia la Storia di Hester regina, come liberò il suo popolo hebreo delle mani de’ lor nimici. Composta dalla magnifica e nobil donna madonna Lucrezia, donna fu del magnifico uomo Piero di Coximo de’ Medici cittadino fiorentino, in terza rima.
Il nome tuo, o Signor glorïoso,
richiamo, perché sè la scorta vera:
chi segue te si truova il ver riposo. 3
In te la mente si fida, et [i]spera
ch’aiutera’ il mio debile ingegno
comporre in rima questa storia intera. 6
Sì colorir vorrei, com’io disegno
dentro al mio core, in modo che piacesse,
poi ch’a parlar di tale opera vegno. 9
Signor, se questa grazia da te havesse
i’ non la metterei tra lle minori
che da te ho inpetrate et tu concesse, 12
ma poco le potrei haver maggiori
che date me l’avessi per destino,
benché i versi sien molto inferïori. 15
Nel nome di Gesù homo et divino
comincerò, et in lui solo. Spero
che non mi lascerà sol pel cammino 18
a racontar del re magno Assuero
et della donna sua, di che fé stima,
nipote a Mardoceo giusto et severo, 21
chiamata Hestèr, più saggia che la prima,
che liberò il suo popol da morte,
come si seguirà con la mie rima; 24
di quella man che ’nsuperbì sì forte
ch’e figli d’Israèl uccider volse,
ma Dio gli liberò da quella sorte; 27
della reina Vasti, che si tolse
al suo marito et fu disubbidente,
onde meritò male, sì gliene colse: 30
oh, quanto ne fu po’ trista et dolente
al suo signor non haver obbedito!
Ma poco giova a chi tardi si pente. 33
Questo Assuero, re tanto gradito,
regnò in India et, signor d’Etiopia,
centovenzette provincie havea per sito; 36
et di molte ricchezze havendo copia,
ignoreggiando con gran cortesia,
con gran magnificenzia, senza inopia, 39
et nel terz’anno di suo signoria
raünar volse tutti e suoi baroni
(i’ dico que’ che hanno in sé vigoria, 42
perché s’intendin meglio i mie sermoni),
et comandò et con la mente attese
dov’egli havie le suo iuridizioni, 45
et in tal modo suo ordine prese
in quella parte che più discosto era
perché fra lor non fussi poi contese. 48
Essendo il tempo della primavera,
che si riveste delle fresche fronde,
el dì cresciuto et scemato la sera, 51
questo degno signor, che non nasconde
la suo magnificenzia, che si scuopre
di là, ancor di qua dalle salse onde, 54
in Persia cominciò a mettere in opre
et fé invitar a un magno convito1
tutti e baroni ch’io racontai di sopre. 57
Essendo il tempo e ’l loco stabilito,
provide sì che ciaschedun può havere
quel che gli andava al gusto e all’apetito. 60
Perché mi par che sie pur da sapere
el numero de’ dì et le vivande,
trenta furono et cento, puo’ vedere. 63
Come fu in Persia, simile si spande
in Media, usando il modo sopradetto,
per tutto il tenitoro magno et grande. 66
Ad questo non mancò, com’io ho detto,
vivande scelte d’ogni bandigione:
oltr’al mangiar si prendea gran diletto. 69
Ritornar voglio omai, ch’è ben ragione,
nella ciptà dove tenea suo corte,
che Susis si chiamava, il ver sermone, 72
et perché la materia è hor più forte,
a racontar il bello adornamento
richiamerò la mie fedele scorte, 75
che rinforzi il mie dir che va sì lento,
in modo tal che mi conduca a porto
et mandi alle mie vele fresco vento. 78
Questo degno signor, per suo diporto,
havea nella ciptà un suo giardino
(o voglian dire un gentile et bell’orto), 81
et, per entrarvi, il diricto cammino
era la via per una loggia adatta,
tutta di pietre degne et lavor fino. 84
Da molti buon’ maestri ella fu facta,
la qual colomne d’alabastro chiare
reggon, ciascuna ornata et ben ritracta. 87
Di porfido le meze che traspare,
et l’altre serpentino così adorno
che parien di smeraldo a riguardare. 90
Le parïete che eron dintorno
di pietre fine sì ben lavorate
ch’a mezzanocte quivi parea giorno. 93
Il pavimento suo, in veritate,
di diaspro era sì risplendïente
ch’era a vedere una gran dignitate; 96
il sopraciel della loggia presente
un pulito era et ben chiaro zaffino,
ch’a ripensarvi stupisce la mente: 99
non par lavoro human, ma par divino.
In questo sopracielo erano stelle
smaltate d’oro in quell’oltramarino; 102
lustravan sì lor raggi et lor fiammelle,
ch’a riguardare abagliava la vista:
saper vorrei ridir quant’eron belle! 105
Or seguendo così con la mia lista
l’adornamento che mi resta a dire
pur la mia voluntà alquanto acquista, 108
et benché ci resti assai a riferire
dello apparato grande del giardino,
come lo fé degnamente coprire: 111
drappi di seta, d’argento et d’or fino
di più ragioni et diversi colori,
qual bianco et verde et quale alexandrino. 114
Egli eran ricamati a rose et fiori
sì sottilmente, con gran maestria,
che mai fur visti sì degni lavori. 117
Le rose bianche et rosse si vedia
sì ben partite in sun un color verde
che racontar parria quasi bugia; 120
et alle natural’ gnuna non perde,
et gli altri fiori così in quel lavoro,
viole, fioralisi et fronde verde; 123
le funi che sostengon, parte d’oro
filato et l’altro seta a ssuo divisa,
e ’l resto seguirò senza dimoro. 126
Drento al palagio la mie mente avisa
camere et sale a rispecto di quello
ch’io raconto, et tutto a una guisa, 129
ma ad voler ridir quanto era bello
l’abitation del re et l’ornamento
bisognerebbe haver molto cervello, 132
onde lo ’ngegno mio quasi è già spento
et la mie mente qui resta pensosa
a dir quel ch’era per sostenimento. 135
D’avorio eran le travi dove posa
el palco, e ’l tetto è d’heban lavorato,
che ben pareva un’opera vezzosa. 138
Le lecta d’oro sì bene smaltate
di perle et gemme che stupor facea
a rrimirar sì nobile apparato; 141
et per ornar la mensa el re chiedea
vasi da bere et simil’ da mangiare,
perché il nobil convito far volea 144
di pietre tutte prezïose et care:
diamante et [i]smaragdo di valore
con altre degne pietre d’alto affare. 147
Così, per fare a’ suo baroni honore
et sé parare in simile maniera,
per dimostrare il magnanimo core 150
et non restando da mane et da sera
fu l’ornamento tanto rifulgente
ch’a racontarlo non par cosa vera; 153
et dopo questo il re tanto excellente
dal maggiore al minore invitar fece,
sì com’io dissi, il fior della suo gente: 156
“Ciascun venga a mangiare et siegli lece
di domandar quel che ’l gusto chiedessi”,
et così comandò a chi è in suo vece, 159
et se vi fusse ancor gnun che volessi
del suo tesoro, a tutti sie donato,
possa pigliar quanto vuole egli stessi, 162
per giorni sette a nessun sie negato.
1 | Il poemetto, come tutti gli altri scritti da Lucrezia, inizia con l’invocazione a Dio: è una convenzione canterina (per cui M.C. Cabani, Le forme del cantare epico-cavalleresco, Lucca 1988, 23-46).
2 | la scorta vera: anche nell’incipit di S Dio viene definito scorta (nella forma in -e, con metaplasmo di declinazione, come qui al v. 75) della poetessa: “Dio di Jacob, i’ non vo’ altra scorte / che te, Signor” (vv. 3-4).
5 | debile ingegno: cfr. “e ’nsino al fine il mio debole ingegno / ti priego aiuti, se ’l mio priego è degno” (Morgante XV 1 7-8). La Tornabuoni, prima di dare inizio alla narrazione, professa la sua indegnità all’opera poetica. Il tema è presente appunto anche nel Morgante (cfr. per es. “E s’io non ho quanto conviensi a Carlo / satisfatto co’ versi e col mio ingegno, / io non posso il mio arco più sbarrarlo / tanto ch’io passi il consüeto segno”, XXVIII 129 1-4) e nella Giostra di Pulci (“ché mancheria d’Omer lo stile e l’arte / e mancheria degli altri antichi ingegni”, XCVIII 1-2), in Poliziano (“porgi or la mano al mio basso intelletto”, Stanze I 2 8) e Lorenzo (“Questa la mano al basso ingegno porga”, De summo bono IV 21). Si tratta comunque di un topos (su di esso si vedano E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, (a cura di) R. Antonelli, Firenze [1948] 1992, 97-99, e anche M.C. Cabani, Le forme cit., 60-61) che torna più volte in H (I 76, 130-135, II 5-15, VII 154-158, X 112, 142-144), l’opera nella quale la Tornabuoni insiste maggiormente su questo concetto, presente anche in B (“So ben che questa è troppo grande impresa / a chi non ha de’ versi la ragione, / et ch’i’ sarò da chi ’ntende ripresa”: VII 1-3; si veda anche l’ott. CXVI) e nel finale di I (“Ringraziato sie tu Omnipotente / che m’hai cavato dal pelago al lito, / et sono in porto et delle rime fore / deboli et rozze come porge il core”), assente invece in S e T.
6 | Proposizione subordinata legata alla reggente senza la preposizione a (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata alle forme nominali del verbo).
7-9 | Anche all’inizio di I la Tornabuoni invoca la grazia (cfr. qui il v. 10) di poter comporre un’opera letteraria, con parole assai vicine a quelle di H: “Questa grazia vorrei mi concedessi: / di farla [scil. la “storietta”, II 1, di Giuditta] in rima in modo che piacessi” (III 7-8).
13-15 | ‘ma le grazie che tu mi avessi dato per destino potrei considerarle poco maggiori (rispetto a quella di poter comporre un poemetto su Ester), benché i miei versi siano poeticamente indegni’. Anche all’inizio del XVIII cantare del Morgante vi è un paragone fra le grazie concesse allo scrittore (in questo caso dalla Vergine Maria) e quella di comporre l’opera poetica: “con l’altre grazie che m’hai concedute, / aiuta ancor con tue virtù divine / la nostra storia, insin ch’io giunga al fine” (Morgante XVIII 1 6-8).
18 | sol: ‘sola’, con apocope di -a.
19-33 | Dopo l’invocazione, segue la protasi dell’argomento. La Tornabuoni sceglie di presentare i personaggi principali della vicenda citandoli in ordine di importanza: Assuero ed Ester, sua seconda moglie, Aman, nemico degli Ebrei, e Vasti, prima moglie di Assuero.
20 | di che fé stima: ‘cui attribuì molta importanza’ (S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, I-XXXI, Torino 1961-2009, s. v. stima, 13). “ne fa stima” è in rima in I IX 8.
22 | la prima: Vasti (cfr. il v. 28), prima moglie di Assuero.
23 | che liberò: il soggetto è Ester (v. 22).
25 | quella man: attraverso una sineddoche si fa riferimento ad Aman, consigliere di Assuero.
32 | La proposizione subordinata con il verbo all’infinito si lega direttamente agli elementi reggenti, gli aggettivi trista e dolente, senza la preposizione di. È lo stesso fenomeno che si verifica al v. 6, in quel caso con la mancanza di a.
33 | Tradizionale l’inserzione di una massima dopo l’invocazione iniziale del poema (si vedano M.C. Cabani, Le forme, cit., 34-35; P. Orvieto, Introduzione, in L. Tornabuoni, La istoria della casta Susanna, (a cura di) P. Orvieto, iconografia a cura di O. Casazza, Bergamo 1992, 24). tardi si pente: clausola dantesca (Inf. XX 120) usata anche da Antonio di Meglio (canz. Poi che lieta fortuna e ’l ciel favente 68) e Poliziano (Rime XXVII 6 8).
34-69 | Dopo l’invocazione e la protasi dell’argomento, il poemetto si riaggancia al testo biblico, parafrasandone l’incipit (“[Assuerus] regnavit ab India usque Aethiopiam super centum viginti septem provincias”, Est 1,1). In questi versi la Tornabuoni parla del primo banchetto organizzato da Assuero, destinato “cunctis principibus, et pueris suis, fortissimis Persarum, et Medorum inclytis, et praefectis provinciarum” (Est 1,3).
34 | gradito: è un aggettivo d’occasione necessitato dalla rima, presente nella tradizione canterina e nel Morgante (dove troviamo “dama gradita”: X 28 8, XIX 52 2). Lucrezia ricorre con una certa frequenza a questi aggettivi riempitivi: si veda la nota a T VIII 157.
36 | centovenzette: la forma sincopata cenvenzette, necessaria per evitare l’ipermetria, è in H IX 88.
40 | et nel terz’ anno: e paraipotattico. suo signoria: normali nel fiorentino quattrocentesco, e frequenti in H e T, gli aggettivi possessivi invariabili mie, tuo, suo (es. mie fedele scorte, v. 75, tuo cortesia, H II 11, ecc.).
45 | ‘dove egli esercitava il suo potere’.
46-48 | Anche il fatto che Assuero suo ordine prese (‘prese accordi’: S. Battaglia, Grande dizionario cit., s.v. ordine, 51) nella parte più lontana del suo regno perché non ci fossero contese fra i baroni non ha un preciso riscontro nel testo biblico.
49-51 | La collocazione temporale del banchetto (naturalmente in primavera, secondo il topos canterino, già medievale) è un’aggiunta della Tornabuoni che manca nella Vulgata. Gli echi del début printanier arrivano fino a Pulci: Morgante I 3, IV 2, IX 2.
50 | Da notare l’allitterazione. Il sintagma fresche fronde è attestato a fine verso anche nel Ninfale fiesolano di Boccaccio (XXVIII 2, : nasconde), in Francesco di Vannozzo (Rime CXII 3) e in Poliziano (Rime CXXVII 41, : onde).
51 | scemato la sera: mancata concordanza del participio assoluto (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata alla concordanza di aggettivo e participio).
53-54 | Anche il particolare della magnificenza di Assuero manca nella Vulgata.
54 | ancor di qua: ‘anche di qua’. salse onde: ‘il mare’. Il sintagma, con l’aggettivo che segue il nome, è in rima in Rvf XXVIII 32, Triumphus Pudicitie 163, nonché nella frottola (pseudo) petrarchesca Di ridere ho gran voglia 46. “salse onde” è in clausola in Lorenzo, Canzoniere LI 12 (: fronde), LXVII 56 (: nasconde), De summo bono I 80 (: fronde) e, all’interno di verso e con aggettivo posposto, in Ambra 14 3; nel sonetto di Mariotto Davanzati Giràn destri per cielo a vele e remi 2 (in A. Lanza, Lirici toscani del Quattrocento, I, Roma 1973, 431: fronde : s’asconde); all’interno di verso nelle Stanze di Poliziano (I 118 5), nella Giostra di Pulci (CLIII 4), dove in rima troviamo “salse acque” (II 6): quest’ultimo sintagma è a fine verso anche nel sonetto in lode di Luigi Pulci composto da Bernardo Bellincioni (Le rime di Bernardo Bellincioni, riscontrate sui manoscritti, emendate e annotate da Pietro Fanfani, I, Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1876, 81-82).
56 | magno convito: cfr. “Et ordinossi un convito sì magno” (Morgante XVI 22 1), “Subitamente un gran convito fassi” (Morgante XIX 134 6), “ed ogni dì qualche convito magno” (Morgante XXV 206 5).
63 | Nel testo biblico il primo banchetto dura 180 giorni (Est 1,4).
66 | tenitoro: ‘territorio’.
67-68 | non mancò ... vivande scelte: è frequente nei poemetti di Lucrezia la mancanza di congruenza fra soggetto e predicato. In particolare, quando il soggetto è posposto, il verbo può essere al singolare (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata alla concordanza soggetto / predicato).
70 | Ritornar voglio: tipica formula di transizione canterina e cavalleresca. è ben ragione (cfr. T VI 117): altro sintagma poetico di lungo corso (Guittone, Gente noiosa e villana 15, O vera virtù 79, Chiaro Davanzati, Troppo aggio fatto 15, Quanto ch’è da mia parte 19, Rvf LXX 11, CCLV 13), a fine verso in Triumphus Mortis I 87, Lorenzo, Furtum Veneris et Martis 75. Cfr. anche, sempre in rima, “ché così vuol ragione” (Morgante XIV 43 8 e XXIV 71 4). Da questo verso fino alla fine del capitolo si ha la descrizione del secondo banchetto organizzato da Assuero, destinato ai cittadini di Susa (così la corrente versione italiana; Susan nella Vulgata, Susis nel poemetto).
72 | il ver sermone: zeppa.
75 | la mie fedele scorte: ‘la mia fedele scorta’, Gesù (cfr. vv. 1-2 e H II 5), con scorte per metaplasmo di declinazione e la consueta forma invariabile mie dell’aggettivo possessivo. Il sintagma, a fine verso, ricorre anche in I LXVI 5 (ma al plurale: le fedele scorte).
76 | che rinforzi il mie dir: anche questa è tipica formula canterina.
77-78 | La metafora della poesia come navigazione è topica (su di essa si veda E.R. Curtius, Letteratura europea cit., 147-150) e tornerà anche alla fine del poemetto (H X 142-144); è usata spesso anche nel Morgante, dove torna frequentemente l’immagine del porto come compimento dell’opera poetica (es. “tu sè colui che ’l mio legno movesti / e ’nsino al porto aiutar mi dicesti”, III 7-8, “[...] io me n’andrò con l’una e l’altra volta / con la barchetta mia, cantando in rima, / in porto, come io promissi già a quella”, XXVIII 2 5-7, passo che rievoca la committenza della Tornabuoni). Cfr. anche, per la rima in vento, “con la tua man mi guida a salvamento / insino al porto con tranquillo vento” (Morgante XIV 1 7-8), “or, perché il fine è di venire a porto / sempre d’ognun che si commette al vento” (Morgante XXVIII 47 3-4). Il sintagma fresco vento, inoltre, ricorre in rima in Morgante XX 44 8.
79 | Da questo punto fino al termine del capitolo si trova una lunga ekphrasis della loggia, del giardino e del palazzo dove si svolge il banchetto. Può essere avvicinata ad analoghe digressioni delle Stanze (la reggia di Venere, I 95-119) e dell’Inamoramento de Orlando (il palagio di Dragontina, I vi 47-49, il Palazzo Zoioso, I viii 4-5, la sala di Agramante, II i 21); queste ultime, come ha dimostrato A.E. Quaglio, Una tradizione architettonica dell’epica italiana, in Studi in onore di Alberto Chiari, “Paideia” II (1973), 1025-1056, derivano dal Filocolo. Nel testo biblico, la descrizione è molto più succinta e riguarda solo il cortile del giardino della reggia, nel quale si tiene il convivio: “Cumque implerentur dies convivii, invitavit omnem populum, qui inventus est in Susan, a maximo usque ad minimum: et iussit septem diebus convivium praeparari in vestibulo horti, et nemoris, quod regio cultu et manu consitum erat. Et pendebant ex omni parte tentoria aerii coloris, et carbasini ac hyacinthini, sustentata funibus byssinis, atque purpureis, qui eburneis circulis inserti erant, et columnis marmoreis fulciebantur. Lectuli quoque aurei et argentei, super pavimentum smaragdino et pario stratum lapide, dispositi erant: quod mira varietate pictura decorabat. Bibebant autem qui invitati erant, aureis poculis, et aliis atque aliis vasis cibi inferebantur” (Est 1,5-7).
83 | adatta: qui nel senso di ‘bella’, come da prassi canterina (si vedano i glossari di Rinaldo e Aspramonte e D.Trolli, Il lessico dell’”Inamoramento de Orlando” di Matteo Maria Boiardo, Studio e glossario, Milano 2003, 76).
85 | Il riferimento ai buon’ maestri ricorda le due descrizioni architettoniche del Filocolo citate da Quaglio come fonte di quelle di Boiardo (si veda la nota al v. 79): il palazzo di Marmorina, le cui finestre “nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l’ossa degl’indiani elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v’erano per porte; e in quella sala si vedeano ne’ rilucenti marmi intagliate l’antiche storie da ottimo maestro” (Filocolo II 32 2), e la Torre dell’Arabo: “La torre dove le donzelle dimorano [...] è altissima tanto che quasi pare che i nuvoli tocchi, e si è molto ampia per ogni parte, e credo che il sole, che tutto vede, mai sì bella torre non vide, però ch’ella è di fuori di bianchi marmi e rossi e neri e d’altri diversi colori tutta infino alla sua sommità, maestrevolemente lavorati, murata” (Filocolo IV 85 1; miei tutti i corsivi).
88 | le meze che traspare: ‘le metà (delle colonne) che si vedono’, con soggetto plurale e predicato singolare (si veda la nota ai vv. 67-68).
89 | l’altre: ‘le altre metà delle colonne’. serpentino: ofite, “marmo grigio chiazzato di nero, con diverse varietà e tonalità talora tendenti al verde, utilizzato per costruzioni e rivestimenti” (S. Battaglia, Grande dizionario cit., s. v. ofite).
92-93 | Cfr. l’anonimo cantare Padiglione di Carlo Magno, 19 4: “di pietre e perle ciascun era adorno: / mai non si vide il più ricco lavoro: / di mezza notte vi parea di giorno” (cit. in P. Orvieto, Pulci medievale. Studio sulla poesia volgare fiorentina del Quattrocento, Roma 1978, 137). Anche nel Morgante troviamo esempi di pietre preziose così lucenti da illuminare la notte: “ed un carbonchio ricco ancora in testa / che d’ogni oscura notte facea giorno” (VI 18 1-2); “e carbonchi e le gemme ch’egli avia / facean d’oscura notte parer giorno” (XIV 86 3-4, nella descrizione del padiglione di Luciana); “una grillanda / con un carbonchio mai più visto altrove / che riluce la notte d’ogni banda / quand’ella è bene oscura e quando e’ piove” (XXV 88 5-6); “tanto che quasi carbonchio par sia, / sì che di notte dimostra la via” (XXV 330 7-8). Cfr. quest’ultimo passo con il Ciriffo Calvaneo: “un piropo [...] / tal che la notte [...] / risplendea sì che mostrava la via” (V 8 3-6). Nel capitolo di Bernardo Pulci Venite, sacre e gloriose dive, in morte di Simonetta Cattaneo, l’immagine è iperbolicamente applicata agli occhi di Simonetta: “Non son queste le trecce [...] / [...] / e gli occhi, donde uscia sì dolce riso / ch’a mezza notte nel più freddo gelo / potea far luce e in terra un paradiso?” (vv. 139-144). Qui il primo emistichio del v. 143 è uguale a quello di Lucrezia, la consecutiva ch’a mezzanotte introdotta in entrambi i testi da sì. E in Poliziano: “La regia casa il sereno aire fende / fiammeggiante di gemme e di fin oro / che chiaro giorno a meza notte accende” (Stanze I 95 1-3, nella descrizione della reggia di Venere).
97 | sopraciel: “telo o drappo sospeso al soffitto per ornamento” (S. Battaglia, Grande dizionario cit., s. v. sopraccielo).
98 | zaffino: forma fiorentina per ‘zaffiro’.
100 | Cfr. “Non human veramente, ma divino / lor andare era, e lor sante parole” (Petrarca, Triumphus Mortis I 22-23).
101 | stelle: anche nel palazzo fatato del secondo cantare del Morgante si ha un soffitto azzurro stellato: “e palchi erano azzurri pien di stelle, / ornati sì che valieno un tesoro” (II 20 5-6).
102 | oltramarino: azzurro oltremare, qui usato come sinonimo di zaffino del v. 98.
103 | lustravan: ‘brillavano’.
108 | ‘la mia volontà (di poetare adeguatamente) si rafforza’ (S. Battaglia, Grande dizionario cit., s. v. acquistare, 4)
113 | di più ragioni: ‘di numerose varietà’.
114 | alexandrino: ‘sorta di azzurro e indaco’, accezione rara, non censita nel S. Battaglia, Grande dizionario cit., e nel N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, I-IV (8 t.), Torino 1865-1869 (nel quale, s. v., si trova “Aggiunto di un velluto pregiato che fabbricavasi in Alessandria, donde prese il nome”). M. Pfister, LEI. Lessico etimologico italiano, Wiesbaden 1979, s. v. Alexandrīnus, registra l’occorrenza dell’aggettivo indicante questo colore nel 1548; viene censito anche un camice sacerdotale “alexandrino colore” registrato in un documento bolognese del 1475. Il lemma compare più volte anche nella Giostra di Pulci (XLI 8, L 5, LXXV 2, LXXXIX 7, XC 3), sempre riferito alle vesti dei cavalieri e ai drappi dei cavalli.
118 | ‘si vedevano le rose bianche e rosse’: costruzione impersonale con il si passivante (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata alla concordanza soggetto / predicato).
121 | alle natural’ gnuna non perde: ‘nessuna (rosa) risulta inferiore a quelle reali’. gnuna è forma derivata da niuna (si veda nel capitolo 13.1 la sezione dedicata al consonantismo). Il tema dell’arte come imitazione della natura è dantesco (Inf. XI 97-105); qui Lucrezia allude anche ai versi con la descrizione degli altorilievi posti sulla parete della prima cornice del Purgatorio, tali “[...] che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno” (Purg. X 32-33). Il tema è anche nelle Stanze (“Mille e mille color formon le porte, / di gemme e di sì vivi intagli chiare / che tutte altre opere sarien rozze e smorte, / da far di sé natura vergognare”, I 97 1-4) e in Boiardo (“Sì seppe quel maestro lavorare / che la natura vi sarebbe vinta”, Inamoramento de Orlando I vi 49 3-4).
123 | fioralisi: la variante fiorentina del nome fiordaliso ricorre anche in S 91.
124 | Il verso è retto da si vedia (v. 118).
125 | a ssuo divisa: ‘come loro divisa’. Il sintagma è in rima anche nella Giostra di Pulci (LXXXV 8).
126 | seguirò: ‘continuerò a descrivere’ (S. Battaglia, Grande dizionario cit., s. v. seguire, 18). senza dimoro: il sintagma, di conio dantesco (Inf. XXII 78), ha frequenti attestazioni nel Teseida di Boccaccio ed è tipico della letteratura canterina e cavalleresca (anche in Boiardo: D. Trolli, Il lessico cit., 130) e delle sacre rappresentazioni, anche nelle varianti “senza far dimoro/-a”; ricorre sempre a fine verso in H (oltre che qui, anche a III 45, IV 79, VI 121, IX 147), T (V 58), B (LXXIV 3, CXV 4 – senza far dimora –) e in I (CL 6), dove si ha anche “senza dimorare” (XIX 1).
127 | avisa: ‘individua’ (Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, s. v. avvisare (2), 1.3.1).
128-129 | a rispecto di quello / ch’io raconto, et tutto a una guisa: “‘corrispondenti al resto di cui ho già detto (altrettanto ricche e belle, cioè), e tutto a una guisa, e tutto dello stesso tipo, della stessa ricchezza e della stessa bellezza’” (M. Martelli, Lucrezia Tornabuoni, in Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, Actes du colloque international, Aix-en-Provence, 12, 13, 14 novembre 1992, Aix-Marseille 1994, 82).
130-131 | quanto era bello / l’abitation del re et l’ornamento: uso “impersonale” dell’aggettivo posto dopo il verbo essere (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata alla concordanza di aggettivo e participio).
130-134 | Torna il topos della modestia dell’ingegno, come al v. 5.
147 | d’alto affare: ‘di grande valore’, sintagma (come gli omologhi “di grande a.”, “di cotanto a.”) assai diffuso nella letteratura canterina e nel romanzo cavalleresco (D.Trolli, Il lessico cit., 77; A. Canova, Per la lauda “Salve Iesù Cristo, salvator superno” e per l’edizione dei laudari, in Otto studi di filologia per Aldo Menichetti, (a cura di) P. Gresti, Edizioni di Storia e Letteratura 2015, 153).
157 | lece: ‘lecito’.
160-163 | Altra caratteristica tipica della lingua dei poemetti di Lucrezia è la contaminazione fra discorso diretto e indiretto, come in questi versi (si veda nel capitolo 13.3 la sezione dedicata al discorso diretto). Il dettaglio dell’assoluta liberalità di Assuero manca nella Vulgata, dove la generosità del re si limita alle bevande: “Vinum quoque, ut magnificentia regia dignum erat, abundans, et praecipuum ponebatur” (Est 1,7).
162 | egli stessi: ‘egli stesso’. La forma stessi qui è dovuta a esigenze di rima, come in Dante (Inf. IX 58, Par. V 133); anche nelle Canzoni a ballo di Lorenzo (“me stessi”, II 1, “tu stessi”, XXIV 18). È forma rifatta su “egli”, “questi” (si veda nel capitolo 13.2 la sezione dedicata ai pronomi personali).
English abstract
Lucrezia Tornabuoni (1427-1482), mother of Lorenzo the Magnificent, wrote sacred narratives inspired by biblical figures. Edizioni di Storia e Letteratura (Rome) has recently published the edition of two poems in terza rima, devoted to Hester and Tobias. In the Introduction, the poems are analysed in relation with the cultural and poetic context of the mid-XV century Florence and from a linguistic and metrical point of view. Warburg had the intention to study Lucrezia's poems: a transcription of the Florentine manuscript is now in The Warburg Institute, London.
keywords | Lucrezia Tornabuoni; Lorenzo il Magnifico; Angelo Poliziano; Luigi Pulci; sacred narratives; tavola 46.
Per citare questo articolo: L. Mazzoni, Le storie di Lucrezia Tornabuoni. Presentazione di: Storia di Hester e Vita di Tubia, Roma 2020, “La Rivista di Engramma” n. 182, giugno 2021, pp. 221-241 | PDF dell’articolo