Мы могли бы служить в разведке,
Мы могли бы играть в кино!
Мы как птицы садимся на разные ветки
И засыпаем в метро.
Метро, “Високосный год”, 2000 г.
Potevamo far le spie,
Potevamo far gli attori!
Come uccelli seduti sulle linee
Ci addormentiamo nel metrò.
Metro, canzone del gruppo “Anno bisestile”, 2000
Premessa
Pochi sottosuoli al mondo hanno la densità di funzioni e significati che possiamo riscontrare nella Metropolitana di Mosca. Percorsa ogni giorno da circa 9 milioni di persone, in luoghi più o meno segreti, vive, sempre vigile, una città di riserva, fatta di centrali di comando, stazioni di telecomunicazione, ricoveri, dispositivi di protezione, linee di collegamento segrete. Una vita che spesso si svolge sotto agli occhi dei cittadini, ma nel sottosuolo, influenzando grandemente la vita in superficie.
Bastano 6 minuti per trasformare un’infrastruttura urbana in una città fortificata:
Omero non poteva in nessun modo distogliere lo sguardo dal vagone, e nelle sue orecchie, sovrastando cigolii e fruscii che arrivavano dalla stazione, si faceva sempre più forte la spettrale sirena d’allarme e il basso segnale acustico, mai sentito prima: uno breve - due lunghi: “Atom”! … il lungo colpo dei freni e il confuso annuncio nei vagoni: “Gentili passeggeri, per motivi tecnici il treno non proseguirà la corsa…”. Né il macchinista impacciato al microfono, né lo stesso Omero, suo aiutante, riescono ancora a rendersi conto del puzzo di morte che queste parole ufficiali si portano appresso. Il duro strepito delle porte ermetiche, che separano per sempre il mondo dei vivi da quello dei morti. Secondo le istruzioni, le porte dovevano essere completamente serrate non più tardi di sei minuti dopo il segnale d’allarme, indipendentemente dal numero di persone rimaste dall’altra parte. Si raccomandava di sparare a chiunque cercasse di interferire con la chiusura. Ma può un sergentucolo, abituato a scacciare dalla stazione senzatetto e ubriaconi, sparare nel ventre a un uomo che cerca di trattenere l’enorme blocco metallico, per permettere alla moglie di corsa con un tacco spezzato di farcela a entrare? Può la scorbutica signora dei tornelli, in képi e uniforme − che per trent’anni di servizio in metro ha perfezionato solo due azioni: non lasciar passare e fischiare – impedire di far entrare un vecchio affannato con le sue medaglie d’onore? Secondo le istruzioni ci volevano in tutto sei minuti per trasformare la persona in una macchina. Oppure in un mostro.
…Gli strilli delle donne e gli urli indignati degli uomini, i pianti dei bambini. Colpi di pistola e scariche di mitra. Le impassibili voci metalliche diffuse da tutti gli altoparlanti che intimano di mantenere la calma − registrate, perché nessuna persona, consapevole di quanto stia accadendo, può controllarsi e dire semplicemente così… impassibile “non lasciatevi prendere dal panico…”. Pianti, preghiere…
Di nuovo spari. E esattamente sei minuti dopo l’allarme, un minuto prima dell’Armageddon – il sordo, funereo ronzio del meccanismo di chiusura delle paratie ermetiche. Gli schiocchi dei perni di serraggio. Silenzio. Come in una cripta (Gluhovskij 2009, 61, traduzioni nostre).
Questo brano, la cui trasposizione cinematografica si può vedere su Youtube (Metro 2033), è tratto dal romanzo distopico Metro 2033 di Dimitry Gluhovskij, ed è una buona introduzione al percorso sotterraneo che si cercherà di affrontare in questo articolo. Studiando la storia della Metropolitana di Mosca, ampiamente trattata da autorevoli studiosi (Bouvard; Neutatz; De Magistris, e altri), sia da un punto di vista storiografico artistico che ingegneristico che prettamente storico, emerge subito una grande stratificazione di funzioni e significati che si avvicendano e si sovrappongono nella storia del manufatto. Fra questi, l’aspetto militare dell’infrastruttura civile emerge in filigrana di continuo, senza mai rendersi palese. Su questa linea, che fino a pochi anni fa era segreta e impercorribile, si cercherà di fare un ritratto della Metropolitana di Mosca, avvalendosi di documenti resi pubblici e recentissimi lavori sulla storia delle fortificazioni sotterranee di Mosca, mettendo in luce tutti i punti di connessione con l’architettura della Metropolitana e i suoi aspetti simbolici, oltre che sull’influenza che ha avuto nello sviluppo e nella creazione di un immaginario ben preciso, che possiamo saggiare nella citazione di Metro 2033.
La possibilità di trasformare una quotidiana infrastruttura urbana in una struttura difensiva civile e militare nel giro di pochi minuti, per quanto remota, resta un aspetto pur sempre presente, vigile, nel subconscio della Metropolitana. L’autore coglie molto bene gli aspetti sotterranei, emotivi di questo ribaltamento: predominano i suoni (la sirena spettrale, le voci registrate, le urla), mentre la vista, inefficace nei tunnel poco illuminati è quasi assente. Le macchine e le procedure si impongono sull’umanità, che non può fare a meno che adattarvisi per sopravvivere, e chiudere fuori per sempre una parte di se stessa attraverso le pesanti porte ermetiche. Una umanità-non umanità che oggi, o meglio, nel 2033, si è formata nello specifico luogo della Metropolitana di Mosca, un luogo fisico con le sue regole e la sua storia. Un luogo, che per la sua estensione e ricchezza di significati è diventato un parallelo della città, un “metroverso”, come lo chiamano i fan di Gluhovskij, nel quale si possono immaginare saghe e microcosmi.
Tornando al nostro tema, è difficile da comprendere come si è costruito questo microcosmo nel corso del secolo che lo separa dalla sua fondazione, senza integrare elementi della costruzione tecnologica della Metropolitana, dei requisiti di natura militare che via via si palesano e che sono parte fondante delle scelte progettuali, dello sviluppo dell’architettura di Mosca e della sua urbanistica, oltre che dell’influenza della cultura visiva.
Non possiamo comprendere la formazione di un eccezionale, straordinariamente fertile immaginario della Metropolitana moscovita, senza ripercorrerne le tappe della sua formazione, della formazione della sua immagine nel contesto di realismo socialista nel quale è nata, e di come i grandi eventi storici e ideologici della storia sovietica l’abbiano via via plasmata fino alla forma attuale.
In questo difficile intreccio, ci affideremo ad alcuni narratori d’eccezione, primo fra tutti Nikita Chruščëv, la cui vita, come si evince delle sue minuziose memorie (Chruščëv I II III [1971] 2005 2006 2007), è intimamente legata alla costruzione del sottosuolo, che siano le miniere del Donbas o lo spazio sotterraneo di Mosca. La Metropolitana compare sempre nei momenti critici della carriera del grande riformatore sovietico, e vedremo come l’una plasmi l’altro, e viceversa.
Un’altra narrazione, completamente diversa, è quella fornita da un gruppo di appassionati di esplorazione urbana, storici e archivisti, che sono riusciti a ricostruire la storia degli oggetti speciali sotterranei di Mosca su una solida base documentaria ufficiale, che a oggi è stata desecretata dalle origini fino alla fine degli anni Sessanta, ponendo fine a un lungo periodo di oscurità e aprendo un nuovo fertile campo di studi storici. I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati nel maggio del 2021 in un libro intitolato I “bunker segreti” sovietici. Fortificazioni urbane speciali 1930-1960 (Yurkov 2021), dove la parola “bunker” è appositamente messa fra virgolette, per le ragioni che si spiegheranno nel prossimo paragrafo. Ci affideremo estensivamente a questo eccellente lavoro, del quale riassumeremo alcuni dei passaggi più importanti, sia per renderli accessibili al pubblico in lingua italiana, sia per mettere in luce alcuni snodi cruciali che si intersecano con la storia di Mosca, della sua architettura e del suo immaginario.
È quindi dal sottosuolo della città e dell’impero − un sottosuolo di memoria dostoevskiana − che ci muoveremo, cercando di mettere in luce le strette connessioni fra la metropolitana-bunker e la metropolitana-palazzo che si avvicendano senza soluzione di continuità nel corso della storia.
Piccola premessa lessicale
La Metropolitana di Mosca non può essere definita come “bunker”, sebbene spesso si senta parlare di “bunker di Stalin” o “bunker sovietici” in riferimento alle fortificazioni sotterranee di Mosca.
Occorre innanzitutto precisare che il termine “bunker”, in russo (secondo la Grande Enciclopedia Sovietica: BSE 1969-1978) indica tecnicamente un contenitore industriale per materiale sfuso, traducibile in italiano con “cassone” “tramoggia”, e ‘bunker’ nell’accezione militare occupa un posto di minore importanza, dichiaratamente di importazione tedesca.
I termini che generalmente vengono usati nel linguaggio tecnico militare e nei documenti ufficiali sono:
- Объекты (obiekti): ‘oggetti’ generici, che tradurremo in italiano con il termine ‘unità’, che possono essere спецобъекты (spezobiekti), ‘unità speciali’.
- Спецветки (Vetki, spezvetki): letteralmente ‘rami’, indicano passaggi di collegamento protetti, di solito fra gli obiekti.
Il lessico militare inoltre indica sia per la superficie che per il sottosuolo: Командный пункт, Komandni punkt (punto di comando), che a sua volta può essere унифицированный (unifitsirovanny), городской (gorodskoi), обороны (oboroni), МПВО (PVO) etc. ovvero, unificato, cittadino, della Difesa, della contrarea; Фортификационная система (Fortifikatsionnaia sistema: sistema fortificato), o специальный фортификационный сооружение (Spetsialny fortificatsionny sooruzhenye: costruzione fortificata speciale), бомбоубежище (Bomboubezhishe: rifugio anti-bomba); al quale si aggiunge la denotazione глубокого залегания (glubokovo zalegania: sotterraneo di profondità).
La Metropolitana di Mosca: la nascita di una struttura civile-militare
La costruzione della Metropolitana di Mosca è la più titanica delle imprese dell’Unione Sovietica nel periodo di Stalin, e come nota Alessandro De Magistris, segna una cesura definitiva nei grandi cambiamenti che interessano la Mosca rivoluzionaria, confermando e consolidando una serie di scelte urbanistiche e architettoniche, prima fra tutte l’impianto radiocentrico e la definitiva sconfitta di altre correnti, come quella dei disurbanisti (De Magistris 2000). La Metropolitana si pone subito come possibilità di garantire la sopravvivenza di un assetto per quanto ammodernato, di fatto di natura ottocentesca della città-capitale centro dell’impero. La storia della fondazione e dei primi anni della costruzione è raccontata in modo dettagliato da Dietmar Neutatz (Neutatz [2001] 2013) per quanto riguarda lo sviluppo delle tecnologie, mentre da Josette Bouvard per quanto riguarda le vicende politiche, storiche e architettoniche del cantiere.
Gli esempi di metropolitane da tutto il mondo, accuratamente studiati, fecero convergere una serie di possibilità e varianti, che si scontrarono in campo progettuale e realizzativo. Mosca non era un terreno facile, perché da un punto di vista geologico aveva tutti i problemi delle altre città messi insieme: (Abakumov 1939, 1; Neutatz [2001] 2013, 1-23).
The engineers who built the subway in Berlin had to contend with water-bearing soil. In Paris the uneven surface presented a serious difficulty. In London it was the chaotic arrangement of the underground installations, and in Madrid the medieval lay-out and the crookedness of the streets. In Moscow the subway builders have been confronted with all these difficulties: crooked streets, a dense network of underground installations, remnants of the ancient town, a surface intersected with hills and valleys, a treacherous water-bearing strata (Abakumov 1939, 11).
La costruzione di un’infrastruttura così complicata sembrava un’impresa impossibile, considerando l’arretratezza dell’Unione Sovietica e la limitata disponibilità economica.
Le tecnologie a disposizione dei russi nel campo della costruzione erano praticamente inesistenti, e tutti i primi lavori vennero eseguiti completamente a mano, scavando, puntellando, rivestendo le pareti a secchiate di cemento. Venne fondata un’impresa, Metrostroi (letteralmente, ‘Metro-costruzione’), tuttora esistente, che mobilitò migliaia di lavoratori da tutta l’Unione Sovietica.
Il responsabile politico-amministrativo ufficiale dell’ambizioso progetto era il fedelissimo di Stalin, Lazar’ Kaganovich, membro del Politburo, vera mente politica e ispiratore dell’infrastruttura, che interpretava come un “cantiere d’assalto”, sotto lo slogan “La vittoria della metropolitana è la vittoria del socialismo” (De Magistris 2000). Una costruzione che, in linea con l’ideologia staliniana di quegli anni, doveva essere un grande laboratorio di sperimentazione sociale e propaganda politica (Bouvard 2005, 67-77).
In prima linea, in cantiere, a lavorare c’era un giovane membro del partito, da poco entrato nella giunta cittadina, che si era distinto per il suo lavoro nelle miniere del Donbas: Nikita Chruščëv (Chruščëv I [1971] 2005). A quel tempo non sapeva ancora quanto la sua vita sarebbe stata legata a questa costruzione:
At first I had nothing to do with the construction project. It was a kind of special project, even though it was in the city itself. But after some time had gone by Kaganovich suddenly said to me: “Things are going badly with the subway construction, and as a former mine worker you’ll have to get involved in detailed supervision of it. In the first phase, in order to acquaint yourself with the course of the construction, I propose that you drop your work in the party’s city committee, and go to some of the shafts and tunnels being dug for the subway while Bulganin goes to other ones. Stay there for a few days and nights, take a look at everything, and study it all so that you’ll be able to direct it in fact and know the whole business” (Chruščëv I [1971] 2005, 65).
Il futuro primo segretario si getta con tutte le sue forze su questo cantiere difficilissimo, e dalle sue memorie leggiamo come questo sforzo influisca grandemente sulla sua vita politica. La Metropolitana, che assorbe gran parte delle sue energie, diventa per lui un passo importante per la scalata al potere. Chruščëv dirigerà personalmente gli scavi, nominerà direttori tecnici (fra i quali il già citato Abakumov, una vecchia conoscenza del Donbas), parteciperà alle infiammate discussioni fra gli architetti, e avrà un ruolo fondamentale su alcune delle decisioni più importanti, fra cui la scelta della profondità e della tecnologia costruttiva.
All’inizio si pensava di costruire i tunnel con il metodo più semplice possibile, ovvero quello dello scavo in trincea. In quegli anni tuttavia, lo sviluppo dell’aviazione militare aveva posto in tutti i paesi europei il problema della difesa dai bombardamenti.
Chruščëv, nel 1932, a cantieri già iniziati, consigliato da un giovane ingegnere Veniamin Makovskij, comprese che il metodo a trincea non avrebbe garantito la protezione dei manufatti:
He said to me: Comrade Chruščëv, we’re building the subway in the German way, that is, digging open trenches. This is very inconvenient for the city. There are other construction methods, for example, the closed-tunnel, or English method, using tunneling machines called “tunneling shields.” That way you have to dig deeper and it will cost a little more, but if you take into account the possibility of a war, the subway could also serve as a bomb shelter. […]” (Chruščëv I [1971] 2005, 69).
Makovskij pubblicò il primo marzo 1932 un articolo sulla “Pravda”, dove proponeva di costruire la Metropolitana a una profondità di circa trenta metri (Bouvard 2005, 48).
Questo suscitò aspre polemiche da parte dell’esecutivo in carica, guidato dall’ingegnere Rottert, a scavi già iniziati, che riteneva inutilmente dispendioso andare in profondità. Con l’appoggio di Chruščëv, Makovskij presentò le sue idee al Politburo alla presenza di Stalin, che, nonostante la resistenza dell’ingegnere capo, approvò la proposta (Chruščëv I [1971] 2005, 71). Il 23 maggio 1932, il Politburo stabilì ufficialmente che tutta la prima linea della metro, la Sokolnicheskaja, si sarebbe dovuta costruire in profondità, arrestando tutti i progetti, e i lavori già cominciati, ordinando la redazione di un decimo progetto tecnico (Bouvard 2005, 53).
Bouvard e gli altri storici tendono a mettere in secondo piano i requisiti militari della metropolitana in fase di progettazione, sebbene pare che questi siano determinanti nella scelta finale, alla luce di questi fatti e di quelli esposti nel prossimo paragrafo. Per tutti gli altri problemi, come quello delle preesistenze, gli ingegneri avevano già trovato delle soluzioni, infatti il sistema a trincea venne mantenuto per le stazioni periferiche più lontane dal centro.
La scelta di scavare in profondità nelle zone strategiche della città presupponeva l’importazione di tecnologie e saperi dall’Europa e dagli Stati Uniti, oltre a richiedere un nuovo studio geologico molto più approfondito. Un impegno così grande poteva essere solo giustificato dall’opportunità di usare la metropolitana come grande sistema difensivo.
Un’idea che molto probabilmente è il frutto di un’influenza del pensiero italiano.
Metropolitana-difesa antiaerea. Un’idea italiana
Nel 1930 sul tavolo del capo della sezione di Mobilitazione dell’NKVD era posata la traduzione di un articolo pubblicato su “Rivista di artiglieria e genio”, intitolata Записка об устройстве воздушной обороны в проектируемом метрополитене в Риме (Appunti sulla costruzione della difesa antiaerea nel progetto della metropolitana di Roma) (ora nell’Archivio Militare Russo, fondo 37791, op. 1, d. 15, f. 1-5). I sovietici sono molto attenti alle pubblicazioni tecniche sull’argomento, in particolare quelle italiane, che pare considerassero le più avanzate da un punto di vista teorico (Yurkov 2021, 26), e un esempio si può riscontrare nella rassegna di testi stranieri pubblicata sulla rivista “Arhitektura SSR”, nel maggio 1938, intitolata Противовоздушная оборона городов (La difesa antiaerea delle città).
Bisogna precisare che in quegli anni gli esperti di difesa italiani erano considerati i migliori al mondo, almeno da un punto di vista teorico, e il trattato La guerra dell’aria, di Giulio Douhet, era a quel tempo un testo seminale, e anche oggigiorno è oggetto di studi e per certi versi ancora attuale (Douhet [1921] 1932).
Il titolo originale dell’articolo in italiano è I ricoveri nella “difesa aerea”. Utilizzazione allo scopo della progettata metropolitana di Roma, firmati da Alessandro Romani, tenente colonnello del genio e dall’ingegner Giuseppe Sellingwerff, pubblicato nel giugno del 1929 (Romani, Sellingwerff 1929). L’articolo tratta in maniera estensiva i principi della difesa antiaerea e introduce un argomento fondamentale nelle questioni di difesa e urbanistica, ovvero quello della necessità di integrare le infrastrutture militari con quelle civili, per rendere la spesa sostenibile da un punto di vista economico:
Questi ripetiamo, i finali desiderata, ma per l’approntamento completo occorrerebbe una spesa immensa, quale non solo l’Italia, ma forse anche le più ricche nazioni potrebbero sostenere, il che dimostreremo […]. E questo, tra l’altro, si potrà ottenere sfruttando al massimo le circostanze naturali ed abbinando, sempre che possibile, la soluzione del problema militare e quella di problemi civili, che pur con differentissimo scopo, portano ad eseguire opere militarmente utilizzabili o comunque utili (Romani, Sellingwerff 1929, 1042).
La spiegazione si basa sul lucido assunto che la guerra moderna non è uno scontro fra eserciti, ma fra tutte le forze di uno stato contro un altro, che pertanto devono essere protette. Non solo, ma dal momento in cui la guerra è un elemento costante della vita civile, è necessario integrarne alcuni dei suoi aspetti nelle infrastrutture, appunto, civili.
Da qui deriva un atteggiamento di allerta costante che segna per sempre il modo di vivere delle città fino ai giorni nostri. La minaccia di una guerra che può arrivare all’improvviso è parte della storia delle città del ventesimo secolo, che raramente nei secoli passati avevano subito distruzioni così rapide e devastanti.
Un altro punto, ugualmente visionario, della trattazione di Sellingwerff e Romani, è quello della costruzione di una “capitale di riserva”, dove fosse possibile garantire l’operatività e la sopravvivenza degli apparati statali e della parte attiva della popolazione cittadina tramite un sistema di “grandi locali sotterranei collegati fra loro” (Romani, Sellingwerff 1929, 1046).
Nell’articolo degli italiani si allega un progetto della metropolitana di Roma, del quale descrivono i tracciati. L’idea è quella di far costruire i tunnel più profondamente possibile, e far passare le linee vicino ai luoghi strategici sia civili che militari: centri direttivi, ministeri, caserme, centri di comunicazione ed energia, quartieri popolati da persone importanti.
Il progetto, seppur schematico, ha un respiro molto ampio, di carattere quasi urbanistico: descrive minuziosamente i tracciati, e i loro vantaggi sia da un punto di vista dei trasporti in tempo di pace, che come sistemi di difesa, mostrando come dovranno crearsi accessi sotterranei dai singoli edifici di Stato alla metropolitana, di come si potranno usare i tunnel per far passare le tubazioni e le linee telegrafiche protette, come integrare il sistema ferroviario, come si potrà velocemente interrompere il traffico e convertire gli spazi per il ricovero, come limitare i danni tramite sistemi di ventilazione e chiusura stagna.
Una visione della guerra che impressiona, nel 1929, per la sua chiaroveggenza nel delineare una corrispondenza con quello che accadrà durante il Secondo conflitto mondiale. I principi espressi da Romani e Stellingwerff, mai applicati nella metropolitana di Roma, che venne costruita solo alla fine degli anni ’50, saranno ampiamente impiegati nel corso dei decenni successivi nella costruzione della Metropolitana di Mosca.
Il primo lotto della Metropolitana e la definizione dei requisiti militari
Costruire in profondità costrinse ad adottare una serie di attrezzature completamente nuove: le più evidenti erano le scale mobili e le costolature metalliche, che decisero in modo fondamentale dell’aspetto complessivo della Metropolitana, anche nelle sue caratteristiche estetiche. Inoltre, contestualmente all’attrezzatura standard era necessario sviluppare una serie di dispositivi di protezione che garantissero il funzionamento del sistema anche in caso di bombardamento.
Non a caso, sempre nel 1932, la PVO (Protivovozdushnaja Oborona), la difesa antiaerea sovietica, si divise in due: la PVO Attiva, che si occupava della difesa armata contro gli aerei (cannoni, caccia, etc.), e che restò sotto il Ministero della Difesa; la PVO Locale, o MPVO, che si occupava di fortificazioni antiaeree e misure di contenimento (mimetizzazione, incendi etc.), che veniva gestita a livello locale e passò sotto il Ministero degli Interni (NKVD). A partire dagli anni Trenta, l’MPVO costruì centinaia di rifugi antiaerei in tutta la fascia del territorio sovietico raggiungibile da aerei, e si occupò anche della protezione di Mosca. L’MPVO era l’analogo dell’italiana UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) costituitasi nel 1934. Gli effetti devastanti dei bombardamenti della Guerra Civile Spagnola nel 1935-38 furono la prima conferma che i rifugi antiaerei erano assolutamente necessari nelle città e furono anche uno stimolo importante per definire una serie di misure relative alle profondità minime, alla protezione dai gas, alla chiusura degli accessi e alle vie di evacuazione. Durante la costruzione dei tunnel, i militari proposero una serie di dispositivi e modifiche ai progetti della Metropolitana.
Alcune di queste proposte vennero rifiutate, come quella di distanziare di 300 metri le banchine delle stazioni per senso di marcia, in modo che se ci fosse stato un urto diretto almeno una delle due sarebbe rimasta funzionante. Tuttavia in questo caso si creavano degli inconvenienti inaccettabili per l’uso civile, era impensabile infatti che un passeggero dovesse percorrere centinaia di metri solo per cambiare direzione, per non parlare dello sdoppiamento degli ingressi e delle uscite, e la gestione del personale dei treni. Questi requisiti tuttavia influenzarono pesantemente la scelta di non sovrapporre mai più di due o tre linee in un solo punto, e ancora oggi le stazioni di Mosca tendono a essere ben disperse e ad avere incroci con poche linee, a differenza, ad esempio di Parigi (la stazione République già prima della guerra serviva 5 linee diverse). Il nodo Okhotny Ryad-Teatralnaja-Ploshad Revolutsii, che fu uno dei primi incroci realizzati, al contrario è costituito da tre lunghe stazioni con banchina al centro (del tipo a isola) collegate in serie su livelli diversi ma non sovrapposte.
Altri criteri invece vennero adottati. Le stazioni dovevano avere le volte rinforzate, e rispettare degli standard minimi di resistenza (Yurkov 2021, 27-39). La profondità minima consigliata era di 25-30 metri (ma non sempre, per questioni economiche, poteva essere rispettata), doveva esserci la protezione degli accessi con chiusure stagne, mascheramenti e fortificazioni dei pozzi di ingresso e ventilazione, la costituzione di numerosi ingressi di emergenza alla Metropolitana, alcuni molto grandi, in forma di rampa carrabile e situati in luoghi strategici, come nelle fabbriche e nelle piazze affollate.
Una di queste rampe fu costruita dalla fabbrica di automobili ZIL (Zavod imena Likhacheva), poi diventata ZIS (Zavod imena Stalina), una fabbrica storica di Mosca e molto importante dal punto di vista politico e architettonico. Ai progetti della fabbrica lavorarono alcuni dei più famosi esponenti del costruttivismo russo: Loleit, Kuznetsov, Melnikov (per le facciate), i fratelli Vesnin (per il famoso club operaio del ZIL).
Si comincia anche a configurare un principio che poi sarà la regola nelle opere di difesa successive: le strutture vitali di superficie dovevano avere un backup in una zona protetta, in modo da garantire alla città di funzionare, e questi elementi puntiformi dovevano sfruttare la metropolitana come sistema di collegamento, seguendo quasi alla lettera le raccomandazioni di Romani e Stellingwerff.
Si costruiscono spazi per consentire ai controllori ferroviari di dirigere le reti, generatori elettrici, si installano alcune stazioni telegrafiche e telefoniche, che man mano si ingrandiscono fino a diventare grandi nodi di comunicazione. Gli esempi sono numerosi e comprendono anche le altre città dell’URSS. Queste strutture quasi sempre si ricavano dagli spazi stessi della Metropolitana, e non sono ancora propriamente degli oggetti speciali dedicati esclusivamente alla difesa (Yurkov 2021, 39). La Metropolitana in profondità, così come era configurata prima della guerra, poteva, secondo i calcoli, ospitare almeno 200 000 persone in caso di emergenza. Nei documenti, inoltre, comincia a comparire la parola метро-убежище (metro-ubedzhizhe), metropolitana-rifugio.
La Metropolitana nasce dunque insieme come luogo civile e militare, capace di adattarsi in modo flessibile alle circostanze: un caso abbastanza unico fra strutture contemporanee analoghe nel mondo e molto diverso ad esempio dal sistema di ricoveri antiaerei costruiti a Londra nel 1941, collegati alla Tube (la cui costruzione cominciò ben prima delle minacce aeree) solo tramite lunghi e stretti passaggi da usare solo nel caso che il pozzo di accesso principale venisse distrutto. In questo caso l’Unione Sovietica anticipò i tempi rispetto agli altri paesi, che si dotarono di sistemi analoghi solo alcuni anni dopo, (come i sistemi difensivi sotterranei di Berlino, Vienna e di Helsinki, nati tutti durante o dopo la guerra).
Insieme ai dispositivi di protezione delle linee, cominciano a costruirsi anche spazi sotterranei dedicati esclusivamente ai quadri di comando e alle strutture militari, che vengono chiamati nei documenti ‘unità speciali’, o spezobiekti.
Il primo spezobiekt propriamente detto del quale abbiamo documentazione è il centro di comando dell’NKVD dietro la stazione Kirovskaja (ora Chistiye Prudi), realizzato nel 1933, che divenne, come vedremo a breve, il luogo fondamentale nella difesa di Mosca nel 1941 (Yurkov 2021, 43-46; Chruščëv I [1971] 2005, 326).
Un'altra unità speciale del quale sono conservati i progetti è la Prima Stazione Telefonica di Riserva di Profondità del Ministero delle Comunicazioni, lo spezobiekt-01, sistemata vicino alla stazione Bielorusskaja (Yurkov 2021, 59). All’inizio doveva essere di piccole dimensioni, ma nel corso del tempo divenne una struttura molto estesa e complessa.
Fra la documentazione di questa unità c’è anche un bellissimo disegno in assonometria, molto probabilmente redatto per la presentazione del progetto a un alto ufficiale, dove si vedono gli arredi, le attrezzature, persino delle figurine umane. Il disegno stupisce per il tratto e i colori, che sembrano molto più l’opera di un architetto che di un ingegnere. Dal disegno possiamo intuire la complessità di questo centro di collegamento: vediamo gli ascensori, gli uffici, le lunghe file di combinatori telefonici, i sistemi di ventilazione e i generatori.
Normalmente i progetti di queste costruzioni sotterranee consistono in sezioni molto tecniche e prive di velleità illustrative. In questo caso invece il disegno esprime, in modo abbastanza paradossale, con un tratto acquarellato da Accademia di Belle Arti, la relazione quasi aliena fra queste costruzioni ipermoderne e la città in superficie. Tutto come sommerso in un mare di terra, che in spaccato rivela quello che non si potrebbe mai vedere dal vero. Un’artificiosa contrapposizione di esterni che ci permette di intuire la scala di questo strano mondo sotterraneo, fatto di cilindri e tubi che si incrociano come in un’opera suprematista, sopra il quale il mondo degli edifici convenzionali in muratura sembra piccolo e fragile.
Questo disegno, per la scelta dello spaccato e per il soggetto, ricorda molto i manifesti pubblicitari degli anni Trenta della prima linea, sebbene meno carico di fervore futurista.
È bene notare il costante desiderio di rappresentare la città nella sua completezza di livelli e nel loro comune funzionamento, come in un disegno anatomico.
Ancora una volta, la Metropolitana, che sia in forma segreta o pubblica, rappresenta il rinnovamento in chiave socialista della città di Mosca, la cui mappa è programmaticamente disegnata nel suo sottosuolo.
Quando i primi bombardamenti tedeschi attaccano Mosca, quasi a sorpresa, il 22 Giugno 1941, i russi non avevano ancora finito di costruire molti spezobiekti, soprattutto quelli sotto il Cremlino; si dovettero usare le strutture sotterranee già esistenti per ospitare sia i civili che i militari.
La stazione Krasnye Vorota (Porte Rosse), che continuava a funzionare come una normale stazione civile, aveva nascosta nel suo basamento, sotto la piattaforma della sala principale, tutta la sezione logistica militare dell’Armata Rossa, compresa una stazione di collegamento telegrafica / telefonica (Yurkov 2021, 128-130).
Lo spezobiekt dell’NKVD, che abbiamo citato per primo, venne destinato alla PVO cittadina (comando della difesa antiaerea), e la stazione Kirovskaja a esso collegata, che si trovava a una buona profondità, venne semplicemente separata dalla linea dei binari tramite pannelli divisori. I treni continuavano a fare servizio regolare, passando a fianco della postazione senza fare fermata. Direttamente sulle banchine e sul vestibolo della stazione fu sistemato tutto il quartier generale, compresa la scrivania di Stalin (Chruščëv I [1971] 2005, 326). La stazione, oltre che dall’ingresso normale, era accessibile attraverso un pozzo che si trovava nelle cantine un edificio governativo della via Myasnitzkaja, poco lontano.
Fra bombardamenti e interruzioni, i cantieri continuarono ad andare avanti, sia quelli normali del terzo lotto (1941-1943), che quelli speciali dell’NKVD sotto la Lubyanka e sotto il Cremlino, gli spezobiekti 25 e 16, destinati agli uffici governativi e di comando, provvisti di depositi, stazioni radio, uffici, direttamente collegati con gli edifici in superficie e con la Metropolitana.
Nel frattempo, le stazioni vengono allestite per consentire, nelle ore notturne, il ricovero dei civili. Il personale, terminato il servizio ferroviario regolare, toglieva la corrente alle linee, installava servizi igienici e copriva i binari con tavole in modo da ospitare migliaia di moscoviti.
Alcune celebri immagini che documentano questo momento, contrastano molto con le immagini classiche che siamo abituati a vedere dei ricoveri antiaerei della Seconda guerra mondiale in Europa, e in particolare a Londra. La spaziosità e l’apparente comodità in cui i civili si muovono sono del tutto diverse dalle tetre cantine piene di gente terrorizzata delle foto storiche occidentali (e dei dipinti inquieti di Henry Moore). Il “palazzo del proletariato”, per una volta abitato per davvero, con i suoi salotti e biblioteche, sembra poter ospitare senza alcun problema una vita parallela a quella di superficie.
Sarà tuttavia da precisare che le fotografie che documentano questo periodo sono in gran parte foto di posa, mentre quelle non ufficiali sono rarissime. A ogni modo, la sensazione dell’emergenza sembra del tutto assente, e predomina uno straniante senso di normalità. La fotografia della biblioteca ricavata nella stazione Kurskaja potrebbe benissimo essere scambiata per una biblioteca qualsiasi se non ci fosse la didascalia, e anche il dormitorio nella stazione Majakovskaja sembra privo di drammaticità.
Quest’ultima stazione, in particolare, costituirà un punto di svolta in un momento critico della guerra. È il 6 Novembre 1941, ventiquattresimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. I tedeschi stanno conducendo con successo l’offensiva nell’Operazione Barbarossa. Sono arrivati alle porte di Leningrado, e hanno apprestato un assedio che ridurrà alla fame la città per 900 giorni. A sud l’avanzata è inarrestabile, avendo già conquistato tutta la Crimea, Kursk, e cingendo d’assedio Sebastopoli. Il nemico spinge alle porte di Mosca, e sui cieli della città i bombardieri nazisti seminano il terrore.
Solo tre settimane prima si era quasi deciso di evacuare totalmente la città e lasciare terra bruciata.
Stalin sceglie la proprio la stazione Majakovskaja, la stessa nella quale si sono scattate le fotografie della popolazione ricoverata (in posa), per tenere il suo discorso (registrato integralmente su Youtube: Речь Сталина на станции метро "Маяковская" 6 ноября 1941). L’atmosfera doveva essere surreale. Centinaia di persone riempiono ordinatamente la lunga sala centrale della stazione, ascoltando silenziosamente le calme parole del leader, mentre sopra infuria la battaglia. Dietro il podio dal quale parla Stalin, oltre alle tradizionali gigantografie ci sono grandi addobbi floreali, che dovevano essere arrivati da molto lontano, considerando che era già novembre.
Il discorso non è particolarmente incisivo, di certo non carico di quella retorica infiammata che ci si aspetterebbe da un grande dittatore.
L’architettura, d’altro canto, gioca un ruolo importante e vincente in questa celebrazione, molto più forte delle parole. La stazione, felice connubio fra l’esibizione di tecnologia e la ricerca estetica, diventa il simbolo della rivincita.
Progetto del prolifico Aleksei Dushkin, è una delle costruzioni più sperimentalmente avanzate di Metrostroi. È la prima ad avere una struttura con esili colonne e archi di acciaio, rivestiti nell’intradosso con elementi in lamiera inossidabile, che vediamo scintillare vigorosamente in tutte le inquadrature del discorso. Questi elementi erano commissionati a una fabbrica di dirigibili di Mosca (Tsareko, Fedorov 1979), e tutta la stazione si fonda sul tema della conquista del cielo (De Magistris 2012). Le pseudocupole illuminate contengono una serie di mosaici su disegno del pittore Alexander Deineka che ritraggono il cielo dell’URSS dall’alba al tramonto. Ci troviamo quindi nella paradossale situazione di essere in uno spazio simbolicamente aereo, come potrebbe essere l’interno di un dirigibile, ma a 34 metri sotto terra. L’esibizione di tecnologia è evidente e percepibile in tutti i suoi aspetti, dalle griglie di aerazione, agli elementi di irrigidimento dello scheletro della stazione che si rivela in alcuni punti dove i rivestimenti si interrompono a mostrare gli elementi del tubing. Nota giustamente Kravec, in un opuscolo celebrativo della Metropolitana scritto negli stessi anni:
Lo scopo artistico dell’applicazione del pensiero ingegneristico, che si percepisce ogni volta che si visita la stazione, per quante volte la si ripercorre, si rivela indicativo del fiorire tecnico e culturale della nostra patria (Kravec 1939, 68).
La stazione, come nota De Magistris, rappresenta uno degli esempi meglio riusciti di quella ricerca di sintesi delle arti e dei principi che si volevano condensare nella metropolitana: il rigetto del senso di claustrofobia, la rottura della monotonia, l’attenzione alle proprietà visive e tattili dei materiali, l’uso attento dell’illuminazione. Una sintesi che doveva ben scostarsi dalla meccanica giustapposizione di elementi decorativi e tecnologici (De Magistris 2012). Già al tempo era considerata una delle più importanti, come testimonia l’esposizione della stessa in scala 1:1 alla Fiera internazionale di New York del 1939.
Stalin sceglie la stazione giusta per rappresentare la situazione in cui si trovava in quel momento l’Unione Sovietica. Ed è grazie alla polarità di significati della stazione, cielo-paradiso nel sottosuolo-inferno, che corrisponde alla situazione reale - ovvero, del cielo-inferno della battaglia per Mosca, e il sottosuolo-paradiso dove la gente trova rifugio – che il messaggio di Stalin si fa convincente e forte. Un mese dopo, dagli stessi ambienti, si diede via alla prima controffensiva, che fermò l’avanzata tedesca e alleggerì la pressione su Mosca.
Una polarità continuamente in fase, quella fra cielo e terra, che vedremo essere uno dei temi costitutivi della Metropolitana di Mosca nei decenni a venire.
La stazione Majakovskaja, nella sua funzione flessibile di luogo di ricovero, teatro per le riunioni di partito, narrazione simbolica del progresso tecnologico e militare dell’URSS, è forse l’esempio più palese di una sperimentazione architettonica che nella Metropolitana non ha avuto particolari limitazioni, se non una generica raccomandazione a costruire “palazzi del proletariato” e a usare il marmo per i rivestimenti interni (Bouvard 2005, 193). Metrostroi venne affiancata dai 12 atelier di progettazione del raggruppamento ARHPLAN, guidati da alcuni dei più importanti architetti del momento, appartenenti sia alla vecchia generazione (Chernishev, Mordvinov, Fomin), che alla giovane (Dushkin, Chechulin, Taranov), molti dei quali hanno praticato il costruttivismo (Vesnin, Ladovskij, Mel’nikov, Ginzburg, Golosov), affiancati da alcuni emeriti consulenti, come Shusev e Zholtovskij. Ogni architetto sovietico ambiva a vincere i concorsi e costruire una stazione della Metropolitana.
Solo recentemente la critica (in particolare Alessandro De Magistris: De Magistris 2000; 2012 e più recentemente Danilo Udovički :Udovički-Selb 2020) ha rivisto la superficiale convinzione che l’architettura della Metropolitana sia una mera espressione dello stalinismo retrogrado, mettendo in luce i rapporti stretti che intercorrono con le avanguardie.
Questo rapporto è facilmente leggibile in citazioni riconducibili al costruttivismo e alle ricerche spaziali degli Anni Venti. Vale la pena citarne alcune individuate dai già citati autori: i quadrati rossi e neri del pavimento della Majakovskaja, che ricordano la storia dei Due quadrati di Lissitzki; la stazione Dzherzhinskaja, ora ricostruita con il nome di Lubyanka (e alla quale era collegato il bunker dell’NKVD), progettata da Ladovskij secondo sofisticate manipolazioni ottiche-percettive; il “bianco su bianco” dei capitelli della stazione Kropotinskaja (che doveva essere l’anticamera del Palazzo dei Soviet) con il riferimento agli analoghi dipinti di Malevic. Le stazioni, in forme diverse, fanno un uso spaziale dell’illuminazione elettrica e spesso includono l’elemento tecnologico, come le griglie di ventilazione, nel sistema compositivo.
È altrettanto vero tuttavia che gran parte delle altre stazioni, come Park Kulturi, Komsomol’skaja, Okhotny Ryad, hanno un’impostazione molto più tradizionale basata su eclettismi e storicismi.
L’eclettismo di tecniche e linguaggi della Metropolitana è onnipresente, e gli stessi architetti si prestano a questo gioco di mescolanze. La stazione di Krasnye Vorota, le “Porte Rosse”, ha un vestibolo progettato dal già citato Ladovskij, con la forma di tre archi concentrici a ventaglio, a ricordo dell’antico arco trionfale che nello stesso luogo aveva fatto costruire Pietro il Grande per celebrare la vittoria di Poltava, è un “urlo” spaziale, che sembra ricordare il piano urbanistico per Mosca dello stesso Ladovskij, che pure, nella sua forma di manifesto, “grida” allo sviluppo parabolico della città. La stessa stazione invece è progettata da Fomin con motivi neorinascimentali, con una volta a botte e un ritmo binato che ricorda le architetture albertiane (che fu oggetto di un’irriverente critica da parte di Shusev, che la paragonò a una “bella fetta di carne di manzo”: Chruščëv II [1971] 2006, 251). La stazione, come si è visto, ospitava sotto il pavimento anche un importante centro logistico dell’esercito. Tutti questi diversi aspetti convivono senza contraddizioni nello stesso luogo. La coerenza della Metropolitana non va ricercata nel suo linguaggio, ma nei suoi contenuti spaziali e nelle tecnologie che la compongono.
Se ignoriamo la sottile crosta architettonica delle stazioni e proviamo a guardare la Metropolitana come nelle rappresentazioni assonometriche che illustrano questo saggio, vediamo un mondo fatto di cilindri, coni, parallelepipedi che si intersecano in più dimensioni; veloci treni che sezionano la terra; movimenti in diagonale delle scale, che permettono di sbucare in superficie, consentendo un montaggio delle parti di Mosca non più dettato da rapporti di vicinanza. La Metropolitana è mondo suprematista fatto di processi in continua evoluzione e crescita, costruito da forme pure compenetranti, dominato dalle macchine e dalla velocità degli spostamenti.
Una visione così moderna della città si era vista una volta sola in Unione Sovietica realizzata prima di questo cantiere, il Gosprom di Kharkov. Sia l’ingegnere Rottert, direttore della parte tecnica di Metrostroi, che Kravec, direttore della parte architettonica, già conoscenze ucraine di Kaganovic e Chruščëv, avevano lavorato come dirigenti in quello che a quel tempo era il più grande cantiere dell’URSS, e grazie alle esperienze acquisite vennero chiamati per costruire la Metropolitana. Il Gosprom è un immenso edificio-città, un articolato complesso di volumi che si estendono a più livelli in orizzontale e in verticale, può essere considerato uno dei più grandi successi del costruttivismo. La parentela fra questi due cantieri meriterebbe un approfondimento a parte. In entrambi i casi si adottano sistemi di meccanizzazione e prefabbricazione, che anticiperanno di molto il futuro delle costruzioni sovietiche; in entrambi i casi si propone una visione della città che cresce in maniera organica e dinamica.
La Metropolitana è naturalmente adiacente ai luoghi critici nell’urbanistica di Mosca a cavallo fra gli anni Venti e Trenta: le stazioni Teatralnya, Tverskaja, Majakovskaja della linea verde corrono in parallelo con il grande rifacimento dell’asse della Tverskaja; il vestibolo anticheggiante della Kirovskaja (ora Chistye Prudy), progettato da Nikolai Kolli, sotto il quale c’era la sede del comando per la difesa di Mosca, si trova lungo la via Myasnitzkaja, davanti alla sede del Vhutemas e al Centrosoyuz realizzato da Le Corbusier e dallo stesso Kolli; la stazione Sokolnicheskaja esce vicino al club Rusakov di Mel’nikov; La stazione ZIS (ora Avtozavodskaja) in prossimità della grande fabbrica ZIS (Zavod imeni Stalina, ora ZIL) già citata per il sistema di rampe inclinate di emergenza faceva parte di un grande progetto di sviluppo urbano intorno alla omonima fabbrica modello, alla quale hanno lavorato Mel’nikov e i fratelli Vesnin con il loro straordinario Palazzo della Cultura. La lista dei luoghi e dei nomi è lunga e articolata e conferma che gli spazi urbani, la metropolitana e le relative opere di fortificazione procedono di pari passo secondo un progetto unitario che accosta linguaggi diversi senza contraddizione.
La Metropolitana di Mosca si configura come mito
Spesso i critici occidentali si stupiscono del fatto che un’infrastruttura come la Metropolitana di Mosca sia completamente rivestita di marmo, e si chiedono il perché di tanto sfarzo.
Owen Hatherley, in Landscapes of Communism, nel capitolo dedicato alla metropolitana socialista, cerca di spiegare questo fenomeno collegandosi alla citazione di Lenin “Quando saremo vittoriosi dovremo usare l’oro per fare i cessi pubblici e metterli nelle strade di grandi città” (Lenin, L’importanza dell’oro adesso e dopo la completa vittoria del socialismo, 1921, in Hatherley 2015). Il socialismo è chiamato a “vestire” gli spazi più umili e di servizio con variopinti e opulenti apparati decorativi. Questo discorso si basa su un confronto diretto con le metropolitane occidentali, in particolare quella di Londra, che generalmente sono spazi di servizio, verso i quali i cittadini si comportano come fossero un’estensione dello spazio quotidiano, controllato, ordinario, e alfine soltanto banalmente funzionali (Pike 2013, 227).
La metropolitana di Londra è stata principalmente opera di imprese private e pubbliche con una costruzione che è durata per più di un secolo senza coinvolgere la popolazione inglese in maniera significativa. L’associazione quasi inconscia che Hatherley stabilisce fra lo spazio della metropolitana e quello della latrina è spiegabile attraverso un articolo dello studioso David Pike, nel quale descrive come a partire dalla fine del secolo scorso l’immaginario della Tube si sia progressivamente sovrapposto a quello della fognatura (Pike 2013, 239). Al contrario, in Unione Sovietica, anche le fognature sono pensate come possibile ricovero antiaereo di emergenza, e gli elementi prefabbricati dei collettori sono usati in modo creativo per creare altri tipi di strutture e rifugi, come testimonia una piccolo manuale pubblicato da Stroizdat nel 1968 (Ostrouh 1968).
La scelta del marmo è una scelta utilitaristica, basata su esigenze di pulizia e durabilità, ma è anche un requisito semplice per impreziosire la Metropolitana e darle uniformità (Bouvard 2005, 140).
Fomin designed that station and chose marble of a kind called Shrosh, which is quarried at a place called Shrosha. The other stations are trimmed with marble of a pleasant gray color from the Ufolei quarry, or a white marble with slightly yellowish tints. Other types of marble from various parts of the country were also brought in. This material seemed attractive to us, especially for those days. All of it was quarried by hand, which was very costly, but after all, the subway system seemed to us like a treasure of historic proportions. The decorations in the subway were in general rather extravagant (Chruščëv II [1971] 2006, 251).
Chruščëv a distanza di anni ricorda con precisione i tipi di marmo usati, le accese discussioni con gli architetti, lo sforzo, sia umano che economico, che ha mobilitato un intero paese per la costruzione di un singolo manufatto, che giustamente Chruščëv definisce “un tesoro di proporzioni storiche” (Chruščëv II [1971] 2006, 252), riprendendo i temi propri del progetto di Kaganovich. Josette Bouvard, nella sua monografia dedicata alla Metropolitana, descrive nel dettaglio la creazione di questo mito sovietico (Bouvard 2005). Tecnici e macchinari vennero richiamati da tutti gli angoli dell’URSS e dall’estero a studiare soluzioni innovative, come ad esempio il consolidamento del terreno tramite congelamento. Molte fabbriche vennero convertite per la produzione di tutti gli elementi necessari alla metropolitana, come le sezioni metalliche (tubing) mutuate dagli inglesi.
Una mobilitazione generale che somiglia in tutto e per tutto a quella per l’industria bellica. Uno sforzo giustificato solo da motivazioni che si spingono oltre il semplice costruire un sistema di trasporto. Abbiamo osservato che la Metropolitana di Mosca si forma su un compromesso fra le esigenze civili e militari, che si mescolano continuamente nei processi progettuali e costruttivi. Ma anche la stessa costruzione dell’oggetto ha un carattere fortemente militare, o, per meglio dire, militante. La sfida stessa della costruzione, sia da un punto di vista ingegneristico che economico diventa un elemento che aggrega significati e che si vuole capace di dare un senso totalizzante alla vita:
Only in 1932, when I became second secretary of the party’s Moscow city committee, and from then on, until the end of my party and government work, by the will of fate I became closely linked with construction work. Housing and factories had to be put up, municipal services had to be set running smoothly, roads had to be built, and we built the Moscow subway system − all of this turned out to be so crucial in our lives that it drew me in and began to absorb me completely. It was not construction work itself that fascinated me, but the fact that it was an activity of a new kind. After all, building factories and organizing municipal service − these are concrete expressions of the Leninist idea of building socialism. It is not a matter of just studying theory. (Chruščëv II [1971] 2006, 247)
Chruščëv dichiara esplicitamente che l’attività del costruire assorbe completamente la sua vita, non solo per quanto riguarda il lavoro, ma anche per la consapevolezza di scrivere la storia. Un “costruire nuovo”, quindi, dove il cantiere diventa un laboratorio sociale in cui si forma non solo l’edificio fisico, ma anche la futura, radiosa, civiltà socialista. Un sogno che certo costò caro. Le condizioni di lavoro all’interno dei tunnel erano spaventose, con la continua minaccia degli allagamenti e, temperature che raggiungevano i 40 gradi; gli operai erano a rischio di embolia a causa dall’aria compressa pompata nelle zone di scavo per contrastare la spinta idraulica. Vi era inoltre pericolo di incendi e l’impossibilità di evacuare il personale a grande profondità. Di certo le tragedie non mancarono, sia fra i normali metrostroizi, che per le migliaia di detenuti ai lavori forzati (il “lager nel centro di Mosca”, come lo chiamava Aleksandr Solženicyn), che per gli entusiasti volontari del Komsomol (Giovani Comunisti). Fra questi ultimi, veri eroi della propaganda staliniana, merita ricordare le brigate delle giovani donne, ritratte come delle divinità guerriere dal pittore Alexander Samohvalov.
Come possiamo notare, la polarità fra il civile e il militare è onnipresente, sia nella consistenza fisica dei manufatti che nel tessuto sociale umano e antropologico dei suoi protagonisti.
Alla luce di questi fatti, la Metropolitana di Mosca − grandioso tesoro di arte e di architettura civile e militare − colleziona miti acquistando sempre più importanza nell’immaginario dei russi, fino a diventare un’entità collettiva, che assomiglia a una sorta di personaggio capace di agire nella storia. Un personaggio che si manifesta, fra i vari modi, nel treno corazzato chiamato appunto “Metropolitana di Mosca”, prodotto grazie alle collette degli operai del Metrostroi, per un terzo mobilitati al fronte (Morozova 2017).
Di fronte allo status che acquisisce la Metropolitana, comprendiamo quanto sia inappropriato confondere la ricchezza delle decorazioni delle stazioni con quelle di una latrina dorata. Un luogo così denso di storie e sacrifici non poteva che essere allestito nel più nobile dei modi, con grande profusione di materiali preziosi come il marmo, le vetrate e i mosaici, e non poteva che essere eclettico nella sua forma, in quanto prodotto dello sforzo collettivo di un intero paese.
Ed è certo, come sostiene Hatherley, che i marmi sui quali gli architetti più importanti di Mosca discutono animatamente e ai quali lo stesso Chruščëv presta grande attenzione, nella loro provenienza dai più remoti angoli dell’URSS, rappresentano, in maniera del tutto analoga ai marmi del Palazzo d’Inverno, il centro di un grande Impero. Sono marmi vivi, carne pulsante di un organismo che sta assumendo le sembianze di un essere mitico.
Dopo la guerra, il cambiamento Chruščëviano di mentalità
Dopo la guerra, la maggior parte dei fondi per l’edilizia si concentra nella ricostruzione delle città, e nella creazione di nuovi alloggi per milioni di sfollati. Negli otto anni del dopoguerra sotto Stalin, si ripareranno i danni dei bombardamenti con il piano di ricostruzione di Mosca del 1949 e si realizzeranno alcune importanti opere architettoniche e infrastrutturali, come il canale Volga-Don, i famosi grattacieli di Mosca, l’esposizione dell’Agricoltura (VDNKh). Nonostante la costruzione delle metropolitane nelle grandi città dell’URSS si fermi, a Mosca continua a crescere velocemente (Chruščëv II [1971] 2006, 288), e nel decennio successivo alla guerra si completa la linea anulare e si prolungano le linee al di fuori di essa, a servire i nuovi quartieri.
È dalla morte di Stalin nel 1953 e le grandi riforme nel campo delle costruzioni attuate dal nuovo Primo Segretario Chruščëv a partire dal 1954 che cambia la mentalità. Le metropolitane dell’URSS, ormai è chiaro, sono tanto mezzi di trasporto quanto strutture fortificate. Ma rispetto agli anni eroici di Stalin prima della Guerra mondiale, in cui tutto doveva essere sacrificato per costruire tali strutture, prova della forza e della modernità dell’URSS, ora queste vengono messe sullo stesso piano dell’edilizia residenziale, che ha caratteri molto meno monumentali, e che assorbe buona parte delle risorse economiche. Lo spostamento dell’interesse verso le zone di espansione della città, la critica alla “falsa monumentalità” e alla “laccatura” (lozhnaja monumental’nost’ e lakirovka) cercherà di portare l’infrastruttura dello Stato alla scala dell’uomo, che sarà una delle più grandi rivoluzioni politiche di Chruščëv.
Cionondimeno, l’entità “Metropolitana di Mosca” non smette di essere protagonista della vita della città, e anzi, risemantizzata, la guida verso una nuova fase. Non c’è modo migliore per comprendere questo concetto che guardando la sequenza iniziale del film Я шагаю по Москве (Io passeggio per Mosca, commedia lirica, in Italia noto come A zonzo per Mosca), uscito nel 1961, la cui musica, celeberrima, fa parte dei grandi classici sovietici.
La scena si apre con la scintilla elettrica di un carrello ferroviario che percorre un tunnel in costruzione, poi taglia sulle operazioni di scavo. I minatori scavavano protetti dentro un’armatura mobile (tunneling shield, una tecnica inventata in Gran Bretagna) che avanza man mano che il terreno viene rimosso spinta da pistoni idraulici. Questa tecnica cominciò a essere usata già nel 1934, con uno solo di questi dispositivi, per raggiungere nel corso degli anni successivi la cifra record di 42 armature di scavo operanti in contemporanea. Sotto, il materiale di scavo viene asportato tramite carrelli, e dietro, con un’apposita macchina di posa si rivestono le pareti curve del tunnel con sezioni prefabbricate chiuse ermeticamente l’una sull’altra. Queste sezioni, chiamate tubing, sono tradizionalmente in metallo. Nel film tuttavia sono in calcestruzzo, una tecnica assolutamente innovativa in quegli anni, e che Chruščëv sostiene di aver proposto per primo:
I proposed that the tubing for the subway work be made of reinforced concrete, because I believed in that material (Chruščëv II [1971] 2006, 261).
Il calcestruzzo, onnipresente, in questa nuova epoca della storia sovietica, sostituisce semanticamente il marmo come materiale rappresentativo del successo e del progresso del mondo socialista, ed è molto legato all’anima da minatore di Chruščëv. In questi anni già si cominciano a raccogliere i frutti degli enormi sforzi del settennio passato per migliorare e sviluppare l’industria del cemento e in particolare dei prefabbricati e dei precompressi, che consentiranno l’avvio della più prolifica stagione edilizia della storia dell’URSS, in concomitanza con una stagione di sviluppo dell’industria del consumo di massa sovietico che ha il suo inizio con l’inaugurazione del nuovo piano settennale a seguito del XXI Congresso del PCUS e l’Esposizione di Sokol’niki del 1959 e il confronto con gli standard di vita occidentali.
La sequenza iniziale del film descrive minuziosamente queste operazioni, alternando continuamente l’inquadratura fra le macchine e gli uomini. Vediamo prima il carrello, poi i corpi dei lavoratori, poi la pala meccanica, poi un volto di profilo, poi i pistoni idraulici, poi di nuovo i minatori da un altro angolo, poi la macchina di posa. La sequenza si chiude con i minatori che ritornano a piedi, attraversando il grande lavoro che hanno appena concluso.
Il messaggio è molto chiaro: l’unione ideale della tecnica con l’uomo, che ha il suo culmine subito dopo, nella breve scena della doccia. I minatori nudi, forti e muscolosi come eroi, scherzano come ragazzini, e la forza che rappresentano è piena di umanità, molto diversa da quella eroica e impersonale del periodo staliniano delle donne di Samohvalov.
Per certi versi tutta la sequenza potrebbe essere considerata l’antitesi di Tempi moderni: qui gli uomini si muovono armoniosamente dentro le macchine.
Il film prosegue per tutta la sua durata su questo tema, alternando l’infrastruttura e l’architettura alle persone e piccoli eventi quotidiani, in un’elegia a Mosca fatta di piccoli eventi, a scala umana.
L’immagine chiave appare poco più avanti nel film, al minuto 6.20, quando si inquadra il treno della metrò che sta superando il ponte; la macchina da presa si distrae per soffermarsi su una barca da canottaggio che sta percorrendo il fiume sottostante, in mezzo a flutti scintillanti, in un momento sommamente lirico, di unione fra uomini e uomini, uomini e macchina.
Io passeggio per Mosca è un inno sentimentale a una città in pieno rinnovamento, vista attraverso gli occhi dei giovani, che la percorrono nei cantieri della nuova architettura del Disgelo, come quello per il nuovo Arbat, e dove la Metropolitana fa da basso continuo. In un’altra scena uno dei protagonisti, che lavora per Metrostroi, spiega all’altro protagonista, un giovane scrittore-operaio, come si costruiscono i tunnel servendosi di un bicchiere.
Il film, così come comincia, si conclude nella Metropolitana, ma questa volta in un luogo appena inaugurato (1959), la stazione dell’Università, luogo rappresentativo di quei caratteri di sincerità, sobrietà e pulizia che fanno parte della svolta politica ed estetica Chruščëviana.
La scena musicale finale ci accomiata con il locus della Metropolitana: fra le scintillanti e nette pareti di marmo della stazione, il nostro operaio del Metrostroi porta il film alla conclusione, cantando allegramente la colonna sonora.
L’era atomica
La stazione dell’Università, con la quale si conclude Io passeggio per Mosca, è in realtà uno dei luoghi più importanti nella difesa antiatomica di Mosca. Fu proprio sotto di essa che si costruirono, in concomitanza con il progetto di sviluppo del quadrante sud-ovest di Mosca, una serie di strutture sotterranee che raggiunsero la vertiginosa profondità di 189 metri, e avrebbero servito il nuovo palazzo dei Soviet e i relativi ministeri nella zona di Ramenki, per quale era stato bandito un concorso nel 1956. Alla fine, le unità speciali vennero costruite, mentre il palazzo dei Soviet restò solo sulla carta (Yurkov 2021, 272; Kirillov 1961).
La fine della Seconda Guerra Mondiale e la minaccia devastante delle armi atomiche ebbero l’effetto di accelerare gli sviluppi delle fortificazioni sotterranee.
Nel corso del quarto lotto, iniziata nel 1944 e conclusa nel 1947, che porterà alla chiusura dell’anello di stazioni della linea Koltsevaja, si impongono nuovi standard (Yurkov 2021, 178-182):
● Sopra i pozzi e le rampe di accesso in superficie si realizzano scudi formati da grandi e spesse lastre di calcestruzzo, intervallate da strati di sabbia. Le gallerie vengono dotate di porte ermetiche molto massicce, dello spessore di circa un metro.
● La ventilazione passa per camere di filtraggio sempre più sofisticate.
● Tutte le parti che collegano la superficie alle gallerie devono avere sistemi di chiusura ermetica.
A partire dal 1949, al poligono di Semipalatinsk si sperimentano le armi atomiche e le difese necessarie per resistere alla loro potenza devastante. Si scopre ben presto che le profondità necessarie per sopportare le devastanti onde d’urto sono sempre più alte, e la Metropolitana in molti punti è vulnerabile. Si procede quindi ad attuare sistemi di mitigazione.
Sul piano tecnico vennero modificate le stazioni e i pozzi di discesa e ventilazione, fornendole di ulteriori protezioni dalle polveri radioattive, come le griglie a prova di scoppio a chiusura automatica e le grandi porte ermetiche (ghermovoroti). Nei casi più importanti, i pozzi furono divisi in tronconi verticali disassati per evitare un percorso diretto dell’onda d’urto.
Sul piano logistico si introducono i concetti di compartimentazione e ridondanza. Nell’eventualità che una parte del sistema venisse colpita da un urto diretto, dovevano esserci dei percorsi alternativi in grado di garantire il servizio, e isolando allo stesso tempo la zona distrutta / contaminata dal resto.
Questo concetto si applicò per le stazioni telefoniche del Ministero delle Comunicazioni, che si moltiplicarono e si sdoppiarono in zone lontane fra di loro, tutte interconnesse, in modo che l’assenza di un nodo non pregiudicasse l’interruzione dei collegamenti. Il nodo di comunicazioni sotto la Bielorusskaja, l’obiekt-01, venne duplicato in altri due nodi, rispettivamente alla stazione di Kiev (obiekt-03, in assonometria) e della Taganka (obiekt-02). Quest’ultimo si trova a una sessantina di metri sotto terra, e ospitava adiacente anche un centro di comando dell’Aeronautica Militare, l’obiekt-42, ora reso pubblico e trasformato in un luogo di divertimento popolare a Mosca.
L’assonometria di progetto dell’obiekt-03 (da Yurkov 2021, 186-187) è simile a quella già vista per la Bielorusskaja, e, sebbene non corrisponda al progetto effettivamente realizzato, ci permette di avere un’idea di come erano costruiti questi luoghi sotterranei. La stazione metropolitana Kievskaja è ben visibile al centro, formata da tre navate. Sotto la stazione ci sono i locali tecnici, dai quali si diparte un passaggio che conduce a un complesso ed esteso sistema di locali. I due tunnel gemelli ospitano i combinatori telefonici, a loro volta collegati tramite locali accessori, per i generatori e i filtri ad aria al volume principale con le pareti rinforzate, dove prende posto il personale.
Un sistema ridondante di pozzi e rampe garantisce l’accesso dalla superficie e dalla metropolitana principale. Osserviamo anche che le teste del pozzo di discesa sono protette da calotte di calcestruzzo massiccio, mascherate da edifici e normali bocche di areazione, e lo stesso pozzo ha al di sopra un grande scudo di protezione costituito da una spessa placca di calcestruzzo.
Stupisce ancora una volta la generosità grafica del disegno, nella quale si alternano con molta maestria gli spaccati, le proiezioni e le assonometrie. Il netto groviglio dei tunnel e delle rampe contrasta nettamente con l’immagine di una sfumata Mosca di inizio secolo, (nella quale si riconosce la stazione ferroviaria aperta nel 1899 e ricostruita dopo la guerra), con dettagli drammatici e paradossali come i tram sul ciglio di una fittizia scarpata, che ingloba alcuni punti della Metropolitana, a indicare che tutto questo è immerso nella terra. L’immagine restituisce, nella sua ricchezza, la complessità del labirinto che si accumula nel sottosuolo moscovita, costruzione dopo costruzione, nel corso dei decenni.
Un altro grande spazio sotterraneo a servizio degli organi governativi è l’obiekt-101, costruito sotto le fondazioni di quello che sarebbe dovuto diventare l’ottavo grattacielo di Stalin, a Zariadye, nei pressi del Cremlino. Con la morte di Stalin il cantiere si interruppe, ma il bunker era già stato realizzato (successivamente nello stesso sito venne costruito l’albergo Rossiya, ora demolito e trasformato in parco).
Contestualmente a questa fortificazione, nel 1951 si elabora la prima spezvetka, ovvero l’oggetto 100, un tunnel di collegamento fra le fortificazioni sotterranee del Cremlino e l’oggetto 101. Questi tunnel, più piccoli della Metropolitana e costruiti in modo da poter essere percorsi anche con un veicolo, sono pensati sempre secondo il principio della ridondanza, e permettono inoltre di spostarsi da un punto di comando a un altro senza dover usare la metropolitana principale, che in caso di guerra potrebbe essere sovraffollata. Altre spezvetki collegano questi bunker a quelli del NKVD (poi KGB) sotto la Lubianka e con nuovi rifugi ancora più profondi sotto il Cremlino, come l’obiekt 1-A, rinforzati con pareti molto spesse di cemento (Yurkov 2021, 285-288).
Negli anni ’50 e ‘60 le sfide tecniche poste dall’evoluzione degli ordigni nucleari (cominciano a comparire le bombe a idrogeno, svariate centinaia di volte di più potenti di quelle usate nella Seconda guerra mondiale) costrinsero i progettisti sovietici a elaborare sistemi sempre più articolati e in profondità, dotati di impianti sofisticati, oltre che a procedere a una sistematica delocalizzazione delle strutture strategiche.
Di seguito l’elenco completo: КП ПВО Centro di comando della contraerea, 1937; N°01 Nodo protetto del Ministero delle Comunicazioni, 1941; N°84 Centro di comando cittadino, 1941; N°1 Uffici protetti per l’alto personale governativo, 1941; N°25 Rifugio antiaereo per l’apparato governativo del Cremlino, 1941; N°15 Piccolo rifugio antiaereo nel Cremlino; N°16 Nodo di telecomunicazioni governative ad alta frequenza, 1941; N°31 Uffici governativi protetti, 1942; N°201 Uffici protetti dell’NKVD/MVD/KGB, 1942; МП МПС Centro di comando del Ministero dei rifornimenti e dei collegamenti, 1941; ЦК КПСС rifugi per membri del partito, 1942; N°32 e N°32bis Uffici protetti per lo Stato Maggiore e nodo di comunicazione, 1943; КП ВМФ Centro di comando della Marina Militare, 1943; N°02 Nodo protetto del Ministero delle Comunicazioni, 1956; N°20 Uffici protetti per i telefonisti e marconisti, 1956; N°03 Nodo protetto del Ministero delle Comunicazioni, 1961; ТАСС Uffici protetti per l’agenzia d’informazioni TASS; N° 508 centro del Ministero delle Comunicazioni; metà anni ’50; N°105 Nodo di comunicazioni dello Stato Maggiore, inizio anni ’50; КП МЕТРО Centro di comando della Metropolitana, metà anni ’50; Д-1 e Д-2 centrali elettriche a diesel di riserva, anni ’50; КП МОСЕНЕРГО Centro di comando delle reti energetiche, anni ’50; N°101 Uffici protetti per personale governativo e tecnico, anni ’50; N°100 ramo di collegamento protetto (spezvetka) fra N°101 e ЦК КПСС, anni ’50; МИД-2 Archivio protetto del Ministero degli Esteri, metà anni 50; N°54 Uffici protetti per personale governativo, metà anni ’50; ФВК Sistema di ventilazione e filtraggio sperimentale, anni ’60; ЗРП КГБ Uffici protetti del KGB, anni ’50; ДВ-1 e ДВ-2 prese d’aria esterne della Metropolitana, anni ’60; ВЕТКА tunnel “Vetka”, per l’evacuazione del Cremlino verso le prese d’aria esterne.
Fino a qui abbiamo visto che profondità e ridondanza sono le caratteristiche di base per i ricoveri antiatomici. Ben presto tuttavia, ci si rese conto che queste non bastavano, perché, nel caso di un attacco radioattivo, si doveva garantire la sopravvivenza delle persone non solo all’impatto, ma anche nei giorni, se non nelle settimane successive. Questo significava che era necessario poter isolare in maniera totale tutta la Metropolitana, e renderla autosufficiente per tutto quanto concerne il ricambio d’aria, la produzione di energia, le riserve di acqua, alimenti e attrezzatura per l’evacuazione. La condizione di totale isolamento, chiamato dagli specialisti “Regime-P” era, da un punto di vista ingegneristico, una sfida quasi impossibile. Se era fattibile filtrare e rigenerare l’aria per un locale limitato e per tempi limitati, come i bunker della PVO, con sistemi simili a quelli usati nei sottomarini, fare lo stesso per tutte le linee della Metropolitana si rivelò una vera sfida. Si calcolava che il solo complesso fortificato dell’Università era in grado di ospitare 80.000 persone, mentre tutto il sistema metropolitano poteva proteggere oltre 500.000 persone. In queste condizioni, mantenere il “Regime-P”, anche solo per 48 ore (considerato il tempo minimo per avere un decadimento radioattivo abbastanza basso per uscire in superficie), era assolutamente irrealistico. Si provarono a costruire massicci impianti sperimentali di filtraggio nei pressi di alcune stazioni dell’anello, come Park Kulturi, che tuttavia non portarono a risultati soddisfacenti (Yurkov 2021, 270).
Alla fine, l’unica soluzione fattibile fu costruire delle prese d’aria speciali, chiamate DV, Dalnie Vosduhozabori, in zone lontane dal centro della città, che sarebbero state meno colpite da un attacco nucleare, e avrebbero fatto entrare l’aria pulita attraverso i tunnel della Metropolitana, per rifornire tutte le stazioni fino ad arrivare sotto il Cremlino. Si contano circa 3-5 DV nei progetti, fra questi il più importante è l’unità-54 che si trova a Matveyevskoe, una località a circa una ventina di chilometri dal centro, nella zona sud-ovest di Mosca, vicino a una stazione ferroviaria, e collegato alla linea Sokolincheskaja tramite un tunnel profondo. Si pensò che questo tunnel, oltre a portare l’aria, poteva essere un’opportunità per creare una via di fuga segreta, e fu designato come punto di uscita per l’evacuazione del personale governativo, che, se fosse sopravvissuto a un attacco nucleare, si sarebbe dovuto recare a Matveyevskoe, dove sarebbero stati in attesa altri mezzi di trasporto.
Si pose a quel punto il problema di consentire gli spostamenti dei quadri nel caso la Metropolitana entrasse in un “Regime-P” di totale isolamento. Era impensabile pensare di poter usare la normale rete metropolitana, perché sarebbe stata congestionata da centinaia di migliaia di persone. Si decise così fra il 1964 e il 1969 di costruire un tunnel alternativo, chiamato vetka (la linea tratteggiata nella mappa sopra), secondo lo stesso principio delle varie spezvetki, che avrebbe collegato la rete dei bunker vicino al Cremlino con il complesso vicino all’università, per giungere a Matveyevskoe.
Con l’introduzione dei tunnel speciali e delle prese d’aria esterne assistiamo a un processo di progressiva decentralizzazione della città, che è sempre più vista come una rete di centri in comunicazione fra loro. Non a caso, negli stessi anni si consolida la teoria urbanistica delle città-satellite, e della progettazione degli insediamenti su scala territoriale. Uno degli esempi meglio riusciti di questa nuova stagione dell’urbanistica sovietica è Zelenograd, modernissima cittadella scientifica a una trentina di chilometri a nord della capitale. Il rapporto con la natura si fa più esteso e più sinergico e compaiono tipologie che includono aree di territorio molto estese, come quella del lesopark, ovvero del parco-foresta, che cinge in molti punti le nuove zone di espansione della città, cercando di mantenere un equilibrio fra l’inarrestabile crescita edilizia e il territorio naturale. La creazione di questi territori speciali diventava anche l’opportunità per delimitare e creare luoghi protetti che potevano avere un uso militare, e infatti è proprio in un lesopark che si trova la presa d’aria di Matveyevskoe.
Mosca con le sue strutture sotterranee passa dalla scala della città a quella della regione, che diventa il vero tessuto vitale dal quale il centro aspira le sue risorse.
Dunque la rete metropolitana sul finire degli anni Sessanta si arricchisce di un’ulteriore funzione: oltre a essere un sistema di trasporto convenzionale, rifugio antiaereo, sistema di evacuazione, luogo di comando, sistema di comunicazione protetto, diventa anche un apparato respiratorio artificiale per la città, arca di salvezza nel caso Mosca venisse distrutta da ordigni nucleari.
Dopo il 1969 quasi tutti i documenti sono coperti da segreto di stato, e si possono soltanto fare ipotesi su quali siano stati gli sviluppi successivi delle fortificazioni sotterranee di Mosca. Ipotesi che non sono nell’interesse di questo articolo.
Il bunker nell’immaginario sovietico e post-sovietico
Abbiamo cercato di riassumere a grandi linee gli sviluppi delle fortificazioni sotterranee di Mosca, fin dove e quando risulta possibile. A questo punto possiamo interrompere la descrizione storico-tecnica e chiederci come questi oggetti abbiamo contribuito a creare un immaginario ben preciso del “bunker sovietico”, che si è riverberato fortemente nella cultura sovietica e post-sovietica.
Gli elementi spaziali e tecnologici che caratterizzano la Metropolitana di Mosca, e che sono intimamente legati alle questioni militari, entrano a far parte dell’immaginario collettivo, che proveremo a suggerire tramite una rete di autori e soggetti del cinema e della letteratura degli ultimi cinquant’anni, fortemente collegati e influenzati fra loro.
Abbiamo visto come, a livello culturale, la costruzione del sottosuolo di Mosca abbia avuto degli intrecci forti con lo sviluppo dell’architettura in superficie, e a livello politico abbia accompagnato la vita di Chruščëv, le cui memorie ci guidano passo per passo in questa narrazione.
La Metropolitana compare spesso nei pensieri del leader:
As a worker in the mines and a participant in the construction of subways, I had a specific knowledge of mining operations. The idea occurred to me of placing the missiles in vertical shafts (Chruščëv II [1971] 2006, 464-465).
Siamo liberi di credere o meno che Chruščëv abbia effettivamente inventato i missili nascosti nei silos interrati, ma è indubbio che ancora una volta la forte esperienza della costruzione della Metropolitana, all’inizio della carriera, continui a ispirare nuove idee. La Metropolitana esiste, come nel film Io passeggio per Mosca, come sub-testo, più o meno cosciente, che riemerge di volta in volta in momenti importanti della Guerra Fredda.
L’acuirsi della corsa agli armamenti della seconda metà del secolo scorso non ha fatto altro che rinforzare la polarità cielo-terra che coinvolge da sempre la Metropolitana di Mosca, e questa si sviluppa in un gioco nel quale entrambe le parti hanno cercato di aumentare le loro capacità di vulnerare l’altro con missili sempre più veloci e potenti, e allo stesso tempo hanno provato a essere invulnerabili dentro bunker sempre più profondi. Una corsa bidirezionale e frenetica, basata sull’assunto che il primo che si ferma verrà sopraffatto. Una corsa la cui insensatezza e follia Chruščëv aveva compreso bene:
But listen here: in a single thermonuclear flash, a bunker can be turned into a burial vault for a country’s leaders and military commanders (Chruščëv II [1971] 2006, 541).
Le bombe hanno raggiunto, nel loro rapido sviluppo tecnologico, livelli di distruzione tali da rendere insensata l’idea di nascondersi sottoterra. Ha veramente senso sopravvivere, come in Metro 2033, in un mondo desolato dove si può sopravvivere solo sottoterra?
Un paradosso che fino ai giorni nostri non ha fatto altro che ingigantirsi. In una serie di interviste che Putin ha concesso a Oliver Stone nel 2015, raccolte in un documentario intitolato The Putin Interviews, c’è un episodio (visibile qui) nel quale il regista, dopo aver discusso della storia della corsa agli armamenti dalla crisi di Cuba in poi, convince il leader russo a guardare il classico Il dottor Stranamore. Putin sembra divertito, e con estrema lucidità afferma che oggi il pericolo di una guerra nucleare è più che mai attuale, sebbene non se ne parli molto, e aggiunge in modo enigmatico che molte delle cose previste nel film oggi sono possibili anche da un punto di vista tecnico. Oliver Stone, affascinato dal carisma del leader, conclude l’intervista senza rendersi conto a cosa stesse accennando lo stesso. Quello che Stone non poteva sapere era che in quegli stessi anni la Russia stava sostanzialmente rinnovando il suo arsenale strategico.
L’apparente fine della guerra fredda e l’inclusione nel panorama nucleare di nuovi attori ha di fatto aumentato i pericoli di un conflitto nucleare. Gli ultimi tre decenni hanno visto l’allargamento della Nato verso l’Europa baltica e orientale (con conseguente avvicinamento delle basi missilistiche alla Russia) e l’uscita da praticamente tutti i più importanti trattati di disarmo firmati prima del 2000 da parte degli USA, in particolare l’IFN del 1987, e i trattati riduzione delle armi strategiche 1991-93, che riducevano notevolmente gli arsenali sia tattici che strategici, ponendo importanti limiti alla possibilità di un’escalation. Con la riduzione dei tempi di volo e conseguentemente di risposta al primo attacco, oltre che alla reintroduzione di armi a piccolo e medio raggio, lo spettro dei possibili scenari si è notevolmente complicato, rendendo gli equilibri sempre più difficili.
I russi hanno risposto con un ammodernamento dell’arsenale. Le innovazioni sono state presentate dallo stesso Putin nel 2018 in un’agghiacciante conferenza stampa nella quale erano presenti tutte le più importanti personalità del governo (vedi su Youtube: Oliver Stone and Putin watch Dr. Strangelove). Fra filmati e rendering sono stati visualizzati missili ipersonici capaci di manovre imprevedibili intorno alle contraeree, mini-bombe atomiche portatili da nascondere nei container, armi capaci di superare le difese esistenti nell’acqua, nel cielo e nello spazio, con nomi da manifesto futurista come “Pugnale”, “Sfera di fuoco”, “Cuneo”. Per molte delle armi presentate, con una certa ironia, si chiedeva di fare un sondaggio online sul sito del Ministero della Difesa per scegliere un nome appropriato. Il tono della presentazione giocava continuamente fra il compiaciuto-divertente e il minaccioso, in una sorta di calma aggressiva dove anche la frase ”Nessuno ci ha voluto ascoltare: adesso ascoltateci” (Нас никто не слушал, послушаете сейчас, seguito da applauso generale e standing ovation) suona alle orecchie degli ascoltatori come un bonario ma gelido avvertimento.
E come per le dichiarazioni di Chruščëv sulla sopravvivenza, così anche quelle di Putin, lucidissime, rivelano una schizofrenia di fondo che non è, beninteso, da attribuire ai leader della Russia / URSS, e nemmeno al tradizionale senso patriottico di dover difendere un territorio attaccato e devastato numerose volte nel corso della storia; ma è del mondo contemporaneo in generale, cieco e sorridente di fronte alla possibilissima eventualità di una catastrofe nucleare. E quale personaggio meglio descrive questa condizione se non il lucidissimo e bipolare Dottor Stranamore?
La schizofrenia contemporanea della forza consiste nell’accettare e rifiutare contemporaneamente l’eventualità di una guerra nucleare e fintanto che si cerca di evitare la domanda ”e se succedesse?” si può continuare a perseguire una politica dell’equilibrio instabile. Fintanto che si crede irrazionalmente nella razionalità dell’altro a non distruggere il mondo, il pericolo di una distruzione totale viene, in qualche modo, rimosso.
E qualora questa domanda venisse posta comunque, la risposta sarebbe quella del dottor Stranamore: l’umanità troverà rifugio nei bunker sotterranei, che come l’Arca permetteranno all’umanità di sopravvivere.
Ma nel Dottor Stranamore i personaggi sono ciechi di fronte alla catastrofe, e continuano nel loro gioco perverso di mosse e contromosse (i russi spiano la base americana; gli americani discutono di un improbabile mineshaft gap), nel quale il bunker proposto dal Dottore acquista le sembianze di un paradiso ultraterreno, dove per ogni leader politico ci saranno dieci bellissime donne a garantire la continuità della specie. Un paradiso, che come abbiamo visto, fa parte anche dell’immaginario nella Metropolitana moscovita.
Questa cecità non è prerogativa dei personaggi di un film, ma di un'intera umanità che quotidianamente riversa nei bunker il suo inconscio. È la condizione del cittadino moscovita che, scendendo nella Metropolitana, più o meno consapevolmente, attraversa le grandi porte di acciaio ermetiche spesse un metro, sapendo che da un momento all’altro potrebbero chiudersi per sempre, come nella storia raccontata da Dmitry Gluhovskij, con la quale abbiamo aperto questo articolo.
Una catastrofe che non si sente, che parafrasando Didi-Huberman, è inodore come il gas grisù nelle miniere, una catastrofe differita, distratta da mille altri pericoli che l’umanità preferisce mettere in primo piano. Non a caso, anche in Sentire il grisou Didi-Huberman cita la Rabbia di Pasolini, che comincia con un montaggio di cieli e di esplosioni atomiche. Immagini di attualità passata e presente che nel loro fremere ci permettono di “sentire il grisou della storia” (Didi-Huberman [2014] 2021, 88).
Con il terrore prodotto dalla minaccia atomica, anche l’immagine della Metropolitana moscovita cambia tonalità. I lunghi tunnel di calcestruzzo scintillante che rappresentavano la modernità di un paese in pieno sviluppo, ora sono l’immagine di un grigio labirinto dove domina l’immobilizzazione prodotta dalla “velocità sospesa”, per usare le parole di Virilio (Virilio 2010).
Gli stimoli della percezione sensoriale si contraddicono nel sotterraneo: se il bunker tedesco della Seconda guerra mondiale era un dispositivo per osservare con gli occhi il paesaggio e controllarlo, dove la scala, per quanto grande, era ancora appannaggio dell’uomo, e l’oggetto architettonico era parte organica dell’ambiente in cui si trovava, il bunker della guerra contemporanea a scala planetaria “vede”, “osserva”, e “sente”, tramite reti strumentali sparse su interi continenti, sistemi di radar, satelliti, microfoni subacquei, sismografi. Tutto questo da un luogo, o meglio una rete di luoghi sotterranei, ultraterreni. Ma questa visione panottica costringe l’uomo che si trova al suo interno a essere miope e cieco, nella paradossale condizione di vedere tutto il mondo stando chiuso in un luogo buio e claustrofobico, che nulla ha a che fare con gli ampi spazi luminosi sui quali invece può intervenire a comando.
D’altro canto l’uomo non ha scelta: se per caso decidesse di uscire dal tunnel e provare a “vedere”, non vedrebbe nulla perché un missile ipersonico è troppo veloce per i suoi occhi, e per sopravvivere, dovrebbe per forza ritornare nel suo bunker e fidarsi della rappresentazione del mondo che si è costruito al suo interno. È questa, appunto, “la velocità sospesa” di cui parla Virilio, rielaborando il concetto di ‘legge di movimento’ di Hannah Arendt, che possiamo applicare al caso specifico della Metropolitana di Mosca. E il bunker, non essendo un luogo preciso nello spazio, ma solo un microcosmo costruito dall’uomo, diventa un atteggiamento mentale, che si rispecchia nei comportamenti quotidiani delle persone. È lo stesso atteggiamento che si riscontra in alcune persone anziane sovietiche, che tengono la radio costantemente accesa a volume minimo, nel caso si diffondesse un segnale di emergenza “Atom”.
Ed è proprio grazie a questa dissociazione sulle percezioni e gli spazi che l’umanità vive all’erta, preparandosi alla catastrofe, e allo stesso tempo è cieca di fronte a essa: questa è la condizione dell’uomo moderno, che, non ha caso, ha le sue radici nel sottosuolo, o, per meglio dire, nelle Memorie dal sottosuolo.
Arrivavo al punto di gustare un misterioso, morboso, ignobile piacere a tornare nella mia tana in una delle schifose notti pietroburghesi, e di rendermi conto che anche quella volta avevo commesso una schifoseria, e quel che è fatto è fatto, non ci puoi rimediare, e intimamente, misteriosamente mi struggevo per quello che avevo fatto, mi dilaniavo e mi consumavo fino a che l’amarezza si trasformava in una sorta di vergognosa, maledetta dolcezza, e alla fine in un’indubbia, autentica ebbrezza (Dostoevskij [1864] 1995, 26).
L’inconscio dell’umanità è il sottosuolo, nei confronti del quale l’uomo schizofrenicamente prova insieme terrore e attrazione. E tutto questo può essere rimosso dalla logica nelle profondità dell’animo umano (il sottosuolo, appunto) fintanto che non emerge il pensiero che magari un giorno, per davvero, in un momento di irrazionalità, potrebbe giungere la Fine del Mondo.
Un momento che non avrebbe l’aspetto ironico e divertente del finale del Dottor Stranamore (nel quale per la prima volta si fecero vedere al grande pubblico le riprese di un’esplosione di bombe a idrogeno), ma piuttosto quello di Lettera di un uomo morto, appartenente a un filone di narrativa apocalittica sovietica che con Dostoevskij ha legami profondi. Nella scena vediamo le esplosioni devastare la Terra, mentre un bambino recita in latino la preghiera dell’angelo custode. Le esplosioni demoliscono in tutta la loro dirompenza le città, che sembrano piccoli modellini in mezzo alle poderose fiamme a cui fa da contrasto il netto bordo circolare dei tunnel nei quali si accalca una folla spaventata.
Il film, girato nel 1986 (in ‘fortunata’ coincidenza con la catastrofe di Chernobyl) da Konstantin Lopushanskij, già aiuto regista di Tarkovskij, è contraddistinto dalle immagini color seppia e blu in toni che ricordano il cinema espressionista tedesco. La storia è ambientata in una Manhattan devastata da una guerra nucleare, dove alcune persone, fra le quali il professor Larsen, hanno trovato rifugio negli scantinati della città.
L’uomo morto, è il professore, nascosto in un bunker, che scrive lettere al figlio irraggiungibile, dove racconta come vive sepolto con i suoi compagni di sventura, in una terra desolata.
Tutto il film gioca sulla polarità vita-morte, umano-non umano. Lo spazio sotterraneo si confonde, visivamente e simbolicamente, con quello della tomba; anche il bunker governativo, dove la parte migliore dell’umanità si è rifugiata, ha i toni lividi e freddi di un obitorio, in contrasto con la scenografia degli esterni e del rifugio dove vive il professore che, seppur tetri, conservano ancora un tono caldo. Larsen e i suoi compagni cercano di mantenere nei loro comportamenti quotidiani una parvenza di vita, fioca, come le lampadine che illuminano i locali sotterranei alimentate dal mesto pedalare delle biciclette a dinamo dei protagonisti. Cenano insieme, celebrano il natale, seppelliscono i morti.
La domanda di fondo è “cosa vuol dire essere morti?”. Il film narra della mesta protesta di uno sparuto gruppo di persone, che affermano, ciascuno a suo modo, la propria umanità rifiutandosi di seppellirsi nel bunker governativo, dove tutto è regolato da freddi calcoli di sopravvivenza.
Nei vari funerali che si tengono nel corso del film, non possono che tornare in mente di nuovo le parole di Chruščëv, che associa i rifugi sotterranei alle tombe:
The supposed means of protection in the event of thermonuclear war — very deep bomb shelters, special command posts, and so on — would simply become vaults in which people would be buried alive. The people who invented these means of destruction would also be destroyed (Chruščëv II [1971] 2006, 532).
Lo spazio del bunker, quindi, da luogo di evasione e salvezza diventa tomba e prigione, nella quale mantenersi in vita non coincide con il vivere. E il professor Larsen, nell’ennesimo ribaltamento di significati, non può che morire per continuare a vivere.
L’uomo, in questo sottosuolo dostoevskiano, incapace di vedere e misurare lo spazio, non può che abbandonarsi all’irrazionale cieco, che si manifesta come una discesa agli inferi. Ancora Chruščëv:
It was simply unbelievable what Stalin would do sometimes. […] When we came to see him on military matters, after our report, he invariably invited us to go down to his bomb shelter. Dinner would begin, and it would often end with fruits and vegetables being thrown around. Sometimes at the ceiling and the walls, either by hand or with forks and spoons. This made me angry. How could this man, the leader of our country and an intelligent person, drink himself into such a state and allow himself to do such things? Almost all the commanders of the Fronts, who are now marshals of the Soviet Union, also went through this painful experience and observed this shameful spectacle (Chruščëv II [1971] 2006, 43).
Dalle parole di Chruščëv possiamo solo immaginare l’atmosfera claustrofobica e terrificante che si doveva respirare nel bunker durante gli sfoghi d’ira di Stalin.
Se i sensi sono frustrati, l’uomo può solo affidarsi all’istinto, come un animale, per sentire e orientarsi nel sottosuolo:
Artiom si ricordò di come il suo padrino gli avesse raccontato che nella metro non ci sono due tunnel uguali […]. Quella capacità di sentire oltre i sensi si sviluppava dopo molti anni di esplorazioni, e certo non in tutti. Il padrino la chiamava “sentire il tunnel”, e quell’ “udito” lui ce l’aveva, e ne era fiero, e non disse mai ad Artiom che se l’era cavata in svariate occasioni solo grazie a questo suo istinto. Molti altri, nonostante i lunghi periodi passati nella metropolitana, non avevano acquisito niente di simile. Alcuni si facevano prendere da una paura inspiegabile, altri sentivano rumori, altri voci, progressivamente perdevano la ragione, ma tutti concordavano su una cosa: anche quando nei tunnel non c’è anima viva, non sono mai completamente vuoti. Qualcosa di invisibile e praticamente impalpabile cola lentamente su di loro, riempiendoli della sua stessa vita, come un freddo sangue nelle vene del leviatano di pietra (Gluhovskij 2002, 91, traduzione nostra).
L’essere mitico che si è realizzato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, si trasfigura di nuovo: la Metropolitana di Mosca diventa un “leviatano di pietra” nel quale scorre un sangue freddo e impalpabile. Un leviatano che agisce a livello mentale, come nella sequenza del tunnel nel film Stalker (1979) del regista Andrei Tarkovskij.
La galleria, dalla quale colano gocce d’acqua, viene percorsa con un tempo e una tensione insopportabili. Non c’è niente di spaventoso nel tunnel, eppure, lo Scrittore lo percorre con uno sforzo estremo. La fine del tunnel non si vede, perché è in curva. Il tempo è frammentato in mille rivoli di gocce d’acqua, e acquista una dimensione interiore, così come lo spazio. Alla fine della lunga sequenza, priva di eventi, il personaggio giunge a una porta ermetica, del tutto identica a quella dalla quale era partito. In Stalker vediamo lo spazio del bunker mescolarsi con lo spazio mentale, e la Zona nella quale si muovono i protagonisti è piena di loop, anomalie, singolarità; molto più simile al tempo di una coscienza umana che a quello di un luogo fisico.
Sai, nella metro è sempre notte, e per questo il tempo non ha senso […] Ferma il tuo orologio, e vedrai in cosa si trasforma il tempo, è molto curioso. È cambiato, e non lo riconoscerai. Smette di essere diviso a pezzetti, sezionato, in ore, minuti, secondi. Il tempo è come il mercurio: lo dividi, ti giri, e si è già riunito, di nuovo un tutto unico e inafferrabile. La gente lo ha catturato, imprigionato negli orologi e cronometri, e per coloro che lo tengono in catene, scorre uniforme. Ma prova a liberarlo – e vedrai: per le persone diverse scorrerà in modo diverso, per qualcuno lento e viscoso, scandito dai movimenti del respiro, per qualcuno corre affannosamente, e misurarlo si può solo con una vita vissuta (Gluhovskij 2002, 91, traduzione nostra).
Guardando complessivamente a tutte queste immagini del sotterraneo sovietico, e confrontandole con le alle sequenze di Io passeggio per Mosca, diventa chiaro quanto radicalmente sia cambiato l’immaginario della Metropolitana: da luogo pubblico, emblema del progresso di una città e di una società, diventa sempre di più uno spazio interiore indicibile, un sottosuolo dostoevskiano.
La figura dantesca dello Stalker
In questo nuovo paesaggio sospeso fra le tenebre dell’animo e la desolazione di un mondo distrutto compaiono sempre − in una forma o nell’altra − delle figure capaci di muovervisi e attraversarne i mondi:
-Tu, immagino, ti stai riferendo agli Stalker? -Non so di cosa stai parlando -Così li chiamavano da noi a Harmont i ragazzi disperati, che a loro rischio e pericolo si intrufolano nella Zona e trascinano fuori tutto quello che hanno la fortuna di trovare. Questa è una vera nuova professione (Strugatski 1971, 49, traduzione nostra).
Questa è la prima apparizione della figura dello Stalker, in una novella dei fratelli Strugatskij intitolata Picnic sul ciglio della strada, sulla base della quale Andrei Tarkovskij girerà otto anni dopo il celebre film che non a caso chiamerà Stalker.
Lo Stalker è un personaggio unico, dotato di caratteristiche particolari. Prima di tutto, deve essere disperato: sfidare l’ignoto, gettarsi in un mondo dove la coscienza non può essere d’aiuto. È un personaggio obliquo, che non percorre mai la strada più diretta per giungere alla sua meta, che segue regole incomprensibili solo a lui note.
Ma proprio per questo il suo ruolo è fondamentale, in quanto è l’unica guida capace di tracciare una strada nel sottosuolo altrimenti inconoscibile.
Lo Stalker quasi sempre indossa la maschera antigas, che lo protegge dall’ambiente aggressivo, ma che lo spersonalizza. La maschera antigas è un elemento onnipresente nelle immagini, nei videogiochi, negli allestimenti, nelle visioni post-nucleari. Il suo potere evocativo è fortissimo. È un segno ambiguo, funereo come una maschera del dottore della peste, ma anche di speranza: certe volte dietro la maschera vediamo gli occhi di chi la indossa.
Il mondo che lo Stalker attraversa ha due elementi ricorrenti e in contrasto fra loro: le porte ermetiche e l’acqua di falda.
Le porte ermetiche, di acciaio, possenti, con le loro manovelle e i cardini arrugginiti sono gli elementi che scandiscono lo spazio fluido del tunnel, lo misurano, lo delimitano. Le porte sono generalmente di aiuto allo Stalker, che può aprirle per passare da un mondo a un altro, oppure chiuderle, per isolarsi da un pericolo.
Le porte ermetiche sono una presenza costante nella Metropolitana, sia negli ingressi delle stazioni che lungo i tunnel.
L’acqua, al contrario, percola e scorre dappertutto. Non si tratta dell’acqua viva dei fiumi, dei mari, delle sorgenti, ma di acqua di falda, elemento sotterraneo per eccellenza, incontrollabile e oscuro.
Le acque di falda sono state il pericolo costante nella costruzione della Metropolitana di Mosca. I frequenti allagamenti, i plivun, sono stati il principale nemico dei minatori, che hanno usato l’aria compressa e congelato il terreno per limitarli. La posizione delle falde acquifere ha determinato e determina tuttora in modo sostanziale il tracciato e la profondità delle linee. L’acqua di falda regna inesorabile su tutto quello che si trova nel sottosuolo. È così presente nell’immaginario della Metropolitana che la troviamo protagonista nel survival film Metro del 2012, nel quale un gruppo di personaggi cerca di sfuggire all’allagamento di un tunnel nel quale sono rimasti bloccati. A salvarli, le porte ermetiche e un bunker segreto.
Ma è in Stalker che l’acqua diventa un’entità totalizzante. Presente in ogni forma e in ogni suono, per terra, sui muri, ferma, in movimento; di ogni colore, torbida e trasparente, misura il tempo mutevole e instabile del mondo figurativamente sotterraneo in cui si muovono i protagonisti. Nella scena del canale di scolo, al minuto 1.08.18, la vediamo esprimersi in tutta la sua potenza.
L’acqua si rovescia come un torrente nel “tunnel asciutto”, come lo chiama lo Stalker, impetuosa e assordante, e si perde nell’oscurità. Nell’inquadratura successiva la vediamo sgorgare dal fuoco e poi, placida, scorrere su un pavimento di piastrelle, passando sopra vari oggetti, per terminare su un calendario. Un’acqua-tempo, dunque, in continua inversione, sempre paradossale, che nel suo muoversi imprevedibile e sotterraneo determina le vite degli uomini.
Un fiume sotterraneo che i protagonisti devono attraversare per farsi accettare dalla Zona, che ha tutte le caratteristiche di un fiume dantesco.
le acque di falda, benedizione e maledizione della stazione Sebastopolskaja, scorrevano da tutte le parti, come le acque dello Stige nella barca piena di falle di Caronte (Gluhovskij 2009, 12, traduzione nostra).
Stalker è colui che è abbastanza disperato da intraprendere un viaggio verso l’ignoto, di uscire dal bunker verso un mondo che non appartiene più agli uomini, dove le regole del conoscere e del sentire non valgono più. Solo esso, accettando il paradosso, seguendo regole incomprensibili all’intelletto, è in grado di attraversarlo e ritornare illeso alla normalità.
La figura dello Stalker è quella di un Dante moderno, che si muove dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto, dove tutto oscilla continuamente: il paradiso diventa inferno e viceversa. Una figura dannata destinata a non trovare mai pace, mossa dal desiderio di trovare risposte, costretta a muoversi incessantemente nel sottosuolo, in un cuore di tenebra:
-Taci!- gridai- Gli stalker vanno in paradiso senza fare la fila! (Strugatski 1971, 18 traduzioni nostre).
Conclusioni
È a questo punto che dobbiamo interrompere il nostro racconto sul sotterraneo di Mosca, che di certo continuerà a evolvere nel futuro in nuove forme e significati.
Abbiamo visto come la Metropolitana di Mosca sia figlia della modernità, ma anche della guerra, o per meglio dire, di quel vivere costantemente all’erta che è una cifra del fare guerra nel Novecento.
Fin dalla sua nascita, sotto l’ispirazione dei progetti della metropolitana di Roma, si decise di costruirla come un grande rifugio antiaereo, capace di proteggere non solo la popolazione civile, ma anche le strutture vitali, governative, amministrative, di comunicazione, economiche, con lo scopo di garantire la sopravvivenza dello Stato in caso di guerra.
Le strutture sotterranee, di recente studiate in modo scientifico, rivelano una grande varietà di forme e tipologie, dalle strutture più profonde e segrete, a semplici dispositivi aggiunti alle stazioni civili. Tutti i casi dimostrano una forte integrazione fra queste “unità speciali” (spezobiekti) e il sistema di trasporto regolare della Metropolitana.
La duplice natura di luogo civile e militare resta presente per tutta la storia della Metropolitana, integrandosi sovente con gli sviluppi della città e dell’architettura sovietica. La Metropolitana, luogo costruttivista per eccellenza, diventa sede privilegiata di sperimentazione, dimostrata non solo dalla grande varietà dell’architettura al suo interno, ma anche per la sua presenza costante in quei luoghi cruciali della città interessati da concorsi e riforme. Il groviglio dei tunnel e delle rampe raffigurati delle rappresentazioni assonometriche che abbiamo presentato si pone in netta contrapposizione con il mondo in superficie.
La Metropolitana di Mosca è quindi lo spazio della modernità, un manufatto relativamente giovane, che ha saputo condensare rapidamente una quantità notevole di significati e di storia, molto di più di qualsiasi edificio di superficie, fino a diventare microcosmo. Un microcosmo che si esprime nell’inversione di polarità fra il cielo e la terra che vediamo avvicendarsi senza soluzione di continuità.
Nei momenti più bui dell’offensiva tedesca del 1942 la stazione Majakovskaja, grande dirigibile sotterraneo, diventa il luogo dal quale lanciare il messaggio della rivincita. Nel periodo delle riforme Chruščëviane (1954-1964) la Metropolitana popola i sotterranei degli alti grattacieli di Mosca costruiti pochi anni prima da Stalin, e diventa il simbolo di un’utopica integrazione fra la tecnica e l’umanesimo, nella costruzione di un radioso avvenire. Allo stesso tempo, l’incombenza di una guerra nucleare pone problemi tecnici, politici ed esistenziali che si trascinano fino ai giorni nostri. Le unità si fanno sempre più profonde per contrastare armi sempre più aeree e potenti; l’immagine del bunker gioca il duplice ruolo palliativo e istigatore, in una polarità sempre più frenetica che è prerogativa del sotterraneo.
La schizofrenia dell’uomo moderno che vive a pochi minuti dalla catastrofe facendo finta di non vederla produce un immaginario della Metropolitana sempre più slegato dal mondo terreno e razionale, che ritorna a una dimensione primordiale e prende le sembianze del sottosuolo preconizzato da Dostoevskij. L’immagine della tomba e dell’Arca si sovrappongono a quella della Metropolitana, in un mondo abbandonato, modellato da imprevedibili acque sotterranee, e percorso da nuove figure, umanissime in un ambiente disumano, gli Stalker.
Il basso continuo della Metropolitana accompagna la vita di Mosca in ogni momento.
Dopo aver toccato punti così oscuri del sotterraneo, è bene concludere questo articolo con un’immagine di speranza del già citato Lettere di un uomo morto.
Nella scena conclusiva i bambini, che non sono entrati nel bunker governativo, decidono di uscire dal loro rifugio per dirigersi verso un mondo migliore. Camminano in una landa desolata e ostile, senza mai fermarsi. La voce di fondo, sempre dei bambini, dice:
− Andate, fintanto che avete le forze. Fintanto che l’uomo è in viaggio, c’è ancora speranza per lui.
Piccoli Stalker in fila indiana, l’uno legato all’altro, attraversano un paesaggio senza forma, sferzato dal vento.
− Ma per vivere bisogna muoversi.
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Filmografia
- Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba), regia di Stanley Kubrik, 1964.
- Ja shagaju po Moskve (Io passeggio per Mosca, noto anche come A zonzo per Mosca), regia di Georgij Danelija, 1964.
- La rabbia, regia di Pier Paolo Pasolini, 1963.
- Metro 2033, videogioco, 4A Games, 2010.
- Metro : Last Light, videogioco, 4A Games, 2013.
- Metro, regia di Anton Megerdichev, 2013.
- Pis'ma mërtvogo čeloveka (Quell'ultimo giorno - Lettere di un uomo morto), regia di Konstantin Lopushanskij, 1986.
- Stalker, regia di Andrei Tarkovskij, 1979.
- The Putin interviews, miniserie televisiva prodotta da Oliver Stone, 2017.
- Trudno byt' bogom (È difficile essere un dio), regia di Aleksej German, 2013.
English abstract
The Moscow subway, among its many functions, is also an immense defensive system. This article aims to reconstruct the relationship between architecture and military purposes of this infrastructure, using recent historical documentation from declassified documents. Since its design stage, the Moscow metro was heavily influenced by military requirements, that may have been drawn from Italian air defensive theory. Through the memories of Chruščëv, who is intimately connected with the Metro, the article describes its history, during the heroic period of construction, across the Battle for Moscow, the post-War reconstruction and the atomic era. An important focus is given to the continuously changing of meanings and imageries that connect the infrastructure, the city, and architecture; using also iconographic and filmographic material as a reference.
keywords | Moscow subway: Bunker; Underground fortification; Memories from the underground; Chruščëv.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Toson, Memorie dal sottosuolo moscovita. Il più grande bunker del mondo, “La Rivista di Engramma” n. 185, ottobre 2021, pp. 199-264 | PDF