Opere della fortificazione permanente della frontiera orientale
Architetture, tecniche costruttive e prospettive di recupero
Livio Petriccione
English abstract
Introduzione
Il territorio del Nord-est italiano, e in particolare quello corrispondente all’attuale regione Friuli Venezia Giulia, si contraddistingue per la storica presenza di edifici e infrastrutture militari atte a presidiare il confine nazionale da una possibile invasione da est. La testimonianza di tale patrimonio costruito di tipo difensivo è data da castelli, torri e fortificazioni disseminati in tutto il territorio, con chiare tracce di stratificazioni e modificazioni nei vari secoli, e conferma la caratteristica di una evoluzione costruttiva che giunge fino ai più recenti manufatti realizzati durante la Guerra fredda. L’articolo nello specifico analizza l’apparato di infrastrutture costruite all’inizio del ‘900 come sistema difensivo permanente della frontiera Orientale. I risultati qui esposti costituiscono l’esito di una ricerca sviluppata all’interno del Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura dell’Università di Udine [1] , incentrata sulle opere della fortificazione e comprendente lo studio delle posizioni degli sbarramenti e delle loro caratteristiche tecnico-materiche nonché riflessioni sulle possibilità di recupero e riuso di questi particolari manufatti.
Le caratteristiche significative analizzate, con l’approccio disciplinare dell’architettura tecnica, hanno offerto un ventaglio articolato di informazioni sulle tecniche costruttive utilizzate, sulle innovazioni tecnologiche e sperimentazioni nell’uso di materiali nonché sulle soluzioni impiantistiche e di camuffamento adottate, implicando approfondimenti sui rapporti tra la morfologia spaziale, le funzioni interne e le esigenze del tutto specifiche di tipo difensivo.
Le opere della frontiera
Il paesaggio lungo l’attuale frontiera Orientale è fortemente connotato dalla presenza delle tracce di un sistema militare difensivo che nel secondo Dopoguerra aveva assunto il ruolo di indiscusso protagonista della Guerra fredda, una guerra non combattuta, ma reiteratamente minacciata, caratterizzata da mosse e contromosse politiche e strategico-militari, che con il suo precario equilibrio caratterizzò l’alternarsi di tensioni nei rapporti tra il blocco atlantico (Stati Uniti d’America e paesi occidentali) e il blocco orientale (Unione Sovietica e componenti del Patto di Varsavia).
Il fatto che tali opere, strutturate e organizzate a costituire un sistema prevalentemente ipogeo, non siano mai state coinvolte in combattimenti e non presentino quindi tracce di distruzione bellica, bensì ben evidenti i segni del tempo, del degrado e del sopravanzare della natura, ha costituito elemento specifico di ricerca.
È stato verificato che il demanio militare occupa il territorio italiano per circa 783 chilometri quadrati, con particolare concentrazione nelle regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia. In quest’ultima le attività militari occupavano circa 102 chilometri quadrati prima della dismissione.
In tale territorio militarizzato e già caratterizzato dalla presenza di numerose caserme, fortificazioni, centri di addestramento, polveriere e depositi di munizioni ha trovato realizzazione un sistema seriale di bunker, cioè di opere definite come “elementi difensivi della fortificazione permanente costituiti da un numero variabile di postazioni cooperanti, sotto un unico comando, ai fini dell’adempimento di un compito unitario” (Petruzzi, Petriccione 2019, 197).
Sono state costruite, in alcuni casi utilizzando opere preesistenti riferibili al Vallo alpino del Littorio, 94 opere difensive dotate di 1.124 postazioni [2]. Di queste, circa mille sono state alienate dal Demanio Militare e passate in proprietà a soggetti pubblici o privati, mentre solo un centinaio è ancora di proprietà e sotto il controllo dell’Ufficio Demanio e Servitù Militari.
Le opere della fortificazione permanente insistono sul territorio, secondo le logiche di uno schieramento opportunamente distribuito in punti strategici in corrispondenza dei maggiori valichi, degli assi di comunicazione e lungo le valli dei fiumi Tagliamento, Fella, Torre, Natisone, Iudrio e Isonzo. Per dare un esempio della consistenza numerica si ricordano le postazioni in alcuni punti strategici: Calvario a Gorizia (45), Portis a Venzone (32), Ponte San Quirino a Cividale del Friuli (30) e San Andrat a Corno di Rosazzo (26). Tutte erano ancora operative negli anni Ottanta, accuratamente mantenute e mimetizzate.
Le infrastrutture realizzate interessano un arco territoriale che va da Timau, in prossimità del Passo di Monte Croce Carnico (lungo la strada statale n. 52 bis Carnica e la valle del fiume Bût) a Sablici (tra il monte Hermada e le Bocche del Timavo) fino al passaggio della strada statale n. 14 della Venezia Giulia, dell’autostrada A4 e della linea ferroviaria Trieste-Venezia (fig. 1).
La lettura diacronica e, per estensione, l’interpretazione semantica dei paesaggi della Guerra fredda hanno per oggetto l’esito finale di una stratificazione costruttiva di particolari opere militari che, con differenziate strategie costruttive, hanno risposto alle diversificate esigenze belliche del Primo conflitto mondiale (‘guerra d’attacco e di posizione’), della Seconda guerra mondiale (‘guerra di movimento’ e ‘totale’), fino al periodo della Guerra fredda.
L’evoluzione dolorosa e drammatica dei conflitti, che assiste fin dalle epoche più antiche all’impiego di fortificazioni (limes romano, muraglia cinese o trincee di assedio in epoca medievale), si manifesta durante la Prima guerra mondiale nella guerra ‘d’attacco’ e ‘posizione’ con la pianificazione della costruzione di trincee scavate seguendo delle linee di difesa, per attacchi veloci favoriti dall’introduzione delle armi da fuoco e dal continuo ricambio della forza umana fornita dalla leva militare. Diversamente, la guerra di ‘movimento’ e ‘totale’ è caratterizzata da combattimenti con spostamenti veloci delle truppe che non si attestano su posizioni statiche. Inoltre il conflitto viene condotto con l’utilizzo di mezzi corazzati, il coinvolgimento delle popolazioni e la mobilitazione di infrastrutture, fabbriche e forze lavoro a concorso della potenza militare. Pertanto le fortificazioni hanno richiesto la sperimentazione e la messa in opera di strategie costruttive e uso di materiali per fronteggiare mezzi corazzati e armamenti che potevano prevedere anche l’utilizzo di armi nucleari.
L’esistenza nel territorio del sistema seriale di postazioni difensive ha fortemente condizionato l’insediamento antropico in un complicato equilibrio con lo sviluppo naturale della fauna e della vegetazione. La ricerca delle possibilità di recupero e di riuso passa conseguentemente attraverso l’analisi delle caratteristiche costruttive e formali, dei materiali utilizzati, delle tecniche impiegate e degli artefatti di mimetizzazione creati e posti in essere.
Tipi e materiali
La possibilità significativa di poter visionare i disegni originali, fino a tempi recenti secretati presso l’Ufficio Demanio e Servitù Militari del 12° Reparto Infrastrutture di Udine [3]. Anche nei casi di manufatti attaccati dal degrado e in stato di ruderizzazione è stato comunque possibile valutare le scelte progettuali e il sistema costruttivo. Le caratteristiche e i requisiti individuabili nei tipi di manufatti e nei loro moduli distributivi evidenziano gli elementi caratterizzanti e rispondenti a specifiche e variabili esigenze funzionali.
Il profilo costruttivo dei manufatti, prevalentemente ipogei, presenta caratteristiche di evoluzione tipologica e formale diversificate in base alle specifiche esigenze belliche, ma anche in relazione alle caratteristiche di resistenza del terreno, all’ubicazione e alle correlate variabili ambientali e alle necessità di camuffamento-mimetizzazione.
I tipi di fortificazione possono essere identificati in relazione alla localizzazione: tipo A - vicino a strade e località importanti che permettevano attacchi di massa (possibilità di fascia fortificata di 3 chilometri, progettata per la resistenza a tiri di grosso calibro); tipo B - a difesa delle direttrici secondarie che permettevano l’attacco a singole colonne (resistenza a tiri di medio e grosso calibro); tipo C - per l’attacco di piccoli reparti (resistenza a tiri di piccolo e medio calibro, utili a irrobustire i lavori campali delle truppe mobili).
In base alla identificazione della potenza si possono distinguere: opere grosse, con 5 o più postazioni, tra loro collegate con cunicoli in caverna, protette da tiri di grosso calibro; opere medie, con 2 o 4 postazioni, protette da tiri di medio calibro; opere piccole, con 2 postazioni, occupate solo in vista del combattimento.
I tipi di fortificazione classificati secondo la funzione si suddividono in:
- PCO Posto di comando-osservazione. Con funzioni di comando dirigeva il fuoco ed era collegato alle altre postazioni con comunicazione via telefono o radio;
- POA Posto di osservazione e allarme. Situato in posizione elevata per l’osservazione del territorio e la comunicazione con altre postazioni via telefono o radio;
- P Postazione per cannone anticarro. Realizzata con una torretta enucleata di un carro armato dismesso o con un carro posizionato in una vasca in calcestruzzo (denominato ‘carro in vasca’ o a ‘scafo sotto’);
- M Postazione per mitragliatrice.
Interessanti sono gli artifici di mimetizzazione o ‘camuffamento’ con sistemi studiati per adattarsi al contesto geomorfologico e antropico del territorio, contestualizzati sotto il profilo tipologico all’articolato patrimonio edilizio vernacolare. Le opere di fortificazione erano per lo più collocate al di fuori dei centri abitati, in ambiti caratterizzati dalla presenza di boschi, radure prative o alpeggi, abituali sedi di numerose costruzioni rurali di tipo temporaneo, utilizzate solo in alcuni mesi dell’anno per la stabulazione del bestiame o per il deposito del foraggio e di prodotti agricoli. Si trattava di costruzioni essenziali per lo sfruttamento produttivo agro-silvo-pastorale di aree in cui l’attività agricola era concentrata solo in alcune zone di fondovalle o nelle immediate vicinanze degli insediamenti antropici. Le correlazioni tra l’insediamento spontaneo e quello permanente consentono di individuare due matrici tipologiche: quella alpina o medio europea, collegabile concettualmente al tipo della ‘casa alpina’ e quella sud-europea che richiama la ‘casa prealpina’. A queste matrici si possono ricondurre lo ‘stavolo alpino’ e lo ‘stavolo prealpino’.
Accanto agli ‘stavoli’ però sono presenti, in tutte le zone, edifici più piccoli, destinati solo al deposito temporaneo del fieno o, nell’area prealpina, al bestiame di piccola taglia. La loro tipologia è sostanzialmente indifferenziata, si tratta di edifici monocellulari, primo stadio del processo tipologico che risulta comune ad ampie zone, caratterizzate da analoghe disponibilità di materie prime.
Concretamente gli artifici militari realizzati si sono ispirati genericamente ai tipi (denominandoli baita, casera, baracca, ripostiglio) senza scendere in dettagliate caratteristiche morfologiche, riproducendo quindi falsi involucri esterni, configurati come edifici monocellulari che presentavano strutture totalmente o parzialmente lignee, con eventuale basamento in pietra e tetto a forte pendenza, spesso indistinguibili nella visione da lunga distanza. In altri casi si ritrovano mascheramenti con forma delle ‘lobie’ delle malghe alpine oppure di ripari più rudimentali con copertura a falda unica che giungeva fino a terra, secondo modalità costruttive elementari, ma anch’esse piuttosto diffuse, o ancora nella forma di depositi di legname o di attrezzi agricoli nelle vicinanze dei centri o, per contro, nelle aree più disagiate e lontane dai centri, dei ricoveri temporanei utilizzati solo per qualche notte da cacciatori o pastori (figg. 2-3).
Nelle zone caratterizzate invece da un ambiente roccioso, boschivo o da spazi pianeggianti venivano ricercate soluzioni di rivestimento e simulazioni non ripetitive quali mascheramenti a imitazione di rocce, coperture di legno e vegetazione, coperture con terreno da riporto e finti ‘covoni’ di fieno. Più dettagliatamente per le postazioni di tipo P venivano utilizzati fasci di ramaglie e balle di paglia; per le postazioni tipo M ‘covoni’ di paglia e fieno, cumuli di terra o tettoie di legname e paglia, o la costruzione di baracche; per le postazioni tipo PCO la realizzazione di pollai o casotti.
Dal punto di vista materico, il mascheramento che simulava la roccia veniva realizzato con l’utilizzo di una rete metallica posizionata in modo tale da riprodurre le irregolarità e gli spuntoni rocciosi e poi intonacata con malta di cemento. In alcuni casi l’intonaco veniva anche colorato per uniformarsi maggiormente alla vegetazione.
Le cupole in acciaio venivano camuffate con la realizzazione di coperture a ‘coperchio’ in vetroresina che riproducessero le caratteristiche della roccia e della vegetazione. Il materiale vetroresina è infatti facilmente sagomabile, resistente alle intemperie, leggero e facilmente colorabile.
Genericamente un altro tipo di artefatto, soprattutto idoneo per mascherare le postazioni P e riprodurre l’effetto di un terreno a prato, veniva abitualmente realizzato con una struttura a maglia in tondini di ferro ɸ 14 saldati tra loro e con una lamiera metallica posta superiormente, dove veniva alloggiato e steso il terreno da riporto che completava l’opera.
I bunker in particolare offrono un ampio spettro di peculiarità costruttive e tipologiche nonché di sperimentazione di materiali, in particolare dell’uso del calcestruzzo armato (figg. 4-5).
I materiali prevalentemente utilizzati nelle costruzioni dei bunker sono stati il calcestruzzo armato, il ferro, la pietra locale, la vetroresina, ma in alcuni casi si possono ritrovare tubi in fibra di amianto e materiali isolanti come masonite e faesite. In particolare l’adozione ‘rivoluzionaria’ del calcestruzzo armato è stata motivata dalla possibilità di realizzare con un’unica colata un’‘opera monoblocco’ senza punti di giunzione, con eccezionale resistenza alle esplosioni e capacità di nassorbimento degli impatti. Pur nella loro semplicità morfologica, i bunker richiesero una particolare attenzione costruttiva, soprattutto nella fase preliminare al getto. In tale occasione era determinante seguire dettagliatamente i disegni esecutivi che indicavano la forma della struttura e i vani da realizzare. Mediante la realizzazione di opportuni casseri in legno veniva sagomato e predeterminato lo spazio del getto in calcestruzzo armato, dato che era necessario realizzare con precisione le nicchie per i depositi e i passaggi degli impianti (elettrico, telefonico, di scarico, di ventilazione, ecc.).
In altri tipi di manufatti difensivi, ricavati in postazioni preesistenti o in caverne naturali in roccia, il sistema costruttivo richiedeva invece l’utilizzo del calcestruzzo attraverso una modulazione qualitativa e quantitativa, rapportata alle esigenze di adattamento alle caratteristiche geomorfologiche del sito. Per i getti in calcestruzzo armato che costituivano la parte strutturale dell’opera, la composizione dell’impasto veniva determinata dalle necessità specifiche di utilizzo della struttura e dalle caratteristiche di resistenza richieste per la funzione (mediante prove di scoppio e sperimentazioni con cariche esplosive). Il sistema di rinforzo veniva garantito dall’inserimento di elementi di armatura in acciaio, in particolare barre tonde e lisce e non ad aderenza migliorata; inoltre si adottava un sistema a maglie diffuse con le armature tra di loro agganciate con un’inclinazione maggiore di 75° e uncinate tra loro a 180°. In altri casi veniva anche inserito un sistema di rinforzo con putrelle in acciaio.
Completata la gettata massiva in calcestruzzo armato, l’esterno del bunker veniva rifinito con uno strato di intonaco di cemento lisciato a cazzuola, a ricoprire tutte le pareti esterne della postazione, così da garantire una maggiore protezione alla porosità del calcestruzzo.
In alcune postazioni all’apice del monoblocco veniva posizionata una copertura blindata a ‘cupola ribassata’ in acciaio al carbonio, ancorata alla struttura sottostante in calcestruzzo tramite il tiraggio con barre filettate e dado.
Conclusioni e prospettive di recupero
L’analisi delle consistenze materiche, delle tecniche costruttive e dei fenomeni di degrado costituisce metodologicamente un passaggio obbligato per la formulazione di una serie di best practice di approccio alla rilettura delle fortificazioni permanenti della frontiera Orientale. Si ritiene che un tale sistema seriale di opere, numericamente rilevanti, richieda una reinterpretazione che sia scevra dai condizionamenti ideologici che inevitabilmente richiama e che orienti l’interesse alle specifiche gerarchie tipologiche e formali, affrontando quindi pragmaticamente le problematiche della conservazione, del recupero e del possibile riuso (fig. 6). In tale ottica si possono meglio valutare le potenzialità e ipotizzare possibili riusi contemporanei di tale patrimonio difensivo dismesso, attuando le logiche tecnico-architettoniche del new heritage, allontanandolo dalla negatività di una interpretazione di difficult heritage.
Sono ormai numerosi gli esempi di recycle di bunkerin Europa: in Germania il percorso museale creato nel bunker esistente nel quartiere Kreuzberg di Berlino, realizzato nel 2016 dal progettista John Pawson e denominato ‘The Feurle Collection’, di proprietà privata; nei Paesi Bassi la soluzione di trasformazione di un bunker del progettista B-ILD in una casa vacanze temporanea, nella località di Fort Vuren in Olanda; in Svezia a Bungenäs, penisola settentrionale dell’isola di Gotland nel mar Baltico, nel 2010 un privato, su progetto di Skälsö Arkitekter, ha realizzato un villaggio di case per vacanze; in Danimarca il percorso museale del Tirpitz Museum, progettato da BIG nel 2017 a Blåvand in Danimarca e definito ‘museo invisibile’. Tuttavia, ipotizzare sotto il profilo formale ed esecutivo, ma anche funzionale e tecnologico, di riqualificare il patrimonio con interventi di riuso secondo una logica ideologica di recycle pone comunque complesse problematiche di utilizzo di materiali e soluzioni tecnico-architettoniche che sappiano coniugare la sostenibilità economica, nelle varie declinazioni spaziali, con le componenti infrastrutturali e di equilibrio paesaggistico.
Lo scenario che si può prospettare può essere differenziato a seconda del tipo di struttura, della localizzazione, del livello di conservazione e degli interventi necessari per la messa in sicurezza. In alcuni casi la riappropriazione può essere connotata da una finalità di tipo artistico-turistico inserita in un circuito territoriale naturalistico; in altri casi si può prospettare anche l’uso museale senza spettacolarizzazione oppure la funzione di server farm (struttura utilizzata per la custodia e la gestione centralizzata in sicurezza di server in un unico ambiente) o la riconversione in centraline elettriche o in depositi di materiale.
L’analisi delle consistenze materiche, delle configurazioni planimetriche, dei caratteri costruttivi e dei sistemi di mimetizzazione di questi particolari manufatti costituisce peraltro la base conoscitiva indispensabile al fine di elaborare criteri di intervento e linee guida per una loro rilettura in chiave contemporanea, entro logiche multidisciplinari potenzialmente coinvolgenti gli apporti di architetti, ingegneri, paesaggisti, economisti, implicando sia trasformazioni sotto il profilo tipologico e funzionale sia possibili sviluppi socio-economici e territoriali.
L’opportunità e la convenienza del recupero dovranno quindi essere valutate in relazione a una serie di fattori interconnessi tra loro, quali condizioni di equilibrio fra la sostenibilità economica degli interventi necessari e la fattibilità del progetto, i cui esiti facciano emergere motivazioni sia di esistenza che di interrelazioni con gli stakeholders, nonché di capacità di autonomia economica.
“Si ritiene quindi che il valore insito nel recupero e nella conservazione di questo patrimonio architettonico stia nel mantenimento di una memoria, ove si inveri la dignità del tramandare depurata dal giudizio come accade, per esempio, per le torri o i sistemi difensivi medievali. Nella individuazione di un possibile intervento di recupero va considerata tutta la gamma di opzioni, dal riuso alla conservazione in sicurezza dello stato di ruderizzazione. Ovviamente in determinati casi particolari, in cui si prospetti l’impossibilità di una prospettiva di conservazione, si dovrà pensare anche alla demolizione.” (Petruzzi, Petriccione 2019, 165-166).
[1] Ricerca sviluppata all’interno del Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura dell’Università degli Studi di Udine sul tema della fortificazione permanente della Guerra fredda. Responsabile Scientifico: Prof. Roberto Petruzzi; Unità di Ricerca: Ph.D. Arch. Livio Petriccione. I risultati di tale ricerca sono in parte riportati nel libro: R. Petruzzi, L. Petriccione, (2019) Costruire ai tempi della Guerra fredda. L’architettura della fortificazione permanente della frontiera orientale, Forum Editrice, Udine.
[2] Le postazioni, elementi della fortificazione campale o permanente finalizzati al massimo rendimento del tiro delle armi e alla protezione del personale, erano usualmente utilizzate dall’arma della fanteria d’arresto dell’Esercito Italiano – l’insieme delle truppe combattenti a piedi che aveva il compito di ritardare e bloccare l’avanzata nemica.
[3] i documenti, le foto e i disegni – riferimenti archivistici - sono dell’ADSU, Archivio dell’Ufficio demanio e servitù militari, 12° reparto infrastrutture di Udine; si ringrazia l’Ispeinfrastrutture-Roma per l’autorizzazione alla pubblicazione e diffusione, anche tramite internet, di documenti riguardanti i fini istituzionali, le attività e l’organizzazione dell’Esercito italiano, come anche di poter verificare direttamente in sopralluogo e acquisire immagini fotografiche, ha permesso di condurre una ricerca analitica delle opere e verificarne le consistenze stratigrafiche e materiche.
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English abstract
The article presents the research results concerning the architectural and construction issues of the military fortifications built during the Cold War. These buildings, conceived as a ‘diffused and continuous’ defensive system, strongly characterized the landscape of Friuli Venezia Giulia.
Developed by scientific accuracy, the study concerns the technical features and the placement distributed along the eastern border. It began with the analysis of the original projects, now declassified, then examining in an organic and correlated way, the typological and formal characteristics, materials and building technologies. Lastly, the possible refurbishment and reuse of this particular heritage are analysed.
keywords | Fortification; Bunker; Cold War; Concrete; Hypogeum.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Petriccione, Opere della fortificazione permanente della frontiera orientale. Architetture, tecniche costruttive e prospettive di recupero, “La Rivista di Engramma” n. 185, ottobre 2021, pp. 295-308 | PDF