In un momento in cui le riviste di architettura stanno attraversando una crisi, tra nuove nascite legate, almeno in Italia, a finalità accademiche o all’autorappresentazione di piccoli gruppi, perduranti difficoltà delle testate storiche e commercializzazione spinta di molte altre, può essere utile riprendere alcune considerazioni sulla natura e sulla storia di questo mezzo di comunicazione e formazione che ha avuto una importanza fondamentale nel consolidarsi dell’architettura moderna. Considerazioni che vanno al di là dell’attuale fronteggiarsi di cartaceo e digitale e che riguardano piuttosto la necessità dello strumento, qualunque sia il suo supporto, e il suo ruolo, dentro lo scenario più ampio dell’architettura come disciplina in transizione.
Le riviste di architettura, dentro il panorama generale delle pubblicazioni analoghe appartenenti ad altri settori scientifici, hanno, da sempre, marcato una differenza. La loro particolarità dipende, in gran parte, dal muoversi contemporaneamente nell’ambito interno della disciplina e in quello esterno, tra il rivolgersi agli addetti ai lavori e il cercare di influire sul gusto comune di un pubblico più ampio, il che ha fatto di alcune di esse casi editoriali e culturali la cui influenza è andata ben oltre il ristretto circolo degli architetti. Al tempo stesso, l’autonomia delle migliori tra loro rispetto al mondo della professione, del mercato e dell’accademia ha attribuito ad alcune un ruolo ben più incisivo, rispetto alla formazione di un architetto, di quello svolto dagli ambiti ufficiali, e soprattutto capace di maggior apertura nei confronti del mondo.
La loro differenza dalla pubblicistica di altri settori riflette, d’altra parte, la particolarità della disciplina cui fanno riferimento, nella sua difficile collocazione tra arte e scienza, tra pratica iniziatica e attività a forte impatto sociale. A questa particolarità farò brevemente riferimento, prima di entrare nel vivo del tema attraverso l’analisi di alcuni casi editoriali, appartenenti a tempi e luoghi differenti, accomunati dal fatto di essere diventati importanti punti di riferimento culturali distinguendosi così dalla moltitudine delle pubblicazioni ininfluenti.
Un cenno alla relativa, ma strutturale, debolezza dell’architettura sul piano teorico, è, dunque, una premessa necessaria. Un’attività costruttiva e creativa così strettamente legata alla pratica non sempre è stata in grado di esprimere sul piano teorico la stessa profondità delle sue opere o dei suoi disegni. Di essa hanno parlato, ben più degli architetti, storici, filosofi e letterati, entrando spesso, da esterni, nel merito delle sue implicazioni teoriche e della sua stessa natura di strumento essenziale nella definizione della forma visibile del mondo, sia per quanto riguarda le sue manifestazioni ordinarie, come la casa, che quelle straordinarie come le città e i monumenti.
Più di rado, e in fondo con difficoltà, ne hanno parlato gli architetti. Le considerazioni che, da Vitruvio in poi, si sono susseguite in forma più o meno organica descrivono prevalentemente il processo costruttivo, danno risposta logica alle funzioni rispetto alle esigenze del tempo, azzardano la ricostruzione di genealogie e origini ma molto raramente riescono a raggiungere un livello teorico comparabile a quello conseguito, nelle stesse epoche, da altri rami del sapere. Dal punto di vista comunicativo, almeno inizialmente, i loro referenti sono essenzialmente i committenti: re, prelati, imperatori, a beneficio dei quali cercano di rendere comprensibile un sapere normalmente trasmesso sul campo e difficile da comprendere e da giudicare in forma oggettiva. In qualche caso il tentativo è stato più alto, come per il De re aedificatoria 1443-1452) di Leon Battista Alberti [Fig.1] in cui si delinea una figura di architetto-umanista (o intellettuale, diremmo oggi) conscio del suo compito civile che, per svolgerlo adeguatamente, ritiene necessario dover estendere le sue conoscenze.
Architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo. A tal fine gli è necessaria la padronanza delle più alte discipline (Alberti [1443-1452] 1966).
Questo tentativo di rafforzamento culturale, però, verrà ripreso solo sporadicamente nei secoli successivi e, anche se i testi di architettura iniziano a rivolgersi ad un pubblico più ampio, ciò che prevale è una trattatistica sempre più tassativa nei suoi riferimenti agli ordini classici, una manualistica essenziale o un catalogo di esempi, relativi all’autore o appartenenti ad altri, indicati come virtuosi. Così, la cultura espressa dagli architetti in prima persona è stata altalenante in quanto a efficacia divulgativa e capacità di esprimere un peso teorico rilevante. La sua pubblicistica complessiva soprattutto per quel che riguarda gli aspetti teorici è consistita, per molto tempo, in un ristretto numero di libri, incapaci di rendere fino in fondo le esigenze delle diverse epoche di appartenenza, spesso ripetitivi, orientati piuttosto a ripristinare la gloria di tempi perduti e ricercare regole assolute e, in fondo, poco propensi a divulgare veramente un sapere operativo che continuava per lo più a riprodursi grazie alla trasmissione orale, nella esperienza di cantiere e di bottega e nell’osservazione diretta delle opere.
Più che i libri, in effetti, erano i viaggi a formare i progettisti: dalle esperienze romane e rinascimentali di Brunelleschi, Raffaello o Palladio, espresse dai loro rilievi, a quelle francesi e gotiche di Villard de Honnecourt, riportate nel suo Livre de Portraiture (1230 ca.) [Fig. 2]. Gli edifici, o le rovine di un’antichità eletta a patria, costituivano la vera fonte di apprendimento in questo campo, ed è prevalentemente dalla loro osservazione che, di tanto in tanto, si irradiava la riflessione teorica. Per questi e altri motivi, le forme della comunicazione cartacea, in architettura, hanno avuto una evoluzione lenta. Sono le opere a svolgere questo compito – ricordiamo le considerazioni sul valore narrativo di alcune architetture espresse da Victor Hugo in Notre Dame de Paris (1831), nel capitolo V, dove attraverso il famoso “Ceci tuera cela” l’autore prevedeva un passaggio di consegne, in quanto a questo, dall’architettura al romanzo – in un ambito in cui gli aspetti imitativi e la capacità evocativa delle forme hanno sempre avuto una funzione essenziale.
Se progressivamente l’architetto colto assomma all’esperienza di cantiere la conoscenza dei trattati, la pratica dei viaggi e, più tardi, la frequentazione accademica, nell’intento di dare maggior dignità culturale al proprio mestiere, è indubbio però che nessuno di questi ambiti formativi sembra più sufficiente in tempi in cui la modernità si manifesta in fenomeni nuovi di trasformazione che coinvolgono l’insieme dell’ambiente umano. Diventano necessari altri strumenti che rimescolino le carte della conoscenza e mettano in grado di comprendere ciò che da tempo era in atto, ma difficile da vedere con occhi appannati da vecchie certezze. Già attorno alla metà del Settecento, con l’affermarsi di maggiori esigenze di sistematizzazione del sapere umano e di conoscenza in ambito architettonico, riemerge la percezione della debolezza teorica dell’architettura, che è apertamente dichiarata, ad esempio, da Marc-Antoine Laugier nella prefazione del suo Essai sur l’architecture (1753), pur non essendo l’autore un architetto.
Abbiamo diversi trattati di architettura, che hanno sviluppato con sufficiente esattezza le misure e le proporzioni, che sono entrati nel dettaglio dei differenti ordini architettonici, che hanno fornito modelli per ogni genere di costruzione. Non abbiamo, però, ancora opere che abbiano stabilito solidamente i principi (dell’architettura ndr) che abbiano proposto regole atte a dirigere il talento e a fissare il gusto (Laugier [1753] 20022).
Contribuiranno a farlo, negli anni immediatamente seguenti, non tanto nuovi trattati ma nuovi prodotti che, pur riprendendo in forma diversa quelli che erano stati fino ad allora gli attrezzi di lavoro del mestiere – gli appunti disegnati, le collezioni di immagini, i rilievi dell’antichità – ne ampliano il raggio di interesse, si pongono un dichiarato intento divulgativo e, soprattutto, introducono nuovi temi. È stato probabilmente l’Entwurf einer historischen Architektur (1721) di Johann Bernhard Fischer von Erlach, catalogo di architetture famose in bilico tra realtà e fantasia, ad aprire la strada in questo senso, ma nell’arco di pochi anni usciranno volumi più “scientifici” come The Ruins of Palmyra: Otherwise Tedmor in the Desert (1753) [Fig. 3] e The Ruins of Balbec, Otherwise Heliopolis in Coelosyria (1757), di Robert Wood e James Dawkins; Les ruines des plus beaux monuments de la Grèce (1758) di Julien David Le Roy; o, ancora, The Antiquities of Athens (1762) [Fig. 4], di James Stuart e Nicholas Revett, e Ruins Of The Palace Of The Emperor Diocletian At Spalatro In Dalmatia (1764) [Fig. 5], di Robert Adam, anticipati dalle vedute delle antichità romane di Giovanni Battista Piranesi (1748-1756) [Fig. 6] e seguiti dal suo testo più teorico: Il parere sull’architettura (1765).
Accomunati dalla passione antiquaria, essi confezionano per un pubblico più ampio che non quello degli architetti e dei loro committenti, una rilettura del mondo antico, effetto e causa al tempo stesso del risorgere del gusto classico, ma anche capace di porre in luce nuove tematiche. Nelle splendide incisioni e nei volumi in-folio si rappresentano, per la prima volta in modo dettagliato in questo genere di rilievi, aspetti del paesaggio e vedute di città, alberi, strade e persone. Complementi grafici che assumono un’importanza almeno pari a quella dei singoli edifici descritti e decisamente superiore a questi rispetto alla capacità di attualizzare e rendere accattivante (e quindi potenzialmente riproducibile) l’oggetto della descrizione. Introducono, in sostanza, in campo architettonico, il tema delle relazioni tra edifici e paesaggio che la pittura italiana aveva da tempo frequentato nei suoi sfondi famosi, ma che ancora costituiva per l’architettura un terreno poco esplorato. La novità dei soggetti, la chiara matrice divulgativa, la bellezza dei disegni dovuti a illustratori-architetti come Giovanni Battista Borra per Palmira e Charles-Louis Clérisseau per Spalato e lo stesso Piranesi per Roma o Paestum, ne fanno subito dei veri e propri best sellers e, insieme, modelli di riferimento a cui i nuovi progetti neoclassici attingono a piene mani. Essi sono presenti nelle biblioteche pubbliche e in quelle private degli architetti ma anche nelle collezioni librarie di re, imperatori e uomini di cultura. La loro influenza pratica nel mondo dell’architettura è paragonabile a quella di trattati diffusissimi come quelli del Vignola (1562), di Palladio (1570) o dello Scamozzi (1615) e presto arriva ad orientare non solo la creazione di nuovi edifici in stile antico ma anche quella di intere città – S. Pietroburgo ne è un esempio – o di parti di esse.
Quei libri e quelle vedute, di fatto, inaugurano un rapporto inedito tra una cultura specifica e un suo pubblico in via di allargamento; non trattano solo modalità di costruzione, destinate a pochi, di edifici per pochi, ma mostrano qualcosa che va oltre le singole costruzioni: un bene comune e diffuso, generato da relazioni virtuose tra l’architettura e ciò che la attornia. Ma non vi è solo questo; attraverso le rovine dell’antico queste raccolte presentano, implicitamente, la moderna frammentarietà che caratterizza il mondo e prefigurano nuovi e più vasti compiti per l’architetto. E se la vera e propria gara a rappresentare scientificamente ciò che ancora non si conosceva dell’antichità assume un interesse in sé, ancor più rilevante, ai fini del nostro discorso, è ricordare come anche da quelle pubblicazioni esca, per quanto riguarda l’architettura, la spinta ad una conoscenza più allargata e più libera in cui si attenui il filtro delle regole codificate dei trattati e delle Accademie reali e si apra la possibilità di rivolgere uno sguardo rinnovato sul mondo e di creare nuovi strumenti per trasformarlo.
È anche da questo clima rinnovato, oltreché dal vento di progresso portato dalla Rivoluzione francese, e da questi nuovi dispositivi di divulgazione resi possibili grazie a viaggi spesso avventurosi, che nascono anche quelle che possono essere considerate le prime riviste di architettura. Fortemente influenzate dal clima illuministico del tempo, spinte da una vera e propria necessità collettiva di emancipazione sociale e culturale degli architetti, esse riuniscono in un solo oggetto divulgativo i diversi filoni della conoscenza del settore: teorica e pratica, storica e contemporanea. Non è, dunque, una vera novità quella che si manifesta con la loro apparizione ma piuttosto una ricollocazione ragionata di materiali che hanno la loro origine primaria nei manuali tecnici, nelle rassegne, nei resoconti di viaggio e nei libelli teorici, organizzata, però, in un contenitore nuovo e riproposta con cadenza periodica, in forma ogni volta variata. Il loro contenuto consiste in contributi di autori diversi accostati in un rapporto di tipo analogico: saggi teorici e report tecnici, riferimenti storici e descrizioni geografiche, novità e informazioni che, nel loro insieme, ricordano il modo in cui si assemblano le diverse componenti di un progetto di cui, indubbiamente, appaiono come una declinazione scritta e illustrata.
L’esempio più interessante in questa epoca inaugurale e vero e proprio punto di partenza di molte vicende dell’architettura europea, ha un’origine in fondo provinciale rispetto ai centri della cultura del tempo. Si tratta della “Sammlung Nützlicher Aufsätze und Nachrichten die Baukunst Betreffend. Für Angehende Baumeister und Freunde der Architektur” (“Raccolta di saggi utili e notizie relative all’architettura. Per futuri architetti e amici dell’architettura”), il cui primo numero esce a Berlino nel 1797 [Fig. 7] per iniziativa, principalmente, di David Gilly, buon architetto tedesco di origini francesi.
Presentandolo ai suoi lettori,i curatori, membri dell’Oberbaudepartement fondato nel 1770 dallo stato prussiano come più alta autorità nel campo dell’edilizia, dichiarano apertamente il loro obiettivo di contribuire all’innalzamento del livello tecnico ed estetico delle costruzioni e delle infrastrutture di un regno, quello di Prussia che si avviava a vivere una stagione di fermento architettonico, dentro la rinascita generale promossa da Federico II il Grande.
Non si può rimproverare ai tedeschi di essere secondi agli stranieri nelle opere di architettura. Loro, che vivevano ancora allo stato di ferocia, quando tra i popoli al mattino e al mezzogiorno, le arti e le scienze erano già in pieno sviluppo, per lo più li hanno raggiunti [...] e non hanno mai conosciuto momenti di decadenza, come quelli, ma, nonostante le circostanze sfavorevoli del medioevo, sono sempre avanzati nel risveglio dei loro talenti. Così quelle terre un tempo così famose sono oggi conosciute solo dalle rovine delle grandi opere dei loro antichi costruttori mentre la Germania sta solo lentamente ma deliberatamente avanzando (Gilly D. 1797, III).
Al di là dell’inquietante nazionalismo che sarà presto spento da Napoleone a Jena, la nuova rivista, che consta, nel suo primo numero, di 194 pagine, si dà un compito più ampio: dotare la cultura architettonica tedesca degli strumenti necessari ad affrontare la nuova epoca e i nuovi compiti che lo stato si trova di fronte rimescolando e incrementando le componenti classiche della formazione professionale. Il suo frontespizio usa un’incisione di Friedrich Frick, ripresa da un disegno di Friedrich Gilly (figlio di David), che rappresenta uno scorcio del palazzo Steinhöfel ristrutturato dai due Gilly; ad essa è affiancata una veduta del ponte di Coalbrookdale in Inghilterra, il primo al mondo ad essere costruito in ferro e vero e proprio manifesto di modernità, un edificio del passato, dunque, e uno del presente, e anche nel variare ad ogni numero di frontespizio e anti-frontespizio introduce una nuova modalità di confronto e di dialogo tra progetti.
Gli articoli che contiene spaziano dall’analisi delle migliori architetture “terrestri e dell’acqua” fatta da David Gilly, alle considerazioni generali sull’architettura di “Riedel il Vecchio” (Eduard Riedel). Nelle prime pagine, dopo la prefazione, trova posto la lista molto numerosa dei facoltosi sottoscrittori, quindi i diversi articoli sono suddivisi in tre sezioni: Raccolta di saggi utili e notizie relative all’architettura; Notizie varie; Annunci; quest’ultima comprende anche un Elenco della maggior parte degli scritti in tedesco usciti nell’anno 1795 e relativi all’architettura o alle scienze affini. Concludono il volume l’indice, la lista delle illustrazioni presenti nel testo (tre) e di quelle raccolte in appendice (cinque) un’errata corrige e, infine, la raccolta finale delle tavole, presentate alla maniera dei manuali ma che ne rompono la noiosa omogeneità tematica mescolando mappe geografiche di porti con dettagli costruttivi di camini e di travi, sezioni di ponti in ferro con prospetti di macchine per l’irrigazione.
I numeri seguenti della rivista [Fig. 8] conterranno scritti di storia, e di tecnica, riflessioni teoriche e analisi di edifici moderni con particolare attenzione a ponti e infrastrutture idriche, proposte per il piano regolatore di Berlino, ecc.
Nel 1799, inizierà a scrivere sulla “Sammlung” anche il giovane figlio di David, Friedrich Gilly, vera e propria meteora nel panorama architettonico del tempo che morirà l’anno dopo, a ventotto anni, lasciando con i suoi scritti e i suoi disegni, tra cui il progetto per il monumento a Federico II in Leipziger Platz a Berlino (1797) [Fig. 9], un segno indelebile in quella straordinaria stagione dell’architettura tedesca che avrà in Fredrich Schinkel e in Leo von Klenze, i suoi protagonisti più noti, entrambi suoi allievi in studio e presso la Bauakademie di Berlino (di cui David Gilly è stato co-fondatore nel 1798, dopo aver aperto una propria scuola privata nel 1793).
Non vi è dubbio che se la “Sammlung” ha avuto in Gilly padre il suo fondatore, il figlio ne è stato, nei brevi anni della sua vita attiva, l’anima ardente. Grazie ai viaggi in Francia [Figg. 10, 11] che allargano le sue vedute, alle capacità culturali e progettuali, al clima in parte creato dal padre attorno a lui, plasma su di sé una nuova figura di architetto, profondamente ancorata nella conoscenza dell’antico e del mestiere ma anche delle nuove espressioni dell’architettura a lui contemporanea, così come si mostrava agli albori della rivoluzione industriale. Il giovane Gilly si lascia attraversare dal vento nuovo che spira, anche per l’architettura, nell’Europa post-rivoluzionaria, usa indifferentemente il progetto e la riflessione teorico-critica, intuisce le potenzialità di nuovi strumenti come la rivista stessa, ne reinventa di vecchi, come la scuola, intuisce il crescente potere delle immagini. Filtra il tutto attraverso lo sguardo dell’architetto e interpreta una figura intellettuale adatta ai compiti del futuro. Proprio sulla “Sammlung” (1799) pubblicherà un testo sulla formazione degli architetti che ancor oggi appare di estrema attualità: Einige Gedanken über die Notwendigkeit, die verschiedenen Theileder Baukunst, in wissenschaftlicher und praktischer Hinsicht, môglichst zu vereinen (Riflessioni sulla necessità di unire il più possibile le varie parti dell’architettura, da un punto di vista scientifico e pratico).
In una rivista il cui scopo è stato, e rimarrà, quello di pubblicare i più importanti risultati di indagine ed esperienza nell’intero regno dell’architettura, nonché gli ultimi e più interessanti resoconti storici e letterari di sviluppi, opere ed elaborazioni nella teoria e pratica di quest’arte, la cui portata si è ampliata così tanto negli ultimi tempi – in una rivista del genere, potrebbe non sembrare del tutto fuori luogo avanzare alcune riflessioni sulla necessità di tentare di unificare tutti gli aspetti dei vari settori dell’architettura, sia in teoria che in pratica, per il loro reciproco vantaggio e per favorire la loro influenza generale. Così vasta è la gamma delle diverse arti e scienze, e così numerosi sono i campi d’azione che comprendono, che i praticanti, consapevoli dei propri limiti, devono limitarsi per il proprio bene all’uno o all’altro aspetto dei loro soggetto prescelto; possono tuttavia, a volte, adottare proficuamente un punto di osservazione più elevato ed esaminare l’intero, di cui la loro stessa opera fa parte, e che conferisce a quell’opera la sua forma e il suo scopo caratteristici (Gilly 1799, 3).
La rivista, la Bauakademie (la cui sede definitiva sarà progettata da Schinkel nel 1832), uno stato che vuole rinnovarsi, l’eco di una rivoluzione, i tempi che cambiano, l’intuizione di un maestro, il talento eccezionale di un giovanissimo architetto, i suoi viaggi [Fig. 12] e quelli dei suoi virtuosi allievi sono stati, dunque, gli ingredienti di un percorso che ha avuto il suo culmine nel ridisegno, attraverso opere architettoniche dalla forte valenza urbana, di città importanti come Berlino, Monaco e Atene. È a quella culla di idee maturate attorno alla rivista che si deve, come si è detto, la formazione di Karl Friedrich Schinkel, probabilmente il più importante architetto del suo tempo. In lui, i viaggi che lo portano a scoprire e a disegnare le città europee e le dure costruzioni industriali inglesi (1826), l’attrazione verso l’architettura ordinaria e vernacolare, il fascino degli schizzi riprodotti devotamente da quelli del suo giovane maestro [Fig. 12], staranno alla base della creazione di una personalità eccezionale che ricolloca, nei suoi disegni e nei suoi progetti, l’architettura dentro un rapporto intrecciato con la natura effettiva e con quella artificiale della città e che amplia la sua cultura e maestria originarie attraverso l’amicizia con personaggi come il linguista Wilhelm von Humbold, fratello del geografo Alexander e l’attrazione verso pittori come Kaspar David Friedrich.
Si può dire che la rottura di cui la rivista è stata protagonista abbia esercitato su una nuova generazione di architetti un’influenza che non solo li ha sottratti all’accademismo di matrice francese (usciranno in quegli anni anche il Cours d’Architecture (1771) di Jacques-François Blondel e i Prècis des leçons d’architecture (1802-1805) di Jean-Nicolas-Louis Durand) e al tecnicismo tedesco ma li ha portati ad accorgersi dell’esistenza di un paesaggio nuovo fatto di architetture essenziali e di rapporti fertili con la natura come gli schizzi di viaggio del giovane Gilly, [Fig. 13] e poi di Schinkel, testimoniano. Dalla “Sammlung” e dai suoi rapporti di vicinanza e al tempo stesso di autonomia con la Bauakademie nasce anche l’idea che l’architetto, per assolvere a compiti che non consistano esclusivamente nel puro costruire, per assumere rilevanza civile, per contribuire alla emancipazione estetica di un mondo sempre a rischio di piombare nel grigiore ordinario delle costruzioni senza qualità, debba rifondare il suo modo di pensare, mettere a fuoco il suo sguardo, ritessere i rapporti con le altre discipline a partire dal proprio specifico punto di osservazione del mondo. La “Sammlung”, che senza il convergere su di essa di contingenze e personalità particolari poco si sarebbe discostata dal modello dell’almanacco tecnico, diventa lo snodo fondamentale di una stagione gloriosa. Lo strumento, si può dire, entra in sintonia con i propri tempi, si muove sulla base di una necessità intellettuale, trova un equilibrio fra tradizione e innovazione, guarda al mondo con occhi nuovi e, in questo, si fa strumento di formazione, più importante, libero e agile rispetto ad accademie, trattati e manuali. La rivista avrà vita breve, dopo aver raggiunto il suo culmine al passaggio del secolo non sopravviverà, almeno in quanto a vivacità culturale, alla morte di Friedrich (1800) [Fig. 14]. Uscirà ancora per qualche anno ma sempre più tendente a trasformarsi in un ennesimo manuale per poi estinguersi definitivamente nel 1806, l’anno dell’entrata di Napoleone a Berlino. Rimane come un’incompiuta, frammento di una avventura intellettuale che forse era impossibile portare a compimento in quel tempo, un po’ come il Das architektonische Lehrbuch mai concluso da Schinkel.
O forse la sua breve stagione era finita; due anni prima della sua chiusura la pubblicazione, a Parigi, di L’architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation (1804) di Claude-Nicolas Ledoux, riporta in Francia il centro di un dibattito sul ruolo sociale dell’architetto mentre nel 1796 Étienne-Louis Boullée scrive Architecture, essai sur l'art folgorante riflessione sull’architettura, rimasta allo stato di manoscritto, che verrà pubblicata solo nel 1953 ma che, anche così, riuscirà ad affermare la sua forza innovativa anche oltre il tempo della sua stesura.
Il rapporto con eventi straordinari, l’alchimia con autori d’eccezione e in fondo anche la brevità di vita è ciò che ha reso particolari le vicende di alcune riviste d’architettura anche in altre epoche rispetto al panorama, spesso sterminato dei periodici del loro tempo. Lo si può ben dire, ad esempio, passando in rassegna gli esempi più noti appartenenti all’epopea del Movimento Moderno: da “L’Esprit Nouveau” (1920-25) di Le Corbusier, in Francia, a “ABC” (1924-28) di Mart Stam e Hans Schmidt, in Svizzera, da “Das Neue Frankfurt” (1925-1930) di Ernst May, in Germania, a “To Trito Mati” (1935-37) di Dimitris Pikionis e altri, in Grecia, da “Arkitektur” (1917-20) di Gunnar Asplund, in Svezia a “Vesc” (1922) di El Lissitzky a Berlino, a “Weindingen” (1918-1932) di Mathieu Lauweriks e Michel de Klerk in Olanda e, ancora in Olanda, “De Stijl” (1917-1932) di Theo van Doesburg e, in Italia, tra le altre, “Casabella” (1933-1944) di Giuseppe Pagano e Edoardo Persico. Tutte accomunate da una vita fugace e dalla conduzione da parte di architetti “militanti” e non di generici direttori o redattori. La stessa cosa si può dire, per quanto riguarda questa volta il dopoguerra italiano, per altre riviste come “Metron” (1945-1954) di Luigi Piccinato e Mario Ridolfi (e più tardi Bruno Zevi) o “Casabella-Continuità” (1953-1964) [Fig. 15], di Ernesto Nathan Rogers, che si collocano dentro un panorama di riviste così ricco da rappresentare una vera e propria particolarità del panorama architettonico italiano che manterrà i suo effetti anche negli anni seguenti.
E proprio “Casabella” mi permette di concludere con un esempio che si avvicina ai nostri tempi. La “Casabella-Continuità” di Rogers esprime, come il nome denuncia, la volontà di riprendere sia la via intrapresa da Persico e Pagano, che la miglior tradizione dell’architettura in generale in funzione di una sua collocazione nel tempo presente.
Non a caso, in premessa al primo numero della direzione Rogers (“Casabella-Continuità” 199, dicembre 1953-gennaio 1954) è posta una frase tratta dai Ricordi di Marco Aurelio che suona così:
Chi vede le cose presenti vede tutte quelle che sono state fin dall’origine dei tempi e quelle che saranno per tutta l’eternità perché tutte sono di una stessa natura e di una stessa specie (Rogers 1953-1954, 2).
Di seguito, nell’editoriale, il direttore esprime con chiarezza la sua posizione nel segno, appunto, di una certa continuità d’intenti:
Anche noi amiamo l’architettura, non come un’idea astratta, ma come un atto che esprime compiutamente la nostra voglia di vivere, perché siamo ancora tra coloro che credono nell’unità dell’esistenza, o meglio, nella fondamentale responsabilità che incombe sopra ognuno di fronte alle opere (Rogers 1953-1954, 3).
Ma anche la chiara posizione culturale e politica della rivista:
Contro l’imperialismo di ideologie imposte e malamente assorbite; contro il cosmopolitismo anodino delle recenti vernici accademiche, più nefaste delle vecchie muffe; contro lo sciovinismo dei nostalgici o dei rivoluzionari retrogradi; contro il folclorismo demagogico. Siamo per un linguaggio veramente internazionale, ma fatto di mutua comprensione, dove ognuno possa contribuire con la sua libertà interiore e l’apporto culturale caratteristico della regione nella quale opera (Rogers 1953-1954, 3).
E il suo obiettivo principale:
Riportare i problemi della quantità alla inderogabile sanzione della qualità e contribuire a che la qualità diventi progressivamente quantità, ecco il contenuto etico della nostra estetica, il cui modo è di ricondurre il mestiere e l’arte alla sintesi originale: alla techné (Rogers 1953-1954, 3).
Come era già stato nel passato la rivista ha un rapporto difficile con il potere, il che in qualche modo la accomuna all’edizione di Pagano e Persico che aveva rappresentato, dentro l’era fascista, la modernità in architettura, e, in qualche misura, l’opposizione all’ufficialità. Anche la “Casabella” di Rogers si distacca dagli ambiti ufficiali dell’accademia e della professione per costruire un percorso autonomo. Nata negli anni in cui la Ricostruzione italiana si stava già avviando per vie ben diverse da quelle auspicate negli anni immediatamente successivi alla guerra, si può dire rappresenti un soprassalto di dignità, in cui gli esponenti migliori di una intera generazione di architetti provano a riscrivere i presupposti civili e culturali del proprio mestiere prendendo le distanze da quelli prevalenti nell’università o nella professione.
Se il suo direttore era socio di uno degli studi italiani più brillanti e attivi, i BBPR, e professore di scarsa fortuna accademica, i suoi giovani redattori sarebbero diventati i protagonisti, negli anni seguenti, della scena architettonica italiana e non solo: da Giancarlo De Carlo a Vittorio Gregotti, a Marco Zanuso, da Aldo Rossi a Giorgio Grassi e poi Gae Aulenti, Luciano Semerani, Guido Canella, Silvano Tintori, Francesco Tentori, e altri. La rivista è al tempo stesso, momento di riflessione, di rinnovamento professionale e di lotta culturale e, un po’ come la “Sammlung” di Gilly, sarà la culla di una nuova generazione di architetti che al suo interno ha sviluppato la parte più importante della sua formazione; nel suo complesso costituirà un vero e proprio strumento di rifondazione culturale, che sull’onda del posizionamento politico, a sinistra, che accomuna tutti i suoi partecipanti e dell’impegno intellettuale collettivo che moltiplica la forza di ognuno, ridà dignità culturale ad una professione che dopo essere stata fortemente coinvolta con il fascismo, stava compromettendosi di nuovo negli anni della speculazione edilizia.
La sua azione, attraverso la redazione e il centro studi, ha contribuito a ridisegnare, dal punto di vista degli architetti, le gerarchie della modernità, rompendo schemi settari o ideologici, riscoprendo personaggi come Peter Behrens, Adolf Loos, Auguste Perret e dotando i suoi lettori di nuovi strumenti di conoscenza e di azione attraverso le indagini sulle capitali europee e sugli eventi salienti della post-Ricostruzione italiana. Dentro alle sue pagine la cultura degli architetti si è intrecciata con altre come la filosofia di Enzo Paci, l’ingegneria di Pier Luigi Nervi, la storia dell’arte di Giulio Carlo Argan. La rivista è stato anche il terreno comune in cui è cresciuta una nuova leva di docenti che avrebbero cercato di rinnovare l’insegnamento nelle scuole italiane di architettura. Di fatto, “Casabella-Continuità”, come le migliori riviste del passato, è stata un laboratorio in sintonia con il suo tempo in cui l’impegno civile e quello politico si sono mescolati con la volontà di conoscere e riscrivere la storia del proprio mestiere e dare fondamento scientifico all’architettura attraverso il suo utilizzo come strumento di conoscenza specifica di territori e città. I viaggi dei suoi redattori hanno contribuito a costruire una rete internazionale che, all’indomani della dissoluzione della vicenda organizzata del Movimento Moderno, di cui Rogers era stato parte, e poi negli anni Settanta e Ottanta, ha avuto un ruolo nella ricostruzione e nel rinnovamento di vere e proprie capitali dell’architettura come Berlino o Barcellona. Le idee che sono nate nella sua cerchia sono state alla base della nascita di pubblicazioni come Il territorio dell’architettura (1962) di Vittorio Gregotti, L’architettura della città (1966) di Aldo Rossi o La costruzione logica dell’architettura (1967) di Giorgio Grassi, che ancora restano gli ultimi libri di teoria scritti in Italia da architetti. Hanno influenzato intere scuole, hanno promosso legami tra le più importanti vicende architettoniche internazionali ponendo l’architettura italiana, e soprattutto il suo versante teorico, tra gli anni Sessanta e Novanta, in una posizione rilevante nel mondo. Ancora una volta, gli ingredienti che hanno reso possibile ciò sono stati una forte volontà di responsabilizzazione rispetto alle storture che stavano compromettendo la Ricostruzione del Paese, le avvisaglie, già evidenti nelle facoltà di architettura italiane, di ciò che sarebbe stato il Sessantotto, le energie di giovani impegnati e il ruolo di un maestro; la somma, dunque, di più condizioni e uno stato di necessità non più rinviabile.
Ciò ha determinato anche che “Casabella-Continuità”, come poche altre riviste sia stata luogo di formazione complementare, e quasi alternativo, rispetto alla stessa università, per un’intera generazione di architetti che ha dovuto fare i conti con la sostanziale incapacità dei loro professori di rinnovare realmente la scuola. Caratteristica, questa, che si è prolungata, almeno per un certo tempo, in riviste come l’“Opposition” (1973-1984) di Peter Eisenman o l’“Arquitecturas Bis” (1974-1985) di Oriol Bohigas, “Lotus” (1974-) di Vittorio Gregotti e Pierluigi Nicolin, “Rassegna” (1979-1999) e ancora “Casabella” di Gregotti, “Spazio e Società” (1978-2001) di Giancarlo De Carlo, “Controspazio” (1966-1983) di Paolo Portoghesi e poche altre, luoghi di aggregazione e di formazione per un’ultima generazione di architetti italiani interessati a dare dignità culturale alla loro professione.
Poi anche questa stagione è sfumata nella proliferazione, come si diceva all’inizio, di un gran numero di pubblicazioni ininfluenti, confuse e autoreferenziali, quando non dichiaratamente commerciali, e nella resistenza di poche testate storiche come la stessa “Casabella” che continuano a praticare una informazione e una riflessione culturale di alto livello.
Che cosa potranno diventare in futuro le riviste di architettura al di là del supporto che le caratterizzerà? Se scompariranno del tutto o cambieranno natura e obiettivi, alla luce, per esempio, delle nuove priorità ambientali che richiedono un riposizionamento dell’architettura, è presto per dirlo. Come sempre, però, la storia, se interrogata, può dare suggerimenti e ricordare come le riviste più incisive non siano mai state fautrici prime di nuove stagioni, ma piuttosto raccoglitrici attente e selettive di ciò che il mondo stava esprimendo: nuove necessità, nuove istanze, nuove sensibilità, nuove progettualità; momenti, insieme, di rilettura del passato e di lettura critica del presente, particolarmente attente ad usare in tutte le sue potenzialità il punto di vista specifico dell’architettura, a rafforzarlo e a trasformare la particolare capacità degli architetti di intervenire sulla forma del mondo in strumento utile e consapevole di miglioramento.
Riferimenti bibliografici
- Alberti [1443-1452] 1966
L.B. Alberti, De re aedificatoria [1443-1452], in Trattati di architettura, a cura di R. Bonelli, P. Portoghesi, Milano 1966, vol.I. - Gilly D. 1797
D. Gilly, Vorrede, “Sammlung Nützlicher Aufsätze und Nachrichten die Baukunst Betreffend für angehende Baumeister und Freunde der Architektur” (1797), erste band, III-IX. - Gilly [1799] 1994
F. Gilly, Einige Gedanken über die Notwendigkeit, die verschiedenen Theileder Baukunst, in wissenschaftlicher und praktischer Hinsicht, môglichst zu vereinen, “Sammlung Nützlicher Aufsätze und Nachrichten die Baukunst Betreffend” 3, 2 (1799) riportato in F. Gilly, Essays on Architecture 1796-1799, ed. by L. Kostman, B. Gilman, trans. by D. Britt, Santa Monica 1994, 165-172. - Laugier [1753] 20022
M.-A. Laugier, Saggio sull’architettura [Essai sur l’architecture, Paris 1753], trad. it. a cura di V. Ugo, Palermo 2002. - Rogers 1953-1954
E.N. Rogers, Continuità, “Casabella-continuità” 199 (dicembre 1953-gennaio 1954), 2-3.
English abstract
The aim of this essay is to propose a reflection on the role of journals in the renewal of architecture. For this purpose an excursus through specific episodes in the nature and history of the communication of architectural theories and practices is attempted, from the first treaties to the birth of magazines at the end of the XVIII century. The theoretical elaboration of architecture in the past was concentrated in treaties, but when modernity manifested itself in the new phenomena of transformation involving the whole human environment, other instruments became necessary to reshuffle the cards of knowledge and make it possible to understand what had been going on for a long time, but was difficult to ‘see’. These were efforts “to establish principles”, “propose rules” and “fix taste”, as Marc-Antoine Laugier demanded in 1755, and catalogues, repertories, and magazines were among these instruments. Prominent is the case of “Sammlung Nützlicher Aufsätze und Nachrichten die Baukunst Betreffend. Für Angehende Baumeister und Freunde der Architektur”, the first issue of which was published in Berlin in 1797 on the initiative of David Gilly. It shared a short life and influence with other magazines that came out in the first decades of the XX century, all of which were fleeting and run by “militant” architects rather than generic directors or editors. “Casabella-Continuità” proved to be a space of reflection, professional renewal and cultural struggle which somehow, like Gilly’s “Sammlung”, became the cradle of a new generation of architects who developed the most important part of their training within it; as a whole it will constitute a real instrument of cultural re-foundation. The most incisive journals have never been the first promoters of new seasons, but rather careful and selective collectors of what the world was expressing: new needs, new instances, new sensibilities, new projects – moments, at the same time, of rereading the past and of critical reading of the present, particularly careful to use the specific point of view of architecture in all its potentiality, to strengthen it, and to transform the particular ability of architects to intervene on the form of the world into a useful and conscious instrument of improvement.
Keywords | “Casabella-Continuità”; David and Friedrich Gilly’s “Sammlung”; Architectural Theories; Architectural Journals.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio (v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Alberto Ferlenga, Le riviste di architettura come strumenti del progetto, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 15-34 | PDF dell’articolo