La rete è uno strumento fulmineo per trasferire – tra mille altre – le informazioni su cosa succede in architettura usando velocità e propagazione supersonica. Al tempo stesso, i siti liberi trasmettono queste informazioni senza una posizione culturale. Questo, perché credo si sia potenziata la diffusione di nozioni confondendo l’essere informati alla velocità della luce con il bisogno di formarci un pensiero e un’altra cultura meno logora.
In questo senso mi piace ricordare Byung-Chul Han quando afferma che “nell’eccesso dell’apertura e dell’abbattimento dei confini che domina il presente, perdiamo la capacità di chiudere. In tal modo la vita diventa meramente additiva” (Han [2019] 2021, 41). Questa affermazione trasferisce il senso di ansia che mi attanaglia quando costruisco un pensiero sull’architettura e provo a diffonderlo come se dovessi sempre dare conto di tutto piuttosto che chiudere una tesi contenuta nel proprio immaginario di affezione. L’addizione dei saperi senza alcuna fusione arbitraria implica la perdita di quella mescolanza imperfetta che troviamo nel piacere del montaggio percettivo del pensiero altrui. Ho bisogno di un costrutto fiduciario che non si accontenti di una impossibile realtà. La conoscenza dell’architettura – oggi per me – equivale a una profonda insoddisfazione. Mi sento costretto a muovermi tra oggetti e concetti che risuonano di una eco sorda e costruita attraverso la costante glorificazione di cose che bruciano nel web consumate dalla dannazione dell’assenza di meraviglia.
Non amo la scena contemporanea della trasmissione del progetto perché mi sembra risiedere nella malinconia di alcune pagine di Anthony Vidler. Sento, tra le pieghe di un famoso e accurato testo, la nostalgia sottile di una imperfezione che depotenzia persino il suo assioma fondante. Vidler, alla fine, non dà cittadinanza a un luogo indefinito tra reale e irreale dove l’architettura nasconde il suo segreto: la potenza di una manifestazione perturbante, neutralizzandola in un lungo minuetto di elisioni. Scomparso il perturbante mi sento avvolto da una noia che non avrei potuto scacciare neanche al cospetto di un tempo che teneva insieme passato, presente e futuro come quello di una combustione di Alberto Burri. È sempre più difficile incontrare l’eclettismo colto mentre, sempre più spesso, ci si imbatte in nitide e lussuose confezioni con i bon bon dal sapore scadente. E, in effetti, anche Vidler lo dice e mi sembra dichiararlo con un certo disappunto quando afferma che oggi “nessun singolo edificio né alcun trucco progettuale potrà matematicamente suscitare una sensazione inquietante” (Vidler [1992] 1996, 13). Chiudiamo falsamente e non siamo capaci di chiudere. Chiudere vuol dire perimetrare una azione o scorgerne un perimetro per lasciarci correre dentro un tempo presente da sottoporre al microscopio dell’immaginazione. Non sappiamo più assumere sezioni cognitive da montare insieme come le anse dei capitoli di un racconto denso di meraviglia. Non comprendiamo che bisogna sdoganare il montaggio delle affezioni piuttosto che quello delle attrazioni. Il meccanismo della paura ci attanaglia in una rappresentazione dell’antropocene che riflette sull’architettura uno sterminato numero di responsabilità e non ci offre spazio immaginario per concertare un’altra relazione con l’ambiente considerando che esso è, per sua stessa costituzione, padrone.
L’architettura di oggi è solo uno dei tanti possibili sabotaggi dell’uomo come vendetta masochista contro questo mondo arcigno e necessario. Per rimettere tutto in gioco, allora, bisognerebbe ripensare a quel che c’è aggiornandolo e trasformandolo secondo un continuo spolio senza tempo. Questa sarebbe una vera occasione di forma e di potenza continuando a immaginare per riscattare una disciplina che sembra aver dimenticato l’autore a favore di una industria del progetto troppo spesso vestita a festa da questa noiosissima pubblicistica architettonica. Non è difficile. È come affidarsi a una eco o, come afferma David Fraquenberg, a un fenomeno misterioso animato da “una faccenda di posizione, un passo di lato e tutto cambia – colui che lo riceve ne diventa il creatore” (Antonelli, Motolese 2017, 50-51).
Credo, allora, che fare e diffondere architettura nella stagione della molteplicità, dell’accesso gratuito all’informazione, del bisogno di condivisione, debba essere come la costruzione di una quadreria. Una città del sapere che perimetra la sua azione formale “come quella raffigurata sullo Scudo omerico” (Musti 2008, VII). Un luogo che sia in grado di convivere anche con le piante ortogonali e le strutture lineari, un sito che provi a staccarsi dalla confusione affollata di informazioni, come la moneta d’argento di Alessandro Magno. Come afferma Neil Mac Gregor, a volte le immagini sono più efficaci delle parole e, allora, il gioco è fatto (Mac Gregor [2010] 2012, 199). Ecco che una rivista nuova dovrebbe essere disegnata come una remota e mai vista collezione numismatica, come qualcosa dove, di volta in volta, una serie di autori illustrino un tema o un’idea di progetto declinandone in modo inedito le parti. Sapremo allora ridere pensando al fatto che tutto ciò che apprendiamo è già successo, consapevoli che tocca a noi usare lo strumento immaginario per simulare che questo non sia mai accaduto (Giulierini 2021, 13). Sarà un mezzo per dare a ogni numero di questa nuova rivista la potenza aurorale di un nuovo inizio anche se solo simulato, anche se parte di un inesistente museo immaginario. Inoltre è importante accettare che, come un nautilo, questa architettura da raccontare sia una cosa che non ha paura di essere solo apparentemente inanimata perché al suo interno tiene tutti i tempi, passato presente e futuro. Sarà duratura come la conchiglia e sembrerà “un accordo musicale perfetto” (Henderson [2013] 2018, 267) proprio perché vibra della sua eco e getta tra noi il suo inconfondibile alone.
Nel 1962 Sigfried Giedion ci raccontava come l’arte del perimetro circolare fosse la prima forma di focalizzazione che l’architettura usasse per definire il suo campo di azione rispetto alla natura o anche stabilendo una relazione diversa e tutta da istruire con essa: “nella Gestalt del cerchio si fondono insieme il sole e la fertilità” (Giedion [1962] 1965, 129) e cioè la base di un sorgere astrale senza tempo. La forma perenne è però già pronta a contaminarsi con altre figure concluse (simili ai temi di una nuova rivista/racconto) come nell’apparire del poligono quasi quadrato della casa di Ur chiusa all’esterno e aperta attorno al patio-piazza che la apparenta alla delimitazione concettuale del cerchio (Giedion [1964] 1969, 194). Si tratta di sagome e possibilità insediative atemporali che possono aiutarci nel definire un nuovo inizio per l’architettura. È esattamente quello che, scavando nella sua mente e ricordando architetture australi, aveva fatto Jørn Utzon delimitando questo campo di azione tra basamenti articolati – memori delle scene di Adolphe Appia – e la libertà di ottovolanti e calotte che su di essi formano una città eterna come i disegni di Hermann Finsterlin (Utzon 1962, 113-140).
Oggi ci siamo fermati. Abbiamo messo la parola fine a queste sorgenti, come se si fossero improvvisamente inaridite. E, allora, non vorrei possedere in un minuto e dimenticare subito tutte le fattezze che un tempo sommariamente sequenziale ci affida nel mostrarci liberamente migliaia di progetti. Vorrei, piuttosto, ritornare a un tempo vuoto da riempire artatamente con preziose immagini che chiudano temi in enunciati possenti dove altri, dopo di noi, possano tornare a scrivere o disegnare. Sarebbe bello che ci fossero riviste di architettura dove trovare quello che non c’è. Mi direte: anche quello che ci offre la rete e l’editoria non c’è. È, però, avvolto dalla dannazione dell’attualità che non permette di ricavarsi il lusso impagabile del pensiero, del disegno che illustra con tecniche libere e imperfette. Per questo, le riviste online o su carta dovrebbero diventare strumenti che scelgano di fissare posizioni anche attraverso l’imprecisione di traiettorie eclettiche. Una pluralità di nuove testate – più leggere e senza la pretesa di dire verità – è quanto mai necessaria per uscire dalle secche della sola informazione dimenticabile alla stessa velocità con la quale riusciamo ad accedervi. Non dobbiamo avere paura di costruire nuovi numeri come quelli della storica “Spazio” di Luigi Moretti o delle indimenticabili dieci uscite della “Ottagono” di Marco de Michelis. Spero di riuscire a rivitalizzare la mia “Dromos” che, dieci anni fa aveva provato con cinque uscite, a staccarsi dalla contingenza. Vi prometto che lo farò.
Riferimenti bibliografici
- Han [2019] 2021
B. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente [Vom Verschwinden der Rituale, Berlin 2019], trad. it. di S. Buttazzi, Milano 2021. - Vidler [1992] 1996
A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio dell’età contemporanea [The Architectural Uncanny: Essays on the Modern Unhomely, Cambridge, 1992], Torino 1996. - Antonelli, Motolese 2017
G. Antonelli, M. Motolese (a cura di), Vocabolario europeo, Mantova 2017. - Musti 2008
D. Musti, Lo scudo di Achille. Idee e forme di città nel mondo antico, Roma-Bari 2008. - Mac Gregor [2010] 2012
N. Mac Gregor, La storia del mondo in cento oggetti [The History of the World in 100 Objects, London 2010], trad. it. di M. Sartori, Milano 2012. - Giulierini 2021
P. Giulierini, Stupor mundi. Storia del Mediterraneo in trenta oggetti, Milano 2021. - Henderson [2013] 2018
C. Henderson, Il libro degli esseri a malapena immaginabili [The Book of Barely Imagined Beings: A 21st-Century Bestiary, London 2013], trad. it. di M. Bocchiola, Milano 2018. - Giedion [1962] 1965
S. Giedion, L’eterno presente: le origini dell’arte. Uno studio sulla costanza e il mutamento [The Eternal Present: The Beginnings of Art, New York 1962], trad. it. di F. Jesi, Milano 1965. - Giedion [1964] 1969
S. Giedion, L’eterno presente: le origini dell’architettura. Uno studio sulla costanza e il mutamento [The Eternal Present: The Beginnings of Architecture, New York 1964], trad. it. di G. Bernasconi, Milano 1969. - Utzon 1962
J. Utzon, Platforms and Plateaus: Ideas of a Danish Architect, “Zodiac” 10 (1962), 113-140.
English abstract
A plurality of new titles – lighter and without the pretension to truth – is more necessary than ever to get out from the shallows of forgettable information at the speed with which we can access it. We must not be afraid to build new platforms like the issues of Luigi Moretti’s historic “Spazio” or the unforgettable ten issues of Marco de Michelis’ “Ottagono”. I hope to be able to revitalize my own “Dromos” which, ten years ago, tried, in five issues, to detach itself from contingency. “I promise that I will”: the last statement of Gambardella’s article synthesize the author’s reflection on the topic of the nature of architectural magazines, of their present necessity, and their expected features.
Keywords | “Dromos”; Architectural Magazines; Images.
Per citare questo articolo / To cite this article: Cherubino Gambardella, Fuori dal tempo. La rivista come collezione, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 217-225 | PDF dell’articolo