Venus Virgo/Venus Magistra
Lettura della figura femminile in trono negli affreschi di Botticelli di Villa Lemmi, alla luce del montaggio di Mnemosyne Atlas, Tavola 46
Filippo Perfetti
English abstract
“Nomi che, come la madeleine dalla tazza fatata di Proust,
liberano ancora nel tempo il nome puro d’Europa
e la memoria di un rapporto tra gli uomini,
i proprietari di villa, i vicini di villa,
i vivi e i morti vissuti nella stessa villa,
che solo in quel paesaggio,
e in alcuni momenti fragilissimi e perenni,
fu possibile e benedetto dal cielo.”
Bernardo Trevisano, Ville fiorentine, 1966
L’oggetto di questa nota sono gli affreschi di Villa Lemmi, rimasti coperti per secoli e svelati soltanto nel 1873, per poi, pochi anni dopo nel 1882, essere distaccati e portati dove ancor oggi si trovano, al Louvre di Parigi (van der Sman 2007, 159). Si tratta di una coppia di affreschi realizzati per il piano superiore di quella che allora era la dimora, appena fuori Firenze, della famiglia dei Tornabuoni, come noto una famiglia molto bene inserita nella vita sociale, economica, politica e culturale della Firenze della seconda metà del XV secolo. Posti a poca distanza l’uno dall’altro, separati unicamente da una finestrella e dalla sua imbotte, sono in stretta relazione fra loro: due frasi di uno stesso discorso realizzato dalla mano di Sandro Botticelli.
I.
“[…] litote di logge e porte, segretezza di mura e siepi”
Bernardo Trevisano, Ville fiorentine, 1966
Certa è l’identità del realizzatore degli affreschi, Sandro Botticelli; così come la datazione è stata quasi univocamente circoscritta al 1486, anno di particolare importanza nella storia della famiglia Tornabuoni (Conti 1881, 86-87; van der Sman 2007, 159). Non univoca e oggetto di diverse interpretazioni è invece l’identificazione dei personaggi rappresentati negli affreschi; in particolare per quanto riguarda i ritratti del giovane signore sull’affresco di destra e della giovane signora in abiti cortesi in quello di sinistra.
La vicenda critica dell’identificazione si può riassumere in breve come segue. Al momento della scoperta dell’affresco i due personaggi erano stati identificati con Lorenzo di Giovanni Tornabuoni e quella che nel 1486 sarà la sua sposa, ovvero Giovanna di Maso degli Albizzi (Conti 1881, 86-87). Ernst Gombrich rifiuta questa proposta (Gombrich 1945, 57n) e successivamente identifica il giovane in Lorenzo di Pierfrancesco Medici (Gombrich 1972, 76). Helen Ettlinger riconobbe poi nella signora Nanna di Niccolò Tornabuoni (Ettlinger 1976, 406). Un’ultima alternativa è quella avanzata da Patricia Simons: propone che il giovane sia Lorenzo Tornabuoni, e la signora non sia la prima moglie ma la seconda, Ginevra Gianfigliazzi, spostando pertanto la datazione degli affreschi al 1490 (Simons 2011-12, 103-135, in particolare p. 122). Infine, pochi anni prima rispetto a Simons, Gert Jan van der Sman nel saggio Sandro Botticelli at Villa Tornabuoni and a nuptial poem by Naldo Naldi, ritorna sulla prima identificazione, con una particolareggiata ricostruzione della committenza e dell’iconografia degli affreschi (van der Sman 2007, 159). All’aggiornata e argomentata posizione critica di van der Sman ci si riallaccia per l’approfondimento che si propone in questa nota.
Nell’affresco di sinistra, il primo che si incontrava salendo le scale della Villa, sono di scena cinque figure femminili, assieme a un piccolo putto alato, all’estremità inferiore destra con funzione di reggere uno stemma gentilizio la cui insegna non è pervenuta.
La scena si lascia dividere in due comparti: da sinistra avanza un gruppo di quattro donne abbigliate con vesti svolazzanti anticheggianti, con sul fondo (oggi poco visibile) un giardino e una fontana. Fra di loro spicca, per il portamento più nobile e l’atteggiamento da guida, la donna che porta in omaggio fiori alla quinta figura femminile, isolata sulla destra, che vestita con gli abiti del tempo dell’affresco appare come una aristocratica signora che con cortesia accetta l’omaggio delle sue ospiti. Dietro di lei, a fare da fondale, l’esterno di un edificio. Il gruppo delle quattro fanciulle è identificabile con Venere e il corteggio delle tre Grazie (v. da ultimo, van der Sman 2007, 173-175); il titolo convenzionale dell’opera Venere e le tre Grazie portano un omaggio a una giovane descrive precisamente la scena (così la didascalia in francese del Louvre: Vénus et les trois Grâces offrant des présents à une jeune fille).
La lettura della scena nell’altro affresco è più complessa. Dato il medesimo contesto di provenienza e la realizzazione in contemporanea delle due opere, la seconda ‘frase’ del dittico deve essere considerata in dialogo con la precedente: pertanto il soggetto dovrà essere non così lontano dal primo, ma piuttosto ad esso raccordato. Anche qui si tratta dell’arrivo di qualcuno, in questo caso dell’introduzione di un giovane signore vestito in abiti dell’epoca, condotto per mano da una fanciulla in vesti all’antica. L’ambientazione, a differenza dell’altra scena, non è in un contesto domestico, ma nella radura di un bosco dove è riunito un gruppo di sette donne al cospetto delle quali il giovane viene condotto. Il gruppo delle sette figure femminili, tutte sedute e tutte vestite all’antica, è impostato come un consesso in cui spicca, al centro, una donna che, per la posizione innalzata, la posa e l’età, primeggia sulle altre. In basso a sinistra, appena sotto al giovane, anche qui un putto col suo stemma, illeggibile come quello dell’altro affresco.
A differenza del primo affresco l’identificazione dei personaggi in vesti classicheggianti è meno immediata, anche se non certo difficile grazie alla presenza di ben riconoscibili segnali. Le sette donne più giovani presentano attributi che le identificano con le Arti liberali: Musica, Astronomia, Geometria, quindi, separata dalla figura in trono di cui si dirà, Aritmetica a comporre il Quadrivio; a seguire: Dialettica, Retorica e, senza attributi, Grammatica che introduce – lei che è la prima arte del Trivio – il giovane al cospetto del gruppo. Il titolo dell’affresco è Giovane introdotto tra le Arti Liberali.
Nella didascalia del Louvre – Un jeune homme présenté par Vénus aux sept Arts Libéraux – in modo incongruo nella fanciulla che tiene per mano il giovane si riconosce Venere. Di converso, il titolo convenzionale omette la menzione di quella che è la figura più enigmatica, che per la sua posizione eminente certo merita una maggiore attenzione: la figura femminile che fra le Arti liberali emerge nel consesso.
Seduta come in trono su un cippo, indossa un’ampia clamide bordata di pelliccia, la mano sinistra tiene un arco ricurvo di legno rozzo e massiccio, la destra ha indice e medio lievemente distesi verso l’alto e le altre tre dita piegate, come raccolte (van der Sman 2007, 168-170): non è da considerare un gesto di eloquenza (Agnoletto 2015, 76-77) ma di ammaestramento. E una mano atteggiata in questa stessa, significativa, posizione la si ritrova in altre opere di Botticelli, ad esempio nella Venere nel celebre Regno di Venere (secondo il titolo che Warburg proponeva di sostituire al più corrente Primavera), oppure nella Beatrice nei disegni realizzati nel 1486 ca. come illustrazioni alla Commedia dantesca (Centanni [2013] 2017, 273; Agnoletto 2015, 76-77).
Questa posizione della mano fa quindi parte del repertorio di gesti che Botticelli associa a figure femminili che rivestono un ruolo di primato, esercitando funzione di maestra o guida.
Oltre al gesto, altri elementi vanno tenuti conto in quanto complicano, arricchendola di significati obliqui, l’identità della figura femminile nel suo ruolo di Magistra Artium. Da notare in particolare l’arco ricurvo che, a una prima lettura potrebbe richiamare Venere come madre di Cupido. Ma questo arco, in questo caso particolare, è connotato non già come il piccolo arco del dio dell’amore, ma come un arco pesante, ovvero un arco da caccia.
Van der Sman richiama come parallelo per questa figura in trono, con qualità sapienziali e arco ricurvo, la figura allegorica della Predicazione, che lo studioso identifica come Filosofia, presente al centro del Trionfo di san Tommaso del Cappellone degli Spagnoli a Santa Maria Novella realizzato da Andrea di Bonaiuto tra il 1365 e il 1367 (van der Sman 2007, 170-171). Ad avvalorare l’ipotesi di una identificazione con Sapienza/Filosofia il fatto che sia nell’affresco del Cappellone (che Botticelli certamente conosceva), sia nell’affresco di Villa Lemmi compaiono le Arti liberali caratterizzate dagli stessi attributi.
Van der Sman aggiunge che l’arco potrebbe essere anche un riferimento all’opera di Nicola da Cusa De Venatione Sapientiae. Questa ipotesi appare però remota dato che, seppure l’ambiente fiorentino sia intessuto di quel pensiero filosofico, le opere del Cusano arriveranno alla conoscenza delle corti italiane soltanto alcuni anni dopo. Edgar Wind ha infatti provato che le opere di Nicola da Cusa avranno la loro diffusione dopo l’edizione a stampa milanese del 1502; e nella Firenze di allora queste non erano presenti né nella Biblioteca Laurenziana né in quella di Pico della Mirandola che, come Marsilio Ficino, non le cita mai direttamente nei suoi scritti (Wind [1958] 1971, 295-296).
II.
“Amor nodus perpetuus et copula mundi”
Marsilio Ficino, De Amore
Come si è visto nella ricognizione critica riassuntiva sullo status quaestionis, già nel primo studio degli affreschi del 1881 Cosimo Conti proponeva l’identificazione dei due personaggi in abiti quattrocenteschi come Giovanna di Maso degli Albizzi e Lorenzo di Giovanni Tornabuoni; la datazione era fissata al 1486, anno del loro matrimonio quando, verosimilmente, gli sposi presero ad abitare nella villa di Careggi. Nello stesso succinto contributo Conti proponeva anche un collegamento degli affreschi con le medaglie che Niccolò Fiorentino eseguì proprio nel 1486 per Giovanna (Conti 1881, 87).
Nel saggio su la Nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli, Aby Warburg tracciava un collegamento fra gli affreschi di Villa Lemmi e le medaglie di Giovanna degli Albizzi:
Nel Louvre si trova il frammento di un affresco proveniente dalla Villa Lemmi, vicina alla Villa di Careggi, il quale è attribuito al Botticelli. Esso raffigura le tre Grazie guidate da Venere in atto di avvicinarsi, recando doni, a Giovanna degli Albizzi nel giorno delle sue Nozze con Lorenzo Tornabuoni (1486). [...] È difficile decidere dalle sole riproduzioni se gli affreschi siano opera autentica di Botticelli, come sostiene Cosimo Conti, oppure, per lo meno in parte, eseguiti da aiuti, come opina Ephrussi. Talune durezze nel disegno fanno propendere per quest’ultimo parere. Cosimo Conti per comprovare l’identità della dama in costume dell’epoca con Giovanna Tornabuoni, era ricorso a due medaglie, che recano entrambe sul diritto la testa di questa; sul rovescio sono raffigurate due differenti scene mitologiche il cui trattamento formale è a sua volta iconograficamente interessante. Il rovescio di una delle due medaglie mostra le tre Grazie nude, nel noto intreccio [...]. Come leggenda le medaglie recano: “Castitas. Pul[chr]itudo. Amor.” Se il rovescio della prima medaglia ci ha mostrato le dee antiche come siamo soliti vederle a partire da Winckelmann, “nello spirito degli antichi”, cioè: nude e placidamente ferme, il rovescio della seconda medaglia reca una figura di donna che a sua volta manifesta quella immotivata forte mobilità dei capelli e delle vesti. (Warburg [1893] 1966, 29-30)
Warburg riferisce che ha ricavato dallo studio di Cosimo Conti il rimando alle due medaglie di Giovanna degli Albizzi per l’identificazione dei personaggi negli affreschi.
Tuttavia, nel contesto del suo primo saggio accademico, l’interesse di Warburg è più che altro volto a dare prova della compresenza nel Rinascimento dei due caratteri, apollineo e dionisiaco, grazie all’esempio di due medaglie di uno stesso proprietario che danno mostra dei suoi due volti: da una parte figure ferme, anticheggianti e quasi ‘neoclassiche’ à la Winkelmann, dall’altra una figura che “manifesta quella immotivata forte mobilità dei capelli e delle vesti” che per Warburg è il tratto caratteristico della rinascita dell’antico (Warburg [1893] 1966, 30; ma su Villa Lemmi e le medaglie collegate, si vedano anche le pagine 29-32.)
Uno strumento ermeneutico cruciale per risolvere il nodo di questa complicata interpretazione è la Tavola 46 dell’Atlante Mnemosyne e l’analisi delle opere che Aby Warburg e collaboratori inseriscono nel montaggio.
In Tavola 46 troviamo la medaglia in bronzo argentato, di 8 cm di diametro, che fu realizzata nel 1486, l’anno in cui Giovanna divenne la signora Tornabuoni sposando Lorenzo figlio di Giovanni.
Sul recto, la medaglia presenta il profilo composto e ingioiellato della signora: a farle da nimbo il titulus “UXOR · LAURENTII · DETORNABONIS · IOANNA · ALBIZA”, che ci conferma datazione e la circostanza nuziale per cui viene commissionata la medaglia. Sul rovescio della medaglia, una movimentata ed esuberante figura di cacciatrice che per mezzo dell’iscrizione che la attornia possiamo interpretare come Venere-cacciatrice: “VIRGINIS · OS · HABITUM · QUE · GERENS · VIRGINIS · ARMA”: un verso tratto dal primo libro dell’Eneide in cui la madre divina compare in un bosco al figlio Enea con l’aspetto di una “virgo” cacciatrice (Eneide, I, v. 315).
Nel passo dell’Eneide la donna è assimilata alla dea cacciatrice per eccellenza, Diana, e così alla castità della dea, portandola ad assomigliare a una fanciulla spartana: “cui mater media sese tulit obvia silva/ virginis os habitumque gerens et virginis arma/ Spartanae” (Eneide, I, vv. 314-316).
Edgar Wind fornisce un’interpretazione a quanto domanda pochi versi dopo il figlio Enea: “O quam te memorem, virgo? Namque haud tibi voltus/ mortalis, nec vox hominem sonat: O, dea certe/ an Phoebi soror? an nympharum sanguinis una?” (Eneide, I, vv. 327-329). Egli infatti riconosce nella descrizione della vergine direttamente “una ninfa di Diana” ovvero, piuttosto, “la dea dell’Amore che assume l’aspetto di una creatura consacrata alla castità” (Wind [1958] 1971, 93).
Particolarmente utile è la traccia aperta da questa l’interpretazione di Wind che illumina il senso di questa “figura ibrida, in cui le due dee opposte, Diana e Venere, si fondono in una sola” in cui “i platonici rinascimentali pensarono di avere trovato una bella conferma poetica alla loro dottrina dell’unione della Castità e dell’Amore” e su quale svilupparono “un culto semicasto e semivoluttuoso di Venere, nel quale la doppia natura della dea poteva essere esaltata fino al più alto grado sia della venerazione che della frivolezza sia di entrambe” (Wind [1958] 1971, 94-95). La Venere eccezionalmente armata della castità propria della dea cacciatrice è al contempo una Diana-Virgo.
Si tratta di un caso di ibridazione inedita, giocata sulla figura di Venere, paragonabile a quello della Pallade Citarea studiato da Salvatore Settis, dove Minerva e Venere si uniscono in un’unica figura, senza perdere le caratteristiche che connotano le due divinità ma sovrapponendo ciascuna i propri caratteri a quelli dell’altra (Settis 1971, 135-177).
Tornando alla Venus-Virgo, come nota ancora Wind, essa ha “ai piedi pesanti stivali, e sta bene eretta sua una piccola nube che nasconde il sole ma lascia filtrare i suoi raggi tutt’intorno”; e soprattutto “porta sulla testa una corona alata” (Wind [1958] 1971, 93). In realtà forse non si tratta propriamente di una “corona alata” ma di una galea, in ogni modo un copricapo con ali, ovvero dell’attributo proprio del dio Mercurio. Wind giustifica la presenza del simbolo mercuriale “come pendant alla figura isolata di Mercurio sulla medaglia del marito di Giovanna” (Wind [1958] 1971, 94n), Lorenzo. Infatti nella sua medaglia, eseguita da Niccolò Fiorentino sempre nello stesso anno, sul verso è presente un Mercurio dotato di ali ai piedi e caduceo sul lato destro.
Il suggerimento di Wind è prezioso: non solo tramite Mercurio abbiamo così accertato un legame fra i coniugi Tornabuoni tramite i loro alias pagani presenti sul verso delle rispettive medaglie nuziali, ma è possibile rintracciare anche un legame semantico che richiama in gioco anche la seconda e più celebre medaglia di Giovanna Tornabuoni. Coeva dell’altra medaglia di Giovanna, porta sul recto il medesimo ritratto con identico titulus e sul verso le tre Grazie incatenate nella loro danza e contornate dall’iscrizione “CASTITAS · PULCHRITUDO · AMOR”.
Nella medaglia di Giovanna Tornabuoni l’origine tanto dell’iscrizione quanto della raffigurazione si deve, come illustra adeguatamente Wind, a Pico della Mirandola, che nel torno d’anni immediatamente precedente alla medaglia di Giovanna degli Albizzi fece realizzare, sempre da Niccolò Fiorentino, la propria impresa con lo stesso soggetto:
Non può certo essere un caso che la medaglia di Giovanna degli Albizzi – moglie di quel Lorenzo Tornabuoni del quale Poliziano in una sua lettera a Pico parla come di un “non discipulus modo sed alumnus” – rechi l’immagine delle tre Grazie in una composizione che è stata fusa sullo stesso stampo della medaglia di Pico, e contenga un’iscrizione che è una risposta a quella di lui. Invece di Pulchritudo-amor-voluptas, la leggenda è Castitas-Pulchritudo-Amor. […] Al posto di una definizione platonica dell’Amore: “L’amore è Passione suscitata dalla Bellezza”, un motto adatto per un uomo, abbiamo ora una definizione platonica della Bellezza: “La Bellezza è Amore unito alla Castità”, che è la risposta di una donna (Wind [1958] 1971, 91-92).
Amore/Venere, e Castità/Diana della medaglia con la cacciatrice corrispondono puntualmente alla Venus-Virgo della seconda medaglia, anche se varia il riferimento iconografico il significato permane. Nota Wind: “Venus-Virgo si manifesta nelle Grazie, le Grazie sono occultate in Venus-Virgo” (Wind [1958] 1971, 95).
Come ulteriore suggestione e collegamento tra le immagini mitiche dei due sposi, si noti inoltre che le tre Grazie raffigurate nella seconda medaglia di Giovanna degli Albizzi al tempo sono rappresentate spesso in uno schema iconografico che prevede che la loro guida sia Mercurio (Centanni [2013] 2017, 278; Wind [1958] 1971, 94n, 151, 154).
Dunque, dalle sue due imprese si ricava l’immagine di Giovanna degli Albizzi come signora educata all’amore e alla grazia ma al contempo anche come Venere-Diana, cacciatrice dotata di arco e frecce. Warburg, nel passo citato, propone questi due caratteri della signora fiorentina, ma divisi fra le due medaglie di Giovanna: in una la signora dotata delle virtù delle “placide” tre Grazie, nell’altra l’aspetto di una signora volitiva come l’armata Venus-Virgo.
Leggendo Tavola 46, si può notare invece la compresenza dei tratti contraddittori, impliciti nella stessa allegoria della Venus-Virgo, ed evidenti nella medaglia presente nel montaggio. In particolare il montaggio della Tavola di Mnemosyne ci suggerisce come il carattere composto e cortese di Giovanna è rappresentato sul recto della medaglia che si presenta quasi sovrapponibile al ritratto realizzato da Ghirlandaio nel 1488, in morte della signora (presente anch’esso in Tavola 46, a fianco della medaglia). Il verso della medaglia propone invece una Venus-virgo come una epifania della riemersione della vitalità dell’antico.
Tornando alle tre Grazie è da sottolineare come queste, assieme a Venere, sono i personaggi che si recano in visita da Giovanna, omaggiandola di fiori, nell’affresco di Villa Lemmi. Eppure, i significati allegorici presentati nelle medaglie di Giovanna non sono soltanto nell’affresco dove viene ritratta, ma si possono rintracciare anche nel pendant dedicato al giovane sposo, confermando così l’identificazione dei personaggi rappresentati nei due affreschi.
Dunque l’arco, che van der Sman collegava incongruamente all’affresco di Andrea di Bonaiuto e all’idea cusaniana di Venatio sapientiae, sarà più plausibilmente, lo stesso arco della cacciatrice Venus-Virgo virgiliana che compare sulla medaglia; Venus-Virgo che nella sua antinomia concilia, come l’arco nell’armonia eraclitea ripresa da Ficino e assunta dalla cerchia dei committenti e dell’artista, gli opposti: Castitas con Amor. Riprendendo Wind, la Virgo si manifesta nell’arco, la Virgo è occultata nell’arco.
II.
“Sedes sapientiae / [...] stella matutina”
Litanie Lauretane
La figura della maestra delle Arti liberali merita ulteriore attenzione. Nel volerla riconoscere come Filosofia, van der Sman, ci induce a soffermarci anche su un altro dettaglio.
La clamide, bordata di pelliccia, ha ricamate in oro su fondo rosso delle fiammelle rivolte verso il basso. Secondo van der Sman le fiammelle sono un attributo di Filosofia in quanto Botticelli verrebbe influenzato dalla tradizione stilnovista, e in particolare da Dante, che gli permetterebbe di vedere Venere come dea dell’amore quindi ispiratrice del pensiero, sul modello di Amor che nella mente mi ragiona:
Sua bieltà piove fiammelle di foco,
animate d’un spirito gentile
ch’è creatore d’ogni pensier bono;
e rompon come trono
li ’nnati vizii che fanno altrui vile.
Seguendo questa traccia, van der Sman mette in relazione le fiamme sulla clamide di Venere, che maestra della Arti ispira il giusto pensiero e desiderio e monda dalle viltà il giovane, alle fiammelle che attorniano e incorniciano la figura di Beatrice maestra di Dante nelle illustrazioni di Botticelli alla Commedia.
Questa lettura delle fiammelle si concentra dunque sul ruolo delle due figure, iniziatrici al Vero attraverso l’Amore. Ma non si può dimenticare che fiammelle su fondo rosso appaiano in altre opere di Botticelli, sia a tema cristiano che gentile, databili negli stessi anni e riferibili allo stesso contesto fiorentino.
Fiammelle rovesciate compaiono in particolare su due dipinti commissionati dalla famiglia Medici: la celebre “Primavera” (secondo Warburg da reintitolare Regno di Venere) e la Pala del Trebbio (cfr. Centanni [2013] 2017, 286-293).
Le fiammelle sono state interpretate come la trasposizione sulle stoffe presenti nei dipinti dello stemma mediceo del broncone ardente semper virens e renderebbero possibile l’identificazione del san Lorenzo nella pala come santo protettore di Lorenzo di Pierfrancesco Medici, committente della pala (da notare come Lorenzo di Pierfrancesco sia il committente anche delle illustrazioni di Botticelli per la Commedia, dove però le fiammelle sono rivolte verso l’alto). Allo stesso modo le fiammelle sono inoltre presenti nel Regno di Venere sulla clamide rossa di Mercurio.
La coincidenza iconografica delle fiammelle sugli abiti potrebbe favorire l’ipotesi degli studiosi che negli affreschi di Villa Lemmi sostengono l’identificazione dei personaggi con soggetti della famiglia medicea.
Ma seguendo Wind, il fatto che le fiammelle siano sul manto di un Mercurio ci consente di ricollegare il simbolo non tanto a una specifica impresa del committente, quanto piuttosto a un attributo che nel Quattrocento è considerato come proprio del dio:
Le lingue di fuoco sulla clamide di Ermes erano un attributo ‘autentico’, come si vede nel disegno di un Ermes greco antico in Ciriaco d’Ancona (Wind [1958] 1971, 151n).
E al modello di Ciriaco d’Ancona si deve l’Ermes, anche lui ricoperto di fiamme, dell’allegoria dell’Eloquenza di Albrecht Dürer.
Al contempo, la presenza delle stesse fiammelle sulla clamide del san Lorenzo nella Pala del Trebbio dedicata a Lorenzo di Pierfrancesco Medici rimanda inequivocabilmente anche al simbolo del martirio del santo.
Negli affreschi di Villa Lemmi, invece, le fiammelle compaiono non già come simbolo identificativo del dedicatario (l’altro Lorenzo, il Tornabuoni) ma sulla veste di una figura a lui strettamente legata, cioè l’alter ego della neosposa.
Dal gioco di rimandi evidenziato risulta che le fiammelle in quel periodo e in quel contesto erano un attributo riconducibile non tanto a un singolo personaggio ma più generalmente a quanti portavano il nome di ‘Lorenzo’ e perciò potevano essere identificabili grazie al simbolo proprio del santo martirizzato tra le fiamme. Un ulteriore, possibile, indizio è dato dalle fiammelle utilizzate anche dal Lorenzo più celebre di Firenze, il Magnifico, che le adotta in quanto stemma della propria famiglia (Centanni [2013] 2017, 288-289) ma anche come personale attributo.
Tornando alla Venere maestra delle Arti di Villa Lemmi, si può dire che indossando l’abito di Mercurio, vesta anche la sua funzione di “divino mystagogo. [Che] richiama la mente alle cose celesti tramite il potere della ragione” (Wind [1958] 1971, 152). Un aspetto, quello di mediatrice e pontefice fra terra e cielo, che Botticelli rende attraverso queste fiammelle ermetiche anche in un altro dipinto, la Madonna del Libro, databile fra 1480-81, di cui non si conosce la committenza. Wind ricollega le fiammelle sulla Madonna, in questo caso su manto blu, a quelle che attorniano Beatrice: “Fiamme simili compaiono anche sul mantello della Madonna Poldi-Pezzoli [i.e. del Libro] e riempiono le sfere celesti nelle illustrazioni del Paradiso di Botticelli” (Wind [1958] 1971, 154). In questo caso la Madonna è rappresentata nell’atto di insegnare a leggere al Bambino, cioè riveste il ruolo di magistra come Beatrice per Dante e la Venus di Villa Lemmi per il giovane introdotto alle Arti. In tutti e tre i casi le fiammelle sarebbero simbolo della sapienza iniziatrice della figura femminile.
Infine, da sottolineare i reciproci richiami: l’arco ricurvo lega la Maestra delle arti alla Venus-Virgo della medaglia; le fiammelle rimandano a un simbolo ermetico e quindi si ricollegano alla medaglia con Mercurio di Lorenzo; la medaglia di Giovanna con le tre Grazie a sua volta si ricollega a Mercurio, poiché Mercurio è guida delle Grazie – una connessione siglata dalle ali sul capo della Venus-Virgo.
In conclusione, gli studiosi e gli storici d’arte, attraverso gli strumenti ermeneutici tradizionali della disciplina, erano già riusciti a venire a capo (non senza varianti e incertezze) nella problematica questione dell’identità dei protagonisti degli affreschi di Villa Lemmi. Qui si è proposto un esempio di come la lettura attenta dell’Atlante Mnemosyne possa confermare i risultati già raggiunti, conferendo all’identificazione maggior forza e rendendola più convincente. Mnemosyne è un dispositivo ermeneutico in grado di far progredire la ricerca in quanto nelle Tavole sono le immagini stesse, nel silenzioso dialogo del montaggio proposto in ogni pannello, che trovano un luogo dove parlarsi, e il modo di tracciare altre piste di indagine. In Mnemosyne le immagini trovano il modo di suggerirci argomenti, parole, nomi.
Riferimenti bibliografici
- Agnoletto 2015
S. Agnoletto, Omnia Vincit Amor. Una suggestione ecfrastica dalle 'Nozze di Alessandro e Rossane': lettura del riquadro A2 del fondale della Calunnia di Apelle di Botticelli, “La Rivista di Engramma” 124 (febbraio 2015), 75-95. - Bernardo Trevisano 1966
Bernardo Trevisano [Cristina Campo], Ville fiorentine, recensione a: Giulio Lensi Orlandi Cardini, Ville di Firenze, “Giornale d’Italia” (16 giugno 1966), 3; ora in C. Campo, Sotto falso nome, Milano 1998. - Centanni [2013] 2017
M. Centanni, 26 aprile, giorno di primavera: nozze fatali nel giardino di Venere, “La Rivista di Engramma” 105 (aprile 2013), 106-147; ora in M. Centanni, Fantasmi dell’antico. La tradizione classica nel Rinascimento, vol. 2, Rimini 2017, 441-525. - Conti 1881
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S. Settis, Citarea 'su una impresa di bronconi', “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” 34 (1971), 135-177. - Simons 2011-2012
P. Simons, Giovanna e Ginevra: Portraits for the Tornabuoni Family by Ghirlandaio and Botticelli, “I Tatti Studies in the Italian Renaissance” 14/15 (2011/2012), 103-135. - van der Sman 2007
G.J. van der Sman, Sandro Botticelli at Villa Tornabuoni and a nuptial poem by Naldo Naldi, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz” 51 (2007), 159-186. - Warburg [1893] 1966
A. Warburg, La “Nascita di Venere” e la “Primavera” di Sandro Botticelli. Ricerche sull'immagine dell'antichità nel primo Rinascimento Italiano [Sandro Botticellis “Geburt der Venus” und “Frühling”. Eine untersuchung über die vorstellungen vor der antike in der Italienischen Frührenaissance, Hamburg-Leipzig 1893] in Id., La Rinascita del paganesimo antico, trad. it. di Emma Cantimori, Firenze 1966, 1-58. - Wind [1958] 1971
E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento [Pagan Mysteries in Renaissance, New Haven 1958], trad. it. di P. Bertolucci, Milano 1971.
English abstract
In this essay, Perfetti gives a reading of the historical and allegorical characters in Botticelli’s frescoes at Villa Lemmi through the study of Table 46 of the Mnemosyne Atlas, in particular of Giovanna di Maso degli Albizzi as Venus-virgo and Venus-magistra in the frescoes and her medals.
Key words | Botticelli; Mnemosyne Atlas; Giovanna degli Albizzi; Venus-virgo; Venus-magistra; Villa Lemmi.
Per citare questo articolo/ To cite this article: F. Perfetti, Venus Virgo/Venus Magistra. Lettura della figura femminile in trono negli affreschi di Botticelli di Villa Lemmi, alla luce del montaggio di Mnemosyne Atlas, Tavola 46, “La Rivista di Engramma” n. 182, giugno 2021, pp. 197-219 | PDF dell’articolo