"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

184 | settembre 2021

97888948401

Presentazione di: Juan Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli, Adelphi, Milano 2021

Juan Eduardo Cirlot

English abstract

Pubblichiamo per gentile concessione di Victoria Cirlot e dell’editore, un estratto dell’Introduzione del Dizionario dei simboli di Juan Eduardo Cirlot edito da Adelphi nel 2021. Si tratta della prima edizione italiana del Diccionario de símbolos tradicionales, la grandiosa, nonchè “prediletta”, opera del poeta e intellettuale spagnolo pubblicata nel 1958 a Barcellona per i tipi della casa editrice Luis Miracle. L'edizione Adelphi è basata sull'edizione ampliata e rivista del 1997 di Siruela con una nota di Victoria Cirlot in cui viene spiegata la gestazione del Dizionario.

I. Presenza del simbolo

Delimitazione del simbolico

Quando abbiamo iniziato ad addentrarci nei territori del simbolo, tanto nella sua forma organizzata grafica o artistica, quanto nel suo manifestarsi dinamico e vivo attraverso sogni o visioni, una delle nostre prime preoccupazioni è stata quella di delimitare il campo dell’azione simbolica, per non confondere fenomeni che possono sembrare uguali quando invece sono soltanto simili, o legati da rapporti meramente esteriori. La tendenza a ipostatizzare l’oggetto dell’analisi è un rischio difficilmente evitabile per lo studioso. Cercheremo di stare in guardia, per quanto un esercizio assoluto dello spirito critico non sia possibile; inoltre siamo convinti, con Marius Schneider, che non esistano idee o credenze, ma idee e credenze, e che le prime contengano sempre qualcosa o molto delle seconde, anche senza contare il fatto che intorno al simbolismo si cristallizzano altri fenomeni spirituali. Quando un autore come Caro Baroja (J. C. Baroja, Algunos mitos españoles, Madrid 1941) si pronuncia contro l’interpretazione simbolica dei temi mitologici, avrà certamente delle buone ragioni per farlo; tuttavia è possibile che ciò si debba a una valutazione incompleta del simbolico. Dice Caro Baroja: “Quando ci vogliono convincere che Marte è simbolo della guerra ed Ercole della forza, ci sentiamo di negarlo categoricamente. Questo poteva essere vero per un retore, per un filosofo idealista o per un gruppo di graeculi più o meno saccenti. Ma per chi credeva davvero in quelle divinità e in quegli antichi eroi, Marte aveva una realtà oggettiva, benchè tale realtà fosse di indole diversa rispetto a quella che noi vorremmo cogliervi. Il simbolismo fa la sua comparsa quando le religioni della natura entrano in crisi…”. A dire il vero, la mera assimilazione di Marte con la guerra o di Ercole con la forza non è mai stata caratteristica dello spirito simbolico, che rifugge la determinatezza e ogni riduzione forzata. Quella è la funzione dell’allegoria, la derivazione meccanica e riduttiva del simbolo, mentre quest’ultimo è una realtà dinamica e polisemica carica di valori emotivi e ideali, ossia di vera vita. In altre parole: il valore simbolico fonda e intensifica quello religioso. Eppure l’affermazione di Caro Baroja ci è estremamente utile per delimitare il simbolico.

 

Se qualsiasi cosa ha o può avere una funzione simbolica, “una tensione comunicativa”, questa carica simbolica transitoria non basta però a farne interamente un simbolo. L’errore dell’artista o del letterato simbolista sta appunto qui: voler fare dell’intera sfera del reale un flusso di impalpabili corrispondenze, un ossessionante crocevia di analogie, senza capire che il simbolico si contrappone all’esistenziale; e che le sue leggi hanno validità solo nell’ambito particolare che lo riguarda. Si tratta di una distinzione simile a quella che potremmo fare riguardo alla tesi di Pitagora secondo cui “tutto è regolato dal numero”, o nei confronti delle scoperte della microbiologia. Né la sentenza del filosofo greco, né il pullulare vivente di ciò che appartiene a una dimensione invisibile sono falsi, ma l’intera vita e l’intera realtà non possono ridursi alle loro sfere in ragione di una verità che è tale solo all'interno di esse. Allo stesso modo, il simbolico è vero e attivo su un piano della realtà, ma risulta quasi inconcepibile se riferito sistematicamente e costantemente all’ambito dell’esistenza. L’ostilità contro questo piano della realtà, costituito dalla vita magnetica dei simboli e dalle loro connessioni, spiega il rifiuto ad ammettere i valori simbolici; ma questa rimozione generalizzata è priva di validità scientifica.

Carl Gustav Jung, cui tanto deve l’attuale simbologia psicoanalitica, in difesa di questo ramo del pensiero umano afferma: “Per l’intelletto moderno cose simili [ai più inaspettati significati dei simboli] non sono altro che assurdità belle e buone. Questo giudizio di valore non elimina però in nessun modo il fatto che tali associazioni di idee esistano, anzi che abbiano avuto una parte preponderante per molti secoli. La psicologia ha il compito di comprendere questi fatti…” (C.G.Jung, Psicologia e alchimia, Roma 1950). In un’altra opera Jung ricorda che tutta l’energia e l’interesse che l’uomo occidentale investe oggi nella scienza e nella tecnica, nell’antichità erano consacrati alla mitologia (C.G.Jung, Transformaciones y símbolos de la libido, Buenos Aires 1952). E non solo l’energia e l’interesse, ma anche la capacità speculativa e teorica, che hanno prodotto gli insondabili monumenti della filosofia indù, dell’esoterismo cinese o islamico, e della Cabbala stessa, nonchè la minuziosa complessità operativa dell’alchimia e di altre speculazioni analoghe. Che i primitivi e gli orientali possedessero una tecnica di pensiero in grado di garantire risultati validi è confermato da un archeologo e storico come Contenau, il quale afferma che le scuole di maghi e indovini della Mesopotamia non avrebbero mai potuto reggersi senza un’elevata percentuale di successi, o da Gaston Bachelard (G. Bachelard, La psychanalyse du jeu, Paris 1938), che domanda: “Come potrebbe perpetuarsi una leggenda se ogni generazione non avesse ‘profondi motivi’ per crederci?”. La lettura simbolista di un fenomeno tende a offrire la spiegazione di quei “profondi motivi”, perché stabilisce un legame fra la dimensione strumentale e quella spirituale, la dimensione umana e quella cosmica, il caso e la causa, il disordine e l’ordine; perché giustifica un termine come “universo”, che risulterebbe privo di senso senza tale integrazione superiore, smembrato in un pluralismo caotico; e perché ricorda in ogni cosa la trascendenza.

Tornando al tema della delimitazione del simbolico, per meglio precisare la finalità di quest’opera, consideriamo l’esempio della facciata di un monastero, nella quale è possibile osservare: a) la bellezza dell’insieme; b) la tecnica costruttiva; c) lo stile dell’edificio e le relative considerazioni geografiche e storiche; d) i valori culturali e religiosi impliciti o espliciti, e così via; ma anche: x) il significato simbolico delle forme. In quest’ultimo caso, comprendere ciò che simboleggia un arco ogivale posto sotto un rosone costituirà un sapere rigorosamente distinto dagli altri che abbiamo enumerato. Rendere possibile l’analisi di questo aspetto è il nostro argomento fondamentale, stando attenti a non confondere, è bene precisarlo ancora, il nucleo simbolico di un oggetto, o la transitoria funzione simbolica che lo rafforza in un momento dato, con la totalità dell’oggetto stesso in quanto realtà nel mondo. Il fatto che un chiostro romanico coincida esattamente con il concetto di témenos (recinto sacro) e con l’immagine dell’anima, per la fontana centrale e il suo zampillo, come un sūtrātman (filo d’argento) che dal centro lega il fenomeno alla sua origine, è qualcosa che non contraddice e neppure modifica la realtà architettonica e pratica del chiostro stesso, anzi, ne arricchisce il significato attraverso l’identificazione con una “forma interiore”, ovvero con un archetipo spirituale.

Simbolismo e storicità

Uno dei più gravi errori in cui incorrono le interpretazioni della teoria simbolista, non solo quelle “spontanee” , ma anche quelle occultiste o addirittura dogmatiche, consiste nel contrapporre storico e simbolico. A partire dalla considerazione che esistono dei simboli – e ce ne sono molti, certamente – che sono retti soltanto dalla loro struttura simbolica, si è portati a concludere, erroneamente, che tutti o quasi tutti i grandi avvenimenti che si presentano al tempo stesso come storici e simbolici – vale a dire significativi una volta per tutte, in ogni luogo – siano semplicemente una trasformazione della materia simbolica in leggenda e poi in storia. Contro questo errore si levano attualmente le voci più autorevoli degli storici delle religioni, degli orientalisti, perfino di quelli di loro che si sono formati all’interno delle scuole esoteriche. Mircea Eliade afferma che “le due posizioni sono inconciliabili solo in apparenza … Non bisogna credere che l’implicazione simbolica annulli il valore concreto e specifico di un oggetto o di una operazione … Il simbolismo aggiunge un valore nuovo a un oggetto o a un’azione, senza per questo intaccare i loro valori propri e immediati. Applicandosi a un oggetto o a un’azione, il simbolismo li rende ‘aperti’”. E aggiunge: “resta da sapere se queste ‘aperture’ sono altrettanti mezzi di evasione oppure se, al contrario, esse costituiscono l’unica possibilità di accedere alla vera realtà del mondo” (M. Eliade, Images et symboles, Paris, 1952). Vediamo qui chiaramente tracciata la distinzione fra storico e simbolico, nonchè la possibilità sempre esistente di un ponte fra le due forme di realtà che dia luogo a una sintesi cosmica. Il lieve scetticismo che si coglie nell’ultima frase dello studioso rumeno si deve forse alla sua formazione prevalentemente scientifica, in tempi in cui la scienza, specializzata nell’analisi, ottiene mirabili risultati in ogni ambito del reale ma non sa abbracciare la totalità in un insieme organico, ovvero una “molteplicità nell’unità”, condizione di debolezza che è stata efficacemente descritta da Martin Buber: “Imago mundi nova, imago nulla”. Il mondo attuale manca cioè di una propria immagine, perché questa può ottenersi solo mediante una sintesi universale delle conoscenze, sintesi che è sempre più difficile dal Rinascimento e dal “de omni re scibili” di Pico della Mirandola.

Anche René Guénon affronta il problema della relazione fra storico e simbolico. Dice al riguardo: “In effetti, si è troppo spesso inclini a pensare che l’ammissione di un senso simbolico debba implicare il rifiuto del senso letterale o storico; un’opinione del genere deriva soltanto dall’ignoranza di quella legge di corrispondenza che è il fondamento di ogni simbolismo e in virtù della quale ciascuna cosa, procedendo essenzialmente da un principio metafisico da cui trae tutta la sua realtà, traduce o esprime questo principio a suo modo e secondo il suo ordine di esistenza, sicchè da un ordine all’altro tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale” (R.  Guénon, Le symbolisme de la croix, Paris 1931).

Queste considerazioni chiariscono che il valore simbolico non esclude affatto quello storico, in quanto entrambe le forme possono essere considerate – a seconda del punto di vista ideologico di partenza – funzionali a una terza: il principio metafisico, l’“idea platonica”; oppure possono essere viste come espressioni corrispondenti su diversi piani di significazione. Quanto al nucleo della questione, quello religioso, che giustamente è il motivo di massima preoccupazione, Jung concorda con Eliade e Guénon nell’affermare che “il fatto psichico ‘Dio’ è un archetipo collettivo … una realtà psichica che, in quanto tale, non va confusa con il concetto del Dio metafisico. L’esistenza dell’archetipo”, ovvero del simbolo, “non postula e non nega” l’esistenza di un Dio (C.G. Jung, C.G., Transformaciones y símbolos de la libido, Buenos Aires, 1952). Ciò a rigore è vero, benchè si debba convenire – anche solo a titolo di ipotesi – che l’universalità di un archetipo afferma più che negare l’esistenza reale del principio in questione. Di conseguenza, il piano simbolico, essendo indipendente da quello storico, non solo non lo sostituisce, ma tende a radicarlo nel reale, mediante l’analogia e il parallelismo tra la sfera psichica (collettiva o individuale) e quella cosmica. Aggiungiamo ora una breve riflessione sull’importante termine “analogia”. Per definizione filosofica, l’analogia è una relazione tra due fatti o proposizioni fra i quali vi è somiglianza e, almeno, un elemento uguale; così, per esempio, vi è analogia tra il disseppellire qualcosa e lo sguainare una spada, tra l’elevatezza di un pensiero e l’altezza di una torre, ecc. L’elemento uguale, nel primo esempio, è l’atto di portare alla luce; nel secondo, l’idea di altezza (= elevatezza). Ma Guénon si spinge oltre, e nei Simboli della Scienza sacra afferma che la vera analogia simbolica, secondo la norma sopra esposta, è quella tra il livello della realtà fenomenica e il livello dello spirito, equiparabile – se si vuole – al mondo platonico delle Idee. Essendo profondissima la radice segreta di tutti i sistemi di significato (sia che affondi in un’origine spirituale o nell’inconscio collettivo – ammesso che le due cose vadano distinte), siamo propensi ad accogliere l’ipotesi di un sostrato comune e di un’origine unica per tutte le tradizioni simboliche, sia occidentali che orientali. Che quest’unica sorgente si sia manifestata nello spazio e nel tempo da un focolaio primigenio o con diverse fioriture simultane è questione a parte. Desideriamo però mettere in chiaro che quando, nelle diverse voci di questo Dizionario, menzioniamo le “tradizioni” o la “dottrina tradizionale”, ci riferiamo soltanto alla continuità, consapevole o inconsapevole, e alla coerenza del sistema, tanto nella sua estensione spaziale quanto in quella temporale.

Alcuni autori propendono per un emergere spontaneo delle idee in territori privi di relazione storica fra loro, mentre altri credono unicamente nella trasmissione culturale. Marguerite Loeffler evidenzia, per esempio, come l’invenzione del mito della tempesta non appartenga a una sola razza o tribù, essendo apparso simultaneamente in Asia, in Europa, in Oceania e in America (M. Loeffler-Delachaux, Le symbolisme des contes de fées, Paris 1949). Idea che si avvicina alla tesi di Otto Rank: “Il mito è il sogno collettivo di un popolo”, che trovava pienamente d’accordo Rudolf Steiner. Bayley, rifacendosi a Max Müller, crede nella comune origine della specie umana; ne sarebbe prova, a suo avviso, l’universale somiglianza delle usanze del folclore, delle leggende e delle superstizioni, ma soprattutto del linguaggio (H. Bayley, The Lost Language of Symbolism, London, [1912] 1957). L’orientalismo, la storia delle religioni, la mitologia, l’antropologia, la storia della civiltà, l’arte, l’esoterismo, la psicoanalisi, le ricerche simbologiche forniscono copioso materiale per corroborare quanto è “psicologicamente vero” e l’unità essenziale menzionata, che trovano un’altra spiegazione non solo nel comune substrato psichico, ma anche in quello fisiologico, data l’importanza del corpo umano, della sua forma e del suo atteggiamento, e delle posizioni che possono assumere le sue membra, in rapporto agli elementi più semplici della dialettica simbolista.

II. Origine e continuità del simbolo

Lo sviluppo del simbolismo

Come giustamente afferma Paul Diel, il simbolo è un veicolo universale e al tempo stesso particolare: universale in quanto trascende la storia; particolare perché corrisponde a un’epoca determinata. Senza pretendere di addentrarci in questioni di “origine”, ci limiteremo a riferire che la maggior parte degli studiosi concorda nel collocare l’inizio del pensiero simbolico in epoca preistorica, alla fine del Paleolitico, benchè vi siano indizi primari (l’usanza di cospargere d’ocra rossa i cadaveri) molto più indietro nel tempo. Le attuali conoscenze sul pensiero primitivo, le conclusioni che si possono legittimamente trarre dall’arte e dalle suppellettili, ma soprattutto i diversi studi condotti sulle incisioni rupestri giustificano tale ipotesi. Costellazioni, animali e piante, pietre ed elementi del paesaggio furono i maestri dell’umanità primitiva. Fu San Paolo a formulare il concetto essenziale di questo contatto con il visibile, dicendo: “Per visibilia ad invisibilia” (Rm, 1, 20 ). Il processo per cui gli esseri del mondo naturale vengono ordinati secondo le loro qualità, e il mondo delle azioni e dei fatti spirituali e morali viene esplorato per analogia, è lo stesso che si osserverà, agli albori della storia, nel passaggio dal pittogramma all’ideogramma, e poi nelle origini dell’arte.
Si potrebbero citare innumerevoli testimonianze della fede e della consapevolezza umana a sostegno della tesi che l’ordine invisibile o spirituale è analogo all’ordine materiale. Ricordiamo la massima di Platone poi ripresa dallo Pseudo-Dionigi Areopagita: “Il sensibile è il riflesso dell’intelligibile”; la ritroviamo nella Tabula smaragdina : “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”; e nella frase di Goethe: “Tutto ciò che è esterno è anche interno”.

Comunque sia, il simbolismo si configura nella sua vasta funzione creativa e chiarificatrice come un sistema di relazioni molto complesse, il cui fattore dominante è però sempre una polarità, che lega il mondo fisico al mondo metafisico. La nostra conoscenza del simbolismo comincia a essere apprezzabile con il Neolitico. Schneider e Berthelot sono concordi nel datare a questo periodo, corrispondente al IV millennio a.C., la grande mutazione che diede all’uomo quelle capacità di creazione e organizzazione che lo distinguono dal mondo meramente naturale. Berthelot studia questa fase nel Vicino Oriente, e dà il nome di “astrobiologia” alla cultura religiosa e intellettuale di quel tempo. L’evoluzione dell’umanità fino a quel momento deve aver attraversato i seguenti passaggi: animismo, totemismo, cultura megalitica lunare e solare. Ad essi sarebbero seguiti: rituale cosmico, politeismo, monoteismo, filosofia morale. Berthelot ritiene che l’astrologia, l’astronomia, l’aritmetica e l’alchimia siano di origine caldea, individuando così in modo preciso un punto focale nel tempo e nello spazio.
Berthelot definisce il valore e il signficato dell’astrobiologia in questi termini: “Concezione intermedia fra la rappresentazione del mondo dei popoli selvaggi, peraltro variabile e complessa, e quella della coscienza moderna dell’Occidente europeo, essa ha dominato per lungo tempo in Asia e nel Mediterraneo orientale. Possiamo chiamarla “astrobiologia”: una compenetrazione della legge astronomica (ordine matematico) e della vita vegetale e animale (ordine biologico). Tutto è, al tempo stesso, organismo vivente e ordine esatto. La domesticazione degli animali e la coltivazione delle piante (agricoltura) erano già praticate in epoca preistorica, sia in Caldea che in Egitto, prima del 3000 a.C. L’agricoltura comporta la riproduzione regolare di specie vegetali nettamente definite e la conoscenza del loro ritmo annuale di crescita, fioritura, fruttificazione, semina e raccolto, ritmo che è in relazione diretta e costante con il calendario, vale a dire con la posizione degli astri. Il tempo e i fenomeni naturali erano misurati in base alla luna, prima ancora che in base al sole… L’astrobiologia oscilla dunque fra una biologia degli astri e un’astronomia degli esseri viventi; muove dalla prima e tende verso la seconda” (R. Berthelot, La pensée de l’Asie et l’astrobiologie, Paris 1949). Nel Neolitico si formano l’idea geometrica dello spazio, il valore del numero sette – da essa derivato –, il rapporto fra il cielo e la terra, i punti cardinali, le corrispondenze fra i diversi elementi in base al sette (gli dèi planetari, i giorni della settimana) e al quattro (le stagioni, i colori, i punti cardinali, gli elementi). Berthelot crede più nella lenta diffusione di questi concetti che in un loro scaturire spontaneo e indipendente. Ne traccia una probabile rotta di trasmissione attraverso il Nord o il Sud del Pacifico, suggerendo la possibilità che l’America fosse una colonia spirituale dell’Asia molto prima che dell’Europa (R. Berthelot, La pensée de l’Asie et l’astrobiologie, Paris 1949); un’altra corrente si sarebbe mossa nella direzione opposta, dal Vicino Oriente verso l’interno dell’Europa.

La discussione se la cultura megalitica europea sia venuta prima o dopo rispetto alle grandi civiltà orientali è ancora lungi dall’essere risolta, e solleva questioni relative al simbolismo. È ben nota l’importanza dell’area francocantabrica nel Paleolitico, e come da quelle regioni l’arte si sia diffusa in direzione della Siberia attraverso l’Europa, e fino all’Africa meridionale attraverso il Nord del continente. Vi sarebbe quindi una continuità fra quel periodo di prima fioritura e i grandi monumenti megalitici. Schneider, riferendosi alle forme di simbolismo da lui studiate (M. Schneider, El origen musical de los animales-símbolos en la mitología y la escultura antiguas, Barcelona, 1946), dice esplicitamente: “Nel sesto capitolo tenterò di offrire una sintesi di questa dottrina esoterica, la cui prima sistemazione sembra essere stata opera delle culture megalitiche”. La sua posizione rispetto all’area di origine non dà luogo a dubbi, giacché afferma che “il megalitismo potè propagarsi dall’Europa verso l’India attraverso la cultura danubiana, avviando uno sviluppo differente a partire dall’Età dei metalli”. Egli mostra l’intima parentela di idee fra regioni remote come l’America, la Nuova Guinea, l’Indonesia, l’Europa occidentale, il Vicino e l’Estremo Oriente, ossia fra aree situate in tutte le parti del mondo.

Vediamo ora la somiglianza fra le scoperte attribuite da Schneider alla cultura megalitica europea e quelle ascritte da Berthelot al Vicino Oriente antico. Secondo Schneider l’ultima fase del Neolitico si distingue dalla precedente per “la predilezione che mostra per le forme fisse, i simboli geometrici, lo spirito sistematizzatore e creatore (animali favolosi, strumenti musicali, proporzioni matematiche, numeri-idee, astronomia e un sistema tonale con suoni propriamente musicali). La trasposizione degli elementi mistici totemici a una civiltà pastorale più avanzata spiega alcuni dei tratti fondamentali della mistica nuova… Tutto il cosmo è concepito sulla base del modello umano. Siccome l’essenza di tutti i fenomeni è, in ultima analisi, ritmica (vibratoria), la natura intima di questi fenomeni è direttamente percettibile nella poliritmica coscienza umana… Per questo, imitare è conoscere … L’eco costituisce l’imitazione acustica più esatta … Il linguaggio, i simboli geometrici e i numeri-idee costituiscono una forma di imitazione più rozza”. Schneider fa notare che, secondo Speiser e Heine-Geldern, “gli elementi culturali eminenti della cultura megalitica sono: le costruzioni ciclopiche, le pietre commemorative, le pietre come residenza delle anime, i cerchi cultuali di pietre, le palafitte, la caccia di teste, i sacrifici di buoi, gli ornamenti a forma di occhio, le barche funerarie, le scale degli antenati, i tamburi per trasmettere segnali, il palo del sacrificio e i labirinti” (M. Schneider, El origen musical de los animales-símbolos en la mitología y la escultura antiguas, Barcelona, 1946).
E sono precisamente questi elementi quelli che permangono in forma di simbolo con maggiore costanza attraverso il tempo. Esprimevano forse, fin dall’epoca megalitica, l’essenza della natura umana, che scaturiva dall’inconscio come anelito costruttore e configuratore? O, all’opposto, fu il perdurare di queste forme primarie di vita, di sacrificio e di comprensione del mondo, a imprimersi in modo indelebile nell’anima dell’uomo? La risposta può certo essere doppiamente affermativa, trattandosi di fenomeni paralleli, analoghi, dell’ambito culturale e di quello psicologico.

Il simbolismo occidentale

L’Egitto sistematizzò nella sua religione e nei geroglifici la sua conoscenza della dualità – materiale e spirituale, naturale e culturale – del mondo. In rapporto o meno con l’Egitto, le civiltà mesopotamiche svilupparono i loro sistemi, che erano variazioni esteriori dell’unico modello interiore, universale. Vi sono pareri discordi riguardo all’epoca in cui vennero creati, o almeno definitivamente organizzati, alcuni dei simboli più importanti e complessi. Alcuni autori hanno la tendenza a proporre cronologie molto remote. Invece Krappe ( A.H. Krappe, La genèse des mythes, Paris, 1952) ritiene che solo nel VII secolo a.C. sia cominciato a Babilonia lo studio scientifico dei pianeti e la loro identificazione con le divinità del pantheon babilonese; altri fanno risalire tali inizi all’epoca di Hammurabi (2000 a.C.), o ancora prima. Così padre Heras, il quale dice: “I protoindiani, come hanno rivelato le iscrizioni, furono gli scopritori dei movimenti del sole attraverso il cielo, e ciò costituì il fondamento del sistema zodiacale. Il loro Zodiaco era composto soltanto di otto costellazioni e ogni costellazione era ritenuta una ‘forma di Dio’. Tutte queste forme di Dio finirono per diventare altrettante divinitò che presiedevano ciascuna una costellazione; come accadde a Roma, per esempio. Le otto indiane sono: Eḍu (montone), Yāl (arpa), Naṇḍ (granchio), Amma (madre), Tūk (bilancia), Kaṇi (saetta), Kuda (vaso), Mīn (pesce)”. Il sistema dello Zodiaco in base al numero dodici, nella forma che conosciamo oggi, appare dal VI secolo a.C. La scienza caldea ed egizia fu parzialmente assimilata da Siriaci, Fenici e Greci; dai Greci in particolare attraverso le società misteriche. Erodoto riferisce, a proposito dei pitagorici, che avevano l’obbligo di indossare vesti di lino seguendo “precetti che sono detti orfici, mentre in realtà sono egizi”.

Le mitologie dei popoli mediterranei raggiunsero una forza rappresentativa, una plasticità e un vigore che si espressero tanto nell’arte quanto nei miti, nelle leggende e nella poesia drammatica. Questi miti racchiudevano i princìpi morali, le leggi naturali, i grandi contrasti e le trasformazioni che governano lo scorrere della vita cosmica e umana. Frazer ricorda che “le popolazioni dell’Egitto e dell’Asia occidentale rappresentavano sotto i nomi di Osiride, Tammuz, Adone e Attis, la decadenza e la rinascita annuale della vita, specialmente della vita vegetale” . Le fatiche di Ercole, la leggenda di Giasone, le “storie” dell’età eroica dell’Ellade che ispirarono i poeti tragici, hanno un tale potere archetipico da costituire eterne lezioni per l’umanità. Ma accanto al simbolismo e all’allegorismo mitologico e letterario, l’influenza orientale avanzava come una corrente sotterranea. Principalmente durante il Basso Impero romano, quando le forze di coesione del mondo classico vengono meno, i fermenti ebraici, caldei, egizi e indiani iniziano a riaccendersi. Il manicheismo e, prima ancora, lo gnosticismo cominciano a rappresentare una minaccia per il nascente cristianesimo. Fra gli gnostici vige l’uso dell’emblema e del simbolo grafico per la trasmissione di verità iniziatiche. Molte delle innumerevoli immagini usate dalle sette gnostiche non erano creazioni nuove, ma erano state concepite con spirito sincretistico da diverse fonti, soprattutto semite. Il simbolismo si scinde in parte dalla dottrina unitaria della realtà e appare come una speculazione spaziale. Diodoro Siculo, Plinio, Tacito, Plutarco, Apuleio rivelano conoscenze simboliche di ascendenza orientale. Anche la scienza aristotelica conteneva una forte componente simbolista. La cristianità orientale aveva ricevuto una vasta eredità simbologica in Siria, Mesopotamia, Transcaucasia ed Egitto. Parimenti, le colonie romane sopravvissute alle invasioni nordiche conservarono molti elementi della classicità, fra i quali i simboli tradizionali.

Ma, nell’antichità greco-romana, l’origine del vasto e complesso movimento intellettuale al cui interno si sviluppano gli studi sulle corrispondenze fra i diversi piani della realtà, che a loro volta costituiscono la base dell’alchimia, è da rintracciarsi ancora più indietro. Padre Festugière, in La Révélation d’Hermès Trismégiste, indica come primo alchimista di cui si abbia notizia il democriteo Bolo di Mende, del III-II secolo a.C., nella cui scia colloca diversi autori, ellenistici e romani, fra i quali Nigidio Figulo (I secolo d.C.). Vi è una certa connessione tra l’ermetismo e il neopitagorismo, da una parte, e tra l’ermetismo e lo gnosticismo, dall’altra. Tali tendenze culminano nel VII secolo nell’opera siriaca nota con il titolo di Libro delle cose della natura, e proseguono, da una parte a Bisanzio, e dall’altra nell’islam. Riguardo al simbolismo bizantino occorre citare un’opera anonima che si ritiene dell'XI secolo d.C., Le Jardin symbolique; la curatrice dell’opera, Margaret H. Thomson, evidenzia analogie e parentele con le allegorie e i simboli che costellano i preamboli degli Atti imperiali bizantini. Quanto all’islam, dobbiamo citare, oltre al grande movimento alchemico arabo, le opere del medico Rāzi (m. 923) e quelle di Ibn Zuhr di Siviglia (1090-1162), autore del Libro de las maravillas. Non si può non accennare infi- ne al movimento cabbalistico, nato nei centri ebraici della Provenza (Bahir) e di Girona, per culminare nello Zohar di Moshe de León (m. 1305), i cui testi, vera e propria gnosi ebraica, sono costellati di simboli.

La concezione di un’analogia fra mondo visibile e mondo invisibile è condivisa dalle religioni pagane del Basso Impero, dalla dottrina neoplatonica e dal cristianesimo, benché ciascuno di questi movimenti usi il concetto per i propri scopi. Secondo Mircea Eliade, a coloro che negavano la resurrezione dei morti Teofilo di Antiochia additava gli indizi che Dio pone sotto gli occhi dell’uomo, attraverso i fenomeni naturali: inizio e fine delle stagioni, l’avvicendarsi dei giorni e delle notti; giungendo al punto di dire: “Non vi è forse una resurrezione per le sementi e la frutta?”. Nella Lettera 55, sant’Agostino afferma che l’insegnamento condotto grazie alle immagini allegoriche accende e alimenta la fiamma dell’amore, che muove l’uomo a trascendere sé stesso; allude poi al valore di tutte le cose della natura, organica e inorganica, quali portatrici di messaggi spirituali attraverso la loro figura e le loro qualità. Di qui si deduce la grande considerazione in cui furono tenuti lapidari, erbari e bestiari nel Medioevo.

La patristica si occupa di simbolismo, e grazie allo straordinario prestigio di cui godettero i Padri della Chiesa durante il periodo romanico, questo fu uno dei momenti in cui il simbolo fu maggiormente vissuto, amato e compreso, come sottolinea Davy. Pinedo accenna all’immenso valore culturale conferito in tutto il Medioevo alla Clavis scripturae attribuita a Melitone di Sardi – una versione ortodossa dell’antico simbolismo. Secondo il cardinale Pitra, cui si rifà Pinedo, le conoscenze della Chiave si ritrovano nella maggior parte degli autori medioevali. Non ci è possibile offrire un riassunto del loro pensiero, e nemmeno un quadro sintetico delle loro opere, ma desideriamo menzionare gli autori dei monumenti essenziali del simbolismo medioevale: Alano di Lilla (De planctu naturae), Herrad von Landsberg (Hortus deliciarum), Ildegarda di Bingen (Scivias e Liber divinorum operum simplicis hominis), Bernardo Silvestre (De mundi universitate), Ugo di San Vittore (Didascalicon de studio legendi e Commentarius in Hierarchiam coelestem). La Chiave attribuita a Melitone, vescovo di Sardi, veniva fatta risalire al II secolo d.C. Altre fonti del simbolismo cristiano sono: Rabano Mauro (Allegoriae in universam Sacram Scripturam), Oddone vescovo di Tuscolo, Isidoro di Siviglia (Etymologiae); Giovanni Scoto Eriugena, Giovanni di Salisbury, Guglielmo di Saint-Thierry, ecc. Lo stesso Tommaso d’Aquino parla dei filosofi pagani come di coloro che hanno fornito dall’esterno prove plausibili delle verità del cristianesimo. Riguardo alla natura intima del simbolismo medioevale, Jung fa notare che per l’uomo di quel tempo, “l’analogia non è tanto una figura logica quanto un’identità segreta”, ravvisando in ciò un residuo del pensiero animista primitivo.

Anche il Rinascimento si interessa al simbolismo, per quanto in modo più individualistico e dotto, più profano, letterario ed estetico. Già Dante aveva organizzato la Divina Commedia sulla base di fondamenti simbolici orientali. Nel Quattrocento godono di particolare prestigio due autori greci: Orapollo Niliaco, autore degli Hieroglyphica, e il compilatore anonimo del Physiologus. Orapollo, suggestionato dal sistema geroglifico egizio, a quel tempo indecifrabile, tentò di ricostruirne il significato a partire dalle figure e dal loro simbolismo elementare. Un italiano, Francesco Colonna, scrisse nel 1467 l’Hypnerotomachia Poliphili, un’opera (pubblicata a Venezia nel 1499) che avrà un successo universale, nella quale il simbolo acquista già quei tratti di mobilità e particolarità che lo caratterizzeranno nell’Età Moderna. Nel 1505 l’editore del Colonna, Aldo Manuzio, pubblica l’Orapollo, che esercita la sua influenza su due autori fondamentali: Andrea Alciato, i cui Emblemata (1531) suscitarono in tutta Europa una passione smisurata per un simbolismo ormai profano (Henry Green, nella sua opera Andrea Alciati and His Books of Emblems, London, 1872, elenca più di tremila titoli di emblematica); l’altro è Pierio Valeriano, cui si deve la vasta compilazione Hieroglyphica (1556). Tutta la pittura del Quattrocento italiano (Botticelli, Mantegna, Pinturicchio, Giovanni Bellini, Leonardo) testimonia del grande interesse per il simbolico, che conoscerà, dal Cinquecento al Settecento, una deriva verso l’allegorico. Si può dire che dalla fine del Medioevo in avanti l’Occidente perde il senso unitario del simbolo e della tradizione simbolista. Aspetti diversi e segnali della sua sopravvivenza emergono occasionalmente nell’opera di poeti, artisti e letterati – da Giovanni da Udine ad Antoni Gaudí, da Hieronymus Bosch a Max Ernst, passando per William Blake. Durante gli anni del romanticismo tedesco l’interesse per la vita del profondo, per i sogni e il loro signifi cato, per l’inconscio, alimenta la vena dalla quale scaturirà l’attuale interesse per la simbologia che, in parte rimossa, dimora nuovamente nei pozzi profondi della psiche, come ai tempi in cui non era ancora diventata sistema e ordine cosmico. Così, Schubert, nel suo Die Symbolik des Traumes (1814), dice: “Gli originali delle immagini e delle forme di cui si serve la lingua onirica, poetica e profetica, si trovano nella natura che ci circonda e che ci appare come un mondo del sogno materializzato, come una lingua profetica i cui geroglifi ci sono esseri e forme”. Tutta l’opera degli autori della prima metà dell’Ottocento, in particolare di quelli nordici, presuppone un senso del simbolico, del signifi cativo. Così, Ludwig Tieck, in Der Runenberg, dice del suo protagonista: “Insensibile da allora all’incanto dei fiori, nei quali crede di veder palpitare 'la gran ferita della natura' [tema di Filottete, e di Amfortas nel Parsifal], si sente attratto dal mondo minerale”.

Innumerevoli arti e saperi specializzati conservano i simboli in una forma ridotta al semiotico, pietrificata, talvolta degradata dall’universale al particolare. Abbiamo fatto cenno agli emblemi letterari. Un genere simile è quello delle marche in filigrana dei fabbricanti di carta medioevali e rinascimentali; a proposito di queste ultime, Bayley dice che dal loro primo apparire, nel 1282, fino alla seconda metà del Settecento, esse possedevano un significato esoterico. Vi si trovano cristallizzate, come nei fossili, le aspirazioni e le tradizioni delle numerose sette mistiche presenti nell’Europa medioevale. L’arte popolare delle varie regioni europee è un’altra miniera inesauribile di simboli. Basta sfogliare un’opera come quella di Helmuth T. Bossert per ritrovare fra le sue immagini temi ben noti quali l’albero cosmico, il serpente, la fenice, la barca funeraria, l’uccello sopra la casa, l’aquila bicipite, la suddivisione dei pianeti in due gruppi (di tre e di quattro), le grottesche, i rombi, i fulmini, le linee a zigzag, ecc. Anche le leggende e le fiabe del folclore conservano la struttura mitica e archetipica quando i loro trascrittori sono stati fedeli, come nel caso di Perrault e dei fratelli Grimm. E nella poesia lirica, accanto alle opere concepite entro i canoni di un simbolismo esplicito, vi sono frequenti fioriture di motivi simbolici che nascono spontanee dallo spirito creatore. Forse il più emozionante esempio di opera letteraria in cui si fondono il reale e l’immaginario, la fantasia e persino la follia è l’Aurélia di Gérard de Nerval (1854).

Il simbolismo dei sogni

Ciò che il mito rappresenta per un popolo, per una cultura o per un momento storico corrisponde all’immagine simbolica del sogno, della visione, della fantasia o dell’espressione lirica per l’individuo. Tale distinzione, tra individuo e collettività, non significa una separazione; molti sogni hanno avuto un valore premonitorio generale. Quando però il simbolo, o il monito, riguarda una sfera più ampia di quella privata e soggettiva, ci troviamo nei territori dei presagi o della profezia: le leggi simboliche possono spiegarli, ma nella profezia può manifestarsi la rivelazione soprannaturale. Ammettendo, come un dato del nostro tempo, il concetto psicoanalitico di “ inconscio ”, accettiamo che in esso risiedano tutte le forme dinamiche che danno origine ai simboli, secondo la concezione di Jung, per il quale l’inconscio è “la matrix dello spirito umano e delle sue creazioni”. L’inconscio fu ‘scoperto’ teoricamente da Carus, Schopenhauer e Hartmann, e sperimentalmente da Charcot, Bernheim, Janet, Freud e altri psicologi. Questa nozione non fece che interiorizzare un ambito che prima era considerato esterno all’uomo. Gli indovini greci, per esempio, erano convinti che i sogni venissero da ‘fuori’, ossia dal mondo degli dèi. Ebbene, la tradizione esoterica, in accordo con la dottrina indù dei tre livelli, conosceva la tripartizione verticale del pensiero: subcoscienza (pensiero degli istinti e dei sentimenti); coscienza (pensiero delle idee e dell’ambito riflessivo); sovracoscienza (pensiero intuitivo e delle verità superiori).

L’interesse per i sogni e il loro contenuto simbolico risale all’antichità, quando, senza che ne venisse formulata una teoria, il fenomeno onirico era visto come una sorta di mitologia personale, anche quando il linguaggio con cui si manifestava era altrettanto oggettivo di quello dei miti collettivi. I famosi sogni della Bibbia, il libro di Artemidoro di Daldi, i dizionari di interpretazione di origine caldea, egizia e araba testimoniano tutti dell’attenzione che veniva prestata ai sogni in quanto portatori di verità occulte concernenti la vita profonda della psiche e, più raramente, fatti esterni e oggettivi. Gli strumenti dell’oniromanzia, così come quelli di altre tecniche divinatorie, sono universali: si basano sull’accresciuta attività dell’inconscio in presenza di certi stimoli e sull’organizzarsi automatico dei suoi contenuti non percepiti in processi formali che poi vengono “letti” secondo i princìpi simbolici del numero, dell’orientazione, della forma e dello spazio. Conviene a questo punto tornare a evidenziare il modo in cui Jung li affronta: “Quando un’opinione è così antica e così condivisa, deve avere un fondo di verità, cioè è psicologicamente vera”. Tale verità psicologica non è per lui un giudizio, ma un fatto, che pertanto gli è sufficiente mostrare e comprovare, senza che sia necessario dimostrarlo.

Dal momento che esiste una vasta bibliografi a sui sogni, basterà qui sottolineare come questi costituiscano un altro degli ambiti attraverso cui l’essere umano entra in contatto con le proprie aspirazioni profonde, con le leggi dell’ordine geometrico o morale dell’universo, e anche con la sorda agitazione del mondo infero. Ania Teillard evidenzia che nei sogni si rivelano tutti gli strati della psiche, compresi i più profondi. E come l’embrione attraversa i vari stadi evolutivi degli animali, così portiamo dentro di noi delle tracce arcaiche che possono essere svelate. Carus credeva piuttosto che nello stato onirico l’anima assurgesse alla dimensione cosmica, aperta a verità diverse da quelle che regolano l’esistenza nella veglia, e assimilava così i sogni ai riti mediante i quali l’uomo penetra i grandi arcani della natura. Rispetto a quale sia il rapporto fra il pensiero dell’uomo di oggi e quello dell’uomo primitivo, l’ipotesi prevalente è che le differenze riguardino solo la coscienza, mentre l’inconscio sarebbe rimasto pressoché uguale dai tempi del Paleolitico superiore.

I simboli onirici non sono dunque, a rigore, diversi da quelli mitici, religiosi, lirici o primitivi. Solo che, nei sogni, ai grandi archetipi si mescolano come sottomondo i residui di immagini dell’esistenza reale, che possono essere privi di significato simbolico, espressioni di fatti fisiologici o semplici ricordi, o possedere un simbolismo legato a quello delle forme matrici e primarie da cui derivano. Dal momento che nella nostra raccolta abbiamo voluto limitarci ai simboli tradizionali, è evidente che questi altri simboli “recenti” dovranno essere ricondotti ai loro antecedenti – come l’automobile al carro – oppure considerati quanto al simbolismo della forma, anche se si tratterà sempre di simboli somiglianti, non dello stesso simbolo né, di conseguenza, dello stesso ordine di signifi cati. Un altro problema da non trascurare è il seguente: non tutti gli esseri umani sono sullo stesso livello. Pur non accettando l’idea di differenze radicali, e neppure il concetto di evoluzione spirituale, che presenta sempre una coloritura orientalistica ed esoterica, non possiamo negare che le differenze di intensità (passione, vita interiore, generosità, ricchezza di sentimenti e di idee) e qualità (formazione intellettuale e morale autentica) determinano livelli di pensiero essenzialmente diversi, sia che si tratti di pensiero logico o magico, sia di speculazione razionale o di elaborazione onirica. Già Havelock Ellis aveva evidenziato come sogni straordinari corrispondano soltanto a personalità geniali; secondo Jung, anche i primitivi fanno questa distinzione: gli Elgoni, nelle foreste del Monte Elgon, gli avevano spiegato che conoscevano due tipi di sogni: il sogno ordinario, che può fare chiunque, e la “grande visione”, in genere privilegio degli uomini rilevanti.

Le teorie interpretative della materia onirica risultano quindi completamente diverse se vengono elaborate a partire dall’analisi dei sogni di personalità più o meno patologiche, di soggetti normali, di personalità straordinarie, o dall’analisi di miti collettivi. L’impressione di materialismo che danno le classificazioni simboliche di molti psicoanalisti dipende dalle fonti della loro formazione. Al contrario, la simbologia delineata da filosofi, creatori di religioni e poeti presenta un orientamento assolutamente idealista, una tendenza cosmica, con ipostasi di ogni oggetto, con una tensione verso l’infinito e l’allusione ai misteri del “centro” mistico. Ciò è confermato da Jung, il quale sostiene che quando qualcuno racconta fantasie e sogni esprime il più delle volte non solo ciò che è più urgente per lui, ma ciò che nel momento dato è più doloroso (più importante). Tale importanza è appunto quella che determina il livello su cui il sistema interpretativo si colloca. La definizione di Freud: “Ogni sogno è un desiderio rimosso” non fa che dire la stessa cosa; i nostri desideri, infatti, danno la misura delle nostre aspirazioni e possibilità. Com’è noto, Freud non limitò lo studio dei simboli all’ambito dei sogni, ma lo estese agli “atti mancati”, alla letteratura e all’arte, indicando e rivalutando le “superstizioni” dell’antichità come possibili sintomi (cita l’esempio dell’antico romano che usciva di casa con il piede sbagliato e, accorgendosene, si spaventava: sintomo di insicurezza proiettata su un fatto). Essenziale, fra gli scritti freudiani dedicati alla simbologia, è l’analisi della Gradiva di Jensen, che spiega come una storia latente possa essere dedotta da un “contenuto manifesto” apparentemente molto diverso. Questa mescolanza di fantasia diurna, sogno e realtà oggettiva si ritrova in modo assai simile – anche se non con la stessa drammaticità e trascendenza – nella vicenda dell’Aurélia di Gérard de Nerval.

Il simbolismo alchemico

Nel saggio Energetica psichica, Jung dichiara: “L’elemento spirituale appare nella psiche anche come un istinto, anzi come una vera passione ... Non è un derivato da un altro istinto ... ma un principio sui generis”. Questa affermazione, che metteva la parola fine all’identificazione della scienza con il materialismo, è importante soprattutto perché si richiama alla più pura essenza della dottrina platonica dell’anima, che qui equivale al principio spirituale di Jung – per quanto in alcune riflessioni anima e spirito siano due cose distinte. Platone nel Timeo, Plotino nelle Enneadi specifi cano che l’anima è estranea alla terra, discende dall’universo a-spaziale e a-temporale, oppure “cade” nella materia a causa della colpa, per poi intraprendere un processo di crescita che corrisponde al percorso dall’involuzione alla “salvezza”.

A un certo punto avviene quindi l’inversione di questo movimento verso il basso e verso l’interno: l’anima ricorda che la sua origine è fuori dallo spazio e dal tempo, fuori dal mondo delle creature e degli oggetti, perfino oltre le immagini, e allora tende alla distruzione di quanto è corporeo e all’ascesa come forma di ritorno all’origine. Lo spiega Giamblico così: “C’è un altro principio dell’anima, superiore a ogni natura, per il quale possiamo elevarci sopra l’ordine cosmico ... Infatti, quando l’anima si eleva agli esseri superiori a essa, allora si separa dalle nature imperfette, prende una vita diversa in cambio della sua, si dà a un altro ordine, abbandonando completamente il precedente”. Quest’idea di rotazione è la chiave e la meta della maggior parte dei simboli trascendenti: della Rota medioevale, della Ruota del divenire buddhista, del ciclo zodiacale, del mito dei Gemelli e dell’Opus degli alchimisti. L’idea del mondo come labirinto, della vita come peregrinazione, conduce all’idea del “centro” come simbolo della finalità assoluta dell’uomo: il Giusto mezzo, il “motore immobile”, il Paradiso ritrovato o la Gerusalemme celeste. Talvolta, nelle rappresentazioni grafiche tale punto è identificato con il centro geometrico del cerchio simbolico; altre volte è posto sopra di esso; altre ancora, come nello Śrīyantra orientale, non viene raffigurato, deve essere immaginato dall’osservatore. Si tratta però di un motivo onnipresente, a volte mascherato sotto un altro simbolo: quello del tesoro nascosto, dell’oggetto perduto, dell’impresa impossibile o molto difficile; e associato a diversi valori: la conoscenza, l’amore, la conquista di un oggetto, ecc. L’alchimia, sviluppatasi in due fasi ben distinte, medioevale e rinascimentale – quest’ultima termina tra Sei e Settecento dividendosi nelle sue due componenti originarie, mistica e chimica –, è una tecnica simbolica che oltre alla ricerca di scoperte positive nel campo delle scienze naturali anela a “realizzare” verità spirituali. Invece di cercare il “tesoro” affrontando il mito del drago, come Cadmo, Giasone, Sigfrido, gli alchimisti volevano produrlo mediante il lavoro e la virtù. Né il loro operato era un semplice mascheramento di verità esoteriche, né la finalità perseguita era materiale; i due aspetti si compenetravano e la realizzazione acquistava il significato dell’assoluto. Ogni operazione, ogni dettaglio, ogni materia o utensile impiegato erano fonte di esperienze intellettuali e spirituali, simbolo vissuto. Dopo un periodo di oblio, l’alchimia è stata rivalutata come “origine della chimica moderna”, ma Bachelard, Silberer, Jung e altri hanno finito per vedere in essa la totalità del suo significato,poetico, religioso e scientifico al tempo stesso, che del resto era già emerso nelle opere di Fulcanelli, Canseliet, Alleau.

Bachelard sottolinea che l’alchimia “possiede un carattere psicologicamente concreto” e che, lungi dall’essere una descrizione di fenomeni oggettivi, è un tentativo di inscrivere l’amore umano nel cuore delle cose. Jung insiste sul fatto che le operazioni alchemiche – così come le antiche pratiche divinatorie, ma con maggiore profondità e continuità – avevano la sola funzione di risvegliare la vita profonda della psiche e consentire proiezioni psichiche sugli aspetti materiali che, esperiti come simbolici, rendevano possibile costruire un’intera teoria dell’universo e del destino dell’anima. Per questo Jung dice che “l’adepto viveva certe esperienze psichiche che gli apparivano come un comportamento particolare del processo chimico”. In un altro passo, definisce l’attività alchemica come “una esplorazione chimica nella quale si mescolava, per via della proiezione, materiale psichico inconscio”. Completa questo concetto affermando che “ all’alchimista era ignota la vera natura della materia. Egli la conosceva soltanto per allusioni. Tentando di indagarla, egli proiettava sull’oscurità della materia, per illuminarla, l’inconscio. Per spiegare il mistero della materia, proiettava un altro mistero”. La summa di questo mistero, l’aspirazione segreta più profonda, è la coincidentia oppositorum : “Gli alchimisti sono per così dire gli empiristi e gli sperimentatori del grande problema dell’unione dei contrari, Nicola Cusano ne è il filosofo”. L’alchimista non fingeva di eseguire gli esperimenti, ma si interessava con profondità e passione alla ricerca dell’oro, perché erano proprio l’interesse e l’impegno di una vita a garantire – come nella ricerca del Sacro Graal – l’esito finale, grazie all’esercizio delle virtù che tale attività costante sviluppava, creava o presupponeva. Riuscire a ottenere l’oro (l’aurum philosophorum, beninteso) costituiva il segno della predilezione divina. Jung interpreta psicologicamente il procedimento come una progressiva eliminazione delle impurità dello spirito e un avvicinamento ai valori immutabili ed eterni. Ma una tale visione era chiara già agli alchimisti stessi; Michael Maier, nei Symbola aureae mensae (1617), dice che “la chimica incita l’artefice alla meditazione dei beni celesti”. Gerardus Dorneus, nella sua Philosophia meditativa (1661), allude al rapporto che deve stabilirsi fra l’operante e l’operato: “Da altri non farai mai l’Uno, se prima non sarai diventato Uno tu stesso”. La trasformazione in uno si otteneva per sradicamento di ogni desiderio verso quanto è differente e transitorio, e per concentrazione del pensiero su ciò che è superiore ed eterno.

Famosa è la massima degli alchimisti: “Aurum nostrum non est aurum vulgi”. L’affermazione che l’oro da essi cercato non fosse l’oro volgare sembra indicare che il simbolismo escludeva la realtà concreta e materiale del simbolo, in favore della potenza spirituale di ciò che era simboleggiato. Sarebbe in ogni caso azzardato ridurre a un solo atteggiamento il lavoro di moltissimi autori di diversa formazione. Il fatto di esigere la presenza materiale dell’oro potrebbe essere qui interpretato come il desiderio dell’incredulo san Tommaso. Ai veri eletti poté bastare il sogno del “sole sotterraneo” che doveva apparire nella profondità dell’atanor, come la luce della salvezza in fondo all’anima; sia che la salvezza fosse frutto della fede religiosa, sia che dipendesse da quell’ipotetico o reale “processo di individuazione” in cui Jung pare aver concentrato il meglio del suo sapere e sentire intorno all’uomo. Naturalmente, in questo concetto si celano nientemeno che le tre supreme aspirazioni che sembrano garantire la felicità: il rebis alchemico, o essere androgino, che significa la congiunzione degli opposti e la fine del tormento causato dalla separazione dei sessi, che risale a quando l’uomo sferico di Platone venne scisso in due parti; in secondo luogo, la fissazione del principio “volatile”, ovvero la cessazione di ogni mutamento o transizione, una volta raggiunto il possesso dell’essenziale; e infine, l’assurgere in un punto centrale, che simboleggia il centro mistico dell’universo, l’origine irradiante e l’immortalità, unita all’eterna giovinezza. È facile intendere, alla luce di questi “obiettivi”, come sia quegli scienziati che si sforzano di “tradurre” nel loro mondo il mondo alchemico, sia i continuatori dell’alchimia ortodossa non rinuncino ai loro propositi. E si comprende la ragione per cui l’alchimia è servita da modello, da “paradigma”, per ogni attività che si basa sull’esperimento, sul lavoro mentale e sulla costanza, come talvolta è il caso dell’arte e della poesia.

English abstract

We publish, by kind permission of Victoria Cirlot and the publisher, an excerpt from the Introduction of Jean Eduardo Cirlot's Dizionario dei simboli published by Adelphi in 2021. This is the first Italian edition of the Diccionario de símbolos tradicionales, the Spanish poet's great work published in 1958 in Barcelona by Luis Miracle publishing house. The volume is enriched by a note by Victoria Cirlot, daughter of Juan Eduardo Cirlot, on the editions of the Dictionary of Symbols written expressly for the Adelphi Italian version.

keywordsJuan Eduardo Cirlot; history of symbols; theory of symbols; alchemy, Adelphi.

Per citare questo articolo / To cite this article: J.E. Cirlot, Presentazione di: Juan Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli, Adelphi, Milano 2021, “La Rivista di Engramma” n. 184, settembre 2021, pp. 75-97 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.184.0007