Dall’astuccio al bunker
L’interno-sarcofago come controforma della macchina-sottomarino: cosa contiene cosa?
Guido Morpurgo
English abstract
Wohnen (abitare) usato in senso transitivo - nel concetto
di ‘gewohnen Lebens’ (vita abituale) - dà un’idea della frettolosa attualità
che si nasconde in questo atteggiamento.
Consiste nel formarci un guscio.
Walter Benjamin, Das Passagen Werk
Controforme del vuoto: serie e trasformazioni
Ripensare il tema del bunker significa innanzitutto riflettere sul significato di una cospicua collezione di eventi plastici singolari che, oltre a determinare un impatto totale e perenne sul paesaggio, segnano la metamorfosi dello spazio dell’interno, originariamente conformato in virtù della scala e degli usi umani, in pura controforma tecnologica, realizzata per ricoverare e difendere macchinari speciali sempre più grandi e complessi: armamenti e altri congegni di distruzione, anche nella forma di navi sommergibili. Si tratta con ogni evidenza di un tema estremo, paradossale, che rimette in discussione tutte le categorie che nella storia hanno dato vita allo spazio dell’interno, garantendone il fondamentale significato di luogo dell’abitare e del ripararsi: le misure degli spazi e la loro conformazione in rapporto agli usi umani, la logica delle aperture e il rapporto con l’esterno, i caratteri scalari e dimensionali in rapporto ai materiali adatti alle diverse esigenze di utilizzo, l’idea stessa di comfort, l’articolazione e la complessità dei modi con cui si configurano le unità specifiche che formano la casa dell’uomo, la nascita e lo sviluppo degli arredi, il dialogo con la città e il paesaggio, il linguaggio stesso con cui nella storia si è espressa l’identità semantica della casa dell’uomo. Immediatamente dopo questa prima considerazione se ne pone una successiva, altrettanto fondamentale: come ci si è arrivati?
Essendo il mondo dei bunker l’ultimo stadio di una genealogia storica di séries et transformations (v. Virilio 1975, 139-165) morfologiche delle fortezze che attraverso i secoli hanno fatto data attraverso le tappe del funzionalismo architettonico-militare, esso è intimamente legato agli sviluppi dell’apparato bellico moderno e va quindi interpretato a partire da due fondamentali condizioni dello sviluppo tecnico-scientifico, ai suoi agents of mechanization (v. Mumford [1934] 1955). In primo luogo, i bunker si realizzano grazie allo sviluppo avanzato delle tecniche di costruzione introdotte dall’uso sistematico di due materiali ‘a presa rapida’: il cemento armato e l’acciaio. Ciò grazie alle possibilità che questi stessi materiali di natura industriale offrono per realizzare rapidamente le più svariate morfologie e configurazioni funzionali a tutte le scale d’intervento, secondo un’ampiezza e un’intrinseca fluidità di possibili soluzioni plastiche tale da rendere i manufatti-bunker adattabili alle diverse necessità balistiche, alle circostanze specifiche di utilizzo, nel caso delle basi per sottomarini - alloggiamento, riparazione o assemblaggio - in funzione delle caratteristiche degli armamenti che custodiscono e alle condizioni geografiche in cui si insediano. In secondo luogo, con la cosiddetta ‘civiltà delle macchine’ si sviluppa una progettazione sempre più sofisticata di contenitori adatti a ospitare apparati meccanici dalle forme atipiche: i bunker sono plasmati per accogliere gli ingombri e le specifiche caratteristiche morfologiche di dispositivi sempre più grandi e complessi. Macchina significa innanzitutto un insieme di parti in movimento, di conseguenza i bunker presentano la caratteristica di adattarsi alla dinamica delle forme assunte dai meccanismi bellici o a quelle dei veicoli che devono celare e proteggere, dalle configurazioni che essi assumono sulla base dei cinematismi che ne caratterizzano la grandezza e lo spazio di operatività attraverso una specifica identità morfologica e di funzionamento.
Questo tema del contenitore speciale dimensionato sulla base delle ‘ragioni delle macchine’ è fondato nella tradizione della modernità e affonda le sue radici nella cultura ottocentesca, nel secolo in cui Mechanization takes Command (v. Giedion 1948). È l’epoca che vede lo sviluppo ipertrofico dell’universo figurale dell’interieur, degli astucci e di tutte quelle figure morfologiche che fanno parte della mémoire collectionneuse (v. Gubler 2003) dell’ensemblier Walter Benjamin, catalogate nel suo inesauribile livre en cours Das Passagen-Werk (v. Benjamin [1982] 1986). Sono figure spaziali derivate dal principio della contro-forma e dalla ‘memoria dell’impronta’, che legano intimamente i nuovi oggetti industriali agli spazi abitabili che improvvisamente affollano. Sono edifici a campata unica o ‘corridoi-astucci’ che, grazie alla duttilità e leggerezza delle tecniche di costruzione in acciaio, possono all’occorrenza dilatarsi sino e divenire “costruzioni di collegamento” dai nomi esotico-colonialisti o metaforico-evocativi di una seconda natura industriale. Passage du Caire, Passage des Panoramas, Galerie du Barométre: “È questo il posto delle agenzie investigative e degli istituti di accertamento che, nella luce torbida delle gallerie, sono sulle tracce del passato” (ivi, 268). Sono controforme urbane o forme del vuoto destinate a sottrarsi alla storia che, variamente ‘scavate’ come articolati corridoi nelle profondità della trama regolare degli isolati haussmanniani, divengono, nell’immaginario benjaminiano, figure oniriche che si dispiegano nel corpo urbano determinando sofisticate connessioni con lo “spazio ampio” e miraggi spazio-temporali, ‘fate morgane’ della modernità, strumenti ottico-percettivi del rapporto tra memoria e modificazione, dove “la costruzione interpreta dunque il ruolo del subconscio” (ivi, 268).
Zoom scalare: analogie e precursori morfologici
Le costruzioni in cemento armato rappresentano una diversa famiglia di soluzioni che interpreta la necessità di dar forma ad architetture industriali e infrastrutture deputate a imprimere un salto di scala al mondo occidentale, costruzioni che sono caratterizzate da un ruolo di transito legato innanzitutto ai macchinari che accolgono e ai veicoli che in esse si producono e si muovono: le industrie automobilistiche e ferroviarie, i bacini di costruzione e carenaggio galleggianti (dry-docks) come controforme di navi o scavati direttamente nelle banchine dei porti, con tanto di controscafi e controprue; le grandi stazioni ferroviarie forgiate sugli scartamenti delle rotaie per cui “il binario diventa la prima parte montabile in ferro, l’antesignano del pilone” (Benjamin [1982] 1986, 6); gli immensi hangar per dirigibili, fissi e girevoli di Friedrichshafen, fino a quello polare dell’“Italia” allo Spitsbergen costruito da un’ossatura in legno rivestita di tela cerata, progettati per accogliere gigantesche Luftschiffen che, più leggere dell’aria, ‘galleggiano’ nel vuoto; l’Arcadia delle macchine in forma di Galerie des Machines di Dutert e Contamin, dimensionata per esporre i monumenti par excellence della civiltà industriale; l’imponente monumentalità funzionale dei silos descritti da Gropius, poi da Banham nell’immaginifica Atlantide di cemento (v. Banham [1986] 1990), composti da serie di volumi cilindrici in cemento armato che, intersecandosi, si fondono l’uno con l’altro; gli inauditi edifici-macchine rappresentati dagli ascensori navali di Niederfinow e Anderton; i pont trasbordeurs, i pont canal francesi e le altre “grandi macchine” dall’aspetto onirico e vagamente minaccioso (v. Gropius 1913, 17-22; Banham [1986] 1990, 107-171), fino al tema delle carrozzerie per veicoli civili e corazzati, dalle più svariate forme e usi: dalla locomotiva stile Impero, “lo stile del terrorismo rivoluzionario” (Benjamin [1982] 1986, 6) alle eleganti carenature aerodinamiche streamlined.
Questa genealogia di precursori pone in tutta evidenza un tema di fondo, lo zoom scalare che questi casi-studio propongono: l’architettura si dilata e si comprime a seconda dei casi in un macrocosmo e in un microcosmo morfologico consentito dall’alta plasmabilità del materiale grazie all’utilizzo di controforme in guisa di casseri dalle fogge sostanzialmente infinite, che offrono ogni volta soluzioni e declinazioni adattabili ai contesti, agli usi e alla durata che questi oggetti devono garantire.
Si tratta con ogni evidenza di una diversa Gestaltung fondata sull’idea che tutte le scale d’intervento - quelle dell’architettura, delle infrastrutture e degli oggetti – siano virtualmente ricongiungibili, in quanto portatrici delle condizioni per rapprendere al loro interno i vettori primari delle forme dell’uso ed essere così i ‘luoghi’ depositari dei valori morfologici seminali per affermare “la totalité perceptive infrangibile du projet” (Gubler 2008, 10). Tutto ciò trae a sua volta origine dalla vicenda storica delle declinazioni morfologiche con cui lo spazio primordiale-originario dell’interno fonda i propri presupposti alle diverse scale dell’oggetto e dell’architettura: dai sarcofagi antropomorfi – da quello in alabastro di Seti I che occupa un posto di primo piano nell’infinita collezione di John Soane, a quello in legno di Nemenekhamon conservato sull’isola veneziana di San Lazzaro - fino al guscio troncopiramidale dello Spitzmaus eletto a cult-object dal regista Wes Anderson e ai sarcofagi-gusci antropomorfi realizzati con la tecnica del cartonnage, come ad esempio quello perfettamente conservato di Nespanetjerenpere (945-718 a C.), realizzato grazie alla stratificazione di papiro misto a intonaco, lino, vetro, lapislazzuli e pigmento; dalle profondità degli ipogei e delle mastabe alla totalità plastica delle piramidi, dal Mausoleo di Augusto, che con i suoi 90 metri di diametro era all’epoca della sua realizzazione un’immagine solitaria e arrogante, totale e astratta, confitta nel mezzo dell’agro romano, ai cast dei modelli delle fortezze-decalchi collezionati nel parigino Musée du Plan-Relief, che ricostruiscono in scala 1:600 la complessità del paesaggio antropogeografico conteso tra natura e artificio; fino all’esteso catalogo di facciate cast-iron commercializzate dall’architetto e inventore di macchine per l’incisione di clichés per banconote James Bogardus, sofisticate sinopie neopalladiane-newyorkesi per edifici industriali, divenuti cent’anni dopo la loro costruzione ambiti interni-oggetti di desiderio, grazie alla genealogia degli iconici loft di SoHo occupati dagli artisti pop, dall’ironico Roy Lichtenstein al minimalista Donald Judd.
Si può quindi postulare l’esistenza di una genealogia di architetture e manufatti che individua l’origine dei bunker-sarcofagi di cemento armato in una cospicua serie storica di ‘precursori morfologici’, essi stessi edifici-macchine e oggetti-impronta di matrice industriale, che sembrano essere tutti accomunati dal principio-base della ‘materializzazione controllata’, da realizzare attraverso il sogno di nuove costruzioni permesse dal rapprendersi e dal solidificarsi in componenti e forme totali di materiali originariamente liquidi, quali la ghisa, i profilati d’acciaio e, ovviamente mediante l’elemento più plasmabile e ubiquo: il cemento.
Astucci fortificati: architetture primordiali tecnicamente avanzate
All’interno dell’estesa casistica che forma l’universo-bunker materializzato dalla politica paranoico-distruttiva del Reich nazista, si distinguono per la loro particolare rilevanza architettonica gli immensi ‘sarcofagi’ di cemento armato per sottomarini, realizzati dalla Organisation Todt nelle darsene interne dei porti, lungo il cosiddetto Vallo atlantico e laddove i sottomarini vengono costruiti (Brema, Amburgo e Kiel). Si tratta di oggetti del tutto diversi, sia dalla cospicua serie di reperti plasmati nelle più variegate morfologie che affollano le spiagge della Normandia e collezionate nella Bunker Archéologie che, salvo casi speciali, sono degli oggetti di scala contenuta, sia dai bunker urbani, in particolare i Luftschutzbunker, come nel caso berlinese del compatto e labirintico Reichsbahnbunker Friedrichstraße, con pianta centrale e scale leonardesche a rampe incrociate, progettato nel 1941 dall’architetto Karl Bonatz e costruito l’anno successivo sotto l’ispettorato generale di Albert Speer, o le imponenti Flaktürme confitte nel tessuto urbano di Wien-Stiftskaserne, Augarten e Arenbergpark, Hamburg-Heiligengeistfeld e Wilhelmsburg, Berlin-Tiergarten (distrutta) e Humboldthain (parzialmente demolita), costituite da tre corpi monolitici di cemento armato impilati secondo la sequenza basamento-fusto-coronamento, anch’esse realizzate all’inizio degli anni ’40 del Novecento. Salvo condizioni specifiche, tutti questi variegati bunker di superficie hanno in comune diversi principi e metodi di realizzazione.
Le diversità dei bunker per sottomarini rispetto ai casi che si sono sinteticamente richiamati sono quindi fondamentali, in quanto riguardano tutti i caratteri che li identificano come edifici-infrastrutture, nei quali sia gli aspetti statici, sia quelli dinamici determinati dalla movimentazione di veicoli - i sottomarini - e dei macchinari al loro interno rivestono la medesima importanza nella definizione dello spazio: la scala d’intervento, quindi le dimensioni sia degli interni, sia della massa plastica esterna; la morfologia complessiva; la specificità della distribuzione interna e le modalità di costruzione.
I bunker per sottomarini rappresentano quindi una vera e propria tipologia a sé stante, basata sul principio seriale delle campate di cemento armato accostate, tipologia particolarmente prolifica di declinazioni morfologiche e soluzioni tecniche studiate per proteggere i fragili gusci in pressione degli U-Boot negli enormi alveoli allagati o a secco.
Questi immani sarcofagi antiaerei vengono disseminati tra il 1941 e il 1945 da Brest a La Pallice, da La Rochelle a Saint-Nazaire, dalla Marine de Bordeaux fino allo smisurato caso di Lorient-Keroman; da Hamburg Elbe II e Finken II a Bremen Hornisse; da Kiel – Kilian e Konrad – a Helgoland-Nordsee III, su, fino a Bergen – Bruno – e Trondheim – Dora I e II (Paul Virilio include nel suo studio Bunker Archéologie un capitolo dal titolo Monuments du peril con alcune immagini delle basi per sottomarini di Saint-Nazaire e Lorient, con l’intento di metterne a confronto la scala ciclopica con la struttura urbana. Per una ricostruzione sintetica ma esaustiva della ‘cronologia breve’ che caratterizza la vicenda dei bunker per sottomarini, v. Williamson 2003, 32-50).
La surreale collezione di ‘astucci fortificati’ per sottomarini sembra così portare al limite estremo l’identità ‘meccanica’ della modernità, la sua intrinseca sistematicità, che si esprime attraverso la combinazione di atti creativi e distruttivi, i cui connotati specifici sono quelli della cosiddetta civiltà industriale. I bunker a piattaforma studiati per proteggere da ordigni esplosivi sempre più impattanti macchine navali fragili come i sottomarini - essi stessi carter costituiti da doppi scafi che celano spazi interni plasmati sui sofisticati meccanismi - trascrivono in una maniera del tutto speciale il principio del guscio, del sarcofago e del cartonnage, dell’impronta e dell’astuccio, perdurando nel paesaggio e nella memoria collettiva attraverso la loro sinistra e monolitica presenza.
Ma vi è un altro aspetto che segna la differenza con l’ampia casistica dell’universo-bunker. Questi interni-decalchi artificialmente lapidei che recano impressa la traccia indelebile di altri interni depositari di una precisa identità meccanica sembrano essere portatori di un’inaspettata connessione con l’architettura delle origini. Lo aveva già intuito Paul Virilio nel suo noto studio sui bunker del Vallo Atlantico, che egli ricolloca definitivamente nell’ambito dell’archeologia: “la persistance du site réunite ici l’architecture funéraire et l’architecture militaire” (Virilio 1975, 160). Questi bunker esprimono in particolare un’inquietante assonanza archeologica con le controforme scavate nel terreno, rappresentate dagli spazi sacri della Mesopotamia e dalle tombe predinastiche egizie, che insieme fondano l’origine della forma dello spazio abitabile, ben prima che gli architetti affrontassero il problema del come si sviluppa un volume plastico nello spazio (nel suo L’eterno presente. Le origini dell’architettura. Uno studio sulla costanza e il mutamento, Siegfried Giedion ha spiegato come la traduzione in spazio delle pratiche religiose protostoriche della Mesopotamia vedano, fino al terzo millennio, la nascita dell’architettura come puro spazio interno: “La creazione di un’architettura plastica, di un’architettura di volumi distribuiti nello spazio, divenne e rimase la più alta ambizione degli architetti nei tre millenni successivi”, Giedion [1964] 1969, 200).
Si tratta quindi unicamente di interni. Sotto questo profilo le analogie con gli ipogei primordiali sono evidenti anche se il tema della dimensione sacrale dal punto di vista del binomio militare-funerario si declina su piani del tutto inaspettati. È il tema dei bunker sotterranei, tra cui quelli che permangono tumulati negli inferi della capitale del “Reich millenario”, di cui il cosiddetto Führerbunker ubicato al di sotto della Vecchia Cancelleria e quello della maison di Joseph Goebbels, nell’area oggi occupata dalle 2.711 stele che coprono i 19.000 mq del Denkmal für die ermordeten Juden Europas.
Del resto è proprio Berlino il luogo in cui si sono notoriamente sperimentate svariate tipologie di costruzioni speciali per l’industria e di bunker in cemento armato, mediante l’esercizio incessante di variazione sul tema dello spazio interno, virtualmente privo di esterno. È il caso delle costruzioni sperimentali a metà strada tra edifici-infrastruttura e impianti tecnologici, come ad esempio il Großer Windkanal, realizzato nel 1930 a Berlin-Adlerhof da Brenner & Deutschmann grazie all’impiego di calcestruzzo rinforzato dello spessore di soli 8 cm con centine di rinforzo.
Furor mathematicus: il processo di materializzazione controllata
La relazione tra materiale e logica costruttiva ottimizzata per una produzione seriale che consente la ripetizione di un modello e delle sue intrinseche modalità di costruzione, giunzione e assemblaggio è testimoniata dal materiale totale utilizzato per la costruzione dei bunker per sottomarini: il cemento armato. Esso garantisce il legame tra la stabilità del loro assetto complessivo e la gravità, tra forma, ideologia e linguaggio. È un ‘processo di materializzazione controllata’ realizzato grazie alla logica-matematica che presiede alla loro progettazione in guisa di estese piattaforme, assemblate sulla base del principio della campata quale unità indeformabile del progetto, ‘astuccio pietrificato’ e coniugazione plastica tra ‘forma del vuoto’ e sezione quale colonna vertebrale del progetto.
L’ordinamento a griglia delle fondazioni sommerse su enormi pali dei bunker atlantici costituisce la ragione geometrica della pianta: quest’ultima e il sistema costruttivo sono interdipendenti. La logica della campata è utilizzata in modo primitivo e replicabile, essendo spogliata da qualunque significato che non sia il puro funzionalismo del contenere e del proteggere macchine complesse e fragili come i sottomarini. È dunque l’ordine protostorico delle strutture basato sui principi matematici di ordine, razionalità e regolarità che determina la forma di questi edifici-infrastrutture fortificate, la cui unità costruttiva è rappresentata dalle campate-alveoli nei quali ricoverare i sottomarini. Non è quindi più possibile stabilire una differenza significante tra interno ed esterno, essendo le grandi murature di cui questi bunker sono costituiti le due facce degli stessi elementi-vettore che determinano la loro forma complessiva: grandi lame-pareti e dalles di appoggio. L’aspetto di inaudite piattaforme monolitiche rostrate in corrispondenza degli accessi alle profonde cavità interne è segnato dalla loro stessa univoca materialità, documentata dalle superfici interne / esterne, che, come pagine di un libro di pietra, ‘narrano’ e testimoniano di come ogni elemento è stato costruito, conservandone le tracce che ne documentano la ‘memoria morfologica’: i casseri, il loro passo, la densità del mix-design del calcestruzzo, i sottolivelli, i nidi di ghiaia, le lacune, tutto ciò che è parte del linguaggio del cemento monolitico, esposto all’impatto delle bombe alleate, così come alla condanna alla lunga durata storica, al divenire archeologia di una “storia naturale della distruzione” (evocata dal titolo italiano di Luftkrieg und Literatur di Winfried Georg Sebald, v. Sebald [2001] 2004) sospesa in un inquietante ed eterno presente.
La forma complessiva di questi bunker, che si presentano come una serie di Schwerbelastungskörper, colossali corpi di carico che sembrano sfidare il limite estremo di resistenza dei fondali su cui poggiano, così come della stessa modernità e, in ultima analisi, la tenuta della civiltà occidentale di fronte al grado zero della cultura prodotto dall’ideologia nazionalsocialista del dominio basato sullo sterminio sistematico di ogni supposta diversità, ricorda per molti aspetti il bunker-plinto realizzato a Berlin-Tempelhof nel 1941 da Albert Speer per testare l’appoggio del delirante arco di trionfo da lui progettato. Questo, in quanto parte integrante del tripudio megalomane della Welthauptstadt Germania, la futura capitale del mondo, coi sui 117 m di altezza avrebbe dovuto essere di nove volte più esteso di quello di Parigi (per una trattazione della vicenda dei progetti di A. Speer per la trasformazione di Berlino in “Capitale del mondo”, v. Friedrich 2012).
Questi U-Boot bunker sono dunque tutti realizzati sul medesimo principio-base della ‘materializzazione controllata’ attraverso il principio che presiede al progetto: le smisurate colate di calcestruzzo necessarie per realizzarli si solidificano su una struttura a griglia matematicamente indeformabile. Ed è a partire da questa forma sempre più esatta e costruttivamente precisa, prodotta da un incontenibile furor mathematicus, che essi possiedono tutti una fissità monumentale che si declina nella coniugazione di materiale e scala d’intervento, ma anche nella valenza spaziale degli elementi specifici ‘fuori scala’, che ne caratterizzano l’impatto sul paesaggio attraverso le loro afasiche masse plastiche.
Si inverano così le immani piattaforme di appoggio e le gigantesche lame monolitiche che formano le pareti interne apparentemente prive di giunti; la scansione delle campate-alveoli con le spesse Panzertore corazzate in acciaio che ne proteggono gli accessi; le coperture nervate spesse fino a 7 metri, la cui orditura determinata dagli enormi Fangroste, griglie formate da serie di travi in cemento armato da 32 tonnellate poste parallelamente ogni 5-6 metri e ricoperte a loro volta da travi più sottili dall’estradosso stondato, in modo da far ‘scivolare’ le bombe ad alto potenziale Grand Slam e Tall Boy (rispettivamente da 10 e 5,4 tonnellate) negli interspazi che si formano tra le stesse travi, dissipandone così l’impatto distruttivo e lasciando le travi pressoché intatte.
Tutte le caratteristiche costruttive che traducono la ragione funzionale di questi edifici-sarcofagi declinano dunque i principi derivati da un metodo rigoroso e dall’ideologia che presiede l’obiettivo da raggiungere - il controllo militare dell’Atlantico - grazie alla spietata crudeltà del lavoro coatto, che comprende l’utilizzo efferato di manodopera schiavile. Ma il risultato non si limita all’efficacia funzionale del bunker come macchina bellica, raggiungendo, attraverso la violenza funesta che questi inquietanti eventi plastici sostanzialmente indistruttibili esprimono, una inaspettata qualità morfologica. Essa si invera nell’espressione non soltanto di un ruolo rappresentativo per nulla scevro da aspetti di ordine simbolico trasferiti sul piano della pura figurazione mitologica, ma anche da un’inedita dimensione monumentale ‘derivata’, in quanto esito e non premessa del processo di materializzazione controllata che presiede alla loro costruzione.
Costruzioni operative: geometria-tipo-programma
L’“exercise systématique de la variante” (Gubler 2008, 33) connota la cospicua serie di architetture protobrutaliste rappresentate dai lapidei bunker per sottomarini che ancora oggi si allineano nei bacini interni al Vallo Atlantico, la cui corteccia in cemento armato rivela al piano dell’acqua il gesto meccanico sempre ripetuto del “tipo della campata” (Id. 1985, 82). La forma complessiva di queste anomale architetture-infrastrutture è, come abbiamo tentato di precisare, impressa nella sequenza di lunghi alveoli in cemento armato accostati, che formano immani astucci per navi subdole e particolarmente complesse, macchine da guerra altamente letali. In queste costruzioni si invera così un’inattesa disputa tra modello e tipo, unità semantiche che in questi bunker del tutto speciali, strutturalmente contesi tra terra e mare, tendono a coincidere nel principio di ciò che potremmo definire ‘costruzione operativa’, realizzata su una base geometrica, fondata sulle ragioni dimensionali degli U-Boot e sulle tolleranze imposte dalla manovra degli stessi al loro interno, nonché dalla variabilità d’uso degli alveoli che li ricoverano, che possono all’occorrenza essere prosciugati per diventare dei cantieri in guisa di dry-dock.
Questo tipo a piastra, composto da campate-alveoli realizzate da enormi lame di calcestruzzo accostate, comprende una serie di varianti, tutte basate sull’articolazione del principio di assemblaggio delle parti in funzione della specificità dei siti e degli usi di supporto per effettuare sostituzioni e riparazioni, oltre che alla complessità delle dotazioni impiantistiche, negli ultimi esempi particolarmente ingombranti. Quindi se da un lato l’esattezza matematica del principio-base rappresenta l’invariante, le soluzioni specifiche adottate nella lunga serie di realizzazioni testimoniano di un’adattabilità pressoché illimitata del tipo a campate accostate alle più svariate condizioni contestuali.
Questa inattesa “concomitanza figurativa di pianta e sistema costruttivo” (Gubler, 2008, 76) distingue un tipo, quello dei bunker per sottomarini apparentemente privo di qualsivoglia identità espressiva, che, al contrario, emerge drammaticamente dalla materialità al contempo laconica e terribile che connota la valenza gigantesca delle masse plastiche di queste ‘costruzioni operative’. Come nel caso della fantomatica fabbrica di sottomarini codificata come Bunker Valentin, realizzata tra il 1943 e il 1945 a Bremen-Farge, che con i sui tredici Tackplätze di assemblaggio, costituiti da 3+1 campate accostate, raggiunge uno sviluppo lineare di circa 426 metri, con una sezione trasversale di 96 e un’altezza di 33, su murature di circa 4,5 metri di spessore, il tutto realizzato con un getto totale di circa mezzo milione di metri cubi di cemento armato rinforzato.
Questo ciclopico sarcofago che si staglia in mezzo al nulla e che, come ogni fortezza che si rispetti, si sviluppa di sbieco rispetto all’alveo del fiume Weser, è all’esterno totalmente privo di caratteri architettonici. Non ne ha bisogno: l’idea stessa dell’edificio è qui soppiantata dal principio del guscio primordiale, che esprime la propria presenza totale nel paesaggio circostante unicamente attraverso l’impatto del fuori scala prodotto dalla sua gigantesca massa volumetrica. Il monolito cela un interno che è niente altro che puro spazio cavo, dimensionato per movimentare le sezioni precostruite dei sottomarini, da assemblare e varare in acqua attraverso un apposito alveolo laterale, collocato al termine della smisurata catena di montaggio. Essa ha lasciato dietro di sé il paradosso della traccia di ciò che non vi è mai stato. In questa sequenza di forme del vuoto accostate restano impresse nelle murature le tracce dei macchinari che vi avrebbero dovuto trovar posto. Gli scassi impressi nel cemento armato, i sottolivelli e gli elaborati negativi di forma geometricamente perfetti ancora leggibili nelle murature sono tracce di usi mai avvenuti.
Oltre all’immane scala d’intervento, questo oggetto dall’aspetto surreale è caratterizzato esso stesso dal principio del montaggio, testimoniato in particolare da un sofisticato sistema di chiusura sommitale, che si compone di una serie di enormi Deckenträger, capriate ad arco ribassato in cemento armato prefabbricato, realizzate con centine precompresse a sezione tonda dello stesso tipo utilizzato per il bunker di Kiel-Kilian.
Va ricordato che l’opera, come altre di questo genere, fu realizzata secondo la pratica criminale nazista della cosiddetta Vernichtung durch Arbeit - lo sterminio attraverso il lavoro - da circa 10.000 prigionieri di guerra, internati nei sette campi di concentramento ubicati nei dintorni, tra i quali il K.L. Neuengamme presso Amburgo. Almeno 1.600 di loro persero la vita durante la realizzazione di quest’opera inutile. Come i sottomarini che vi si sarebbero dovuti produrre attraverso una vera e propria catena di montaggio - il cosiddetto tipo XXI, l’Elektroboot, il più avanzato sotto il profilo tecnologico - il Bunker Valentin non entrò mai in operatività.
Pesi e misure
Le connessioni morfologiche e funzionali che definiscono l’inaspettata somiglianza tra bunker di cemento armato che alloggiano macchinari di movimentazione per navi e piazze di manovra per grandi veicoli è un denominatore comune nelle aree industriali avanzate d’Europa a partire dagli anni ’30 del Novecento. Ne è un esempio particolarmente significativo una struttura molto simile a un bunker per sottomarini, sia per caratteristiche tipologiche (le campate accostate), sia costruttive, sia sotto il profilo del suo allestimento con macchinari di movimentazione e sollevamento vagoni, costruita nel 1931 nel basamento di cemento armato che, al di sotto del piano dei binari della Stazione Centrale di Milano, ospita l’invisibile area di manovra postale di 35.000 mq, non a caso utilizzata dai nazifascisti tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 come scalo delle deportazioni di ebrei e oppositori politici, oggi in parte destinata al Memoriale della Shoah.
Del resto, è difficile comprendere il tema del principio matematico di conformazione dei bunker per sottomarini sotto il profilo delle loro relazioni funzionali, se non se ne considera l’intrinseca valenza macchinista, ovvero l’attitudine a inglobare nelle proprie strutture sofisticati impianti di ventilazione e di produzione e distribuzione di energia, oltre agli impressionanti dispositivi progettati per trasbordare i sottomarini al loro interno, alloggiarli, approvvigionarli e ripararli, al fine di garantirne il funzionamento quali armi navali di distruzione, complete e autonome. Il tipo del bunker per sottomarini rappresenta quindi una declinazione del tutto speciale dell’Arcadia delle macchine.
Dall’orizzonte degli artificiali paesaggi dall’aura primordiale dei ‘navalorami’ disegnati dai complessi di bunker che compongono le gigantesche basi per sottomarini atlantiche, emergono in particolare due casi-studio particolarmente rilevanti. Il primo è l’inusitata base di Brest, ubicata di fronte alla preesistente Accademia Navale in due blocchi a piastra accostati, leggermente slittati tra loro, che è, sotto il profilo della costruzione unitaria, il più grande tra i bunker per sottomarini nazisti realizzato.
Il secondo caso è rappresentato dalla base di Lorient-Keroman, quella in assoluto più estesa, costituita da un vero e proprio arcipelago di bunker per sottomarini di diversa tipologia e dimensione, tra cui emergono tre enormi bunker a piastra, di cui due a secco. Oltre all’eccezionale scala d’intervento che nell’insieme li diversifica da ogni altro bunker realizzato per la Kriegsmarine nazista, questi edifici hanno rappresentato occasioni per reinventare una serie di macchinari di movimentazione navale desunti non solo dal mondo dell’industria - i grandi carri-ponte ubicati nella parte sommitale degli alveoli - ma in particolare, come abbiamo accennato, dal mondo degli scali ferroviari, da cui in questo caso sono stati desunti gli immani carrelli su binari e le piattaforme girevoli con cui movimentare i sottomarini.
Nell’allucinato microcosmo rappresentato dagli oltre 60.000 mq di superficie della base di Lorient, radicata nel bacino interno del porto dell’ex sede della Compagnia delle Indie occidentali, il complesso di bunker della penisola di Keroman formato dai bunker I e II presenta la caratteristica di essere completamente a secco: gli U-Boot venivano sollevati, uno a uno, su di un’invasatura mobile che li traslava dalla superficie della darsena all’interno di una galleria di trasferimento lunga 160 metri che immette in un esteso piazzale di manovra. Qui i sottomarini erano movimentati su di un gigantesco carro-ponte lungo circa 48 metri, che muovendosi su 8 binari paralleli si allineava agli alveoli accostati che formavano i due corpi di fabbrica del bunker, rispettivamente da 120x85x18,5 metri (5 alveoli) e 138x120x20 metri (7 alveoli), nei quali le navi venivano inserite grazie a invasature metalliche mobili, trainate anch’esse su binari. Gli alveoli venivano poi chiusi ermeticamente da giganteschi portelloni pivotanti in acciaio, costruiti essi stessi in guisa di doppi scafi, sostenuti da un’orditura interna di travi. L’intera operazione di alaggio e traslazione di un U-Boot da circa 1.000 tonnellate richiedeva circa 2 ore.
Il bunker III, con tipologia simile a quelli di Brest (332x192 m), Saint-Nazaire (155x25x14 m), La Pallice (192x165x10 m) e Bordeaux – caratterizzato da massicce torri troncopiramidali sugli spigoli per alloggiare gli armamenti antiaerei –, è fondato direttamente in acqua, con accesso diretto ai sette alveoli, due dei quali arretrati rispetto agli altri, e risulta ruotato rispetto all’asse della penisola di cui costituisce il caput fortificato. Il programma di costruzione avrebbe dovuto essere completato da un ulteriore bunker, il IV, di cui restano i piloni di fondazione di fronte al complesso Keroman II del quale doveva costituire l’estensione.
Et in Arcadia ego: sarcofagi post-apocalittici
Nell’inquietante panorama post-apocalittico dei bunker atlantici, la genealogia delle basi per gli U-Boot nazisti ha prodotto una serie di oggetti contundenti e smisurati, dall’apparenza arcaica, che ripropongono uno dei temi-chiave confitti nel dibattito sulla modernità: “misurare la tensione tra un leggendario inizio della storia e una sua fine altrettanto leggendaria” (Benjamin [1982] 1986, 621).
Questi singolari eventi plastici testimoniano al contempo di una drammatica regressione socioculturale e di uno zoom scalare paradossale - il gigantesco e il particolare coabitano in un equilibrio monumentale indissolubile - la cui suggestiva fenomenica militare-industriale si colloca agli estremi limiti della modernità, sul confine del suo stesso nucleo fondamentale, quello che chiamiamo civilizzazione. Essi continuano ad affiorare dall’inconscio collettivo come una mémoire involontaire dai contorni fatali, rappresentandosi non solo quali ingombranti e problematici resti di una storia ancora in gran parte rimossa e al contempo eternamente presente, ma come fenomeni architettonici del tutto peculiari. Sono reperti derivati da una specifica forma di tecnicismo sincretico che più che offrire risposte sui temi della necessità e del significato, perdurano nel proprio enigma, continuando a porre un’interrogazione circa la loro possibile interpretazione disciplinare, sistematizzazione archeologica e ricollocazione critica.
Al di là dell’illusione funzionale ed efficientista che fonda la loro controversa identità fossile di monuments du péril (Virilio 1975, 121), queste costruzioni estreme che irrompono nel presente dall’interno della modernità sono ‘documenti di pietra’ che testimoniano, ancora una volta, di come l’architettura prodotta dal nazismo abbia travolto anche i confini dell’etica della costruzione, di cui l’idea matematica di purezza, calma e proporzioni dovrebbe essere sempre portatrice. Ma è proprio grazie a ciò che si rende possibile l’interpretazione dello scarto concettuale che scaturisce dal loro essere costruzioni morfologiche ‘bipolari’, al contempo abitabili e inabitabili, declinandosi ambiguamente nel mondo dell’architettura delle infrastrutture e rappresentando l’epilogo del rapporto interno-esterno, nei termini specifici di controforme dal potenziale nascosto e dai confini surreali. Gli interni dei bunker per sottomarini si presentano, così, come se fossero costituiti da cavità prive di lati esterni o, forse, in cui l’esterno appare ribaltato nell’interno e in tal modo annullato. Sono spazi incassati in forme assolute e virtualmente indeformabili, in cui l’esperienza della transizione dalla dimensione ‘cieca’ delle navigazioni in immersione alla concretezza geografica della terra ferma avviene secondo il ‘rituale meccanico’ della loro traslazione-inumazione dalle soglie d’acqua fortificate nella profondità degli alveoli-sarcofagi dalle cortecce indistruttibili, che fanno scomparire le forme e la vita di cui è fatto il mondo in un microcosmo interiore funerario, ‘perfetto’ e totale. Ed è per questa loro caratteristica al contempo onirica e sinistra che la materialità violenta e la ‘monumentalità indiretta’ di cui sono portatori attraverso un'inedita declinazione del rapporto tra mito e immagine identifica questi mastodontici sarcofagi monolitici come rovine di una modernità post-apocalittica, sempre più allontanata in una dimensione estetica che tende pericolosamente a scioglierli dal loro contesto storico, trasformandoli così in giganteschi cabinets des mirages dotati di una propria inquietante autonomia.
Le basi per sottomarini appaiono dunque, più che delle opere da ricollocare storicamente, delle ‘costruzioni a posteriori’, perché necessitano di essere ‘ricostruite’ criticamente. Esse sono infatti come sospese in una sorta di limbo fatale, per sempre conteso tra progresso e barbarie, tra geografia e storia, tra perentoria immobilità e ritmo sincopato della cinematica macchinista, tra esposizione totale e ancoramento a un suolo sommerso, invisibile in virtù della sua variabilità liquida; così come tra vuoto e pieno, forma e contenuto, ideologia e linguaggio, astuccio su misura e cast industriale ripetibile. Nella loro ambigua relazione tra contenitore e contenuto gli U-Boot bunker perdurano così nell’immaginario collettivo e nel paesaggio europeo, riproponendoci una fondamentale domanda sul significato del rapporto tra architettura, tecnica e finalità: cosa contiene cosa?
Archivi
- Archiv Dyckerhoff & Widmann AG, Kiel
- Das Bundesarchiv, Koblenz
- ECPAD - Agence d’images de la Défense, Ivry-sur-Seine
- Imperial War Museum, London
- Stadtarchiv, Kiel
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English abstract
Re-thinking the theme of the bunker means first of all reflecting on a habitable space transformed into pure technological counterform. This paradoxical topic questions all the categories that have historically given life to interior space: the sizes and materials adapted to human uses, the idea of comfort, and the dialogue with context. A subsequent fundamental question arises: how did we get here? Bunkers are created by the development of construction techniques due to the systematic use of two fast-setting materials: reinforced concrete and steel. Furthermore, a sophisticated design of containers for mechanical apparatuses with atypical shapes and increasingly large dimensions developed. The theme of the special container dimensioned on the machines is the expression of the Benjaminian universe of the interieur, of the cases and of all the morphological figures based on the principle of the memory of the imprint. These boxes, thanks to the ductility and lightness of the steel constructions, can expand and become Passages, dreamlike figures that create sophisticated spatio-temporal mirages, optical-perceptual instruments of the relationship between memory and modification. Concrete constructions also respond to the need to give shape to industrial architectures characterised by the transit of the vehicles they house: dry docks as counter-forms of ships, large railway stations, and hangars for airships. This process originates from the morphological declinations of original interior space at the different scales of the object and of architecture: from the anthropomorphic sarcophagus of Tutankhamon to the cartonnages of the Ptolemaic period. It is therefore possible to trace a genealogy of architectures and artefacts of reinforced concrete bunker-sarcophagus in a variety of morphological precursors, themselves buildings-machines and objects-imprints of industrial matrix. And it is because of this characteristic, both oneiric and sinister, that the violent materiality and 'indirect monumentality' of which they are bearers, through an unprecedented declination of the relationship between myth and image, identifies these mastodontic monolithic sarcophagi as the ruins of a post-apocalyptic modernity, increasingly distanced in an aesthetic dimension that tends dangerously to dissolve them from their historical context, thus transforming them into gigantic cabinets des mirages endowed with their own disturbing autonomy.
keywords | Submarine Bunkers; Interiors as Counterforms; Morphological Precursors; Technics and Civilization; Post-apocalyptic Ruins.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Morpurgo, Dall’astuccio al bunker. L’interno-sarcofago come controforma della macchina-sottomarino: cosa contiene cosa?, “La Rivista di Engramma” n. 185, ottobre 2021, pp. 137-172 | PDF