A labbra aperte: l’Immagine-Ferita di Dorian Gray
A Portrait… a Picture… a Thing?
Massimo Stella
English abstract
N’apparaît que ce qui fut capable de se dissimuler d’abord.
Les choses déjà saisies en aspect, les choses paisiblement
ressemblantes jamais n’apparraissent.
Georges Didi-Huberman, Le paradoxe du phasme (1989)
La Genesi, secondo Freud: la pulsione originaria e il lavoro dell’arte
Nel passo forse più inquieto del suo Jenseits des Lustprinzips, Freud si impegna in un esercizio di immaginazione quasi disperato.
In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. Forse si è trattato di un processo analogo a quello che in seguito ha determinato lo sviluppo della coscienza in un certo strato della materia vivente. La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato. In quel tempo morire era ancora una cosa facile, per la sostanza vivente; probabilmente la sua vita aveva ancora un corso assai breve, la cui direzione era determinata dalla struttura chimica della giovane vita. E’ possibile, così, che la sostanza vivente fosse continuamente ricreata e morisse facilmente, finché decisive influenze esterne provocarono mutamenti tali da costringere la sostanza sopravvissuta a deviare sempre più dal corso originario della sua vita, e a percorrere strade sempre più tortuose e complicate prima di raggiungere il suo scopo, la morte. Queste vie errabonde che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservatrici, si presenterebbero oggi a noi come l’insieme dei fenomeni della vita. Se resta ferma la natura esclusivamente conservatrice delle pulsioni, questa ipotesi sull’origine e sullo scopo della vita è la sola che possiamo formulare (Freud 1920, 224-225).
Si tratta di immaginare l’accendersi della vita nella materia inerte, ovvero l’insorgere della pulsione archetipica. È mai possibile formulare un’ipotesi sulla prima pulsione manifestatasi nell’inanimato? Se sì, soltanto nella dimensione del mito. E se poi dovessimo chiederci quale mito Freud intenda qui ri-narrare, o forse sfidare, la risposta più verisimile è, credo, il racconto del Genesi. “La forza ancora completamente ignota” che suscitò nella materia morta “le proprietà della vita” è, nel Genesi, la creazione divina, anzi, la voce divina: nell’affabulazione freudiana la parola del Creatore si eclissa o sprofonda nell’oscurità di un indeterminabile agente meccanicistico (o di un complesso di agenti meccanicistici) che imprime (o imprimono) il movimento primario, quello ‘scuotimento’ da cui avrà origine, nella longue durée dell’evoluzione, lo psichico. Lo psichico si evolverà, infatti, fino allo stadio a noi noto sotto il nome di “coscienza” nel solco di tale Fiat che si compone di due momenti: il colpo esterno e l’immediato contraccolpo che ne consegue ovvero il ritorno della ‘cosa’ al proprio stato di inerzia, alla condizione di morte iniziale. È noto a tutti che Jenseits des Lustprinzips è lo scenario più altamente speculativo e filosofico dell’intera scrittura freudiana, il più problematico e il meno integrato nel sistema generale della metapsicologia, ma è tuttavia possibile riconoscere un punto fondamentale di connessione tra Al di là del principio di piacere e la teoria delle nevrosi: la questione dell’angoscia. Se vista in prospettiva, infatti, la pulsione primeva come scarica della tensione ingenerata dall’agente esterno onde ritornare quindi alla quiete di partenza si trasferisce dal piano puramente biogenetico a quello del desiderio-d’essere ovvero dei processi di costruzione della coscienza e, per questa via, influisce sul meccanismo rimozione-angoscia. Le pulsioni, in special modo quelle sessuali, sollevano, proprio nel mentre insorgono, la controspinta della rimozione che è poi il segnale dell’antica, immemoriale tendenza all’autoannullamento e l’intero processo avviene nel clima emotivo dell’angoscia. L’autoannullamento, la pulsione di morte, è la radice di molti fondamentali fenomeni nevrotici (tra cui, in primis, la coazione a ripetere), potendo assumere altresì diverse maschere, per così dire, nel corso della vita psichica: quella del lutto e della melancolia, soprattutto.
La genesi dello psichico non è dunque il soffio divino che infonde l’anima nel corpo altrimenti morto, ma il trauma naturale dell’esperienza. Sicché tutto lo psichico è intrinsecamente materia traumatica. Al di là del principio di piacere sembra rilasciare un immemoriale contenuto di saggezza poetica che Freud riconduce alla figura della dea Ananke (Freud 230) e che noi potremmo a nostra volta far risalire ai celebri versi dell’Edipo a Colono, senz’altro noti al padre della psicanalisi:
μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νικᾷ λόγον: τὸ δ᾽, ἐπεὶ φανῇ, βῆναι κεῖθεν ὅθεν περ ἥκει, πολὺ δεύτερον, ὡς τάχιστα.
Non essere nati: ecco il pensiero che vince ogni altro. E per chi è nato/ tornare al più presto là da dove si è venuti/ è la cosa migliore (Soph. OC, 1225-1227).
È la sapienza gnomica di cui è intessuta l’intera tragedia antica. Non a caso, proprio al gioco del teatro pensa Freud nel mentre è alle prese con l’enigma dei Todestrieben. Ricordiamo tutti la nota interpretazione del fort-da infantile (il celebre “gioco del rocchetto”) come Spiel teatrale. E sappiamo che il dispositivo del teatro, in quelle stesse celebri pagine di Al di là del principio di piacere, viene assunto come pars pro toto del lavoro dell’Arte. L’Arte ha un’origine traumatica, come lo psichico: tra le molte altre funzioni che essa può rivestire, l’Arte ripete fondamentalmente la perdita, il dolore e l’angoscia della perdita, al fondo della quale stanno l’evento della morte e il suo fantasma, iscritti in noi in quanto materia vivente. Vuol forse dire tutto ciò che lo spazio dell’Arte ha luogo proprio là dove si dischiudono insieme e congiuntamente la possibilità della vita e l’inevitabile apertura verso il Nulla? (Bottiroli 2020).
Il desiderio dell’oggetto: conoscenza, apertura, angoscia
Credo che evocare la scena freudiana di Jenseits des Lustprinzips possa aiutarci a cogliere alcuni aspetti in ombra di quel cospicuo e assai complesso movimento di senso sotteso al racconto wildiano di Dorian Gray. Non si tratta certo di ricorrere alla macchina teorica freudiana per interpretare la scrittura di Wilde. Piuttosto, e molto diversamente sul piano del metodo, si tratta del fatto che il Freud di Al di là del principio di piacere e il creatore di Dorian Gray, in evidente anticipo sul Modernismo (Kennedy 2020), osservano e pensano uno stesso evento o, se preferiamo, fenomeno (Evangelista 2016).
Dire che The Picture of Dorian Gray è un romanzo sull’Arte e dell’Arte, sembra quasi una banalità: tutto qui ruota intorno alla questione della creazione poetica e artistica, per via del ritratto-simulacro e del gioco dei simulacri (Whiteley 2015) – senza dimenticare che molta parte vi gioca altresì il teatro attraverso la figura di Sibyl Vane, la talentosa attrice shakespeariana profeticamente suicida nel momento in cui scopre la siderante illusione dell’amore. Non fosse che non è banale chiedersi intorno a quale domanda fondamentale ruota l’inchiesta di Wilde sull’Arte: qual è il lavoro dell’Arte? Non c’è dubbio che Dorian sia al contempo objet d’art e objet de/du désir: oggetto dell’amour fou del Basil-uomo, per un verso, e chef d’oeuvre del Basil-pittore, per l’altro. In forma rovesciata, Dorian è anche oggetto del desiderio di Lord Henry: invidia si chiama il desiderio di Henry per Dorian. Al contrario di Basil, preso dal culto e dalla venerazione tutta oblativa per il suo amato, Henry desidera invidiosamente l’oggetto-Dorian, cioè lo odia per il fatto di non poter essere e avere ciò che l’oggetto è e ha, la perfetta bellezza ovvero la perfetta forma dell’œuvre d’art. Proprio perché lo odia, Henry insinuerà in Dorian – e vedremo come – il primo, fondamentale impulso a superare i confini della propria individualità e identità (Bottiroli 2013, 343). Ma l’oggetto-del-desiderio/oggetto-d’arte può a sua volta desiderare/creare? Che cosa desidera l’oggetto del desiderio? Che cosa opera l’opera d’arte?
Nel capitolo IX del romanzo, Dorian proclama la propria assoluta autonomia di fronte a un Basil esterrefatto e passivo. Sibyl si è suicidata due giorni prima e Basil, la mattina del secondo giorno, si precipita a casa di Dorian, mentre questi sta ancora gustando la prima colazione. Il motivo superficiale della visita di Basil è la morte di Sibyl, come dicevamo, ma la ragione profonda è un’altra: Basil rivuole il Dorian che era solito posare per lui, rivuole cioè, il suo ‘oggetto’ restituito alla sua adorazione di uomo e di artista – “I want the Dorian I used to paint” (Wilde 1891, 105), esclama il pittore, sorpreso dalla domanda diretta e forse un po’ brutale di Dorian: “I don’t know what you want. What do you want?” (Wilde 1891, 105). La risposta di Dorian a Basil è atroce: Dorian non poserà mai più per Basil. Il che significa: Dorian non è più, non può più essere, non vuole più essere l’oggetto del desiderio e l’objet d’art del proprio amico-amante-artista:
I know you are surprised at my talking to you like this. You have not realized how I have developed. I was a schoolboy when you knew me. I am a man now. I have new passions, new thoughts, new ideas. I am different, but you must not like me less. I am changed (Wilde 1891, 107).
Ma come e in che modo Dorian è cambiato? Che cosa è diventato, dunque, Dorian?
La chiave del problema sta nel capitolo XI, ove la narrazione indugia sulla sete di conoscenza di Dorian. Per comprendere il dettato wildiano di quel capitolo è tuttavia necessario chiarire innanzitutto una questione di semiologia della scrittura. Il linguaggio morale cui Wilde ricorre in tutto il romanzo – e nel capitolo XI con particolare enfasi –, la lingua, cioé, della colpa e del peccato, non intende tematizzare e problematizzare in nessun modo, a mio avviso, l’istanza etica attraverso “un’estetica trasgressiva” (Dollimore 1991): in altri termini, la morale cristiana e vittoriana della colpa e del peccato, con l’intero suo lessico, ha funzione di puro codice e non di elemento semantico: come direbbe il Roland Barthes dell’Aventure sémiologique, si tratta di un rimando analogico al mondo fuori dal testo, si tratta di una “citazione mimetica” della cosa-mondo che si estende e resta nell’inerzia della sua inattingibilità al di là del testo (Barthes 1991). Questa prospettiva ci permette di leggere diversamente alcuni passi centrali in cui il linguaggio della colpa e del peccato sembra essere dominante: intendo specificamente quei passi in cui il degradarsi della bellezza sulla tela è ricondotto alle ‘cattive azioni’ di Dorian. La lingua della turpitudine morale va dunque presa come un puro dispositivo semiotico, un ‘cattura-sguardo’, che enfatizza l’oggetto in questione: pertanto, la bruttezza e la ripugnanza del ritratto va letta come richiamo e come stimolo alla conoscenza.
Often, on returning home from one of those mysterious and prolonged absences that gave rise to such strange conjecture among those who were his friends, or thought that they were so, he himself would creep upstairs to the locked room, open the door with the key that never left him now, and stand, with a mirror, in front of the portrait that Basil Hallward had painted of him, looking now at the evil and aging face on the canvas, and now at the fair young face that laughed back at him from the polished glass. The very sharpness of the contrast used to quicken his sense of pleasure. He grew more and more enamoured of his own beauty, more and more interested in the corruption of his own soul. He would examine with minute care, and sometimes with monstrous and terrible delight, the hideous lines that seared the wrinkling forehead or crawled around the heavy sensual mouth, wondering sometimes which were the more horrible, the signs of sin or the signs of age. He would place his white hands beside the coarse bloated hands of the picture, and smile. He mocked the misshapen body and the failing limbs. […].That curiosity about life which Lord Henry had first stirred in him, as they sat together in the garden of their friend, seemed to increase with gratification. The more he knew, the more he desired to know. He had mad hungers that grew more ravenous as he fed them (Wilde 1891, 124).
“Più sapeva, più desiderava sapere”: la bruttezza o, se vogliamo, il corrompersi della bellezza, agisce come stimolo pulsionale che innesca la volontà di conoscere, nella sua essenza, quella stessa bellezza. Ciò che desidera Dorian è, infatti, sapere: ché, se ricerca il godimento, è per analizzarlo, non per goderlo. Dorian vuole sapere di sé, sapere delle proprie pulsioni, sapere dei movimenti profondi e involontari che si sollevano in lui. Che cosa desidera l’oggetto del desiderio – ci chiedevamo? Desidera la conoscenza: Dorian, che è forma d’arte perfetta, della propria perfetta forma scopre la profondità: scopre che la Forma – il cui nome alternativo è Bellezza – non è superficie, ma recesso, quando non abisso, incognito. Scopre che la forma non è chiusa, ma aperta: i solchi, le rughe, le linee spaventevoli e ripugnanti che scalfiscono e incidono la sua fronte, o che serpeggiano, strisciano, carponano, quasi vive creature, intorno alla sua bocca sensuale, sono fissure, crepe, ferite dalle quali traspare un sottosuolo, un sotterraneo inesplorato. Il solco, la ruga, è la scalfitura dell’esperienza, l’impronta visuale e memoriale, il sintomo verrebbe da dire, di violenti moti interni e dei loro tracciati labirintici, sommersi. La forma perfetta mostra così d’essere un velo sull’informe o una dissimulazione dell’informe, d’un intrico, un groviglio di segni sovrascritti l’uno all’altro, come nel caso del Wunderblock descritto e commentato da Freud. Con piacere misto a orrore, Dorian studia se stesso, come lo spettatore platonico e aristotelico gode e piange del dolore, del male, della sofferenza vissuti dall’eroe o dall’eroina sulla scena della tragedia. Così Dorian, nel corso di questa sua esplorazione, incontra una legge universale della vita psichica umana: la legge dell’angoscia.
The worship of the senses has often, and with much justice, been decried, men feeling a natural instinct of terror about passions and sensations that seem stronger than themselves, and that they are conscious of sharing with the less highly organized forms of existence. But it appeared to Dorian Gray that the true nature of the senses had never been understood, and that they had remained savage and animal merely because the world had sought to starve them into submission or to kill them by pain, instead of aiming at making them elements of a new spirituality, of which a fine instinct or beauty was to be the dominant characteristic. As he looked back upon man moving through History, he was haunted by a feeling of loss. So much had been surrendered! and to such little purpose! There had been mad wilful rejections, monstrous forms of self torture and self-denial, whose origin was fear, and whose result was a degradation infinitely more terrible than that fancied degradation from which, in their ignorance, they had sought to escape. Nature, in her wonderful irony, driving out the anchorite to feed with the wild animals of the desert and giving to the hermit the beasts of the field as his companions (Wilde 1891, 126).
Da sempre l’uomo vive la propria vita pulsionale, che è vita involontaria, con terrore: perché la forza di quelle pulsioni è sovrastante, perché quelle pulsioni lo apparentano all’animale e scalzano l’intelletto (kantiano) dalla sua capacità rappresentante e categorizzante. Da sempre l’uomo vive nella paura di sé. E quel terrore ha prodotto altro terrore: mostruose forme di auto-tortura e di auto-negazione che hanno condotto a degradazioni ben più degradanti di quella presunta degradazione costituita dalla vita pulsionale. E’ così che nasce in Dorian il desiderio di indagare ‘la vita psichica dell’uomo’: il suo sguardo si rivolge all’indietro e, nel ripercorrere a ritroso il cammino dell’umanità attraverso la storia (“as he looked back upon man moving through History”), scopre un paesaggio di desolazione e di rovine. Perché tanta “sofferenza”? Un senso di perdita (“a feeling of loss”) assale allora e perseguita Dorian: una perdita oceanica, indefinibile, fantasmatica, una tristezza e un dolore indefiniti, contraccolpo di una gigantesca rinuncia pulsionale. Sembrerebbe proprio che Dorian si imbatta anzitempo – ma non così anzitempo, a ben vedere – nella legge freudiana che decreta il disagio dell’evoluzione civile, Das Unbehagen in der Kultur.
People are afraid of themselves, nowadays. They have forgotten the highest of all duties, the duty that one owes to one’s self. Of course, they are charitable. They feed the hungry and clothe the beggar. But their own souls starve, and are naked. Courage has gone out of our race. Perhaps we never really had it. The terror of society, which is the basis of morals, the terror of God, which is the secret of religion – these are the two things that govern us. And yet – […] I believe that if one man were to live out his life fully and completely, were to give form to every feeling, expression to every thought, reality to every dream – I believe that the world would gain such a fresh impulse of joy that we would forget all the maladies of mediævalism, and return to the Hellenic ideal – to something finer, richer than the Hellenic ideal, it may be. But the bravest man amongst us is afraid of himself. The mutilation of the savage has its tragic survival in the self-denial that mars our lives (Wilde 1891, 21, corsivo mio).
“La mutilazione del selvaggio sopravvive tragicamente nell’autonegazione che rovina le nostre vite”: che osservazione potente! Sono parole di Lord Henry, che Dorian ha fatto sue. Parole potenti quanto facili all’equivoco: sembrerebbe trattarsi della formula che chiude a effetto una tirata di sapore nietzschiano. Piuttosto e invece, siamo qui di fronte a una finissima notazione metapsicologica e antropologica. Per tutto il corso della sua storia e della evoluzione civile l’uomo non ha smesso di auto-reprimersi: le ferite e le mutilazioni rituali con cui i nativi marcano il loro corpo onde manifestarne l’appartenenza a una determinata tribù, o l’affiliazione a una comunità cultuale, o ancora dichiarare, se non rivendicare, un qualsiasi altro status identitario, sono i segni visibili, fisici, corporei, di un sistema di coartazione sociale e religiosa dell’individuo. L’eminente vittoriano e “il selvaggio” non si differenziano nella sostanza: entrambi sono in preda alla medesima terribile paura di sé; entrambi rispondono con la violenza e la superstizione all’ignoranza di sé: la mutilazione del vittoriano è diversa da quella del “selvaggio” soltanto nella misura in cui è diventata invisibile, è diventata tutta interna, è sprofondata dalla superficie del corpo nel sottosuolo delle emozioni involontarie. Di qui a poco verrà Freud a spiegare come la repressione sia, al contempo, il dispositivo più potente del processo di civilizzazione e, dall’altro, la ragione fondamentale di quel malaise, di quell’infelicità strutturale, di quella nevrosi endemica che tanto più affligge l’uomo quanto più questi è civilmente evoluto; e mostrerà altresì Freud come la rinuncia pulsionale imposta dalla repressione cosciente sia parallela al movimento interamente inconscio della rimozione che si aziona nello stesso momento in cui si sprigiona l’energia pulsionale, producendo lo stato di angoscia.
L’angoscia, appunto, è il clima emotivo in cui vive costantemente Dorian. L’angoscia e la paura. Non si tratta assolutamente di una paura e di un’angoscia originate dalla consapevolezza del cattivo operato, del cattivo sentire e del cattivo pensare. Non si tratta di angoscia e paura morali. L’origine di quell’angoscia e di quella paura sta nel problema della Forma. Notavo già, qualche riga sopra, come fosse per il corrompersi della bellezza rappresentata sulla tela che in Dorian nasce il desiderio di conoscere la propria bellezza, la propria Forma, cioè se stesso. E’ quella bellezza ferita sulla tela che lo muove alla ricerca. La Forma che, poiché perfetta, sembrerebbe compiuta, chiusa, inalterabile, evidente in quanto somigliante, si apre, si muove e si trasforma diventando apparente in quanto “dissimigliante e informe” (Huberman 1998). L’immagine figurata dal ritratto va letta semiologicamente, non ideologicamente. E sul piano semiologico, dunque, l’immagine che Dorian vede di sé è ‘immagine viscerale’. Nella storia visuale dell’Occidente, la visceralità dell’immagine si afferma potentemente, come Georges Didi-Huberman ci ha magistralmente indicato, con il corpo del Cristo crocifisso (Huberman 2007). La carne martoriata di Cristo, che espone l’interiore al di là della pelle, della superficie – la materia deperibile, il sangue, gli umori, la tumefazione, la piaga, la marcescenza – è l’apparizione – vero e proprio phasma, fantasma – della sarx paolina, di quella “carne spirituale”, cioè, che è pura pulsionalità – παθήματα τῶν ἁμαρτιῶν – e costituisce l’essenza della nostra natura (Lettera ai Romani, 7, 5). Non è forse Cristo salito sulla croce per riscattare con la sua carne la nostra carne? Nella carne ferita di Cristo si rappresenta lo psichismo umano, il suo cieco errore e il suo cieco errare, il suo eterno e involontario conflitto interno che – dice Paolo – “fruttifica per la morte” (Lettera ai Romani, 7,5), vive per la morte. Con questo, non intendo certo dire che Dorian sia figura cristomimetica. Intendo piuttosto suggerire che dobbiamo guardare alla bellezza ferita di Dorian come a un fenomeno di persistenza, sopravvivenza, anacronismo e dislocazione dell’icona cristica nella sua pura figurabilità, nella sua capacità di figurare ‘altro’. Ma che cosa?
A labbra aperte: tra la Bocca e la Mano
La chiave del ritratto è dunque, per così dire, la ‘ferita viscerale’ apertasi nell’immagine di Dorian: tutto rimonta a quella speciale espressione del giovane che il pittore fissa sulla tela in un momento preciso della seduta finale. Come ricorderemo, durante la fatidica seduta, le mute pennellate dell’artista al lavoro si mescolano alle parole dell’osservatore, Lord Henry, che rivolge a Dorian, in posa sul piedistallo, la sua requisitoria contro il “il disagio della civiltà”: la paura che l’uomo ha di se stesso, il terrore per il tumulto pulsionale che si muove dentro di lui, l’angoscia che egli prova per la propria parte oscura e involontaria, e, quindi, la reazione fobica dell’auto-negazione, dell’auto-repressione, dell’auto-tortura che svuota la vita d’ogni energia rendendola triste, inautentica, ininteressante – ebbene, questo discorso di Lord Henry sconvolge profondamente Dorian altrettanto quanto lo affascina, lo rapisce, lo strega. “Stop! – faltered Dorian Gray – Stop! you bewilder me. I don’t know what to say. There is some answer to you, but I cannot find it. Don’t speak. Let me think” (Wilde 1891, 21). In quel momento il volto di Dorian muta espressione:
For nearly ten minutes he stood there, motionless, with parted lips, and eyes strangely bright. He was dimly conscious that entirely fresh influences were at work within him. Yet they seemed to him to have come really from himself. The few words that Basil’s friend had said to him – words spoken by chance, no doubt, and with wilful paradox in them – had touched some secret chord that had never been touched before, but that he felt was now vibrating and throbbing to curious pulses. Music had stirred him like that. Music had troubled him many times. But music was not articulate. It was not a new world, but rather another chaos, that it created in us. Words! Mere words! How terrible they were! How clear, and vivid, and cruel. One could not escape from them. And yet what a subtle magic there was in them. They seemed to be able to give a plastic form to formless things, and to have a music of their own as sweet as that of viol or of lute. Mere words! Was there anything so real as words? Yes, there had been things in his boyhood that he had not understood. He understood them now. Life suddenly had become fiery-coloured to him. It seemed to him that he had been walking in fire. Why had he not known it? With his subtle smile, Lord Henry watched him. He knew the precise psychological moment when to say nothing (Wilde 1891, 21-22, corsivo mio).
Dorian resta come incantato dalle parole di Henry: per dieci minuti si mantiene immobile, là, sopra il piedistallo, a meditare sul colpo violento che il discorso dell’amico gli ha inferto, giungendo a toccare in lui qualche intima e segreta corda sino ad allora intatta. Negli occhi del bellissimo giovane si accendono una brillantezza, una vividezza strane e insolite, mentre le labbra gli si dischiudono come per un movimento, uno slittamento, una défaillance automatici, involontari: il taglio delle labbra si apre, la ferita appare nella sua beanza – il rosso acceso e vibrante di quelle labbra, così celebrato e ammirato da Basil e da Henry che ne sono ammaliati, ci fa pensare, ora, al colore del sangue, alla materia del sangue… Saranno dunque soltanto un’allusione di maniera all’icona omosessuale di San Sebastiano quel paragone avanzato dal narratore: “Dorian Gray stepped up on the dais, with the air of a young Greek martyr” (Wilde 1891, 20), e poi, a una certa distanza, la metafora della freccia e del bersaglio, con cui Lord Henry si compiace di rappresentare l’effetto ottenuto dalle proprie parole su Dorian: “He had merely shot an arrow into the air. Had it hit the mark? How fascinating the lad was!”? (Wilde 1891, 22).
Io non credo si tratti di estetismo omosessuale (Kaye 1999). Credo si tratti, al contrario, di un’immagine strutturale: durante l’esposizione allo sguardo dell’artista (Basil) e alla parola del raisonneur ovvero del filosofo (Henry), Dorian, come un martire cristiano, riceve una ferita fatale scoccata dall’arco del suo saettatore e carnefice. La freccia è la parola: “chiara, vivida e crudele, impossibile a sfuggirsi”, come un’arma, appunto. Dorian scopre la potenza della lingua: “c’è qualcosa che sia più reale delle parole”? Che significa, in altri termini, affermare: dove accade la realtà se non nel linguaggio? Scopre infatti, Dorian, che la parola è potente quando e perché si lega a un’esperienza ovvero a un movimento interiore (metapsicologico, se vogliamo). La parola incide e ferisce quando è parola-più-altro, quando cioé il significante trasporta con sé un nucleo esperienziale involontario, facendosi così segno e ponte tra il rappresentabile e il non rappresentabile, tra il noto e l’ignoto. La parola che ferisce Dorian è quella che sa avventurarsi nel caos e dare una forma all’informe: they [Words] seemed to be able to give a plastic form to formless things – una Forma, non dunque il/un senso o ancor meno il/un significato, soltanto una Forma, un significante per l’informe. La questione del senso è poi tutt’altra cosa. La forza della lingua, come quella dell’immagine – segno verbale e segno visuale qui si intrecciano indissolubilmente – è la Forma che non può risolvere l’Informe, ma, al contrario, lo contiene e implica, come un interno profondo, come il proprio non-scandagliato – unsounded direbbe l’inglese – interno. La Lingua-Forma funziona cioè come pura articolazione: quasi scoprisse anzitempo una delle proprietà saussuriane fondamentali del linguaggio, Dorian si trova a pensare che mentre la musica non può dare forma al caos del mondo pulsionale, e semmai soltanto lo echeggia e lo duplica, perché non è articolata (music was not articulate), la parola, che invece è per eccellenza articolazione, crea nuovi mondi.
E sarà proprio la bocca, come sappiamo, cioè il luogo del linguaggio, a ricevere la ferita originaria che, a sua volta, si farà centro e cominciamento della progressiva metamorfosi de-figurante e s-figurante: è la bocca a deformarsi per prima, è l’apertura delle labbra a slabbrarsi in un perturbante e brulicante ghigno infero. La bocca semiaperta è l’ossessione formale dell’immagine, dove si sovrappongono la carne informe e la figura informante, accecando ogni atto visivo che pretenderebbe di determinare una forma. E dopo la bocca, è la volta della mano: Dorian ha appena ucciso Basil e sulla sua mano, là, nel dipinto, affiora una luccicante essudazione sanguinolenta. “What was that loathsome red dew that gleamed, wet and glistening, on one of the hands, as though the canvas had sweated blood? How horrible it was!” (Wilde 1891, 165). Perché la mano? La prospettiva morale non sembra lasciare dubbi: perché quella è la mano che ha ucciso l’amico – analogamente, le parole uscite dalla bocca di Dorian avevano ucciso l’amore di Sibyl e lei con esso. Ma se la mano fosse anche, se non soprattutto, la Mano, se fosse non soltanto né tanto, intendo, la parte anatomica figurata di un corpo individuato, ma un ‘luogo’, il luogo del fare, del creare? Nell’intera vicenda di Dorian Gray la Mano è luogo comune a Dorian e a Basil. Sì, c’è la mano dell’omicida, ma come poter obliare la Mano del pittore, la Mano dell’Artista?
Quel pomeriggio fatale in cui il capolavoro viene compiuto – vera e propria Urszene della creazione – al suono delle parole di Lord Henry, che saetta Dorian con la sua filosofia della vita, risponde, nei momenti di silenzio, il suono delle rapide e vigorose pennellate stese da Basil sulla tela:
The sweep and dash of the brush on the canvas made the only sound that broke the stillness […] Hallward painted away with that marvellous bold touch of his, that had the true refinement and perfect delicacy that in art, at any rate, comes only from strength. He was unconscious of the silence (Wilde 1891, 22).
Mentre la bocca di Henry scaglia come frecce le famose parole che trafiggono e stregano Dorian, la mano dell’Artista lavora, agisce, compie, fa, finisce: crea l’immagine di Dorian. Sa forse che cosa ha creato? Certamente no. Basil stesso dice che l’arte deve essere “unconscious, ideal and remote”. Sa dunque Basil a che cosa ha dato forma sulla tela? Conosce quella formless thing che ha fissato nel quadro? E’ cosciente di aver reso possibile l’apparizione dell’Informe? Non sembra a giudicare da queste sue parole:
You never sat better. You were perfectly still. And I have caught the effect I wanted- the half-parted lips and the bright look in the eyes. I don’t know what Harry has been saying to you, but he has certainly made you have the most wonderful expression (Wilde 1891, 22).
E, allora, la ferita che insanguina la mano di Dorian, quell’angosciosa apertura della carne, non riguarda anche la mano del suo Creatore?
L’origine: il fiat della creazione e la pulsione di morte. The Portrait, the Picture and the Thing
Ma in che modo si trasforma e lavora la ferita che de-forma l’immagine di Dorian? Dobbiamo ritornare al capitolo II del romanzo. Più volte è stato notato – già a partire dalle prime recensioni dedicate all’opera (Hawthorne 1890, Liebman 1999) – che la scena del giardino, quella in cui si svolge la seduta finale e il capolavoro viene terminato, ripropone la situazione di una morality play medievale. In Dorian è possibile riconoscere piuttosto facilmente la figura di Adamo o di Everyman tentato, per un verso, dal Vice-Diavolo-Lord Henry e, per l’altro, protetto dall’Angelo custode-Basil – se, poi, si pensa, appunto, che il giardino su cui si affaccia l’atelier del pittore potrebbe verosimilmente alludere all’Eden, tutto parrebbe tornare. Ma non è così: senz’altro Wilde gioca con la memoria medievale, così come gioca con il tema marlowiano e goethiano di Faust e della tentazione diabolica, ma lo fa per dissolvere, parodiare e, soprattutto, riformulare. È vero, tuttavia, che, al di fuori di ogni clima o intento morale, la scrittura wildiana ricrea qui una scena originaria: la scena della creazione dell’uomo. È vero, sì, che Dorian è un Adamo, il Primo Uomo. Ma in che senso? E in che modo Wilde riscrive la Genesi biblica? Durante l’ultima pausa, prima del tocco finale che conclude il ritratto, Henry raggiunge Dorian in giardino. I capelli d’oro del giovane sono inondati dal sole ed Henry invita Dorian a scostarsi da quella luce o la sua bellezza, la sua giovinezza, ne saranno sciupate. Ma che importanza può avere – domanda Dorian, ridendo?
Some day, when you are old and wrinkled and ugly, when thought has seared your forehead with its lines, and passion branded your lips with its hideous fires, you will feel it, you will feel it terribly. Now, wherever you go, you charm the world. Will it always be so?... You have a wonderfully beautiful face, Mr. Gray. Don’t frown. You have. And Beauty is a form of Genius – is higher, indeed, than Genius, as it needs no explanation. It is of the great facts of the world, like sunlight, or spring-time, or the reflection in dark waters of that silver shell we call the moon. It cannot be questioned. It has its divine right of sovereignty. It makes princes of those who have it. You smile? Ah! when you have lost it you won’t smile.... People say sometimes that Beauty is only superficial. That may be so. But at least it is not so superficial as Thought is. […] Yes, Mr. Gray, the gods have been good to you. But what the gods give they quickly take away. You have only a few years in which to live really, perfectly, and fully. When your youth goes, your beauty will go with it, and then you will suddenly discover that there are no triumphs left for you, or have to content yourself with those mean triumphs that the memory of your past will make more bitter than defeats. Every month as it wanes brings you nearer to something dreadful. Time is jealous of you, and wars against your lilies and your roses. You will become sallow, and hollow-cheeked, and dull-eyed. You will suffer horribly.... Ah! realize your youth while you have it. […] We never get back our youth. The pulse of joy that beats in us at twenty, becomes sluggish. Our limbs fail, our senses rot. We degenerate into hideous puppets, haunted by the memory of the passions of which we were too much afraid, and the exquisite temptations that we had not the courage to yield to. Youth! Youth! There is absolutely nothing in the world but youth! (Wilde 1891, 24-25).
Dorian rimane siderato da queste parole di Henry: attraverso di esse scopre che, come dirà Freud in Al di là del principio di piacere, i guardiani della vita, le pulsioni, sono in realtà i guardiani della morte. Nello stesso momento in cui, stregato dal discorso di Henry sul terrore dell’uomo per le proprie emozioni e i propri desideri, il giovane percepisce, per la prima volta, l’insorgere dentro di sé d’un caos di impulsi – “Sì, c’erano state cose nella sua infanzia che non aveva capito. Ora le capiva. La vita si colorò improvvisamente di tinte forti. Gli sembrava di aver camminato nel fuoco. Perché non se ne era reso conto?” (Wilde 1891, 22) – ebbene, proprio in quel momento in cui si sente vivo come non mai, anzi, letteralmente ‘nato’ alla vita, ecco l’immediata e contemporanea rivelazione che dovrà perdere fatalmente, e molto presto, ciò da cui il vivere attinge tutto il suo gusto, tutta la sua attrattiva: la bellezza e la giovinezza. E’ come nascere e morire all’istante: la vita ritorna sull’Io come morte – “In quel tempo morire era ancora una cosa facile, per la sostanza vivente; probabilmente la sua vita aveva ancora un corso assai breve”, scriverà Freud, lo abbiamo visto, in Jenseits des Lustprinzips. E’ così che si apre la ferita sul volto di Dorian e su di esso indelebilmente s’iscrive. Il cortocircuito, anzi, lo scontro tra le due forze – l’energia libidica, da un lato, e il lavoro contrario che ne scarica la tensione e ritorna alla quiete iniziale – è abbacinante e traumatico. Da numerosi lettori del romanzo wildiano sono stati evocati la figura mitica (ovidiana) di Narciso e il (complesso di) narciso freudiano come chiave dell’intero movimento di senso sotteso all’opera (Craft 2005). D’altra parte, Narciso è evocato dallo stesso Wilde e, per così dire, senz’altro non innocentemente, dal momento che, mentre Wilde scrive, la psichiatria coeva, su suolo europeo, si è già riappropriata, prima di Freud, del Narciso mitico come eponimo della ben nota perversione sessuale. Ma il solo narciso freudiano dell’Introduzione al narcisismo (1914) non illumina. Il narciso di Dorian, al suo primo apparire, o meglio, al suo primo affiorare alla coscienza, ha già infatti incorporato la pulsione di morte: l’energia pulsionale che produce in lui l’ideale dell’io ha già “fruttificato per la morte”, come direbbe il San Paolo dell’Epistola ai Romani. Quello di Dorian è il narciso di Al di là del principio di piacere in cui le pulsioni dell’Io vengono sorprendentemente incluse tra le pulsioni di morte. Il Dorian ideale, ovvero l’immagine di Dorian sulla tela, è l’immagine, il fantasma, di una cosa morta. E quell’ideale ha già varcato la soglia dell’al di là: l’immagine è una memoria melancolica dell’oggetto perduto (Bottiroli 2011). L’Adamo wildiano si chiama Narciso. Risvegliatosi improvvisamente alla vita come il primo uomo biblico plasmato nell’argilla, Dorian ricade all’istante nel lutto – ecco la Creazione dell’Uomo e della Cosa Umana:
“How sad it is!” murmured Dorian Gray, with his eyes still fixed upon his own portrait. “How sad it is! I shall grow old, and horrible, and dreadful. But this picture will remain always young. It will never be older than this particular day of June.... If it were only the other way! If it were I who was to be always young, and the picture that was to grow old! For that, for that – I would give everything!” […] “I am jealous of everything whose beauty does not die. I am jealous of the portrait you have painted of me. Why should it keep what I must lose? Every moment that passes takes something from me, and gives something to it. Oh, if it were only the other way! If the picture could change, and I could be always what I am now! Why did you paint it? It will mock me some day – mock me horribly” (Wilde 1891, 27-28, corsivo mio).
“If it were only the other way”: Dorian, si diceva, ha già oltrepassato la soglia dell’al di là. Esprimere il desiderio di percorrere l’altra via, “the other way”, e imboccarla all’istante è un tutt’uno. Ma qual è questa ‘altra’ via? Quella del regressus ad inferos. L’illusione dell’immortalità è un traffico con la morte, per via di negazione: il desiderio di scambiare le parti tra sé e l’immagine è volontà di inoltrarsi nell’Ade per non soffrire la perdita, abbracciando la perdita, affondando con essa. Non-vivere più: cioè vivere senza conseguenze ovvero vivere senza portare su di sé le conseguenze del vivere. Ma il desiderio di Dorian una conseguenza ce l’ha. Ed è l’immagine a esserne segnata. Se la vita è sospesa nella (non-)morte, l’arte lavora. Qual è il lavoro dell’arte – ci chiedevamo poco sopra? Che cosa fa il (Dio) Creatore con la sua Mano d’Artista? E’ dunque il momento di richiamare l’attenzione su un punto assolutamente fondamentale che sinora abbiamo lasciato in ombra. Credo non si sia riflettuto abbastanza su un fatto che, in sé, è di tutta evidenza e si radica in un dibattito intellettuale molto nutrito nell’Inghilterra fin de siècle – mentore Walter Pater – intorno al rapporto tra pittura e scrittura, tra biografia e imaginary portrait (Bizzotto 2001, Østermark-Johansen 2013). E cioè: Wilde ha intitolato il romanzo The Picture of Dorian Gray, non The Portrait of Dorian Gray, per quanto diamo per scontato che the picture valga the portrait. Certo picture può anche valere portrait. Ma picture ha un’auralità di significanza ben più ampia di portrait. L’immagine non è il ritratto. Si può dire che il ritratto sia l’immagine figurata ovvero l’immagine che figura una figura individuata, mentre l’immagine è la figura figurabile ovvero una figura potenziale e quindi non determinata. E, infatti, non è certo un caso che the picture sia chiamato sempre più spesso, a partire dal capitolo VII, “the thing”, la Cosa. Il ritratto è l’immagine di Dorian Gray, ma è anche l’immagine di una ‘cosa’. Cioè di qualcosa che può apparire, di un’apparizione. Che cosa può o potrebbe apparire, allora, in quell’immagine? Il narciso finisce là dove finisce il ritratto dell’Io, una mera apparenza, una visione illusoria del Self, un riflesso nell’Occhio-Io (Eye-I) – e qui finisce anche l’utilità euristica del narciso e di Narciso nel leggere o nel cercare di leggere il movimento di senso del romanzo. Con l’immagine della ‘Cosa’ siamo su tutt’altra scena. Non c’è più la persona, cioè il personaggio. Quando il pittore, il Creatore (Basil), appena prima di partire per Parigi, si reca in visita notturna dalla sua Creatura (Dorian), che ama come Amante e Padre, assistiamo a una rivelazione. The picture è da immemore tempo sottratto allo sguardo di tutti: Basil, addirittura, lo dà per distrutto – così gli aveva detto Dorian. Ora è il tempo dell’apparizione.
“Know you? I wonder do I know you? Before I could answer that, I should have to see your soul.” “To see my soul!” muttered Dorian Gray, starting up from the sofa and turning almost white from fear. “Yes,” answered Hallward, gravely, and with deep-toned sorrow in his voice, “to see your soul. But only God can do that.” A bitter laugh of mockery broke from the lips of the younger man. “You shall see it yourself, to-night!” he cried, seizing a lamp from the table. “Come: it is your own handiwork. Why shouldn’t you look at it? […] Come, I tell you. You have chattered enough about corruption. Now you shall look on it face to face. […] I shall show you my soul. You shall see the thing that you fancy only God can see” (Wilde 1891, 146, corsivo mio).
“Ti mostrerò la mia anima, vedrai quella cosa che tu credi possa vedere solo Dio”, esclama Dorian. Il clima sembra metafisico. Sembra siamo sul palcoscenico dei Four Last Things, i Quattuor novissima dell’escatologia cristiana, Death, Judgment, Heaven and Hell. Ma è così? E se di metafisica si tratta, di quale metafisica? Che vuole dire la Creatura, la Cosa creata, affermando che mostrerà l’anima – quell’anima che “si crede possa essere vista soltanto da Dio”? Vuol dire che l’anima è una ‘cosa’. Ovvero che anima è il nome di una Cosa, un nome della Cosa Innominabile. C’è anche e ancora, sì, qualche residuo di Dorian sulla tela, qualche filamento di colore, qualche tratto, ma tutto è inghiottito e mescolato in un’essudazione di materia – la pittura è qui restituita alla sua essenza di caos essudativo – in un qualcosa di carneo, di vivo, di informe, come fosse una ferita che spurga una sostanza cadaverica e putrescente (Denisoff 2020):
It was from within, apparently, that the foulness and horror had come. Through some strange quickening of inner life the leprosies of sin were slowly eating the thing away. The rotting of a corpse in a watery grave was not so fearful (Wilde 1891, 150, corsivo mio).
C’è una Cosa in decomposizione là sopra, o piuttosto là sotto, perché quel movimento viene “dall’interno”… e l’orrore indicibile è che sembra ci sia della vita in quella materia morta e morente che sta “mangiando” la tela e se stessa per un’assurda eccitazione vitale interna, quasi un movimento embrionale, fetale: to quicken indica anche il muoversi del feto nel grembo e, qui, the quick and the dead sono uno nell’altro (Fusini 2020). Poiché il Reale, l’Angoscia del Reale, è insostenibile, la Creatura chiede al Creatore e all’Artista: “Can’t you see your ideal in it? said Dorian, bitterly” (Wilde 1891, 150), “Riesci a vedere il tuo ideale lì dentro?”.
È possibile rispondere a una domanda così abissale, calata in quella accecante solitudine metafisica? Non si tratta di una delle domande più potenti che mai siano state rivolte, nella memoria della nostra tradizione poetica e filosofica, dall’artista alla propria arte? E’ una domanda-limite, inesauribile, destinata a essere pensata. Senz’altro, ed è l’osservazione più di superficie che possiamo avanzare di fronte a tanto sgomento, l’Arte, secondo Wilde, è un’energia tendente all’apokalypsis, alla rivelazione dell’esperienza, quand’anche sia destinata, quest’esperienza, a restare per la maggior parte o quasi totalmente sommersa. “Those who go beneath the surface do so at their peril. Those who read the symbol do so at their peril “ (Wilde 1891, 4): così recitano due dei diversi aforismi oracolari posti come talismani e amuleti, come magiche rune di scongiuro, sulla porta d’ingresso del mondo di Dorian Gray – fuor di metafora la celeberrima Preface del romanzo, che sembra trascrivere i pronunciamenti di una Sibilla. Il (Dio) Creatore verrà ucciso dalla Creatura, il Padre sarà sgozzato dal Figlio: sciolto in una salamoia di acidi e solventi nel luogo stesso del suo assassinio, nella soffitta della casa di Dorian, di lui non rimarrà nemmeno un atomo, restituito al Nulla eterno, contrappasso per aver creato. La creatura verrà trovata a terra, un giorno, cadavere irriconoscibile d’un vecchio con un pugnale nel cuore. E l’opera sarà restituita alla sua funzione di pura surface: di ritratto, di figura figurata, “a splendid portrait of their master as they had last seen him, in all the wonder of his exquisite youth and beauty” (Wilde 1891, 213).
“All art is at once surface and symbol. To reveal art and conceal the artist is art’s aim” (Wilde 1891, 3).
Riferimenti bibliografici
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English abstract
This essay is a re-reading of Wilde’s masterpiece The Picture of Dorian Gray through the lens of (Barthesian) semiological analysis and visual studies. By theorising the fundamental difference and opposition between the two concepts of “portrait” and “picture/image”, I bring forward the idea that the character of Dorian Gray is split into two different entities which correspond the one to a wounded narcissistic or ideal Ego (the Dorian of the portrait), and the other to an unknown, formless, appaling “Thing” (the Dorian of the picture), hardly conceivable outside the perspective of Freudian Beyond the Pleasure Principle taken in its most drastic hypothesis and paradoxical implications. What is the role played by art within this daunting scenario?
keywords | Oscar Wilde; Freud; Dorian Gray; Death drives; Beauty; Portrait.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Massimo Stella, A labbra aperte: l’Immagine-Ferita di Dorian Gray. A Portrait… a Picture… a Thing?, “La Rivista di Engramma” n. 187, dicembre 2021, pp. 123-144. | PDF dell’articolo