Architettura e cultura della vita
La rivista “A” di Lina Bo e Carlo Pagani
Alberto Pireddu
English abstract
Lina Bo e Carlo Pagani, 1939-1946
Nella straordinaria biografia di Lina Bo Bardi, cui nel 2021 la Biennale di Architettura di Venezia ha deciso di conferire il Leone d’Oro Speciale alla Memoria, il periodo compreso tra il 1940 e il 1946 rappresenta un momento di ineguagliato impegno nell’ambito dell’attività editoriale. Certo, come lei stessa ricorda tra i frammenti del Curriculum letterario, l’inizio della Guerra aveva portato ad abbandonare il “campo della ‘Pratica’ per quello della ‘Teoria’” (Bo Bardi [1993] 1994, 9), essendo divenuto ormai impossibile costruire, ma non si può non scorgere nel suo interesse per il mondo delle riviste e della trasmissione della cultura non solo architettonica una influenza diretta di Gio Ponti, presso il cui studio milanese Bo aveva cominciato a collaborare, forse da esterna (Catalano 2020), in quello stesso 1940. È proprio tra le pagine di “Domus”, diretta da Gio Ponti, che compaiono i suoi primi articoli, a inaugurare una stagione di partecipazione e attivismo, che la vede operare come editor, curatrice, illustratrice oltre che come autrice:
In tempo di guerra un anno corrisponde a cinquant’anni, e il giudizio degli uomini è un giudizio dei posteri. Fra bombe e mitragliate, ho fatto il punto della situazione: l’importante era sopravvivere, preferibilmente incolume, ma come? Ho sentito che l’unica via era quella dell’oggettività e della razionalità, una via terribilmente difficile quando la maggioranza sceglie il ‘disincanto’ letterario e nostalgico. Sentivo che il mondo poteva essere salvato, cambiato in meglio, che questo era l’unico compito degno di essere vissuto, il punto di partenza per poter sopravvivere. Sono entrata nella Resistenza, con il Partito Comunista clandestino. Vedevo il mondo intorno a me solo come realtà immediata, e non come esercitazione letteraria astratta (Bo Bardi [1993] 1994, 10).
Tra il 1941 e il 1942, Lina Bo arricchisce “Bellezza. Mensile di alta moda e vita culturale italiana” con i suoi magnetici disegni, cura le illustrazioni di alcuni romanzi sul settimanale “L’Illustrazione Italiana” dei Fratelli Treves, scrive per “Cordelia” e “Vetrina e negozio. Rivista mensile della vetrina e del negozio”. Ma, tra il 1941 e il 1943, sono “Grazia. Un’amica al vostro fianco” e “Stile” le due riviste sulle quali si intensificano i suoi contributi: il primo settimanale femminile destinato a una vasta diffusione, capace di accompagnare, favorendoli, il cambiamento e l’emancipazione della donna, e la più complessa tra le riviste dirette da Ponti, da molti paragonata a una sorta di intimo ‘diario’ dell’architetto. L’universo domestico, in tutte le sue infinite sfumature, cattura l’interesse di Lina Bo, e forse non poteva essere altrimenti in anni in cui il dramma degli sfollati fuori città a causa della guerra era così vivo e attuale.
Dopo la laurea alla Sapienza nel 1939, con una tesi intitolata Maternità per madri nubili, primo suggello, scandaloso e provocatorio per qualcuno, del valore di ciò che è autentico (Semerani 2012, 8), e il trasferimento a Milano, quasi una fuga da una opprimente condizione di immobilità e “dalle rovine dell’Antichità recuperate dai fascisti” (Bo Bardi [1993] 1994, 9), gli anni intensi che precedono il matrimonio con Pietro Maria Bardi e l’arrivo in Brasile il 17 ottobre del 1946, sono cruciali per comprendere la forza dirompente del pensiero di Bo Bardi e la straordinaria grandezza della sua opera. E se, come ha ricordato Luciano Semerani, “il mondo di Lina ha il suo motore nel desiderio” (Semerani 2012, 8), è possibile rileggere o comunque rivedere molti dei suoi articoli sotto una luce inedita, quella di una singolare fascinazione esercitata nei confronti del variegato mondo dei lettori e delle lettrici attraverso frammenti di ‘normalità’, di un mondo che è comunque (sempre) possibile sognare, sia pure su carta patinata: le stanze dei ragazzi, i giardini spesso pensili, le tende alle finestre, gli angoli per il riposo, gli uccelli impagliati, i quadri della casa, le carte da parati, un terrazzo in città, l’armadio della sposa, il guardaroba di un uomo…
Lina Bo condivide questo frammento di vita milanese con Carlo Pagani, il giovane amico e collega conosciuto nel 1939, durante l’ultimo anno di studi all’università. Dopo una breve collaborazione con Ponti, Pagani fonda il proprio studio di architettura al numero dodici di via del Gesù e Bo vi entra a lavorare al suo arrivo in città. Pagani firma con lei molti degli articoli e dei disegni apparsi su “Domus”, “Aria d’Italia”, “Cordelia”, “Grazia” e “Stile”. È lui stesso a volerla con sé a “Domus” dopo che Gianni Mazzocchi-Bastoni gliene affida la vice-direzione, con Melchiorre Bega bloccato a Bologna dai tragici eventi della guerra:
Quando presi in mano “Domus” nel ’43 – e poi con la Lina abbiamo fatto “Domus” nel ’44 – noi eravamo liberi. Bega era via, da lontano non se ne poteva proprio occupare, e noi abbiamo fatto una rivista nettamente razionalista (Criconia 2017, 97).
Al termine di questa esperienza, nel 1945, i due sono co-curatori della collana dei “Quaderni di Domus”, piccoli volumi monografici dedicati a temi di arredamento dell’abitazione. Sulle pagine delle riviste sopra ricordate, si pubblicano, oltre agli scritti e ai disegni, alcuni dei loro progetti, tra cui ricordiamo quello per una Casa sul mare di Sicilia (Bo, Pagani 1940) o quello per Un giardino a Tarquinia sul numero di “Aria d’Italia” dedicato a “La bellezza della vita italiana”. Sono per lo più progetti non realizzati o non realizzabili per le ovvie ragioni legate al perdurare del conflitto, concepiti spesso appositamente per le riviste: quasi un ostinato esercizio di composizione sul quale fondare la speranza di una ricostruzione. Talvolta, però, vi è spazio anche per le rare occasioni costruite: piccole cose come la ristrutturazione e l’arredamento di un appartamento a Milano (Ponti 1942) o l’allestimento per la raccolta della lana (Rava 1942, 80), una struttura di tubi metallici, tende e pali decorati, innalzata dinanzi al Duomo. Bo e Pagani si motivano e sostengono a vicenda per elevare il proprio lavoro, quasi a voler seguire una norma segreta dell’architettura (Colomina, Wigley 2020).
“A – Attualità, Architettura, Abitazione, Arte” e “A – Cultura della Vita”. Breve vita di una piccola utopia
All’indomani dell’Armistizio, forse è l’occasione di un viaggio, un lungo reportage nelle zone colpite dalla guerra, insieme a Carlo Pagani e al fotografo Federico Patellani, a suggerire l’idea di fondare una nuova rivista o un nuovo giornale. L’incontro decisivo a Roma con Bruno Zevi, da poco rientrato in Italia dopo l’esilio negli Stati Uniti, porta alla creazione di “A – Attualità, Architettura, Abitazione, Arte”, che vede finalmente la luce il 15 febbraio del 1946 (Bo Bardi [1993] 1994, 12). È la stessa Lina Bo a informarci, in una lettera indirizzata a Zevi il 6 luglio del 1945, sulla genesi e sul programma della rivista, che i due fondatori immaginano come una “piccola utopia” (Colomina 2012) sottratta al “monopolio dei direttori” perché diretta collegialmente da un comitato direttivo, aperta alla partecipazione tanto del pubblico quanto dei tecnici, degli specialisti e degli addetti ai lavori e composta (anche) di articoli non firmati dall’autore.
Un anno e mezzo fa durante lo spaventoso periodo di occupazione cominciammo a pensare Pagani ed io e subito dopo Raffaele Carrieri a qualche cosa di ‘utile’ da farsi, qualche cosa di utile al Paese; una rivista o un giornale che fosse alla portata di tutti e che battesse sugli errori tipici degli italiani; naturalmente la base fu l’architettura, nacque così, pensata di nascosto in tutti i particolari, la rivista “A” che forse per necessità editoriali sarà costretta a cambiare nome e ad assumerne uno più comunicativo agli effetti del pubblico. Il programma è:
Portare il problema dell’architettura alla portata di ognuno in modo che ognuno possa arrivare a rendersi conto della casa nella quale dovrà vivere, della fabbrica dove dovrà lavorare, delle strade dove dovrà camminare.
Rendersi conto vuol dire avere una capacità di giudizio; è quello che ci proponiamo di fare attraverso la nostra rivista, per mezzo di una giusta propaganda (Lettera di Lina Bo a Bruno Zevi, 6 luglio 1945, Archivio Bruno Zevi).
Una missiva di Zevi, datata 29 ottobre 1945 e indirizzata a Pietro Maria Bardi, Ortensio Gatti, Lina Bo e Carlo Pagani, tenta, a sua volta, di definire il ruolo polemico e provocatorio che la rivista intende assumere, rivolgendosi alle masse e configurandosi come “un’avventura nella realtà”, una realtà evidentemente sociale. Essa ne precisa inoltre i contenuti: “A”, vi si legge, “non è un giornale né di architettura, né di arte, né di abitazione, né di attualità. È un giornale di cultura, di vita”. Tutto ruota intorno all’architettura e all’urbanistica e oscilla tra l’accusa e la gioia, col solo fine di aiutare gli uomini a superare la paura della guerra e la “mortificazione collettiva” che è l’ultimo, per certi versi indelebile, retaggio dell’epoca fascista. Nella sua lettera, riferendosi ad “A”, Bruno Zevi preferisce usare il termine ‘giornale’ piuttosto che quello di ‘rivista’ e anzi pare proprio che nel tempo vi sia stata una evoluzione dello stesso impaginato in questa direzione:
Sia il menabò della rivista, che quello del giornale che avete lasciato a Roma – scrive – sono insufficienti. Sono da giornale di varietà non da giornale di cultura. Io ci ho pensato a lungo, Bardi vi dirà che le due ultime volte che lo ho visto, ho parlato poco, ierappunto perché stavo covando quello che, secondo me, dovrebbe essere il senso del giornale (Lettera di Bruno Zevi a Pietro Maria Bardi, Ortensio Gatti, Lina Bo Bardi e Carlo Pagani, 29 ottobre 1945, Archivio Bruno Zevi).
Le due carte sono una testimonianza delle riflessioni maturate intorno alla composizione del comitato direttivo. Infatti, se in questa fase aurorale Lina Bo e Carlo Pagani ipotizzano una estensione dello stesso a Elio Vittorini, Raffaele Carrieri e Irenio Diotallevi, pochi mesi dopo, Bruno Zevi lascia intendere una composizione già mutata che vede Bo, Pagani, Zevi e Ortensio Gatti operare con “l’aiuto” di Pietro Maria Bardi. Zevi arriva addirittura a prefigurare cosa possa significare per ciascuno dei cinque intraprendere la nuova avventura del giornale:
Non vi meravigliate del tono un po’ apocalittico di quanto dico, né della rettorica di parole quali ‘buttarsi’ e ‘scagliarsi’ nella folla. Io concepisco il giornale come un’avventura nella realtà. Uscire fuori dal nostro covo e andare all’aria aperta. Questo significa per Pagani e Bo’ abbandonare totalmente e rifiutare umanamente tutta la meschinità di Domus. Per Gatti significa abbandonare le civetterie intellettuali di capire senza parlare, di valutare le cose silenziosamente, di trattenersi dal trasformare una conclusione intellettuale in un messaggio sociale. Per Bardi, significa uscire dalla polemica bardista, che, per essere più attenta al mezzo che al fine e per il suo esprimersi in un cerchio limitato, ha errato proprio nel punto che più interessa, cioè nel mordere la realtà sociale. Per me significa, liberarmi da tanti difetti che conoscete e che non sto a descrivere. È bene che ognuno di noi intorno al tavolo faccia un esame di coscienza, tiri fuori i propri difetti e li metta in mostra. Solo una profonda solidarietà tra di noi potrà determinare il successo del giornale (Lettera di Bruno Zevi a Pietro Maria Bardi, Ortensio Gatti, Lina Bo Bardi e Carlo Pagani, 29 ottobre 1945, Archivio Bruno Zevi).
“A” nasce in un momento di grande vivacità per i periodici di architettura in Italia, che divengono il luogo di un confronto quanto mai necessario intorno ai temi della casa, della città, della ricostruzione e della vita dell’uomo. Riviste storiche come “Costruzioni-Casabella” e “Domus” attraversano una fase di grandi cambiamenti, se non addirittura di stravolgimenti. La prima sospende le sue pubblicazioni nel 1943, per riprenderle solo nel 1946 sotto la direzione di Franco Albini e Giancarlo Palanti, essere nuovamente interrotta dopo appena tre numeri e rinascere, infine, nel 1953 con Ernesto Nathan Rogers. La seconda, nelle alterne e complesse vicende che la riguardano tra il 1941 e il 1948, rivela, forse definitivamente, l’incolmabile distanza che separa quest’ultimo da Gio Ponti, suo fondatore nel 1928, sul piano intellettuale, critico e professionale. Una distanza che lo stesso Ponti non mancherà di sottolineare in una lettera indirizzata a Giovanni Astengo nel 1948, con l’intento di coinvolgerlo nel Comitato di cooperazione della rivista, ritornata sotto il suo controllo (la lettera, conservata nel Fondo Giovanni Astengo dell’Archivio Progetti Iuav, è pubblicata in Maguolo 2020).
Nel 1941, Ponti dà vita a “Stile”, cui conferisce quel carattere molto più raffinato e costoso che non era riuscito a imprimere a “Domus”, abbandonandone pertanto le sorti (Maguolo 2020). Egli la dirige fino al 1947, modificandone più volte il titolo e avvicinandosi realmente alla causa della ricostruzione solo a partire dal 1944 e fino alla Liberazione (Maguolo 2020): quasi l’affermazione della urgenza di un risarcimento. Molte riviste scompaiono, forse perché ormai fuori dal tempo o incapaci di un autentico rinnovamento. È il caso di: “Rassegna di architettura. Rivista mensile di architettura e decorazione”, chiusa nel 1940 e “L'Architettura Italiana. Periodico mensile di costruzione e di architettura pratica” e “Architettura. Rivista del Sindacato Nazionale Fascista Architetti”, definitivamente sospese nel 1943. Altre, invece, si affacciano per la prima volta sulla scena nazionale: “Il Politecnico. Settimanale di cultura contemporanea” di Elio Vittorini, fondata nel 1945 e chiusa nel 1947; “Strutture. Rivista di scienza e arte del costruire”, “Metron” e la fiorentina “La nuova città. Rivista di architettura, urbanistica, arredamento”, accomunate dallo stesso Ponti in un operare alto e formativo fra gli architetti (Ponti 1948). Come già “Domus”, “A” intende rivolgersi a un pubblico vasto, anzi potremmo dire direttamente alla massa. Se Bo riflette sulla importanza della “diffusione che la rivista potrà avere” (Lettera a Bruno Zevi, 6 luglio 1945, Archivio Bruno Zevi), Zevi è più incisivo nel delineare un interlocutore privilegiato:
Rivolgersi all’opinione pubblica significa rivolgersi alla massa fascista, all’uomo qualunque. Io vi chiedo di accettare o di rifiutare, ma comunque di discutere a fondo a quale pubblico vogliamo rivolgerci. Questo è per me il primo problema. Altrimenti Gatti con i suoi studi e i suoi industriali, Bardi con i suoi amatori d’arte, Pagani e Bo’ con i loro arredamenti, io con i libri e le associazioni per l’architettura organica, faremo un gran buco nell’acqua (Lettera di Bruno Zevi a Pietro Maria Bardi, Ortensio Gatti, Lina Bo Bardi e Carlo Pagani, 29 ottobre 1945, Archivio Bruno Zevi).
Nello scambio epistolare sono citate diverse riviste con le quali “A” è chiamata necessariamente a confrontarsi. Innanzitutto la stessa “Domus” con le sue “trovate” e la sua “meschinità” (Lettera di Bruno Zevi a Bardi, Gatti, Bo e Pagani, 29 ottobre 1945, Archivio Bruno Zevi), “Il Politecnico” che diviene quasi un metro di paragone per i contenuti e per le vendite, infine “Metron”, con la quale Lina Bo immagina di costruire un ponte per l’architettura, un collegamento virtuale, tra le città di Roma e Milano. Se “Domus” è la ormai storica, sofisticata, rivista con cui Ponti ha cercato di creare e trasmettere un modo di vivere moderno alla borghesia italiana (Maguolo 2020), “Il Politecnico”, è un settimanale (poi mensile) pragmatico e divulgativo eppure mai popolare, che si ispira all’omonimo “repertorio” di Carlo Cattaneo edito tra il 1839 e il 1945: “il più bel periodico di cultura e scienza che avesse in quel tempo l’Europa”, come si può leggere nella prima pagina del primo numero. Nel riallacciarsi al suo precedente, Elio Vittorini ricorda e fa proprio l’ideale pratico della cultura di Cattaneo riassunto nel Manifesto d’Associazione alla prima annata del “Politecnico”:
Primo bisogno è quello di conservare la vita […] la Pittura, la Scultura, l’Architettura, la Poesia… e le altre arti dell’immaginazione, scaturiscono da un bisogno che nel seno della civiltà diviene imperioso non meno di quello della sussistenza (“Il Politecnico” 1945).
“Metron” è la rivista internazionale di architettura che Bruno Zevi fonda a Roma nel 1945 insieme a Luigi Piccinato e Mario Ridolfi: un piccolo formato (21,5x16,2 cm, almeno per i primi 24 numeri), nel quale il testo e i disegni tecnici che documentano opere realizzate e progetti prevalgono sulle fotografie.
Stampata in roto offset a colori su carta tipo quotidiano e venduta al prezzo di lire trenta (l’equivalente di circa un euro d’oggi) “A – Attualità, Architettura, Abitazione, Arte” è pubblicata dall’Editoriale Domus dapprima in sei fascicoli quindicinali e poi in tre fascicoli settimanali con il rinnovato titolo “A – Cultura della Vita” (le date di pubblicazione: 15 febbraio 1946, 01 marzo 1946, 15 marzo 1946, 01 aprile 1946, 15 aprile 1946, 01 maggio 1946, 25 maggio 1946, 01 giugno 1946, 08 giugno 1946. Nel passaggio alla nuova edizione, la rivista è stampata in sole 8 pagine e venduta al prezzo di quindici Lire).
Una veste grafica singolare, attentamente studiata da Bo e Pagani, che sin dal luglio del 1945 immaginano una rivista dal “formato 27x36 […] stampata in lito” (Lettera di Lina Bo a Bruno Zevi, 6 luglio 1945, Archivio Bruno Zevi), e ampiamente dibattuta con Bruno Zevi, che non risparmia dure critiche alle prime bozze di impaginato. Un format ‘ambiguo’, forse mai realmente compreso, come constata amaramente lo stesso Pagani nella lettera con cui informa Zevi della decisione interrompere la stampa e la diffusione di “A” da parte di Gianni Mazzocchi-Bastoni:
Mazzocchi è deciso a sospendere “A”, sia perché esso non ha incontrato la grande tiratura, sulla quale tutti puntavamo, sia, e principalmente, perché a lui non piace. Dice che ci eravamo proposti di fare una “Domenica del Corriere” e mentre il contenente è di questo tono – basso il prezzo (la Domenica costa 12 lire) rotocalco a colori, formato e pagine – il contenuto è troppo difficile e impopolare. Così dice Mazzocchi (Lettera di Carlo Pagani a Bruno Zevi, 21 giugno 1946, Archivio Bruno Zevi).
Sono infatti i rotocalchi italiani del periodo tra le due guerre il principale riferimento formale della nascente pubblicazione. Quei periodici stampati in forte tiratura e dedicati ai temi più differenti (dalla letteratura, al cinema, alle novelle sentimentali, alla politica, alla cronaca, alla moda), tra cui annoveriamo, oltre “La Domenica del Corriere”, testate celeberrime, molte delle quali giunte fino ai nostri giorni: “Epoca”, “Grand Hotel”, “Il Corriere dei Piccoli”, “Il Mondo”, “Il Secolo Illustrato”, “L’Espresso”, “Tempo”, o la più sofisticata “Omnibus” di Leo Longanesi. La possibilità di riprodurre le mezzetinte con grande fedeltà e costi ridottissimi introduce importanti novità nella presentazione delle illustrazioni e nella posizione delle stesse rispetto al corpo del testo (De Berti 2009), assicurando una vera e propria “documentazione visiva degli avvenimenti” (Redazionale 1927): un inedito racconto per immagini che si affianca alla più tradizionale narrazione scritta.
“Impaginare” significa dare un volto al giornale; e nel caso del settimanale illustrato questo volto deve essere il più armonioso, il più seducente possibile. Il bravo impaginatore deve pensare che ogni pagina, prima di essere letta viene ‘veduta’; spesso ‘il taglio’ di una fotografia è sufficiente a trattenere l’attenzione del lettore e ad affezionarlo, diciamo così, all’argomento.
Di qui la cura per servire la materia al lettore con un’armonia, un’architettura viva e originale della pagina (Garrone 1932).
“A” accoglie questo rinnovamento tra le sue pagine, nelle quali si alternano raffinate illustrazioni, fotografie e fotomontaggi, collage, fumetti, schizzi e disegni tecnici, in una sperimentazione compositiva che si distingue certo per freschezza, ricchezza, varietà. Il colophon del primo numero ci informa che il Comitato di Direzione è finalmente composto da: Lina Bo, Carlo Pagani (responsabile) e Bruno Zevi, che opera nelle vesti di coordinatore delle corrispondenze americane, con la collaborazione del B.T.R.; a partire dal numero 5 è indicata una redazione composta da Egidio Bonfante, Aldo Buzzi, Luciano Canella, “con la collaborazione Sezione Studi (B.T.R.) della Organizz. Cantieri”. Tre figure diversissime tra loro per formazione e attività.
“Pittore colto, ricco di interessi e di esperienze” (Ragghianti 1986, 8), in quello stesso 1946, Egidio Bonfante è tra i firmatari del Manifesto del realismo (insieme a Ajmone, Bergolli, Dova, Morlotti, Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova), oltre che direttore del settimanale novarese “Il Ventaglio” e del mensile milanese di arte e letteratura “Numero”. Nel 1947 inizia la sua collaborazione con la Società Olivetti, nel campo del design e del graphic design. Per l’azienda di Ivrea studia la veste grafica delle riviste “Comunità”, “Notizie Olivetti” e, con Giovanni Astengo, quella di “Urbanistica”, e cura la progettazione di alcuni negozi, da Napoli (1952) a San Gallo (1956) a Caracas (1957) a Lione (1964), di padiglioni espositivi e mostre, tra cui la Mostra in ricordo di Adriano Olivetti alla XII Triennale di Milano. Ma è soprattutto nel campo delle campagne pubblicitarie di alcuni prodotti che egli offre il suo contributo più significativo e originale: memorabili quelle per la calcolatrice Divisumma 18 e il sistema di scrittura Editor S14, ideate agli albori degli anni Settanta. In pittura, negli anni Cinquanta, Bonfante approda al naturalismo-astratto “per evoluzione formale e trasporto poetico” (Zanella 1986, 3) e sperimenta, molto più tardi, tecniche innovative come il mosaico e il collage, con le quali realizza i celebri assemblages di coloratissimi e variegati tappi-corona, significativamente presentati al pubblico nella mostra Venezia e Bisanzio del 1975.
Aldo Buzzi, intellettuale poliedrico, insieme scrittore, sceneggiatore, regista, architetto, consulente editoriale, editor e traduttore, è già autore di un libro, Taccuino dell’aiuto regista, nel quale si delineano molti dei suoi futuri e variegati interessi. Ritroviamo l’ironia, l’originalità e il fare pratico che caratterizzano questo piccolo manualetto, illustrato da Bruno Munari, nella breve rubrica curata su “A”, dove egli non risparmia pungenti critiche all’establishment accademico, schierandosi apertamente in difesa dell’architettura moderna. Inoltre, traendo spesso spunto da scene di quel cinema americano da lui tanto amato, egli affronta tematiche sociali di grande attualità per l’epoca, come il sovraffollamento degli alloggi, la sensazione di provvisorietà e straniamento generata dalle case prefabbricate o quella di angoscia legata ai sempre più diffusi progetti per rifugi anti bomba o antiatomici. Luciano Canella, fratello maggiore di Guido, è un architetto attivo (ancora studente) nel razionalismo milanese, formatosi con Giuseppe Pagano, che ne pubblica alcuni progetti su “Costruzioni-Casabella”.Tra gli autori figurano personaggi di primo piano della scena architettonica e culturale dell’epoca: Irenio Diotallevi, Gaetano Ciocca, Enrico Tedeschi, Augusto Magnaghi, Ignazio Gardella, Carlo Rusconi, Paolo Sanpaolesi, Luigi Mattioni, Alfred Roth, Renato Radici, Leone Giuseppe Ronzoni, Beniamino dal Fabbro, Ezio Palazzo, Lauda de Giani, oltre a Bonfante, Buzzi, Zevi, Pagani e forse alla stessa Lina Bo Bardi con lo pseudonimo di Giorgina. Sono infatti numerosi i contributi anonimi: da quelli pubblicati, appunto, sotto uno pseudonimo a quelli nei quali l’autore compare solo nelle vesti di un generico architetto, urbanista, biologo, psichiatra.
Fieramente intellettuale e politicamente schierata nel segno della Resistenza e dell’Antifascismo, al punto da vivere con [“A” come] ‘ansia’ la vigilia del referendum sulla forma istituzionale dello stato (numero del 1 giugno 1946) e da chiudere la propria brevissima storia con una dichiarazione di [“A” come] ‘amore’ verso la nascente Repubblica, un “salto dal buio del fascismo”, la rivista pone al centro il tema della ri-costruzione, da affrontare in maniera collettiva: “Noi dobbiamo ricominciare da capo, dalla lettera A, per organizzare una vita felice per tutti. Noi ci proponiamo di creare in ogni uomo ed in ogni donna la coscienza di ciò che è la casa, la città; occorre far conoscere a tutti i problemi della ricostruzione perché tutti, e non solo i tecnici, collaborino alla ricostruzione” si legge sul primo numero-manifesto. “Perché viviamo così male?” è invece la domanda che ritorna, ossessivamente, sulla copertina dei primi sei numeri e un tentativo di risposta è sempre contenuto in un brevissimo editoriale, quasi uno slogan, che rivela il carattere programmatico e operante della pubblicazione: si delineano i contorni di un impegno nel quale è cruciale il ruolo della donna, le cui “richieste non devono essere ignorate, se vogliamo realizzare un’architettura democratica”.
“A” possiede una struttura nella quale articoli teorici di notevole spessore e complessità si affiancano ad altri che affrontano tematiche più leggere, come l’arredamento, gli elettrodomestici e gli utensili per la cucina, e a rubriche nelle quali i lettori e le lettrici sono chiamati a esercitare il proprio gusto (Quale scegliereste?) e le sole lettrici sono persino coinvolte in un concorso a premi (Un arredamento gratis?); alcune vignette ricordano poi l’imprescindibile ruolo catartico della satira. Questo poiché l’architettura non è “lo scopo, ma lo strumento per capire e mutare la vita” e “A” è “un settimanale di architetti, ma non solo di architettura e non per architetti” (Zevi 1992, 541). È lo spettro della bomba atomica, il grado zero della distruzione, a suggerire la certezza che vi sia ancora la speranza di una nuova casa e di una città migliore, in nome di una rinnovata solidarietà tra gli uomini (Zevi 1946). Una solidarietà di cui la storia di Palazzo Doria nel borgo di Valmontone, distrutto dai bombardamenti alleati, pare assurgere quasi a metafora: abitato da sole quattro persone prima della Guerra, esso si è ritrovato ad accogliere chi aveva perduto la casa e a ospitare nelle sue sale affrescate, suddivise in alloggi da precari tramezzi, oltre novecento sfollati, divenendo nei fatti una piccola città: “c’è il sindaco, l’assistenza, la scuola […] È una vita in comune, tutti si aiutano, si ascoltano a vicenda, colpiti tutti dagli stessi mali” (Pagani 1946a, 6). La ricostruzione è vista nella sua dimensione collettiva, quasi partecipativa, di collaborazione tra i tecnici e la popolazione, le masse dei senza casa: la comunità è al centro, e i problemi sono divulgati, resi trasparenti, poiché possa maturare una coscienza della condizione presente e delle sue possibili soluzioni da parte di tutti (Ciocca 1946). “A” assume in questo un ruolo quasi ‘educativo’ di indirizzo e di ascolto della opinione pubblica oltre che di promozione del suo intervento, dopo decenni in cui un ristretto gruppo di persone ha deciso le sorti del Paese (Pagani 1946b).< Solo l’attenzione per i reali bisogni dell’uomo e una attenta ponderazione di tutte le risorse della nazione possono, infatti, condurre alla elaborazione di un “piano organico” che li riassuma in una visione unica e si ponga come condizione necessaria, seppur non sufficiente, di una ricostruzione autenticamente democratica (Ciocca 1946).
Il primo numero si apre con un resoconto sul primo Congresso Nazionale sulla Ricostruzione tenutosi il 14, 15 e 16 dicembre del 1945 nella Sala del Gonfalone del Castello Sforzesco, davanti a una platea di circa mille persone. L’articolo, firmato da Irenio Diotallevi, è una “relazione panoramica e oggettiva delle polarizzazioni che si sono manifestate in tale occasione per maggiore chiarezza di chi non abbia seguito il corso dei lavori” (Diotallevi 1946): da un lato, i sostenitori degli interessi della proprietà privata e, dall’altro, i fautori di una pianificazione integrale, estesa dal campo tecnico a quello sociale, con il riconoscimento del diritto alla casa universale. Tra i numerosi partecipanti al congresso, coordinato da Gustavo Colonnetti, figurano Ernesto Nathan Rogers, Max Bill e Alfred Roth, anime di quel Bureau Technique de la Reconstruction, nel quale convergono naturalmente molti dei sodalizi umani e professionali nati tra colleghi svizzeri e italiani (rifugiati) durante la Guerra. Il B.T.R., questa la sigla con la quale è generalmente conosciuto lo studio voluto da Roth, si propone di rispondere all’emergenza della ricostruzione attraverso il progetto di edifici pubblici e piani urbanistici, di approfondire gli studi sulla normalizzazione, sulla standardizzazione e sulla tipizzazione e di avviare una proficua collaborazione con le industrie per la elaborazione di sistemi costruttivi economici (Fabbri 2012, 140-141). La sezione italiana di questo organismo policentrico è affidata a Maurizio Mazzocchi (Fabbri 2012, 142), poi direttore insieme a Gaetano Ciocca della rivista dallo spiccato taglio tecnico “Cantieri” (organo del Centro Industriale Lombardo di Coordinamento per l’edilizia, edito a cura della Organizzazione Cantieri), che annovera tra i membri del consiglio direttivo personaggi del calibro di: Ambrogio Gadola, Ortensio Gatti, Emilio Pifferi, Ignazio Gardella, Luigi Magistretti e Mario Ridolfi.
Come pare suggerire il colophon, “A” è vicina sia al B.T.R, sia alla Organizzazione Cantieri sulle questioni della ricostruzione, della pianificazione e della prefabbricazione. Lo confermano due articoli, pubblicati rispettivamente su “A” e su “Cantieri”. Il primo è una intervista a Alfred Roth sugli esiti del congresso milanese, nella quale l’architetto svizzero testimonia dell’interesse (economico e politico) del suo Paese nei confronti dell’Italia e della nascita di una fondazione per la ricostruzione in Europa, denominata Civitas e sostenuta da un comitato composto di membri del governo, banche e istituti culturali, assistito a sua volta dal Bureau Technique de la Reconstruction. Il secondo è l’editoriale di Maurizio Mazzocchi Mobilitare le intelligenze, con il quale si inaugura la stagione di “Cantieri”, che, ritornando ancora una volta sul congresso al Castello Sforzesco, riunisce le lucide analisi Bruno Zevi e Alfred Roth sulla pianificazione negli Stati Uniti e in Svizzera per domandarsi cosa si sia stato fatto in tale direzione nel nostro Paese e rivolgere, infine, un accorato appello ai privati per una proficua collaborazione (Mazzocchi 1947). Ogni numero di “A – Attualità, Architettura, Abitazione, Arte” si chiude, significativamente, con un concorso che invita tutti a inviare il proprio contributo alla ricostruzione:
Tutti dobbiamo lavorare per la ricostruzione. Dappertutto c’è da ricostruire, da rifare. Quando manca il necessario l’italiano si arrangia lo stesso. C’è chi s’è rifatta la casa, il negozio o la bicicletta nel modo più incredibile, coi materiali più impensati: guardate questo ciclista. “A” vuole pubblicare come esempio le più ingegnose opere di tutti i modesti infaticabili uomini-formica che accelerano col loro ottimistico talento il lento ritmo della ricostruzione. Mandateci delle fotografie. “A” le pubblicherà e le ricompenserà con 300 lire. Spedite delle fotografie inedite, scrivendo sul retro il vostro indirizzo a: Redazione “A”. Concorso Formica. Via Monte di Pietà, 15 – Milano.
Tre temi sono inevitabilmente correlati a quello della ricostruzione: la casa, il ruolo della prefabbricazione e quello della formazione, cui la rivista dedica ampio spazio tra i suoi contenuti. L’abitazione è l’oggetto di una inchiesta volta a enucleare i problemi degli alloggi più popolari, nella quale l’intervista a una donna, che condivide un bilocale di circa ventisette metri quadrati con il figlio ventenne, diviene il ritratto oggettivo e vero, quasi un fotogramma neorealista, di una tipica casa di ringhiera, colta nella povertà degli spazi, nell’assenza dei più elementari servizi, ma anche nella straordinaria umanità della vita condominiale sui ballatoi e nei cortili (Ciocca 1946a). Non solo: la casa dell’uomo è analizzata nella (troppo) lenta evoluzione delle tecniche costruttive che la ha contraddistinta e che, si auspica, possa mutare di passo in funzione delle stringenti necessità della condizione postbellica. In un articolo dal titolo La casa è ancora ai primordi, si immagina un appartamento dotato di tutti i comfort moderni, dal bagno con i suoi automatismi nell’erogazione dell’acqua calda e fredda, alla cucina, finalmente efficiente con la ghiacciaia elettrica e il piano di cottura a gas, all’aria condizionata, all’illuminazione, al controllo dell’acustica (L’architetto 1946). “Il lettore lavori di fantasia”: è l’originale invito dell’autore architetto, in un crescendo di soluzioni molte delle quali, a distanza di settantacinque anni, si sono rivelate mere utopie, ampiamente superate dal reale sviluppo delle tecnologie e, più tardi, della domotica. Ma la “casa sognata”, per usare un termine caro a Ernesto Nathan Rogers, è ormai prossima a quelle che noi ancora oggi abitiamo e finalmente distante da quelle malsane e sovraffollate che costituivano allora la più triste realtà per la maggioranza degli italiani. Alla prefabbricazione si riconosce un ruolo fondamentale per risolvere l’annosa questione della carenza di alloggi, a patto però che essa venga utilizzata con spirito critico, fissandone cioè attentamente i limiti di applicazione. Ignazio Gardella si domanda, in un articolo pubblicato nel terzo numero:
Chi non ha sentito parlare in questi tempi di unificazione, standardizzazione, razionalizzazione, prefabbricazione della casa? [...] Sono [parole] uscite dai confini del linguaggio di mestiere e ricorrono oggi di frequente […] sulle pagine dei giornali e riviste, nei discorsi non solo di architetti e di costruttori ma di tutti gli ‘utenti’ della casa. Esse ci dicono che la tecnica edilizia è giunta oggi al punto di flesso tra artigianato e industria. O, meglio, tra vecchi sistemi costruttivi che sono ancora press'a poco gli stessi di un mondo in cui la massima velocità dei mezzi di trasporto si misurava sul galoppo del cavallo, e i nuovi richiesti da un mondo nel quale si tende alla velocità del suono” (Gardella 1946).
Sulle colonne della stessa pagina, gli fa eco Alberto Sartoris, il quale, pur non negando la necessità di introdurre anche nell’edilizia talune tecniche di produzione industriale, afferma che tipificare, industrializzare, normalizzare non significano realizzare case identiche tra loro, come prodotti da officina, bensì determinare gli elementi di dettaglio e i particolari costruttivi che potranno poi essere composti con la massima libertà, tenendo conto delle esigenze (anche formali) più diversificate e “arginando [in tal modo] l’invasione micidiale di una inutile draconiana standardizzazione” (Sartoris 1946). Certo la seduzione dei modelli americani e inglesi è fortissima: le case esposte al MoMA di New York nel settembre del 1945 e pubblicate sul “Ladies’ Home Journal”, i bungalow da costruirsi in settantacinque minuti e le case temporanee in Inghilterra, la Victory House, con la lieve curvatura della copertura, la pianta razionalmente suddivisa in un portico d’ingresso, un soggiorno-pranzo-cucina con letto ribaltabile, le camere da letto e, soprattutto, l’assenza di impianti elettrici e di tubazioni per l’allacciamento alla fognatura – un estremo tentativo di emancipazione della casa dai servizi collettivi piuttosto che una reale necessità di risparmio. Ma la rivista invita il lettore/la lettrice a riflettere sul fatto che le case che i media d’oltreoceano rendono ormai note al grande pubblico sono destinate a rimanere “ricoveri temporanei” senza mai diventare “abitazioni per gli uomini” (Rusconi 1946). Il singolare, sofisticato, ricorso alle tecniche di prefabbricazione preconizzato da Sartoris presuppone una formazione universitaria interamente ripensata nei principi, una ‘educazione’ che possa introdurre gli architetti a un mondo della professione profondamente mutato e sempre più complesso nelle inedite relazioni con la tecnica e la società. In aperta polemica con le scuole di Milano e Roma, allora dirette rispettivamente dalle anacronistiche figure di Giuseppe Mancini e Arnaldo Foschini, “A” invita a gettare le basi di una rinnovata composizione architettonica a partire da una reale conoscenza degli elementi costitutivi dell’architettura, che sono poi quelli che l’allievo “è chiamato a comporre o sintetizzare nei vari progetti”:
Come le piante dei piedi sono le basi statiche dell’uomo, così le basi didattiche dell’architettura sono i suoi elementi costitutivi: tipologici, formali, proporzionali, dimensionali, distributivi e associativi; mutuabili nello spazio e nel tempo a seconda della natura dei processi tecnologici, e della società civile di un dato ambiente [...] [e la scuola] è soprattutto metodo di cultura, di scienza, di tecnica, e non soltanto libera, extemporanea palestra d’arte (Mattioni 1946).
Il 25 maggio del 1946, l’uscita del numero 7 nei chioschi e nelle edicole di tutta Italia è l’occasione per un radicale rinnovamento della rivista e dei suoi contenuti: un nuovo titolo “A – Cultura della vita”, un formato ridotto a sole otto pagine (forse per ragioni di tipo economico?) e un programma inedito, riassunto in quello che è il primo autentico editoriale-manifesto della pubblicazione, Il nostro programma. “A” si autodefinisce come un “organo di agitazione per un’organica pianificazione della nostra vita democratica”, un organo che rivolge i propri interessi non verso una cultura generica, bensì verso una cultura specifica, dotata di un senso concreto, quasi un “modo di vivere”, la cultura della (Tua) vita:
Che cosa significa cultura della vita? Cultura della Tua vita. Bisogna finirla con le idee che mancano di senso comune – con tutte quelle idee che non hanno un senso concreto, pratico, per Te oggi. Cerchiamo di sfondare i veli di una ipocrisia ricoperta di tutti gli orpelli ideologici di un’esperienza idealista e dialettica che tutto può dimostrare, che tutto può giustificare a posteriori. La nostra vita è il nostro problema di oggi, qui su questa terra, in questo mondo, in questo paese, tra noi. Prima dell’eccezione metafisica, parliamo della regola sociale (Il nostro programma 1946).
“Cultura della vita” significa proprio questo: occuparsi della immanenza e della concretezza della vita, dell’oggi e non del domani, piuttosto che di “acrobazie idealistiche o meditazioni narcisistiche”. E ciò attraverso scritti che influenzino direttamente il modo di vivere degli italiani, poiché carichi di impegno nella realtà sociale. A partire da questo momento, il lettore diviene l’interlocutore privilegiato degli ormai anonimi autori degli articoli, che si rivolgono a lui direttamente nei propri scritti sui temi più diversificati: l’educazione sessuale, la psicoanalisi collettiva, la cultura del rinnovamento del vestiario, la cultura della casa e della città. La rivista diviene così, a tratti, un affascinante dialogo tra un generico architetto, urbanista, psichiatra, biologo, e un pubblico di massa che si auspica attivo e partecipe, quantomeno ricettivo dei non semplici contenuti L’editoriale si chiude con una riflessione sulle ragioni della esistenza stessa di un giornale come “A”:
Vuoi sapere perché facciamo il giornale? Perché siamo convinti che sei molto migliore di quello che tu credi. Impacciato nella vita domestica, nel lavoro, nell’ambiente in cui vivi, tu ti accontenti e tiri avanti e non sai che tu puoi essere felice. Che ogni uomo può essere felice se riesce a liberarsi delle sue incrostazioni tradizionali, se riesce a pensare e a costruire un ordine in se stesso, nella propria casa, nella propria comunità. Lanciare “A – Cultura della Vita” è un atto di fede, di ottimismo, di sprone. Dedichiamo il giornale a tutti voi che cercate nuovi fini di vita, e nuovi mezzi per vivere (Il nostro programma 1946).
La comunità e la pianificazione sono al centro degli interessi della redazione, che di questa si riserva di fornire i dati ai lettori, perché essa sia finalmente e realmente democratica. Il lettore è esortato a prendere l’iniziativa di esaminare il piano regolatore della propria città, col fine di verificarne l’aderenza alle proprie esigenze di cittadino, e gli si forniscono gli elementi necessari a una sua corretta lettura. I temi afferenti alla sfera della psicoanalisi collettiva e dell’educazione sessuale sono sempre trattati con particolare riguardo rispetto ai loro risvolti sociali e in ciò riconducendoli nell’alveo di una trattazione divulgativa, non specialistica. L’articolo Introduzione a un’etica sessuale. Per il controllo delle nascite (Il biologo 1946), con il quale si conclude la breve vita della pubblicazione, è forse il più delicato e controverso, al punto da richiedere una breve introduzione (Perché pubblichiamo questo articolo) contenente alcuni chiarimenti sulla sua improcrastinabile necessità: esso è parte integrante di quel piano di rinascita che la rivista intende costruire e presentare al proprio pubblico, con buona pace dei benpensanti e della Chiesa Cattolica. Ma il testo ha anche il merito di riportare l’attenzione sui diritti e sul ruolo della donna nella società, – a poco più di un anno dalla conquista del diritto di voto (Decreto Bonomi, febbraio 1945) e a pochi mesi dalla emanazione del Decreto n. 74 del 10 marzo 1946 che estendeva loro la possibilità di far parte dell’elettorato passivo – oltre che sul tema dell’aborto, con larghissimo anticipo rispetto alla legge 194 del 1978. Certo anche su “A” l’emancipazione femminile passa attraverso un progressivo affrancamento dagli ingombranti ruoli familiari e domestici (madre e casalinga) e un inserimento nella vita lavorativa, ma è comunque un primo importantissimo passo.
Sei delle nove copertine ritraggono una giovane donna colta in vari momenti della quotidianità: mentre osserva i modelli di alcune case prefabbricate, mentre realizza una maquette all’interno di un corso di architettura, si dedica alle pulizie della casa, apparecchia la tavola o cura le piante del suo balcone; la donna è inoltre la protagonista di molte delle illustrazioni che accompagnano gli articoli. A lei, infatti, si rivolge la maggior parte delle rubriche: Imparate ad organizzare la vostra vita domestica, con i preziosi consigli di economia domestica, Vi presento i mobili, curata da Augusto Magnaghi con lo scopo di fornire preziose informazioni sull’origine dei mobili, su come essi dovrebbero essere, su come si costruiscono e come si giudicano, specie al momento dell’acquisto, e con il desiderio di dare “uno sguardo a ciò che non si può vedere cioè come saranno i mobili nel futuro” (Magnaghi 1946). Sulle pagine di “A” scorrono così, accanto agli oggetti che si intendono sottoporre criticamente all’attenzione del pubblico, alcuni dei migliori arredi dell’epoca: i mobili disegnati da Eero Saarinen e degli Eames e prodotti in serie negli Stati Uniti; quelli brevettati dall’architetto Wilhelm Kienzle e fabbricati dall’industriale Robert Strub o, ancora, quelli dello svizzero Franz Ehrlich, facili da comporre (montare e smontare) e inviabili per posta e senza grossi ingombri ai sinistrati della Guerra; quelli componibili in infinite soluzioni, progettati da Martin Craig e Ann Hatfield o da Oscar Stonorov, e tratti dalla esposizione Organic Design in Home Furnishings tenutasi al Museum of Modern Art a New York tra il 1940 e il 1941. La produzione industriale, in alternativa a quella artigianale, la componibilità, la trasformabilità, la funzionalità dei singoli pezzi sono i principali temi affrontati. In serie e componibili, spiega l’architetta Giorgina all’anonimo intervistatore (o forse un’intervistatrice) dell’articolo In cerca di mobili:
Vuol dire che [i mobili] sono fabbricati con metodo industriale; […] sono prodotti come le automobili; componibili vuol dire che con i diversi pezzi si possono ottenere diversi mobili, guarda gli esempi. Da noi la produzione industriale non esiste per ciò che riguarda i mobili, la produzione è in mano agli artigiani che vanno avanti col criterio ‘artistico’ del pezzo unico che non è mai pezzo unico e che, progettato oltre che eseguito dall’artigiano che non è in grado di progettarlo, è quasi sempre brutto o sbagliato. Occorrerebbe inquadrare l’artigianato italiano verso la piccola industria e far progettare i mobili da tecnici specializzati; ma è un discorso lungo, se ti interessa lo faremo un’altra volta (Giorgina 1946, 4).
Infine l’arte. Tra le numerose e puntuali recensioni sul teatro, il cinema, la musica, la pittura, i libri e la poesia, in cui ritroviamo, fra gli altri, i nomi di Giorgio Strehler, Jean Cocteau, Arthur Honegger, Arturo Benedetti Michelangeli, Edwin Fischer, Paul Eluard, Vittorio De Sica Eduardo, De Filippo Jean Vigo, un articolo di Egidio Bonfante riflette intorno al reale significato dell’arte. In esso, l’autore ci mostra gli oggetti d’affezione che le persone appartenenti alle classi meno abbienti quasi traducono in opere d’arte – un quadro, come un ritratto al magnesio, che raffigura tutti i componenti della famiglia in abiti estivi, due ritratti a carboncino, uno della sposa, l’altro dello sposo, osservati nel piccolo tinello-soggiorno della portinaia, un Sant’Antonio sotto vetro con tanto di giglio in mano custodito da un contadino o una chitarra senza corde posta a ravvivare, come un emblema, la parete della casa di un oste.
L’arte nella casa del popolo è prima di tutto una questione sentimentale […] si tratta quasi sempre di un regalo o d’una eredità ricca di storia, tanto da avere in sé tutti i presupposti per legarsi assai intimamente alla vita del suo possessore (Bonfante 1946).
Un nuovo inizio
Nel 1992, in un articolo apparso su “L’Architettura Cronache e Storia” intitolato “A”. Un settimanale scaturito dalla Resistenza, Bruno Zevi torna a interrogarsi, a distanza di quasi quaranta anni, sulle ragioni che avevano portato alla chiusura improvvisa dopo la pubblicazione del numero nove, nel giugno del 1946. Le motivazioni ufficiali legate allo scandalo generato dall’articolo sull’educazione sessuale paiono non accontentarlo, al punto da ipotizzare che la vera causa risiedesse nell’“atteggiamento culturalmente ed eticamente intransigente, politicamente avanzato e, in effetti, rivoluzionario” della rivista, inviso tanto ai conservatori quanto agli esponenti di una certa sinistra tutt’altro che progressista (Zevi 1992). A informarlo dell’accaduto era stato lo stesso Carlo Pagani, con un telegramma e una lettera, datata 21 giugno 1946, nella quale egli criticava la scelta dell’editore Gianni Mazzocchi-Bastoni di interrompere la lavorazione dei fascicoli seguenti e lamentava un certo disinteresse da parte di Lina Bo, i suoi “capricci”, le sue incertezze e indecisioni (Lettera di Carlo Pagani a Bruno Zevi, 21 giugno 1946, Archivio Bruno Zevi). Ma Bo, ricorda Zevi, “è stata un’eretica in veste aristocratica, una stracciona elegante. Il suo desiderio di cambiamento era incontenibile, si dichiarava sempre insoddisfatta” (Zevi 1992). In quella stessa estate sposa Pietro Maria Bardi, l’uomo “importante” e “moderno” che ammirava sin dai tempi del liceo e con lui si trasferisce in Brasile:
Arrivo a Rio de Janeiro per nave, in ottobre. Incanto. Per chi arrivava dal mare, il Ministero dell’Educazione e della Sanità si stagliava come una grande nave bianca e azzurra contro il cielo. Primo messaggio di pace dopo il diluvio della Seconda Guerra Mondiale. Mi sono sentita in un Paese inimmaginabile, dove tutto era possibile. Mi sono sentita felice, e a Rio non c’erano macerie (Bo Bardi [1993] 1994, 12).
È l’inizio di una nuova vita, tra importanti progetti e una inedita esperienza editoriale, quella rivista “Habitat. Revista das artes no Brasil” destinata a diventare il principale organo di promozione e diffusione dell’attività culturale del Museu de Arte de São Paulo. Un trimestrale raffinato e curatissimo su carta patinata, lontano nelle forme e nei contenuti dal rotocalco milanese, che Lina e Pietro Maria Bardi dirigono, pur con qualche discontinuità, fino al 1954. “Habitat” è una rivista d’arte, che trova nell’inclusione la sua forza e la sua unicità: passato e presente, arte colta e popolare, architettura, paesaggio, cinema e teatro si co-fondono tra le sue pagine.
“Habitat” significa ambiente, dignidade, conveniéncia, moralidade de vida, e portanto espiritualidade e cultura: é porisso que escolhemos para titulo de nosta revista una palabra íntimamente ligada à arquitectura, à qual damos um valor e una interpretação não apenas artística, mas uma função artisticamente social (Préfacio 1950).
Come “A” anche “Habitat” si fa portatrice di una cultura della vita: una cultura a cui si riconosce ancora una volta una imprescindibile funzione sociale. Carlo Pagani, invece, dopo un periodo trascorso negli Stati Uniti per studiare i principi allestitivi dei grandi magazzini, inizia una lunga collaborazione con la Rinascente che lo coinvolgerà per oltre venti anni e avvia una pratica professionale di respiro internazionale che lo vedrà operare in Europa e Africa. Eppure questi anni avari di occasioni professionali e di opere costruite, ma estremamente ricchi sul piano della divulgazione dell’architettura, rimangono indelebilmente scolpiti nella memoria di entrambi. È lo stesso Pagani a sottolineare come il Curriculum letterario di Lina Bo Bardi si concentri quasi esclusivamente sulla stagione milanese, sulla guerra e sulla liberazione, con precisi dettagli riguardanti la fondazione di “A” (Criconia 2017): la rivista che più di tutte ha significato per i suoi direttori e redattori, comprendere e trasmettere il valore civile dell’architettura.
Fonti archivistiche
- L. Bo, Lettera a Bruno Zevi, 6 luglio 1945, Archivio Bruno Zevi.
- C. Pagani, Lettera a Bruno Zevi, 21 giugno 1946, Archivio Bruno Zevi.
- G. Ponti, Lettera a Giovanni Astengo, 10 febbraio 1948, Iuav – Archivio Progetti, Fondo Giovanni Astengo, Corrispondenza.
- Schema degli accordi raggiunti fra gli architetti Pagani e Bo’ e l’arch. Zevi per la collaborazione nella rivista “A” – Giornale di Architettura, s. d., Archivio Bruno Zevi.
- B. Zevi, Lettera a Pier Maria Bardi, Ortensio Gatti, Lina Bo Bardi e carlo Pagani, 29 ottobre 1945, Archivio Bruno Zevi.
Riferimenti bibliografici
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B. Zevi, “A”. Un settimanale di architettura scaturito dalla Resistenza, “L’Architettura Cronache e Storia” 441-442 (1992), 541.
English abstract
“We have to start anew, from letter A, to generate a happy life for everyone”: so states the cover of the first issue of ““A – Attualità, Architettura, Abitazione, Arte”, which later became “A – Cultura della vita”: the magazine that Lina Bo Bardi and Carlo Pagani built with Bruno Zevi in 1946. Their hope was to involve an audience as vast as possible during the collective reconstruction of the country, destroyed by the Second World War. The article explores the suspended space and brief life of this small utopia, aiming at demonstrating how A became the magazine that, for its directors, engaged in intense outreach activity during such years, meant most of all to understand and pass on the civil value of architecture. The text also explores the publication’s themes and contents, its protagonists and unusual graphic design, trying to comprehend the originality of its message. In a lively national editorial scene, its uncompromising attitude, politically advanced and, for the same reason revolutionary, was its strength and, in a way, the real reason behind its sudden closure.
Keywords | Lina Bo Bardi; Carlo Pagani; “A”; Culture; Life.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Alberto Pireddu, Architettura e cultura della vita. La rivista “A” di Lina Bo e Carlo Pagani, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 85-119 | PDF dell’articolo