Rischiare la pellicola
Nascita del montaggio e fine del cinema in Salomè (1972) di Carmelo Bene
Francesco Zucconi
English abstract
La ricerca artistica di Carmelo Bene si sviluppa nel corso di quattro decenni e attraversa diversi campi espressivi e forme mediatiche, spaziando da Alessandro Manzoni a Carlo Collodi, da Giacomo Leopardi a Vladimir Majakóvskij, da William Shakespeare a Oscar Wilde, dalla psicanalisi alla filosofia contemporanea. Il suo lavoro è noto al pubblico e largamente interpretato dalla critica come un gesto eminentemente polemico. Come è stato notato, il pòlemos beniano concerne in primo luogo “l’arte moderna rivendicandone un uso strumentale (in molti sensi), contingente, eteroclito e ‘profanatorio’” e trova progressiva affermazione nel momento “in cui alle culture pop nordamericane e italiane si contrappone la cultura poverista (nell’accezione grotowskiana) che, in una dimensione concreta e insieme concettuale, agisce anche come una sorta di contro-cultura dello sconfinamento delle arti in quella zona interdisciplinare/extradisciplinare che è la ‘performance’ o che attiene, per molte vie, alla ‘performatività/corporeità’” (Saba 2019, 8-9). D’altro canto, l’opera di Bene può essere concepita come una radicale messa in discussione della nozione di ‘rappresentazione’ – da intendersi nella sua accezione di forma vicaria del ‘reale’ o di qualcosa di precedente e originario – e così di ogni idea conciliante del teatro, del cinema e di tutte le tecniche e forme espressive. Un’interpretazione, quest’ultima, che trova conferma nell’interesse espresso da parte di Bene nei confronti del dibattito filosofico post-strutturalista e viceversa (Deleuze 1981; Klossowski 1981; Manganaro 1981; Klossowski, Demoulié, Manganaro, Scala, Artioli, Fadini, Grande 1990), interesse reciproco che troverà massima espressione nelle Sovrapposizioni con Gilles Deleuze (Bene, Deleuze 2002). Quanto sembra emergere al crocevia delle diverse interpretazioni e continuazioni teorico-critiche del lavoro di Bene è dunque l’idea che non basti – che non sia mai bastato – rappresentare i testi del passato ma che occorra metterli in presenza, esplorarne le potenzialità attraverso una ‘scrittura di scena’ che tenga conto delle forme espressive del medium di volta in volta in questione: teatro, cinema, radio, televisione, etc.
Il rapporto tra Bene e il cinema si consuma in una manciata di anni. È tra il 1968 e il 1973 che vengono concepiti e realizzati i lungometraggi così come i mediometraggi e i cortometraggi che compongono la sua filmografia. Le cronache dal set di Nostra Signora dei Turchi (1968) raccontano di procedimenti espressamente mirati a danneggiare il materiale filmico. Bene stesso ha parlato della tecnica della “pellicola massacrata, calpestata, bruciata in Nostra Signora”; procedimento, dirà, inteso come una “parodia del ricordo” (Bene, Dotto 1998, 310), come tentativo di salvare l’immagine dal rischio della documentazione ad uso futuro, del souvenir, della nostalgia per un passato mummificato nel fotogramma. Girato in Puglia, la terra di nascita di Bene, Nostra Signora dei Turchi è stato interpretato come tentativo di decostruire l’idea stessa di origine: messa in crisi del genere autobiografico e affermazione di un’estetica panica in cui il racconto della vita del singolo non può che essere inevitabilmente la storia di un palazzo, storia di una città e di una cultura. Da Nostra Signora dei Turchi a Capricci (1969), da Don Giovanni (1970) a Salomè (1972), fino a Un Amleto di meno (1973), la critica dell’idea di rappresentazione prosegue dunque attraverso un lavoro sull’inquadratura, sulla luce, sul montaggio, insomma sulle componenti stesse del linguaggio cinematografico.
Le prossime pagine si concentrano sul film del 1972 e sul suo rapporto con il dramma teatrale scritto da Oscar Wilde nel 1891. Nel primo paragrafo propongo un rapido confronto con il racconto di Salomé. Che cos’è che Bene riprende del testo di Wilde e in che modo lo riprende? E, soprattutto, in che modo si passa dalla dimensione letteraria e teatrale del dramma alla composizione filmica? Nel secondo paragrafo cerco di indagare le questioni che danno il titolo a questo articolo: da Wilde e Bene, ‘giocarsi la pellicola’ non è una questione meramente economica né, tantomeno, un vezzo d’artista. Nello specifico di Salomè, tale espressione assume un significato del tutto particolare che chiama in causa il rapporto profondo tra le forme del repertorio e quelle della sperimentazione creativa. In conclusione, cerco dunque di riflettere sullo statuto teorico, al contempo ultimativo e fondativo, della figura di Salomè – danzatrice e tagliatrice di teste – nel percorso cinematografico di Carmelo Bene.
L’occhio di fine secolo
Wilde scrive Salomé nel 1891 mentre si trova a Parigi, sperimentando le potenzialità espressive della lingua francese e contando sull’aiuto di Pierre Louÿs e André Gide. La traduzione inglese di Alfred Bruce Douglas, con ampia revisione dell’autore stesso, uscirà nel 1894 con le celebri illustrazioni di Aubrey Beardsley. In virtù dei suoi contenuti ritenuti scandalosi, Salomé andrà in scena in Inghilterra soltanto diversi anni dopo la morte dell’autore.
Il dramma in un unico atto trae spunto da un brano dei Vangeli di Marco (6,14-29) e Matteo (14,1-2), dove si fa riferimento al Martirio di Giovanni Battista. Soprattutto in Marco, si parla esplicitamente dell’antipatia di Erode e della sua compagna Erodiade nei confronti del Battista, che li aveva messi in guardia dal carattere immorale della loro unione (Erodiade era stata moglie del fratello di Erode). In modo abbastanza dettagliato, Marco fa dunque riferimento a un banchetto per il compleanno di Erode, durante il quale la figlia di Erodiade suscita l’entusiasmo dei notabili della Galilea e dello stesso Erode, che le chiedono di danzare per loro. Pur di vederla danzare, Erode si spinge ad offrire tutto ciò che la ragazza chiede, qualsiasi capriccio, pure la testa del Battista.
Come emerge da più parti nella letteratura critica di riferimento, il dramma di Wilde riprende la struttura del racconto evangelico e descrive il banchetto di Erode attraverso le voci di coloro che vi prendono parte. La figura di Salomè emerge come una bellezza lunare che attrae gli sguardi delle figure maschili. Erode, accecato dal desiderio, riesce a convincere Salomè a danzare per lui. In cambio, Salomè chiede a Erode di far uccidere Iokanaan. L’episodio biblico diventa dunque per Wilde una riflessione sulla fine di un secolo e di un mondo, su una cultura ancora impostata in riferimento a precise norme religiose, culturali e morali nonché a specifici regimi dello spettacolo e della visione. È la fine di un secolo nel quale si verifica il declino di enormi imperi e l’affermazione di nuove forme di vita, un’epoca di decadenza e rinnovamento, dove i desideri e le ossessioni trovano nuovi modi di esprimersi e sfogarsi, tanto al livello individuale quanto collettivo.
Dopo la messa in scena teatrale di Salomè nel 1964 e 1967, capace di suscitare l’entusiasmo di Ennio Flaiano (1964) e di Alberto Arbasino (1965), nel 1972 Bene torna al dramma di Wilde per ripensarlo cinematograficamente. Sebbene si tratti di un adattamento molto libero, nel film presentato alla trentatreesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si ritrova buona parte dei dialoghi nonché la struttura sintattica e ritmica già presente in Wilde, che oppone al flusso di parole, alle divagazioni, alle suppliche e agli sproloqui di Erode le risposte secche dapprima di Erodiade e poi, soprattutto, della giovane Salomè. Anche il carattere parodistico e il gusto per il kitsch, ben presenti nel testo drammatico, trovano esplicita ripresa ed estremizzazione nel film, tanto da far dire a Deleuze ([1985] 1989, 211) che “la cerimonia in Bene comincia con la parodia, che concerne in ugual modo suoni e gesti […]. Quel che emerge dal grottesco però, quel che se ne distacca, è il corpo grazioso della donna come meccanica superiore, sia che danzi tra i suoi vecchi, sia che passi attraverso atteggiamenti stilizzati di un segreto volere, sia che si irrigidisca in posture d’estasi”.
Pur mantenendo un rapporto privilegiato con Salomé, il film si basa dunque sull’ibridazione con altri due testi. In prima battuta, La santa cortigiana, un dramma di Wilde mai terminato, e dunque la parte dedicata alla figura di Salomè nelle Moralità leggendarie di Jules Laforgue. Senza entrare nei dettagli filologici e filmologici di tale innesto (Aumont 2010, 91-106; Baiardo, De Lucis 2021, 31-56; Raciti 2018, 163), è qui sufficiente ricordare come la sovrapposizione dei tre testi porti alla proliferazione di personaggi e alla creazione di sincretismi attoriali ed effetti anacronistici rispetto alle fonti evangeliche e iconografiche: l’opposizione tra Myrrhina (Verushka) e Salomè (Donyale Luna), la continua apparizione del Cristo-Vampiro (Franco Leo), il carattere duplice di Erodiade (interpretata da Lydia Mancinelli e Alfiero Vincenti), l’improbabile Iokanaan che si esprime in dialetto meridionale (Giovanni Davoli), Narraboth (Piero Vida) e dunque Erode (Carmelo Bene).
Dal punto di vista dell’organizzazione narrativa, il film di Bene presenta due modifiche importanti rispetto all’opera di Wilde, due variazioni non ancora sufficientemente considerate nei loro risvolti teorici e sulle quali vale la pena di concentrare l’attenzione: la prima è l’anticipazione e reiterazione del momento della decapitazione di Iokanaan fin dall’inizio del film; la seconda è lo spostamento e trasfigurazione della Danza dei sette veli – che in Wilde si trova nella seconda parte del dramma – a conclusione.
Sulla base di tali scarti, la mia ipotesi è che Bene trasformi le due situazioni narrative principali del dramma di Wilde – i gesti della decapitazione e della danza – in principi estetici strutturanti l’intero film. Tagliare e velare costituiscono del resto due operazioni compositive alla base delle arti visive e, in modo particolare, della ‘settima arte’, quella forma di espressione convenzionalmente nata soltanto pochi mesi dopo la pubblicazione di Salomé. Come cercherò di mostrare nel corso dell’articolo, i due gesti più radicali del dramma fin-de-siècle di Wilde assumono nel film una funzione eminentemente teorica, esprimendo un’idea del cinema come sisma e sismografo, agente e testimone di una condizione di crisi. Il cinema, l’ “occhio del Novecento” (Casetti 2005), sembra insomma riconcepito dal Carmelo Bene lettore di Oscar Wilde come un occhio tardivo, un ‘occhio di fine secolo’.
Il corpo, la pelle: montaggio e dissolvenza
Ciò che colpisce del film di Bene è la capacità di avvicinarsi al dramma di Wilde attraverso scelte cinematografiche che si discostano radicalmente dall’idea di ‘adattamento’. Fin dalla prima visione, Salomè appare come un’opera molteplice, barocca e minimalista, iconicamente densissima e, al contempo, scarna. Come anticipato in conclusione del precedente paragrafo, Bene stabilisce una connessione – in un certo senso innesca un rapporto “libero indiretto” (Pasolini 2007, 167-187; Deleuze [1983] 1984, 92-95) – tra le forme d’espressione dei personaggi dei testi di Wilde e Laforgue e le forme filmiche – le scelte di composizione e montaggio – di Salomè. Come è stato osservato a proposito di Nostra Signora dei Turchi, “l’essere al di qua e al di là della macchina da presa porta a evidenza come attraverso il medium cinematografico Bene sperimenti non tanto la performatività rispetto alla registrazione/montaggio, quanto piuttosto riconduca la registrazione/montaggio alla performatività” (Saba 2019, 76). È così che si apre per Bene la possibilità di indagare i rapporti tra il corpo attoriale e le forme tecniche (Giacchè 1997), fino a riconcepire in profondità l’idea di performance dall’interno della pratica e del linguaggio cinematografico.
Nel film Salomè, la decapitazione di Iokanaan non coincide semplicemente con un evento narrato, ovvero con un contenuto del racconto, ma è trasfigurata al livello delle forme espressive dell’intero film, nell’articolazione di un’‘estetica della frammentarietà’ (Grande 1973, 151-152). Fin dall’inizio, dal punto di vista figurativo, la decapitazione è restituita eufemisticamente attraverso il gesto del taglio di un’anguria, eseguito da un imponente personaggio (nell’interpretazione di Alejandro Barrera, detto Dakar) in modo ripetitivo, quasi a scandire la progressiva degenerazione di Erode e la dissoluzione del suo mondo. Tante più volte viene tagliata la ‘testa di Iokanaan’, quanto più serrati si rendono i tagli di montaggio del film, gli interventi mirati a interrompere il flusso delle immagini impresse sulla pellicola. Da questo punto di vista, è come se ogni sequenza del film contenesse in sé la totalità del testo drammatico di Wilde, trasformando il carattere violento e dissacratorio della decollazione del Profeta in un principio estetico, in una provocazione alla storia del cinema.
All’interno delle grammatiche del cinema classico, il montaggio è concepito come qualcosa che non deve darsi a vedere, come un modo di unire in modo impercettibile ciò che era separato. L’invisibilità dei raccordi si fa garante della trasparenza della rappresentazione. Negli anni Settanta e ancora oggi, all’interno della produzione audiovisiva, il montaggio è uno strumento d’ordine, un principio di economia del racconto. In Salomè assistiamo a una concezione dello strumento del montaggio all’insegna dell’eccesso, dello sperpero, dell’ipertrofia. Se all’interno di un film mainstream è facile aspettarsi una media di duecento stacchi di montaggio, quello realizzato da Bene nel 1972 ne prevede quattromila. Proprio come Salomè chiede a Erode la decollazione di Iokanaan e innesca il disfacimento di un Regno, Bene tormenta il mito della trama e l’idea di adattamento ben riuscito come forme ordinarie dell’esperienza artistica e cinematografica. Anziché seguire gli sviluppi di una rappresentazione narrativa, lo spettatore subisce lo shock di una presenza audiovisiva in continua trasformazione.
Dal montaggio è dunque il momento di spostare l’attenzione sul problema della luce e del colore. Bene concepisce l’idea visiva di Salomè a partire dalla pionieristica scoperta dello Scotchlite, un nastro adesivo colorato prodotto dall’azienda 3M applicabile su qualsiasi superficie, incluse scenografie e costumi, ottenendo colori molto accesi e brillanti. Come ricordato da Mario Masini (2020, 28-29), direttore della fotografia e figura di primo piano nella ricerca artistica della Roma dell’epoca, “mi resi conto che sarebbe bastata pochissima luce vicina all’obiettivo per ottenere i colori brillanti voluti da Carmelo. Essendo un catarifrangente, infatti, lo Scotchlite rifletteva il colore con molta intensità ma per questo era necessario che la fonte di luce e l’obiettivo fossero vicini tra di loro, perché l’azione catarifrangente si esercitava solo verso il punto di origine della luce. Posto vicino a questo, l’obiettivo sarebbe riuscito a catturare al meglio questo riflesso facendo risaltare i colori molto più accesi”.
Rispetto alle illustrazioni in stile liberty di Beardsley, che accompagnavano la prima edizione inglese del testo di Wilde e che si trovano anche nelle più recenti edizioni in lingua italiana, Bene immagina la festa di Erode attraverso filtri pop (i tableaux vivants dell’ultima cena, della crocifissione e tutte le composizioni ‘iconiche’ del film) e neobarocchi (le sequenze che si dispiegano a partire dal corpo orizzontale di Erode). Come in poche altre opere nella storia del cinema, attraverso la soluzione tecnica adottata da Masini, i colori di Salomè sembrano sul punto di distaccarsi dai propri oggetti, sono antinaturalistici, puramente espressivi (Venzi 2014, 213-216).
Se la capacità catarifrangente dello Scotchlite è utilizzata per immaginare la situazione festiva di cui parla il racconto e, più in generale, il vecchio mondo di Erode, le Danza dei sette veli con la quale si conclude il film segna l’irruzione di nuove strategie cromatiche e luministiche. La danza occupa per intero il finale ed è intervallata dalle immagini anacronistiche di un Cristo che cerca di autocrocifiggersi, mentre il montaggio sonoro fa emergere in primo piano la canzone Abat-Jour con il testo scritto da Ennio Neri a partire dal brano del compositore austriaco Robert Stolz, intitolato Salomè.
Le parole di Erode e Salomè restano a ridosso del testo di Wilde, ma la regia di Bene dà forma a questo passaggio attraverso due precise scelte, riguardanti tanto la gestione degli attori quanto la composizione filmica. Da un lato, vediamo la figura di Salomè prendere definitivamente il sopravvento su Erode. Salomè è stata guardata e desiderata dal Tetrarca per l’intera festa. Il suo corpo è stato reificato, è stata assimilata a un oggetto. Ma non appena inizia a danzare, la tentazione si rovescia in punizione, detta un nuovo ritmo, una nuova scansione del tempo. Adesso il suo corpo si trova sopra quello di Erode; con le dita allungate spella il suo volto, fa a brandelli il suo corpo-mondo eccessivo, decadente. Dall’altro lato, in quest’ultima sequenza, anche la spettatrice e lo spettatore più distratti si accorgono che qualcosa di importante sta accadendo non soltanto ai personaggi, ma alle componenti plastiche dell’immagine. In particolare, i colori vividi e i contrasti fortissimi che avevano caratterizzato l’intero film tendono a dissolversi. L’apertura del diaframma lascia entrare nell’occhio meccanico una quantità di luce eccessiva rispetto agli standard rappresentativi basati sul principio di riconoscimento delle singole figure. Progressivamente, con Erode, anche l’immagine subisce una sorta di scorticazione, fino all’accecamento del bianco.
Dioniso e Salomè: nascita del montaggio e fine del cinema
Secondo Sergej Mihailovic Ėjzenštejn, la nascita delle arti del montaggio va cercata in Dioniso e nelle menadi che gli si accompagnavano, dando luogo a riti orgiastici e soprattutto allo sparagmos, lo smembramento rituale. Per pensare e comprendere il cinema, scriveva il regista sovietico nelle pagine di uno dei testi fondativi della sua teoria e prassi artistica, occorre pensare a “Dioniso che viene dilaniato, e le sue membra che di nuovo si compongono in un Dioniso trasfigurato. Cioè, la soglia da cui muove l’arte del teatro, che diventerà in seguito arte del cinema” (Ėjzenštejn [1963-1970] 1985, 227). Se Ėjzenštejn ci invita a pensare il legame tra le arti della modernità e i rituali arcaici, grazie a Aby Warburg possiamo facilmente riconoscere l’aria di famiglia tra l’energia devastante delle menadi classiche e quella della figura biblica di Salomè, anch’essa una smembratrice, una tagliatrice di teste. Al di là della possibilità di distinguere una Menade da Giuditta e quest’ultima da Salomè, Warburg (2002) ci ha insegnato a tenere conto della familiarità o, meglio, dell’energia distruttiva e costruttiva che attraversa alcune figure in ambito artistico e culturale.
Tra Wilde e Bene, Salomè riprende e rilancia la riflessione di Ėjzenštejn e quella di Warburg. Salomè non si concede allo sguardo di Erode e dello spettatore cinematografico in una danza spettacolare ma esprime, in forma astratta, le potenze di trasfigurazione e riconfigurazione della danza, un tema centrale nel dibattito teorico novecentesco come nella filosofia contemporanea (Nancy, Gasparotti, Sala Grau, Zanardi, Ermini 2017).
Salomè decapita, monta e smonta, smembra e riconfigura. Ma gioca anche con i veli dell’immagine, con le superfici e, tra materialità e immaterialità, modula luci e colori, fino a invitarci a riflettere su un aspetto al contempo teorico e pratico: sul fatto che ogni film è un ‘giocarsi la pellicola’, un esercizio in bilico tra la nascita e la fine del cinema. Come è evidente, ci siamo spinti ben oltre gli aneddoti citati in apertura riguardanti le pellicole stropicciate. Allo stesso tempo, siamo finalmente lontani dall’idea di ‘iconoclastia’ alla quale più volte è stato accostato il nome di Bene. Anziché distruggere o proibire l’uso delle immagini, Bene pone al centro del suo cinema personaggi capaci di mettere in crisi una concezione statica dell’adattamento e della rappresentazione, fino ad assumere l’idea di crisi in quanto principio strutturante del progetto artistico. ‘Giocarsi la pellicola’ non è dunque deteriorare o distruggere il materiale filmico, ma significa chiamare in causa l’orizzonte storico ed estetico del cinema.
Dal punto di vista cronologico, Salomè non è l’ultimo film di Bene. Eppure proprio qui sembra giungere al massimo sviluppo la riflessione sul carattere aurorale e terminale di alcune pratiche e tecniche dell’audiovisivo: sullo smembramento orgiastico che diventa arte del montaggio; sullo spellamento rituale che diventa una questione di chiusura o apertura del diaframma fotografico, fino all’indistinzione tra opacità e trasparenza della pellicola.
Come in Wilde, Salomè è dapprima l’oggetto dello sguardo e del desiderio di Erode, non a caso interpretato da Bene stesso. Ma tutto cambia repentinamente. Le posizioni si invertono: il declino di un regno, di un’epoca e di un regime della visione mettono al margine, come un ridicolo eccesso, quanti occupavano il centro. E quando il film si avvia verso il finale è evidentemente Salomè la regista, montatrice e direttrice della fotografia. È questo il movimento di un oggetto del desiderio che si trasforma in un soggetto e dunque in un gesto impersonale, distruttivo e costruttivo al contempo. Insomma, non è soltanto una questione di coincidenze storiche – il dramma di Wilde a Parigi nel 1891, i fratelli Lumière a Lione nel 1985 – o bizzarrie di fine secolo. Salomè come nascita e fine del cinema.
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English abstract
The work of Carmelo Bene is widely interpreted as a radical questioning of the notion of representation and of any conciliatory conception of artistic practice. If stories coming from Bene’s movie sets tell of his procedures expressly aimed at damaging his own films, on the other hand he often hinted at the frugality of those film projects, which were unwilling to “rischiare la pellicola”. Beyond anecdotes, this paper investigates Salomè (1972) as a central moment for understanding the constructive and deconstructive processes that characterise Bene’s work. By reading Oscar Wilde’s play in parallel with Bene’s movie, the decapitation of John the Baptist and the Dance of the Seven Veils are viewed as gestures rife with aesthetic, moral, and political implications. What emerges is the film’s theoretical and critical status. More than any of his occasional statements on the filmic medium, Salomè is Bene’s essay on the birth of montage and the end of cinema.
keywords | Carmelo Bene; Oscar Wilde; Salome; Montage; Colour; Eye of the End of the Century.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Francesco Zucconi, Rischiare la pellicola. Nascita del montaggio e fine del cinema in Salomè (1972) di Carmelo Bene, “La Rivista di Engramma” n. 187, dicembre 2021, pp. 157-170. | PDF dell’articolo