Per insufficienza di prove. Arte, storia, metodi
Editoriale di Engramma n. 186
a cura di Maria Bergamo, Giacomo Confortin, Fabrizio Lollini
English abstract
There is nothing more deceptive than an obvious fact.
Arthur Conan Doyle, The Boscombe Valley Mystery, 1891
[C]i limitiamo all’ipotesi oltremodo verosimile e per noi soddisfacente,
che al momento dell’entrata nell’arca Mathusala in certo qual modo viveva ancora,
mentre sotto un certo rispetto era già morto.
Mario Brelich, Il navigatore del diluvio, 1979
Un diavolo tentatore apre questo numero di Engramma (si ripresenterà in uno dei saggi). Un diavolo incappucciato, nel bulino di Luca di Leida, che chiede a Gesù di provare, con dei miracoli patenti, che lui è veramente Cristo, il figlio di Dio (Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13). È con questo significato che la lectio difficilior dell’Esegetica accosta il passo dei Vangeli alle insistenti invocazioni di un miracolo da parte degli Ebrei nel deserto (Es 17, 2-7) o alla “generazione incredula e perversa” che esige i segni rivelatori del Messia (Lc 11, 29). Ma non li avranno; perché è chiesto loro un atto di fede, di credere oltre il visibile, ricusando la tensione verso una prova inoppugnabile.
Allo studioso di Storia dell’arte è chiesto il contrario di un atto di fede. Tuttavia, “per insufficienza di prove” troppe ricerche sono tacciate di inattendibilità, tanto che la prova talvolta appare come una potenziale insidia di metodo. Nel numero che qui presentiamo, ci siamo interrogati su alcuni dei temi che ruotano intorno al vuoto lasciato dalla mancanza di prove nella ricerca storico-artistica – dapprima in un seminario di studi, quindi raccogliendo otto saggi, e due interviste a esperti di discipline diverse.
Dunque, il problema dello studioso di Storia dell’arte, che si impegni in un’interpretazione iconologica, in un’analisi del rapporto col pubblico, o – di modo più tradizionalmente filologico – in un’attribuzione su base stilistica, è quasi sempre quello di recuperare un nesso, una congiunzione che gli permetta di comprendere l’azione o la circostanza, creativa o esistenziale, che ha portato alla produzione di un oggetto determinato; il quale, per come è descritto da Michael Baxandall in Patterns of Intentions, costituisce la risposta a un determinato problema, di cui a distanza spesso non vediamo i termini, e di cui rischiamo perciò, da un lato, di sovrainterpretare e, dall’altro, di fraintendere l’essenza.
Nessuna pratica della Storia dell’arte è intatta da vizi ermeneutici. Tante volte l’Iconologia, per esempio, è accusata di omissioni e approssimazione: interpretare un dipinto o una scultura sulla base di un’oscura leggenda, nota secoli prima o in un’area geografica del tutto diversa, o di raffinate ma poco diffuse varianti testuali alla forma di un mito comporta, di norma, un peccato di presunzione, se non si ricostruisce una sorta di stemma codicum che permetta a due Dove e Quando di connettersi; se ci si rifugia in comodi paradigmi antropologici senza gli strumenti di una vera Antropologia.
Lo stesso vale per lo studio dello stile e della semantica delle forme, quando, ad esempio, si scrutina l’operatività di un artista ipotizzando tappe stilisticamente seminali senza solidi appoggi sulla sua biografia; o quando si postula la circolazione di alcuni modelli senza ricostruirne l’effettiva attivazione; o, ancora, quando si assume un’idea di autografia esemplata su pratiche generaliste o contemporanee, e non su quelle produttive del tempo preso in esame.
Talora si è poi proceduto a letture basate su alcune consuetudini percettive, per motivare alcune scelte nella produzione e nella fruizione dell’arte, senza poter ritornare con sicurezza a quel dato momento considerato; estendendo le competenze, le sensazioni e le abitudini documentate per certi pubblici e artefici ad altri, il cui statuto socio-culturale non è di fatto possibile ricostruire. Soprattutto, sono esposti a difetti di metodo gli studi che si orientano esclusivamente secondo teorie e ideologie più o meno recenti, e che a gradi diversi di consapevolezza ritagliano i dati storici secondo la propria esigenza interpretativa, o li accostano ad altri dati in un miscuglio analogico che ignora la pluralità dei contesti e degli sguardi su di essi.
Il tema è la ricerca del nesso – la connessione, in primis col pubblico dell’oggetto allo studio (e in generale con il contesto dell’arte). La Prova, in sostanza. Ciò che oggi si vuole chiamare “evidenza”, cioè che appare interamente; che si dimostra quantomai necessaria, e la cui mancanza viene contestata, dinanzi ai frequenti cortocircuiti metodologici nel campo odierno della Storia dell’arte. Un concetto che ne porta con sé molti altri: l’Indizio, la tripartizione Deduzione-Induzione-Abduzione, le categorie aristoteliche del Segno da analizzare (Rhet. 1402b 8: εἰκὸς παράδειγμα τεκμήριον σημεῖον), quelle delle differenti possibili auctoritates (la communis opinio, o i praejudicia). Un concetto a cui mancano, nella nostra disciplina, le globali ri-definioni ermeneutiche conseguite in altri campi: la Storia pura – per esempio con il “paradigma indiziario” – o l’Archeologia – per esempio con la critica di Giuseppe Pucci del Paradigma indiziario (s.v. nel Dizionario di Archeologia diretto da R. Francovich e D. Manacorda, 2000, 59-74; i cui punti nodali erano già nel saggio La prova in Archeologia, “Quaderni storici” a. 29, 85/1 (1994), 59-74). È nel saggio di Pucci che compare Sherlock Holmes, ipostasi dell’impiego più efficace della prova, da noi richiamato sommessamente nell’exergo. Ed è sempre qui che Pucci distingue, non solo in materia archeologica ma storica tout court, tra un regime di provabilità e uno di probabilità, per concludere che se rifiuta di far ricadere i propri risultati anche nel secondo, la ricerca è semplicemente, “estremamente più povera” (Pucci 1994, 70).
Di conseguenza, si rileva ancora più forte la necessità del lavoro dello storico dell’arte su sé stesso e sulle proprie possibilità (e volontà, e consapevolezza di queste) di controllo dell’oggetto di studio: in modo da attivare una connessione accertabile, dunque accettabile. Questi infatti è sempre chiamato a un atto critico doppio – ogni problema di Storia dell’arte esige dai propri interpreti che si pongano una domanda e che diano una prova alla propria risposta. Peraltro, ogni schema operativo contratto su sé stesso – e non solo quelli applicati alle Scienze umane – può dare luogo a percorsi esegetici alternativi: divergenti o intersecati a esso dopo un tratto parallelo. Da un lato, sono da dibattere le teorie inverificate, perché sebbene i ‘testi’ siano informati da ‘grammatiche’ diverse, gli Studi visuali non possono prescindere dal rigore che in genere associamo alla Filologia. Di converso, spesso, la storia degli studi dimostra che il conforto a una tesi può trovare strade alternative, appunto, passando dal livello stricto sensu documentale a quello, per esempio, demandato a un affondo coerente di analisi stilistica.
Si pone però un ulteriore scarto logico: se rimane essenziale sorvegliare gli strumenti della ricerca – dalle analisi dei materiali agli spogli d’archivio, dal confronto delle serie iconografiche alla contestualizzazione storica, tutti giovando ai fini della storia delle immagini – resta forte la domanda ontologica sottesa al concetto stesso di prova. Il criterio positivista di causalità – già criticato nelle scienze dure – ha senso di essere nelle discipline storiche? Esiste il dato oggettivo (il tekmerion) e sono neutri gli strumenti della ricerca? Cosa si apprende, per esempio, dal lunghissimo dibattito sugli affreschi di Castelseprio (cui accennano qui Doležalová e Foletti), che hanno oscillato paurosamente nella loro datazione e trovato una collocazione che dovrebbe essere definitiva solo grazie al ricorso a strumenti scientifici in senso tecnico, i risultati dei quali hanno portato a riconsiderare la nascita di questo cortocircuito pittorico tra Oriente e Occidente? Dunque, un quesito cruciale: non è piuttosto il percorso ermeneutico a poter dare validità alla ricerca? E, di più, esistono ancora i confini disciplinari, scanditi dai codici di settore, o esiste appunto solo una diversa strumentazione, nell’orizzonte di una comune storiografia delle scholarship diverse?
Da ultimo, ma da una prospettiva che riscopra ab imis fundamentis i discorsi sulle immagini, nel quesito sulla Prova in Storia dell’arte, quale valore va confidato al processo argomentativo? Alla congiunzione tra Immagine e Parola, sul piano specifico della Letteratura artistica, quale reazione si produce tra la scrittura dello storico e l’eloquenza degli oggetti dell’arte? Se le figure del desiderio del primo e il suo impiego consapevole della retorica non sono davvero soggetti a “proof or disproof” (J. Elkins, Our Beautiful, Dry, and Distant Texts: Art History as Writing, Pennsylvania 1997, 291), tuttavia, dovremmo interrogarci sui diversi principi all’opera nelle ri-creazioni verbali del visuale. Il principio poetico, della scelta degli argomenti, quello ordinatore, del loro montaggio critico, e quello esornativo, che in certa misura rende partecipi i saggi degli stessi fenomeni di superficie della letteratura; in che modo questi preparano l’esposizione di una prova estrinseca? O ne sono piuttosto gli artefici?
La “Rivista di Engramma”, per questo numero di novembre 2021, si propone dunque di raccogliere degli interventi che traccino queste possibilità, in mancanza, o in scarsità (talora apparente) di prove; per sancire una sorta di Principio di congiunzione tra il giudizio ermeneutico e la sua conferma nella storia delle immagini. Lo farà in due modi. Nel primo, interrogando due esperti di altri ambiti disciplinari, in cui l’idea di prova assume un carattere di particolare rilevanza: quello giuridico e quello sociologico, con l’avvocato Peppe Nanni e lo studioso antimafia Umberto Santino. Qui, le Prove degli altri spostano il piano della visione e consentono uno sguardo obliquo anche sulle materie artistiche. Nel secondo, in forma più consueta a questa sede, dopo aver chiesto a studiosi di Storia dell’arte di differente orientamento di metodo di contribuire al numero con un proprio saggio, raccogliendo questa pluralità di interventi.
Klára Doležalová e Ivan Foletti tratteggiano un excursus assai denso di casi tardoantichi del concetto di prova nelle arti visive, tra datazione, funzione e committenza, in un periodo in cui la natura sovente frammentaria dei manufatti, combinata alla scarsità di fonti dirette, rende il compito dello studioso assai difficile, con un possibile aiuto (come nel caso sopra citato di Castelseprio) che può giungere dall’ambito delle scienze cosiddette dure. Luca Capriotti tenta di ricostruire non solo e non tanto la storia della porta ‘romanica’ dei Leoni della Cattedrale di San Pietro a Bologna, quanto il passaggio di senso tra il concetto coevo di temporalità che esprimeva attraverso il suo perduto ciclo dei Mesi e quello che testimoniano le uniche prove che abbiamo sul complesso architettonico e scultureo in questione: le fonti cinquecentesche che ce lo descrivono prima della sua distruzione, quando ormai il legame tra le attività mostrate nelle scene delle partizioni dell’anno e il fedele (un legame antropologico e insieme religioso) era venuto a mancare nella mentalità pre-moderna. Fabrizio Lollini evidenzia una curiosa presenza in una miniatura ritagliata di Nerio, nella Bologna del primo Trecento, che costituisce forse un tentativo di esegesi testuale del passo dei Vangeli che racconta l’apparizione angelica al Sepolcro alle Marie.
Un trittico di contributi è dedicato al Cinquecento veneziano. Lorenzo Gigante analizza il celeberrimo ritratto tizianesco di Laura Dianti, e attraverso lo scrutinio attento dell’aspetto vestimentario, anche in collegamento ad alcune incisioni legate al contesto ferrarese, fa emergere la caratterizzazione del dipinto come espressione dell’hic et nunc relativo a questa affascinante figura femminile, in rapporto al gusto e alla moda legati al suo percorso biografico e socioculturale. Il complesso intervento di Francesco Trentini tenta di esprimere una consapevole epistemologia della prova come tema al centro di questo numero; lo specifico case study impiegato è quello del Compianto di Cima da Conegliano ora a Mosca, cui applica una lettura fondata su un paradigma sociologico di Pierre Bourdieu. Maria Bergamo legge i soggetti del grande dipinto veronesiano con Il Battesimo e le Tentazioni di Cristo, eseguito verso il 1582 e parte della serie per la chiesa ora non più esistente di San Niccolò della Lattuga ai Frari, insieme al suo pendant raffigurante La Lavanda dei piedi e l’Ultima Cena di Benedetto Caliari: solo dal rapporto tra i due dipinti, e nel contesto della comunicazione religiosa post-tridentina, con le sue esigenze catechetiche, è possibile riconoscere il tema sacramentale; la studiosa evidenzia poi come il concetto di prova sia presente nei testi delle Scritture.
L’applicazione delle tematiche relative all’evidence si declina qui nel panorama contemporaneo tramite i contributi di Veronica Di Geronimo e di Antonella Huber. La prima evidenzia le difficoltà dello studioso nell’analisi dell’arte cinese dei nostri giorni in rapporto al gap culturale con questo contesto; lo fa valutando la possibilità e l’opportunità di rintracciare i reimpieghi visivi del Rinascimento occidentale nell’opera dell’artista Lü Peng (con cui la studiosa si è direttamente confrontata, andando dunque in questo caso – per così dire – alla fonte stessa dell’ipotesi da provare), ed espandendo poi il problema al fenomeno definito come Cultural Boomerang. La seconda lavora invece sul concetto di Truthiness, entro il problema dell’information processing che costituisce una delle tematiche più attivate dell’arte contemporanea, sia da parte degli artisti, sia da parte dei curatori, come emerge per esempio nel clamoroso caso (anche mediatico) dei Tresaures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst (sulla mostra del 2017 a Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia, vedi una recensione/presentazione in Engramma 147).
English abstract
In the presentation of this issue of “La Rivista di Engramma”, we introduce the theme of Evidence in art history scholarship, in close relation to its different methodologies (iconography, stylistic and functional analysis, and more). In the first section it will be possible to read two interviews on this subject, with two experts in different fields: Peppe Nanni, lawyer and law scholar, and Umberto Santino, a sociologist who, in specific, studies mafia issues (Le prove degli altri. A dialogo con Peppe Nanni e Umberto Santino, ed. by Maria Bergamo, Giacomo Confortin e Fabrizio Lollini). In the second section, we present the contribution of the scholars who have undertaken to provide – each one from her/his point of view – examples of the concept and/or of the use of evidence in art history. For Middle Age, Klara Doležalová and Ivan Foletti (Searching for Evidence in Late Antique Visual and Material Studies), Luca Capriotti (Da spazio liminale a spazio estetico. La porta dei Leoni di San Pietro a Bologna), and Fabrizio Lollini (“Quis revolvet nobis lapidem ab ostio monumenti?”. Piccole mani e un pezzo di volto). For modern times, Lorenzo Gigante (I vestiti della principessa. Laura Dianti tra Tiziano e qualche xilografia), Maria Bergamo (La prova e il perdono. Lettura iconologico-sacramentale della Riconciliazione nel ciclo veronesiano per San Nicolò dei Frari), and Francesco Trentini (L’evidenza in questione. L’arte alla prova dell gioco sociale). And, for contemporary art, Veronica Di Geronimo (Lü Peng e il Rinascimento. Caso di studio sui limiti e le difficoltà della traducibilità culturale) and Antonella Huber (Pratiche di display nell’epoca della Truthiness).
keywords | Evidence; Art History; Methodology.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Bergamo, G. Confortin, F. Lollini (a cura di), Per insuffcienza di prove. Arte, storia, metodi, “La Rivista di Engramma” n. 186, novembre 2021, pp. 7-13 | PDF