Sperimentare l’inattualità
Scenari per il futuro delle riviste di architettura
Riccardo Rapparini
English abstract
Una buona rivista tiene insieme gli scrittori, anche i più isolati,
e li mette nella posizione di influenzare il loro tempo.
Cyril Connolly
Sperimentare l’inattualità richiama e omaggia un articolo dal titolo Il coraggio di essere inattuali apparso nel 2002 su “La Repubblica”. In quella occasione, sotto la forma del dibattito, si confrontarono due delle figure più importanti dell’editoria e della letteratura italiana degli ultimi decenni, Cesare Garboli e Roberto Calasso. Il tema di fondo era quello, non dissimile da quanto proposto per questo numero di “Engramma”, di riflettere sul ruolo delle riviste nel panorama contemporaneo a partire da due esperienze editoriali di riferimento quali “Paragone” e “Adelphiana”, la prima diretta da Garboli, la seconda da Calasso.
Nell’elogiare i nuovi numeri di “Adelphiana”, riedita in formato digitale a partire dal 2002, Garboli si sofferma su una particolare peculiarità della rivista di Calasso, la sua inattualità. “Le due cose che mi hanno veramente colpito” dice “sono i due tipi di ambiguità di cui questa rivista si fa portatrice: il primo è l’inattualità, che ha qualche cosa di profondamente creativo e originale, la seconda è il potere di seduzione e anche di inquietudine che nasce da un volume dove si mescolano il reale e l’immaginario” (Garboli 2002). L’inattualità a cui fa riferimento Garboli è legata alla scelta di “Adelphiana” di ripubblicare nel 2002, e quindi nel vivo del conflitto bellico in Afghanistan, un reportage in cui Sulzberger tratteggia la condizione del Paese asiatico durante gli anni Cinquanta. La redazione di Adelphiana decise di suscitare una sensazione di straniamento nei suoi lettori, quotidianamente bombardati da notizie su un conflitto di cui non erano in grado di metabolizzare un tale numero di informazioni prima di allora sconosciute, proiettandoli in un’altra epoca i cui contorni letterari erano diametralmente opposti a quelli “delle nuvole di fumo delle bombe” (Garboli 2002) che diffondevano i giornali e la televisione nei primi anni Duemila. Del senso di inattualità Garboli coglie quindi un presupposto di contestazione, di anacronismo operativo capace di agitare nelle riviste quel fondamentale desiderio di modificare la propria realtà, di “influenzare il proprio tempo” che ha teorizzato Cyril Connolly sulle pagine di “Art and Literature” nel 1964.
A fronte di queste considerazioni viene quindi da domandarsi quale ruolo assumano oggi le riviste di architettura e in particolare se esse siano gli strumenti che disperdono informazioni nelle “nuvole di fumo” oppure, al contrario, quelli in grado di tracciare nuovi “contorni letterari” capaci di trasmettere una tipologia di conoscenza che si sottragga ai bombardamenti di informazioni tipici della comunicazione contemporanea. Sembra utile allora tornare alle parole con cui Guido Canella apre il ventunesimo numero della rivista “Zodiac” da lui diretta. Il numero, interamente dedicato alla critica architettonica e alle sue condizioni di salute è introdotto dall’editoriale La critica di architettura dopo Zevi, nel quale Canella si sofferma a descrivere come la critica di architettura – quella operativa in particolar modo – stia progressivamente scomparendo in favore di quella che lui definisce cronaca agiografica: “il commento ai fatti specifici dell’architettura” scrive “non passa più attraverso la pratica dell’autorevole recensione […] ma resta affidato a una cronaca agiografica che agisce da sponda alle quotazioni di una sorta di borsa-valori mondiale dell’architettura, limitandosi a tradurre in persuasiva calligrafia ciò che ogni autore e iniziativa imprenditoriale o amministrativa ritiene di meritare” (Canella 1999, 8).
A distanza di anni le parole di Canella risultano profeticamente attuali, soprattutto in quella particolare sfumatura che l’architetto individua nella trasformazione della critica da strumento di progetto a dispositivo di addomesticamento. Quello che questo genere di cronaca veicola, attraverso i suoi nuovi e numerosi canali è convincerci della qualità di un prodotto architettonico tramite la sua ripetizione, attraverso un processo che, dominato da un utilizzo ossessivo delle immagini, ha più a che fare con la pubblicità che con la disseminazione. “La critica architettonica contemporanea trova buon agio nella docile sottoscrizione di ciò che già si afferma di suo. Idées reçues: è buono ciò che ha successo” (Bonaretti 2018, 11) e, potremmo aggiungere, è buono ciò che deve avere successo.
Il processo di condivisione di contenuti da parte delle maggiori riviste di architettura ha innescato una catena di riproduzione che si limita a moltiplicare esponenzialmente uno stesso concetto senza mai metterlo in discussione o verificarlo. Il valore stesso del prodotto architettonico sta nella sua capacità di moltiplicarsi. Quasi come se si verificasse una particolare interferenza nel processo strutturalista discusso da Roland Barthes; se quest’ultimo, infatti, scompone e ricompone l’elemento oggetto di critica per produrre nuovi significati attraverso la sua ricomposizione, al contrario l’esercizio della cronaca riproduce un significato identico a quello originario innescando un processo che trova nella tautologia l’unica possibile “spiegazione” di sé.
L’esito più evidente di questo processo è quello di una rimozione del contenuto semantico dell’architettura, ridotta a oggetto bidimensionale fruibile solo disinteressatamente, un oggetto a cui “si getta uno sguardo” (Wigley 2019). Di questa tendenza gran parte delle riviste di architettura si rendono complici attraverso un utilizzo schizofrenico di immagini ad alta risoluzione il cui potere seduttivo si sostituisce a un apparato critico in grado di rendere l’opera fruibile al pubblico. Non è un caso che le pagine della maggior parte delle riviste siano occupate da render iperrealistici che rappresentano scene di una idilliaca quotidianità di cui famiglie in bicicletta, mongolfiere all’orizzonte e straripanti vegetazioni sono divenuti inconsapevoli protagonisti.
Che la scelta di limitare la trasmissione dei progetti di architettura a una simile tipologia di contenuti è indubbiamente condivisibile per media di natura generalista, più preoccupante, però, se gli stessi contenuti vengono disseminati da riviste specialistiche e di settore, dimostrando come la maggior parte di queste si rendano egualmente partecipi di quel gioco della comunicazione che dissolve contenuti per eccesso di esposizione (Perniola 2004). Questa tipologia di rappresentazione, più vicina al mondo immobiliare che a quello dell’architettura, ha ormai destituito quel repertorio iconografico in grado di spiegare i meccanismi della genesi di ogni progetto, con tutte le conseguenze che sarebbe ridondante ripetere. Sul rapporto tra comunicazioni e immagini torna poi alla memoria un passaggio di Tafuri in Teorie e storia dell’architettura in cui afferma “Rimane comunque il problema di una comunicazione critica tramite le immagini. Sotto tale aspetto le riviste di architettura dovrebbero sentirsi in modo particolare impegnate a sfruttare fino in fondo questo canale di informazioni che, a lungo andare, può trasformarsi da puro edonismo visivo a formidabile strumento operativo” (Tafuri [1968] 1980, 186).
A poco più di cinquant’anni dalla pubblicazione di questa riflessione pare evidente come il rischio di cadere nel puro edonismo non sia stato allontanano ma, al contrario, abbia permeato sia l’editoria che, ancor peggio, l’architettura stessa divenuta narcisistica perché mai contestata né verificata. Il parlare criticamente con le immagini è un monito sul quale è quanto mai necessario interrogarsi. A oggi sembrano essere due le strade, in alcuni casi sovrapponibili, intraprese dalle riviste che tentano di districarsi dalle seduzioni individuate finora. La prima è legata alla scelta dei materiali: tendenza privilegiata dalle riviste accademiche, o comunque legate a contesti universitari, che selezionano contenuti che per la loro ricercatezza rendono la rivista un prodotto indispensabile per accedere a un universo di informazioni altrimenti impossibili da reperire nel ben più ampio, ma generalista, archivio digitale. La seconda, prediletta da una nicchia di riviste perlopiù indipendenti, è legata all’utilizzo di immagini attraverso il ricorso a una grafica così avvolgente da divenire essa stessa contenuto, proponendo un linguaggio comunicativo prevalentemente visivo. In questa direzione si sta muovendo un particolare filone dell’editoria che, tramite un forte e riconoscibile apparto iconografico, tenta di rendere ogni propria produzione il più vicina possibile a un ‘oggetto d’arte’.
Si è cercato di esporre, seppur sinteticamente, la ‘nuvola di fumo’ che oggi offusca la trasmissione del sapere d’architettura, rappresentata da un meccanismo comunicativo iper-riproduttivo e sterile. Per dissolvere una simile condizione si è detto precedentemente come Calasso si sia affidato alla capacità della letteratura di costruire una conoscenza alternativa, inattuale, ma, proprio attraverso questa inattualità, in grado di mostrare una inedita e fondamentale forza critica. Di questa vocazione critica, storicamente, le riviste di architettura si sono rese luogo privilegiato attraverso la capacità di far coesistere i termini ricerca e progetto, a lungo animati da un costante dialogo che ha contribuito a definire i confini di una particolare cultura e tradizione del progetto.
“Domus” e “Casabella” di Rogers, “Hinterland” e “Zodiac” di Canella, “Phalaris” di Semerani oppure, all’estero, “Architectural Review” con Banham e “Oppositions” con Eisenmann, Frampton e Gandelsonas, sono solo alcuni dei tanti esempi di riviste che hanno condiviso il comune obiettivo, seppur perseguito con mezzi differenti, di indagare le profonde relazioni che sussistono tra ricerca e progetto. Relazioni personali, a volte condivise, altre contestate, che hanno reso le riviste non solo strumenti di disseminazione, ma veri e propri “laboratori sperimentali delle idee” (Amistadi, Prandi 2018, 10) e attraverso cui è ancora oggi possibile indagare le specificità degli approcci disciplinare alla cultura del progetto, come si usa fare parlando di Scuole. Ognuna di queste redazioni ha infatti diffuso una interpretazione del progetto così religiosa da renderne la partecipazione una vera e propria adesione a una particolare idea di mondo. Non solo strumento di disseminazione, quindi, ma mediatore culturale in grado di assumere un carattere istituzionale come già precisamente espresso da Antonio Gramsci ne Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura: “Bisogna riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano forza motrice e formatrice di istituzioni culturali” (Gramsci 1949).
“Le riviste letterarie sono impollinatrici di opere d’arte: senza di esse le correnti letterarie e in fondo la letteratura stessa non esisterebbero. Gran parte della poesia di Yeats, Eliot, Pound e Auden è apparsa per la prima volta in riviste” (Connolly 1964). Non è difficile sostituire i termini di questa equazione con quelli appartenenti alla disciplina architettonica: “Le riviste di architettura sono impollinatrici di opere d’arte: senza di esse le correnti architettoniche e in fondo l’architettura stessa non esisterebbero. Gran parte dei progetti di Mies, Ponti e Rogers è apparsa per la prima volta in riviste”. Questi esempi non sono arbitrari ma evidenziano particolari relazioni tra progetto e ricerca sviluppatisi sulle pagine di riviste di architetture in grado di definire i “contorni letterari” di cui parlava Calasso ma traducendoli nel linguaggio dell’architettura, o in altri termini, di portare alla luce il carattere operativo delle “parole” che, come scriveva Rogers, possono diventare “materiali da costruzione” (Rogers 1946, 3).
Il caso di Mies van der Rohe lo suggerisce Beatriz Colomina (Colomina 2019), professoressa presso la Princeton University la cui attività di ricerca è da sempre interessata al rapporto tra media e architettura. Il 1924 è un anno di grande interesse nella carriera di Mies in quanto vengono pubblicati alcuni dei suoi progetti che contribuiranno a diffondere in Europa la sua lunga ricerca verso un’architettura moderna. È il caso del Glass Skyscraper, la “cattedrale di cristallo” chiamandolo come farebbe William Curtis, pubblicato su “G”, rivista d’avanguardia edita a Berlino. I disegni di questo progetto risalgono al 1922, anno in cui vengono concluse altre due sue opere, in particolare la Casa Feldmann e quella Eichstaedt, entrambe costruite a Berlino. Queste due case, dai richiami georgiani con tetti a falde e muri in mattoni, rientrano in una fase di sperimentazione sulle forme della tradizione che Mies così descrive nel 1924 sulla rivista “Der Querschnitt”: “È senza speranza cercare di usare le forme del passato nella nostra architettura. Persino il più forte talento artistico fallirà in questo tentativo” (Mies van der Rohe 1924). I malumori che Mies manifesta riguardo la sua precedente produzione architettonica trovano però sfogo nelle pagine delle riviste che ne accolgono le più moderne architetture di carta dandogli la possibilità di sperimentare, e soprattutto diffondere, una interpretazione del progetto la cui rivoluzione non necessita ulteriori approfondimenti.
Altri due casi emblematici in cui è possibile evidenziare come progetti editoriali e progetti architettonici siano in grado di alimentarsi reciprocamente sono quelli di Gio Ponti ed Ernesto Nathan Rogers. Partendo dall’architetto milanese è possibile notare come tra la casa in via Randaccio, con i suoi colti richiami al neoclassicismo milanese o, più genericamente con “il desiderio di continuità con la tradizione classica” (Arditi, Serratto 1994, 4) che ha sempre mosso i sentimenti di Ponti, e il Grattacielo Pirelli è contenuto tutto lo sforzo verso una modernità dagli orizzonti internazionali finemente costruitasi tra le pagine di “Domus”.
Oppure, ancora, è interessante segnalare il caso della Torre Velasca dei BBPR i cui temi sul rapporto tra architettura, contesto e tradizione si sovrappongo e divengono testimonianza concreta delle teorie che Rogers affronta nei tanti editoriali pubblicati in “Casabella Continuità”. Non è casuale che i primi schizzi della più turrita soluzione in calcestruzzo, dopo aver accantonato quella in acciaio e vetro, risalgono al 1952, mentre il primo editoriale Continuità venne dato alle stampe nel 1953. Coincidenza cronologica che non ci rende difficile immaginare un Ernesto Rogers accatastare sulla propria scrivania le bozze manoscritte della nuova “Casabella” assieme ai primi schizzi della Torre, in un turbinio di reciproche influenze e suggestioni.
Che le esperienze editoriali di Ponti e Rogers siano profondamente diverse è evidente fin dal passaggio di consegna del 1946. L’architetto triestino infatti inaugura la nuova direzione modificandone il sottotitolo da La casa all’italiana della precedente direzione pontiana a La casa dell’uomo, dichiarando in questo modo una profonda frattura tra due divergenti interpretazioni del ruolo dell’architettura. Nonostante questa differenza però, nella lettura dei due reciproci editoriali di apertura emerge una vocazione comune, ovvero la necessità di rendere la rivista uno strumento di formazione. Sottolinea Ponti come la “[…] formazione di un gusto sia in senso collettivo che individuale non si identifica dunque affatto con l’aderire puro e semplice alle manifestazioni contemporanee adottandone le espressioni formali” ma al contrario “occorre una adesione più profonda e significativa, una volontà di educazione”, similarmente Rogers afferma come “Una rivista possa essere uno strumento, uno staccio per stabilire il criterio della scelta. […] Si tratta di formare un gusto, una tecnica e una morale, come termini di una stessa funzione. Si tratta di costruire una società” (Rogers 1946, 3).
In questa particolare tradizione di architettura che ha attraversato tutto il Novecento italiano gli esempi del desiderio di rendere le riviste uno strumento per costruire una società differente sono molteplici. “Phalaris” diretta da Luciano Semerani ebbe come obiettivo dichiarato quello di “[…] poter formare, attraverso un confronto libero da riscontri commerciali, un’opinione pubblica consapevole e un diverso tipo di responsabilità nelle scuole di architettura che non fosse solo quello nei confronti degli Enti Locali o ancora peggio dei meccanismi del successo” (Semerani 2018, 78) oppure ancora, l’esperienza della già citata “Zodiac” rifondata per tentare di rendere “meno precaria e incompetente la committenza dell’architettura […] sempre più condizionata da un ambiguo rapporto pubblico-privato” e dal desiderio di “privilegiare il principio di autenticità contro le contraffazioni funzionali e formali del progetto [oltre che] radicare il confronto internazionale nella contestualità di ogni esperienza tipologica e figurativa” (Canella 1989, 10). Si potrebbe scorgere nel desiderio di rendere le riviste di architettura uno strumento di formazione e non di semplice informazione la stessa differenza che intercorre tra istruzione, intesa come bagaglio di nozioni, ed educazione come “sviluppo interiore della personalità” (Gramsci 1949). In questi termini allora costituire nuovamente le riviste come luoghi di formazioni significherebbe ricollegare la trasmissione del sapere all’interno di dinamiche determinate da un approccio paragonabile a quello tra maestro e allievo che, non casualmente, viene individuato dallo stesso Gramsci come il solo in grado di far coesistere istruzione ed educazione, nozioni e cultura, e, possiamo aggiungere, in grado di porsi in continuità con una tradizione che per ricchezza risulta ancora oggi in grado di fornirci spunti di notevole attualità. Alle derive della comunicazione acritica sembra quindi che rendere nuovamente le riviste uno strumento di formazione sia ancora in grado, come accadde nel secolo scorso, di porre rimedio. Se l’attualità ci pone innanzi una comunicazione come “opposto della conoscenza” (Perniola 2004), il formare risulta, nella sua inattualità, la più forte arma di difesa nella costruzione di saperi trasmissibili.
Le riviste muovendosi in uno spazio liminale proprio tra maestro e allievo, tra teoria e prassi, tra professionismo e ricerca, sembrano ancora essere il luogo ideale, o, citando Portoghesi, “l’unica o la più immediata delle cose da fare” (D’Amato Guerrieri 2018, 36) per contrastare quel “silenzio rumoroso” che ancora oggi sta pericolosamente avvolgendo la diffusione del sapere di architettura. Influenzare il proprio tempo e non esserne influenzati, a costo di risultare inattuali.
Riferimenti bibliografici
- Amistadi, Prandi 2018
L. Amistadi, E. Prandi, FA (little) Magazine e le “piccole riviste” di architettura del XX secolo, “FAMagazine” 43 (gennaio 2018), 9-16. - Arditi, Serratto 1994
G. Arditi, C. Serratto, Gio Ponti. Venti cristalli di architettura, Venezia 1994. - Bonaretti 2018
P. Bonaretti, Un filo d’Arianna (almeno uno), in M. Biagi, Critica e progetto, Santarcangelo di Romagna 2018. - Canella 1989
G. Canella, Fondazione e ripresa di una testata, “Zodiac” 1 (1989), 6-10. - Canella 1999
G. Canella, La critica di architettura dopo Zevi, “Zodiac” 21 (1999), 4-13. - Colomina 2019
B. Colomina, Little Magazines, Portable Utopias 1960s-1970s, in K. Müller-Helle, The Legacy of Transgressive Objects, Berlin 2019. - Connolly 1964
C. Connolly, Fifty years of Little Magazine, “Art and Literature” 1, 1964, cit. in R. Calasso, Come ordinare una biblioteca, Milano 2020, 101-103. - D’Amato Guerrieri 2018
C. D’Amato Guerrieri, Controspazio come “piccola rivista”, “FAMagazine” 43 (2018), 33-40. - Garboli 2002
C. Garboli, Il coraggio di essere inattuali. Discussione con Roberto Calasso, “La Repubblica” 26 giugno 2002. - Gramsci 1949
A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino 1949. - Mies van der Rohe 1924
L. Mies van der Rohe, Baukunst und Zeitwille, “Der Querschnitt ” 4 (1924), 31-32. - Perniola 2004
M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, 2004. - Rogers 1946
E.N. Rogers, Programma: Domus, la casa dell’uomo, “Domus” 205 (gennaio 1946), 2-3. - Semerani 2018
L. Semerani, Phalaris. Un giornale di architettura, “FAMagazine” 43 (2018), 73-78. - Tafuri [1968] 1980
M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Bari [1968] 1980. - Wigley 2019
M. Wigley, Il futuro dell’editoria di architettura e il paradosso del “lettore imprevisto”, intervista a cura di R. Poletti, “Domus” 2 ottobre 2019.
English abstract
During a 2002 interview between Roberto Calasso and Cesare Garboli, the concept of untimeliness emerged as the basis for making the literary magazine a “profoundly creative and original” medium, capable of “influencing its own time” rather than going along with it. Taking on this term as a common thread for reflection, we demonstrate how the concept of untimeliness can be configured as an interpretative model capable of making architecture magazines an instrument of defence against communication mechanisms based on obsessive repetition and sterile content. In these terms, we propose an imperative to configure magazines as places of formation, construction, and transmission of knowledge to counter a contemporary moment that finds the “opposite medium to knowledge” in uncritical communication..
Keywords | Architectural Criticism; Architectural Experimentation; Untimeliness; Ludwig Mies van der Rohe; Roberto Calasso; Cesare Garboli.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Cherubino Gambardella, Sperimentare l’inattualità. Scenari per il futuro delle riviste di architettura, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 251-263 | PDF dell’articolo