“There is not even silence in the mountains
But dry sterile thunder without rain
There is not even solitude in the mountains
But red sullen faces sneer and snarl”
(TS. Eliot, The Waste Land)
Le montagne dell’Arco alpino orientale mostrano diversi ‘paesaggi’: il primo, fortemente variegato grazie alle molteplici essenze arboree; il secondo, connotato da una forte plasticità per le diverse dimensioni e forme delle alture; il terzo, con una stratigrafia obliqua data dalla strana disposizione delle superfici rocciose che hanno variato la loro posizione a causa degli eventi tellurici susseguitisi nel corso degli anni. In queste alture, principalmente costituite da arenarie, dolomie, siltiti, argille e calcari, si inserisce un materiale che non corrisponde alla loro genesi geologica, il cemento armato. È proprio questo composto il primo testimone della storia della costruzione della maggioranza dei bunker realizzati a ridosso del Secondo conflitto mondiale come parte integrante della linea difensiva detta ‘Vallo alpino del Littorio’ che si estendeva da Ventimiglia sino a Fiume.
La rete di queste costruzioni belliche costituisce un’infrastruttura, collegata in tutti i punti, che potrebbe essere definita come una delle più importanti stratificazioni montane del Novecento, in antitesi con quanto avviene in un contesto urbano dove gli ambienti ipogei appartengono a periodi tra loro distanti, si pensi ad esempio alla Napoli sotterranea. A questa rete si sovrappone la rete delle infrastrutture militari di plurima fattura che furono costruite nei primi anni del secolo scorso prima e durante la Grande guerra (linee di trincee, strade, mulattiere, sentieri, resti delle ferrovie a scartamento ridotto) e il complesso dei presidi militari e logistici. Si aggiunge altresì il cospicuo numero delle strutture atte alla formazione dei giovani soldati come le caserme e i campi di addestramento dei diversi corpi d’armata che sino a pochi anni fa erano ancora di proprietà militare e pertanto recintati, inviolabili e nascosti in tutte le ricognizioni aeree e cartografiche. Per di più, essendo questo un territorio di confine, si devono sommare a quanto sopra citato le molte costruzioni atte al presidio dei valichi di frontiera con la Slovenia e con l’Austria. Con gli accordi di Schengen e la fine della leva obbligatoria è iniziata la cessione delle aree militari ai comuni, cessione che ha evidenziato le poderose dimensioni che queste hanno se rapportate alla misura del territorio su cui insistono. Questo è diventato un vero problema socioeconomico che ha sollevato e tutt’ora solleva esacerbati dibattiti, in quanto il Friuli e la Venezia Giulia sono sempre stati territori fortemente militarizzati, controllati e presidiati e gli ‘allora’ beni militari sono ora difficilmente trasformabili viste le loro misure e altrettanto difficilmente gestibili, anche nel caso di aree in ambito urbano, poiché la bonifica del suolo, in cui si celano mine, proiettili, possibili serbatoi di combustibili e molto altro ancora, diventa evidentemente la fase iniziale di qualsivoglia altra operazione di riconversione.
A tutto questo si aggiungono le meno evidenti costruzioni del Vallo Littorio che coinvolgono principalmente la zona montana della regione e perciò la loro valorizzazione diventa una questione di minore urgenza.
Camminando in questo diversificato paesaggio è molto frequente imbattersi in strutture ‘per la guerra’ che si confondono con la natura dei luoghi, essendo poco evidenti dato che, nelle parti fuori terra, vennero costruite per non essere immediatamente visibili e non producono un immediato problema di ‘decoro’ urbano e montano. Queste strutture, peraltro, stanno progressivamente subendo un processo di rinaturalizzazione, infatti frequenti e consueti sono gli smottamenti dei versanti a cui si aggiungono gli altrettanto frequenti dissesti sismici. Al di là del terremoto del 1976, tristemente noto alle cronache, la faglia o le faglie, a seconda della diversa interpretazione di settore, che attraversano l’area del Medio-Alto Friuli hanno un’importanza e una valenza ragguardevole e per la pericolosità e l’intensità dei dissesti e delle attività vengono paragonate dai geologi alla più famosa faglia di Sant'Andrea. Le recenti ricerche condotte a livello nazionale (microzonazioni sismiche e analisi delle condizioni limite per l’emergenza) hanno coinvolto numerosi studiosi e hanno evidenziato e rendicontato il grado di sicurezza del patrimonio edilizio collettivo. Da tutto ciò è emerso che in questa parte dell’Italia, pur rispettando i criteri costruttivi imposti dalla normativa negli anni ’80, la stragrande maggioranza degli edifici pubblici e delle strade individuate dai piani di emergenza quali vie d’esodo ricadono in aree a rischio sismico e/o idrogeologico. Il paesaggio è qui disseminato da innumerevoli borghi, frazioni e micro centri abitati sui vari versanti, collegati tra loro da un unico tracciato che comunque ricade in aree segnalate come pericolose (con rischi elevati di dissesto idraulico e sismico) e frequentemente interessate da frane.
In questo scenario la conformazione dei bunker del Vallo si oppone alla naturalità geologica e geomorfologica della sostanza dei luoghi. Al contempo, però, si inseriscono in profondità tra le rocce scavandole e adattandosi alla loro durezza. Attraversano i versanti, talvolta collegandoli, e scendono di vari metri appropriandosi degli strati più intimi delle montagne, per poi fuoriuscire con modesti e camuffati affacci da cui si scorge il tripudio del paesaggio. Da un punto di vista territoriale sono dei punti che si uniscono tra loro “passando sopra un numero indefinito di strati” (Pizzigoni 2020, 156) attraverso percorsi fisici e visivi e ridisegnando in modo preciso e strategico parte del paesaggio in quota. Tutte queste strutture militari sono costruite per sorvegliare una parte di territorio, difenderlo e controllarlo e al contempo distruggerlo in caso di attacco nemico. Distruzione e costruzione rappresentano realtà antinomiche che coesistono nella maggior parte dei manufatti di guerra in cui il progetto di realizzazione, come nel caso dei ponti, viene redatto contemporaneamente al progetto di abbattimento. E lo stesso accade anche ai paesaggi sorvegliati da queste celate e possenti sentinelle, le quali sono però escluse dall’idea di distruzione. I bunker, infatti, nascono proprio come opere permanenti: ne è la prova la struttura e il materiale che li forgia, la profondità dei muri, la quantità di ferro e cemento. Sono sorti per durare nel tempo aspirando all’inespugnabilità e oggi costituiscono una parte rilevante del paesaggio montano.
L’approfondimento del tema nonché la selezione dei bunker di seguito descritti trovano la legittimità nella scelta dell’ambito di riferimento, poco conosciuto, studiato e valorizzato, la Carnia, territorio che comprende la parte superiore del bacino idrografico del fiume Tagliamento, i cui principali affluenti sono il fiume Fella e i torrenti But, Degano e Lumiei, e include la valle del But, la val Degano, la valle Chiarsò, e la val Pesarina. La Carnia appartiene ad un più vasto sistema morfologico, geologico e paesaggistico che si estende sino alla Carinzia e alla Slovenia prescindendo dai confini amministrativi nazionali.
A onor del vero, queste montagne e i loro piccoli centri abitati, pur avendo avuto un ruolo importante nelle diverse epoche, sono stati da sempre relegati ad un ruolo marginale dalle cronache e dalle narrazioni storiche. Quindi anche gli sbarramenti ‘mediani’ e non di prima linea, come nel caso delle costruzioni del Vallo, sono stati raramente approfonditi e valorizzati, come pure i resti degli abitati romani, le pievi, le varie postazioni militari della Prima e Seconda guerra mondiale e altro ancora. In questi luoghi le più rilevanti modifiche del paesaggio sono state determinate dai frequenti e consueti dissesti sia sismici che idrogeologici, non ultima la tempesta Vaia.
In questo scenario la scelta di raccontare due diversi bunker, la cui la documentazione storica presa in esame è risultata incompleta ed esigua perché probabilmente ancora in parte celata in qualche polveroso archivio militare, è motivata da fattori diversi tra loro, sebbene aventi un comune denominatore individuato nella mancata o parziale valorizzazione.
Il primo caso descritto pone l’attenzione sul connubio tra architettura militare e geologia, connubio talmente evidente che determina il suo plusvalore ma anche la precarietà e rendiconta una straordinaria conformazione dello spazio tra luci, ombre, forme della natura e dell’artificio. Questa struttura verosimilmente non verrà mai recuperata a causa dell’aumento esponenziale di ogni tipo di operazione, dalla messa in sicurezza al consolidamento, proprio per la presenza di una cavità geologica (una forra) e di un’opera in caverna. Nel frattempo il processo di rinaturalizzazione degli spazi ipogei, e di quelli fuori terra, attualmente in atto, diverrà un fatto probabilmente irreversibile.
L'altro caso preso in esame si trova nei pressi di Villa Santina, dove esistono e in parte sono stati messi in valore (senza grande successo turistico) i resti di una basilica paleocristiana e romana, divisa dal Tagliamento da due ‘opere in caverna’, una delle quali, quella di seguito raccontata, è stata oggetto di un progetto di tutela e di conservazione dell’architettura fortificata nel 2009 che ha trovato realizzazione ma che pone delle evidenti difficoltà di gestione e di fruizione turistica.
Il termine ‘bunker’ non si trova nei manuali di guerra, né nelle circolari emesse dal governo. Qui la dicitura utilizzata era ‘opere’, ‘in caverna’ o ‘in vista’, e queste erano classificate a seconda delle dimensioni, della gettata delle armi e del numero degli uomini che dovevano contenere. Queste architetture militari, essendo lo scrigno di “objets techniques” (Simondon 1958, passim), hanno una peculiare valenza estetica, seppur brutale.
Spostando il punto di vista e guardando dal territorio individuato quale possibile campo di battaglia, si scorgono punti scuri, che sono le parti dei bunker fuori terra del tutto inserite nei pendii, senza accenti e difficilmente distinguibili dalle grotte naturali.
Affinamento della tecnica
I primi bunker furono creati durante il Primo conflitto mondiale, ma lo svolgersi delle battaglie consentì quasi esclusivamente delle costruzioni provvisorie in pietra e legno di modeste dimensioni. Non si riscontrano progetti definiti in tutte le loro parti. Alcune di queste postazioni sono ora visibili nel territorio del Carso goriziano e fanno parte dell’Ecomuseo della Grande guerra.
Solo successivamente e in tempo di pace, fu progettato il sistema costruttivo dei bunker. Questi furono dimensionati a seconda dello Sbarramento e delle armi che avrebbero contenuto. Furono decisi la scansione degli spazi interni, i sistemi di ventilazione, di illuminazione, di trasporto dei feriti, di approvvigionamento e tutto quello che era inerente alla loro funzione.
Il 6 gennaio 1931 fu emanata la ‘Circolare 200’ dal Comando del Corpo di Stato Maggiore - Ufficio Operazioni’, la quale descriveva precisamente come e dove dovevano essere costruiti gli sbarramenti di montagna. Dopo questa circolare ne seguirono altre tre, sempre finalizzate al perfezionamento delle costruzioni dei centri di resistenza e alla tecnica costruttiva da utilizzare (Circolare 300 del 5 marzo 1931, Circolare 7000 del 3 ottobre 1938, Circolare 15000 del 31 dicembre 1939).
Secondo quanto decretato dai vertici governativi, attraverso ordini diretti e disposizioni, il sistema difensivo doveva essere composto da due fasce di territorio, attive e pronte a difendere il territorio da un attacco nemico, essendo collocate prevalentemente lungo l’allora confine tra gli stati. La prima di queste era composta da fortificazioni permanenti (qui si inseriscono i bunker propriamente detti, i centri di resistenza armati e adibiti ad accogliere batterie di piccolo calibro), la seconda presentava fortificazioni campali per l’artiglieria (qui sorgevano i ricoveri per le truppe e i ricoveri per gli appostamenti allo scoperto). Tra le due fasce si trovava una zona di sicurezza, e in posizione più arretrata erano collocati le riserve per le munizioni, i ricoveri per le truppe e gli osservatori.
I bunker si prefiggevano l’invulnerabilità, difatti dovevano essere costruiti in modo da ricavare tutti gli spazi necessari ‘in caverna’, cosicché le postazioni potessero essere mantenute all’interno. L’ingresso doveva essere accuratamente protetto e presidiato, le bocche di fuoco posizionate “in un masso di roccia oppure in un blocco monolitico di calcestruzzo” (Comando del Corpo di Stato Maggiore 1931). In linea generale, tutte le strutture a cielo aperto dovevano essere addossate a cocuzzoli in terreno ordinario o roccioso in modo da mimetizzarsi al meglio con le caratteristiche geomorfologiche del territorio circostante. Per essere delle macchine da guerra indistruttibili all’attacco dei nemici, i loro muri erano costruiti in cemento armato con uno spessore che variava da tre sino ai cinque metri e questo valeva anche per le parti ‘emerse’.
Alternanza dei lavori
I lavori di costruzione del Vallo alpino del Littorio iniziarono il 15 dicembre del 1939 per ordine del Generale Edoardo Monti; negli anni immediatamente seguenti subirono parecchie battute di arresto e nell’ottobre del 1942 finirono per essere definitivamente interrotti. La cosiddetta “linea del non mi fido” (Bernasconi, Muran 2009, 118), che Mussolini continuò a voler costruire di nascosto anche dopo aver stabilito le coalizioni definitive, veniva così chiamata poiché era ritenuta dai vertici del governo tedesco un oltraggio all’alleanza. In ogni caso la linea rimase sempre presidiata e vigilata, anche se il ritmo dei lavori di costruzione variò. Nell’incertezza delle sorti delle alleanze l’11 luglio 1940 il Duce ordinò che il programma fortificatorio previsto nei Settori I-II-III si concludesse entro il 1941. Tre giorni dopo le decisioni cambiarono: fu ordinato il prosieguo delle costruzioni con un ritmo di ‘normalità’ e i tempi di consegna per l’ultimazione si dilatarono da due a quattro anni. Successivamente, nella primavera del 1942 si riprese a lavorare a pieno regime, ma la mancanza di materie prime rallentò nuovamente i cantieri. Fu proprio questo che indusse il generale Ugo Cavallero a iniziare la ‘crociata del ferro’, per accaparrarsi tutto il prezioso metallo e il rame ancora disponibili nel paese, senza risparmiare neanche i cancelli delle abitazioni (Cavallero 1948). La sospensione definitiva non tardò ad arrivare e l’ordine fu emanato il 4 ottobre del 1942.
È, d’altra parte, evidente che in pieno regime fascista un tale spiegamento di forze non potesse comunque concludersi senza una adeguata coreografia. Fu così che per ordine dei vertici governativi italiani il 30 agosto 1942 dalla casa del Fascio di Mentone fu dato il via alla Staffetta Alpina del Vallo Littorio, una gara alpinistica a tappe, organizzata dal Comando Generale della Gioventù Italiana del Littorio, che si estendeva lungo un percorso di 2400 km con un dislivello complessivo di 218.000 metri, implicava il superamento di ben 59 vette nel corso di 865 ore di marcia e si concludeva a Fiume (Bernasconi, Muran 2009, 128-129).
In seguito alla costituzione, promulgata il 18 settembre 1943, della ‘Zona Operazioni Prealpi- Litorale Adriatico’ e all’annessione al Reich di tutto il Friuli, l’Istria, il Quarnaro e delle province di Bolzano, Trento, Belluno, si pervenne anche ad un riutilizzo delle opere costruite da parte dell’esercito tedesco.
L’idea espressa dal Generale Erwin Rommel consisteva nella realizzazione di una linea difensiva che inglobasse al suo interno il sistema di fortificazioni ‘Alpenfestung’ già pronto per l’utilizzo. Ma il Generale Kesselring, divenuto Comandate Supremo delle forze germaniche in Italia, fu di parere contrario e, giudicando le fortificazioni esistenti insufficienti a contrastare una eventuale avanzata degli alleati, ordinò il potenziamento di queste ultime con la costruzione di ulteriori linee difensive quali le linee Barbara, Reinhard, Gustav, Cesare, Hitler e Albert.
Le costruzioni del Vallo fecero parte anche della linea prealpina di Rommel, denominata Blaue-linie, che aveva inizio al Passo dello Stelvio, passava attraverso la parte settentrionale del Lago di Garda, attraversava la valle dell’Adige e, risalito il massiccio del Pasubio, giungeva nella valle del Piave, a Longarone, per poi scavalcare i monti del Vajont, e concludersi in Friuli (Bernasconi, Muran, 2009, 184).
Ma se il desiderio dei tedeschi era, in un modo o nell’altro, di riutilizzare questo sistema di opere, questi non avevano tenuto conto del fatto che sarebbero stati necessari ingenti lavori di ristrutturazione, e pertanto l’ultima linea di difesa del Reich furono linee fortificate campali.
Al termine della Seconda guerra mondiale questo sistema difensivo fu riattivato di nuovo e addirittura ampliato dall’Esercito Italiano, soprattutto sul fronte Orientale, per timore di un’invasione sovietica. Tutti i presidi militari che ricadevano entro i confini italiani divennero nuovamente operativi e furono costruiti ulteriori bunker. Questa linea di difesa, in parte rinnovata, rimase presidiata e sorvegliata durante il periodo della Guerra fredda, nei quattro decenni che precedettero la caduta del muro di Berlino, e fu smantellata e abbandonata solo nel 1993.
L’ultima implementazione del sistema avvenne al confine tra Italia e Austria a metà degli anni ’80, quando furono realizzate nuove postazioni che sostituivano quelle compromesse dalla realizzazione dell’autostrada e dal potenziamento della linea ferroviaria, in modo da ottenere la stessa capacità difensiva e offensiva (Cappellaro, Chiaruttini 2015, 65).
Colonizzazione delle montagne
Osservando le montagne friulane è difficile individuare tanto la linea degli sbarramenti quanto il colossale lavoro di infrastrutturazione che coinvolse questi luoghi, infatti i bunker ‘in vista’ furono nascosti con la tecnica del camuffamento.
Come asserisce Cohen, “camouflage is related to strategies found in the animal kingdom” (Cohen 2011, 187). L’autore mette in luce la stretta relazione con il mondo animale che adotta la mimetizzazione come arma di difesa. In questo caso la difesa era data dall’opera costruita ‘in grotta’, da una vestizione delle parti emerse che usava riporto di terreno, piantumazione di arbusti o altre tecniche e che si fondava sul sapere dell’architetto militare. I disegni che rappresentavano i bunker in alta quota erano diversi da quelli che li vedevano collocati in contesti urbani, i primi non necessitavano di prospetti ma solo di piante, di sezioni, di strategie di collocazione e tipi di mascheramento.
Anche il Ministero della Guerra precisava, attraverso documenti e schemi costruttivi, in che modo celare le parti che potevano essere visibili. Il principio perseguito consisteva nel ripristino dei terreni e nella conservazione dello strato superficiale di questi in vista del suo riutilizzo, nella costruzione di rocce artificiali simili a quelle del sito, nella predilezione a utilizzare forme irregolari per feritoie, ingressi e simili, e nello sfruttare la contropendenza del versante per la costruzione così da permettere di immergervisi in modo più efficace.
Dall’ottobre 1942 al luglio 1943 i lavori del Vallo al confine con la Germania furono continuati dai tecnici del Genio dei Corpi d’Armata territoriale competenti e fu istituito il ‘Nucleo Mascheratori’, un’unità preposta alla manutenzione sia delle strade militari appena costruite che al camuffamento delle opere già esistenti. A quel punto, tutto ciò che emergeva dal suolo assunse un altro volto: alcune postazioni presero le forme di roccoli per l’uccellagione, altre furono camuffate da ‘stavolo’, altre divennero dei finti covoni o cataste di legna. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la costruzione di questi presidi militari continuò, gli armamenti acquistarono dimensioni maggiori e furono mimetizzati, oltre che con le tecniche già consolidate, con “baracche metalliche” (Cappellano, Chiaruttini, 64) somiglianti a quelle utilizzate dall’ANAS per la manutenzione della rete stradale.
Architetture geologiche
Geologia e architettura militare instaurano una strettissima relazione con questo tipo di costruzioni. In particolare nel caso del bunker che si trova tra le alture delle Prealpi Carniche, nei pressi di Cavazzo in provincia di Udine, questa relazione diviene emblematica sia per la peculiare condizione di svelamento della struttura della Terra, sia per la capacità dell’uomo di costruire dentro essa. Questo bunker fa parte dello Sbarramento del III° Sistema che ha inizio a Villa Santina e si sviluppa sino a Cuel di Mena. Tale Sbarramento è stato posizionato sulle alture del versante di destra del Tagliamento per proteggere il valico più basso delle Prealpi Carniche dove passavano diverse infrastrutture di collegamento, principalmente rotabili, che raggiungevano la pianura. Esso era composto da diciannove ‘opere’ e fu progettato nei primi mesi del 1940 (Bernasconi, Muran, 2009, 381).
L’ambito territoriale dove si trova il bunker in questione ha una plurima valenza: è stato inserito tra i Geositi della regione Friuli Venezia Giulia, segnalato nel Catasto speleologico regionale e fa parte del Geoparco delle Alpi Carniche; però è poco conosciuto il suo plusvalore storico testimoniale.
Infatti ciò che lo rende caratterizzante questo luogo è la congiunzione tra la struttura geologica e l’opera antropica, congiunzione divenuta imprescindibile tanto da costituire un unicum. L’ingresso al bunker ribadisce questa sovrapposizione di questioni, poiché si nasconde dentro una grotta di conglomerato preglaciale, chiamata ‘Grotta dei Pagani’, una cavità del Quaternario alta circa quindici metri e larga dieci, con un suolo inizialmente in pendenza poi pianeggiante. Sotto questa cupola di roccia si cela, tra le ombre più profonde, anche una postazione per il tiro in cemento con una feritoia rettangolare larga circa 20 centimetri e lunga 60, e sul retro di quest’ultima la piccola porta che conduce all’imponente e ardita costruzione ipogea appartenente al Vallo del Littorio.
Dal lato opposto dell’ingresso, al di là del rio Faeit, l’uso contemporaneo si fonde con la storia. Tra abeti, acacie e felci, i chiodi e le funi di una palestra di roccia sono conficcati di fianco e sopra a bocche di tiro inserite in arcate, murate in sasso, che fanno parte dello stesso bunker, le cui dimensioni sono importanti: esso si estende per circa trecentocinquanta metri e, con passaggi complessi e diversi pozzi, valica persino il torrente Cjavenutta.
Ma la meraviglia del connubio tra le due scienze - architettura e geologia - trova il suo apice nella forra dove la plasticità delle rocce e il cemento si fondono in uno spazio interno sospeso nel tempo e silenzioso, trafitto soltanto da una luce tagliente che illumina lo spettacolo della giunzione tra natura e artificio. Il varco di ingresso è impervio, un ambulacro naturale fatto di grandi massi e pietre sospese in una dimensione di squilibrio plastico, il cui pavimento è di sabbia e acqua. Una volta valicato questo primo tratto, le pareti si allargano come un’aula naturale che ha come abside, all’altezza di quindici metri, un ponte ad arco in cemento con una finestrella quadrata. Il solco prodotto dal torrente consente di vedere questo manufatto da entrambi i lati in una continua alternanza metrica, passando da spazi ampi a spazi compressi. Quest’opera, e a questo punto il termine va inteso in un’accezione non più militare, mostra nella sua greve semplicità tutta la potenza, l’audacia e la follia di questo tipo di architettura.
Prove di riuso
Lo Sbarramento di Invillino Ovest si trova poco più a nord rispetto a quello descritto in precedenza e fa parte di un sistema di difesa ancor più ampio che comprende diverse opere (il Gruppo Ovest, il Gruppo Est, il Gruppo Stens, il Gruppo monte Navado) tra le quali si contano osservatori, campi trincerati, postazioni di tiro, per mortai e bunker. Due di questi sono costruiti e camuffati in modo analogo, la cui mimetizzazione è assicurata da una caponiera di tipo ‘a tramoggia’, atta ad evitare i proiettili attraverso la giustapposizione di gradini dove prolifera la vegetazione. Anche le bocche di tiro sono nascoste con la stessa tecnica.
Uno dei due bunker è rimasto inviolato, mentre l’altro è stato ristrutturato recentemente e ha un’estensione di circa ottocento metri con un piano di sviluppo su tre distinti livelli.
Oggi i tunnel sotterranei di quest’ultimo, rimessi a nuovo e un tempo abitati dai soldati, sono percorsi dalla popolazione in occasione di mostre e convegni. Vi è ospitato anche un sismografo. Purtroppo viene aperto in modo sporadico pur essendo inserito in un progetto di valorizzazione territoriale che coinvolge architetture militari, scavi archeologici, luoghi di pregio geologico, aree protette per la biodiversità. I corridoi, le bocche di fuoco, la grande sala hanno un nuovo impianto di illuminazione sono stati sanificati e in parte intonacati. Eppure intriso nello spessore delle pareti continua il perdurare di qualcosa d’altro. Questo non accade per effetto delle armi messe in mostra, dei cimeli della guerra o della spiegazione delle vicende delegate a pannelli, ma grazie a quel tipo di spazialità, a volte angusta a volte meno, a quelle luci taglienti che giungono dall’esterno, a quel profondo incunearsi del manto erboso, a quegli spazi bui, a quello spessore di cemento e di roccia, a quell’umidità, a quella frescura, a quell’odore di passato che continuano a tramandare il senso più profondo della loro stessa storia. Qui nasce lo stupore dello stare dentro a opere di questa fattura, dell’immergersi diversamente dentro la terra manomessa e forgiata dall’uomo. E un altro stupore sopraggiunge nel momento in cui si guarda con gli occhi del bunker, da cui si vede l’ampia vallata, il fiume, i piccoli centri urbani e l’opposto versante del monte, dove un altro occhio occulto scruta il controcampo dello stesso paesaggio.
Architetture di fondazione
Si può asserire che queste opere sono un atto fondativo dell’architettura militare nei territori montani, difatti il sistema di difesa è un insieme di infrastrutture che, per settori, da un versante all’altro, piantonava il territorio in tutta la sua estensione attraverso sbarramenti, opere campali e molto altro ancora. In questa organizzazione difensiva, che si basava su un controllo capillare e al contempo visivo, i bunker rappresentano l’apice strutturale. Diversamente, le città antiche e rinascimentali erano difese da alte mura che spesso coincidevano con la forma urbis. A volte erano dei caravanserragli, come l’Aquileia di epoca romana, o la città fortezza di Palmanova, e contenevano al loro interno il sistema di protezione dal nemico. Con i primi del Novecento le ‘macchine da guerra’ divennero extraurbane e furono sparse nel territorio, disseminate strategicamente tra le alture. In tal modo divennero strutture di fondazione in luoghi ameni poco abitati e l’architettura si impossessò del sottosuolo abitandolo.
I bunker costruiti come sistemi di protezione, spiano, anche oggi, silenziosi, attraverso piccoli tagli e profonde feritoie, il tripudio del paesaggio che al tempo stesso controllano. Sono opere strategiche nate per la difesa di una zona e proprio la loro strategica collocazione li ha resi delle grandi masse che continuano a guardare con occhi semichiusi. Sono allegoricamente paragonabili a fossili di enormi animali preistorici il cui corpo si lascia attraversare, estranei ma connessi al luogo, invisibili ma non ciechi, cariatidi di un’epoca passata ma vivi nella loro prepotente misura. Architetture cristallizzate che appartengono alla terra che hanno violato al tempo della loro costruzione e che lì hanno trovato il proprio indistruttibile giaciglio. I loro spazi e le loro forme sono essi stessi ‘la memoria’ e nel momento in cui possono essere attraversati non hanno necessità di commento alcuno. I bunker sono per la loro struttura intrinseca dei testimoni di cemento incuneati tra le arenarie e nessuno potrebbe mai considerarli altro se non ‘macchine per la guerra’. Sono stati abitati per poco, soltanto il tempo di costruirli, presidiarli e controllarne la funzionalità bellica. E proprio qui, nel settore della Carnia, dove hanno avuto il ruolo più lungo nel succedersi degli avvenimenti storici, queste tonnellate di conglomerati di cemento e ferro plasmate e giustificate solo dalla loro funzione militare, sono rimaste praticamente inutilizzate. Architetture inutili, quindi, architetture di gran fascino ma inutili, sorte in un’ottica di controllo e difesa già obsoleta al momento dell’ideazione. Eppure furono costruiti e ricostruiti in funzione delle dimensioni degli armamenti, che con l’accelerazione della conoscenza tecnica cambiavano continuamente.
Queste architetture militari, nascoste per molti anni anche nelle cartografie, appaiono oggi nel paesaggio montano solo occasionalmente e non sempre sono facilmente individuabili. Di fatto, la loro edificazione sottende a un principio di segretezza. Rese quasi impercettibili all’esterno, al loro interno, le contenute aperture inquadrano porzioni di territorio incorniciandolo e la luce naturale percola lungo i pertugi solo occasionalmente. Chi si avvicina a un rifugio si imbatte continuamente in segnali e segni di questa infrastrutturazione militare. Le collettività dei piccoli centri montani hanno, sin dalla loro costruzione, conosciuto l’esistenza di queste ‘opere’ che, dal secondo Dopoguerra, sono divenute una parte dei tanti luoghi frequentati dai bambini che lì andavano a giocare, cercando di risalire sino agli osservatori.
Ma questa condizione di mimetismo, che li contraddistingue, non consente una spettacolarizzazione esterna e massiva e rende difficoltosa la loro individuazione da parte dei turisti. Tant’è che, pur essendo inseriti in piani intercomunali, parchi tematici e itinerari regionali di promozione, faticano a diventare dei luoghi di attrazione, sebbene in rete proliferino siti a loro dedicati, pagine social, testimonianze video. Probabilmente l’utenza è composta principalmente da escursionisti, appassionati di roccia e amanti della montagna.
Per di più il numero così cospicuo di queste strutture e la difficoltà di rifunzionalizzazione dovuta alla loro stessa conformazione rendono la valorizzazione ancor più complicata. Per sensibilizzare e portare in evidenza la questione del loro abbandono germinano iniziative artistiche puntuali come nel caso dell’installazione “Tarnrasen” nella zona industriale di Bolzano ad opera dell’artista Catrin Bolt (Prünster, 2017, 138).
Sono però pochi i casi di recupero e riuso di questi manufatti, e comunque una volta resi accessibili essi vengono utilizzati solo sporadicamente. La maggior parte di questi bunker sono stati chiusi per garantire una maggiore sicurezza a chi percorre la montagna e questo li ha resi ancor più invisibili e inviolabili. Macchine da guerra sparse non solo sulle alture ma anche al centro dei fiumi e sulle coste, che mantengono sempre un’estraneità ai flussi della città contemporanea, continuando il proprio muto isolamento.
L’unica possibilità di restituire il giusto valore a queste architetture dai muscoli saldamente piantati nel terreno è renderle parte di un sistema architettonico e testimoniale ‘attivo’, utilizzando un punto di vista ampio e pluridisciplinare che permetta una valorizzazione ad ampia scala. Un punto fondamentale che rende più difficoltosa questa auspicabile visione che darebbe una nuova vivacità al territorio e una nuova vita alle numerose testimonianze storiche valorizzando anche le peculiarità paesaggistiche e ambientali, pur con tutte le difficoltà del caso, è di matrice socio culturale, dato che il Friuli è stato da sempre terra di invasione da parte degli ostrogoti, dei bizantini, dei longobardi, dei veneziani, dei francesi, degli austriaci, e non ultimi, durante la Seconda guerra mondiale, dei caucasici e dei cosacchi. A questi ultimi fu promessa la Carnia come nuova patria con l’attuazione dell’Operazione Artman. E la vicenda ebbe un tragico epilogo: i cosacchi si schierarono contro i partigiani disposti sulle alture e saccheggiarono i paesi, ma al momento in cui furono raggiunti dalle famiglie, nelle piccole comunità si generò una paradossale integrata convivenza sino al loro definitivo allontanamento e successivo eccidio. A tutte queste circostanze si aggiunse un’imponente emigrazione dei carnici che per trovare lavoro si spostarono in Svizzera, Belgio, Francia, Argentina, America, Australia e altri paesi. Per tali motivi è verosimile pensare che in questa particolare cultura montana non ci sia una matrice di accoglienza di un nuovo potenziale fruitore dei luoghi quale ‘il turista’, il quale, sebbene tollerato, è ancora percepito come un invasore di quella che fu la ‘Repubblica libera della Carnia’, proclamata dai partigiani il primo agosto 1944 e in seguito garante dell’estensione del diritto di voto alle donne.
Il substrato culturale che è uno degli elementi principali per far germinare nuovi progetti, in aggiunta a una mancata urgenza connessa a un evento di dissesto, rende meno pressanti i progetti di valorizzazione che spesso vengono unicamente annunciati. Per di più, nel caso di manufatti poco evidenti alla vista, sebbene profusi da profonda memoria, come i bunker, la valorizzazione viene continuamente rimandata, pur nella consapevolezza che la natura si impossesserà a breve termine di tutte queste testimonianze. Comunque sia, questi sentieri che passando di quota in quota solcano il terreno tra i chiaroscuri della vegetazione continueranno ad incettare ‘strani’ abitanti del sottobosco che per forge e forme condurranno la mente del visitatore ad un altro tempo e un altro luogo, raccontando silenziosamente altre storie.
Riferimenti bibliografici
- Aime 2005
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English abstract
In the mountains of the Eastern Alpine Arc, a material that does not correspond to their geological genesis has been inserted: reinforced concrete. This very compound is the first witness in the history of the construction of the majority of the bunkers built around the Second World War as an integral part of the defensive line called Vallo alpino del Littorio, which expanded from Ventimiglia to Fiume.
The construction of this historical infrastructure was not straightforward and suffered several setbacks, especially due to the turnover of the military leaders who controlled it. This line of defence remained manned and guarded during the Cold War period, in the four decades preceding the fall of the Berlin Wall, and was dismantled only in 1993.
It can be said that these works are pieces of foundational architecture in the mountain landscapes of the twentieth century. Observing the Friulian mountains. it is difficult to identify both the line of the barriers and the colossal infrastructure work. The bunkers were hidden using the "camouflage" technique.
Geology and military architecture establish a very close relationship with this type of construction. This relationship becomes emblematic in the case of the bunker Sbarramento del III° Sistema in Cavazzo Carnico (Udine). There are only a few cases of recovery and reuse of these buildings, and one of them is Opera 2 – Sbarramento Invillino Ovest, which is always located on the Carnic Prealps (Udine). However, this bunker, once made accessible, is used only sporadically. These war machines, scattered as they are not only in the heights but also between rivers and on the coasts, perpetuating their silent isolation, always maintain some sort of non-involvement in the flows of the contemporary city.
The only possibility to restore the right value to these buildings, showing their muscles firmly planted in the ground, is to make them part of an active architectural and testimonial system, thanks to a broad and multidisciplinary point of view which will allow a large-scale reactivation of the territory.
keywords | Vallo alpino del Littorio; Camouflage; Bunker; Geology; Military architecture.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Indrigo, Dentro la terra. Il Vallo alpino del Littorio in Friuli, “La Rivista di Engramma” n. 185, ottobre 2021, pp. 309-329 | PDF