Un dialogo mancato
La ricezione dell’architettura brasiliana sulle riviste italiane (1946-1949)
Daniele Pisani
English abstract
1. Prologo in Messico
Nel secondo dopoguerra italiano, come noto, Ernesto Nathan Rogers fu direttore per un breve ma intenso periodo di “Domus”. Al titolo della storica testata, a lungo diretta da Gio Ponti, Rogers fece aggiungere il sottotitolo “la casa dell’uomo”; si trattava di rimarcare una netta presa di distanze dalla lunga gestione precedente e, insieme ad essa, dal regime fascista. La “Domus” di Rogers fu, in effetti, la principale cassa di risonanza di un gruppo di architetti attivi a Milano che aveva fatto la resistenza (o ne era stato simpatizzante) e aveva poi cercato di prendere le redini della ricostruzione, non da ultimo cercando di fare massa critica organizzandosi, tra l’altro, come Movimento di Studi per l’Architettura (Baffa, Morandi, Protasoni, Rossari 1995), ma anche dedicandosi ad approntare eventi di grande risonanza come l’ottava edizione della Triennale.
Di tale gruppo, non sempre facile da definire nei suoi contorni, faceva senza dubbio parte Albe Steiner. Di provata fede politica, a lungo partigiano nel battaglione Valdossola, Steiner divenne ben presto il designer grafico di molte delle iniziative di punta della cultura italiana dell’epoca, tra cui l’impaginazione de “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Insieme a sua moglie Lica, a sua madre e a sua figlia Luisa, nel 1946 Albe si trasferì in Messico, dove già vivevano due suoi cognati e dove rimase, insieme alla famiglia, per un paio d’anni. Al contrario di molti altri professionisti europei, tuttavia, non andava in Messico per trascorrervi il resto della vita. Il 16 dicembre 1946, ad esempio, Lica, moglie di Albe, confessava a Julia Banfi – allora segretaria di redazione della “Domus” di Rogers, che seguirà anche a “Casabella Continuità” – che “sempre stiamo aspettando le notizie dagli amici cari che abbiamo lasciato momentaneamente ma che sempre abbiamo nel cuore e in cima ai nostri pensieri”; e che la loro vita in Messico scorreva felice, ma – si premurava di avvertire – “non pensare che noi ci si voglia stabilire qui, ci sono troppe cose in Italia che ci interessano ci appassionano…” (la lettera è riprodotta in Longhi 2013, 47): “desideriamo solo ritornare e lavorare lì”, dichiarerà ancora più esplicitamente Albe il 30 novembre 1947 (ivi, 55). Fu proprio durante la sua permanenza messicana che, il 26 settembre 1946, Rogers gli fece la proposta da cui intendiamo prendere avvio: “Vuoi essere”, gli chiese, “il nostro corrispondente dal Messico? Potresti inviare regolarmente notizie e fotografie di quello che si fa laggiù” (la lettera è riprodotta in Longhi 2013, 44) [Fig. 2]. D’altronde Steiner sapeva bene, proseguiva Rogers, a cos’era interessata “Domus”: “la casa dell’uomo, la sedia dell’uomo, la città dell’uomo”. Perché quindi non fare da corrispondente della rivista, così come peraltro facevano – rammentava Rogers – Max Bill dalla Svizzera e Friedrich Vordemberge-Gildewart dall’Olanda?
La risposta di Steiner non si fece aspettare. Il 4 novembre scriveva: “Accetto con molto piacere di essere il vostro rappresentante qui e se volete anche per tutta l’America Latina – si potrà fare un ottimo servizio al nostro Paese” (la lettera è riprodotta in Longhi 2013, 46) [Fig. 3]. In risposta a una specifica proposta avanzatagli da Julia Banfi, Steiner si impegnava anzi a curare al più presto “un intero fascicolo di Domus 1947” dedicato “all’architettura messicana moderna”, che – perché no – avrebbe potuto essere lanciato addirittura in Messico. Senonché il previsto numero di “Domus” dedicato all’architettura messicana non venne mai alla luce. Sarà Steiner a spiegarne le ragioni a Rogers e alla redazione della rivista alcuni mesi più tardi, il 16 marzo 1947:
… ma purtroppo, qui si ha a che fare con i messicani, non quelli di cui parla Ernesto, e non sono così buoni, vale a dire, sono un poco indolenti… “mañana” è la loro parola preferita che mette tutto a posto, ed il proverbio che qui impera (insieme all’imperialismo nord americano) è “non fare oggi quello che puoi fare domani”. Vi potete immaginare che piacevole sia lavorare con questa gente… […]. È davvero difficile lavorare qui per questa indolenza e noncuranza che hanno innata, e per vedere del concluso si fatica quanto non avrei creduto possibile. Ma lo strano è che questo è nell’aria, perché anche non messicani ma che vivono qui dopo qualche tempo si acclimatano e sono uguali agli indigeni… (la lettera è riprodotta in Longhi 2013, 52-53).
Luoghi comuni o difficoltà insormontabili? Non ci interessa in questa sede. Ci preme piuttosto rimarcare il tentativo compiuto da “Domus” di procurarsi notizie di prima mano su quanto stava avvenendo in giro per il mondo. E del resto, all’epoca, era proprio questo uno dei mandati principali di riviste come “Domus”, “The Architectural Review” o “L’Architecture d’aujourd’hui”: informare una certa comunità nazionale su quanto stava succedendo nelle altre, oltre che garantire, in queste ultime, la circolazione di una determinata visione della propria architettura nazionale.
Non è questa la sede per compiere una disamina sistematica delle riviste di architettura nell’Italia dell’epoca (su questo tema, v. almeno Mulazzani 1997; Ciucci 2015). Ci limitiamo a rimarcare che se, come affermava un articolo anonimo di “Domus” del 1949, “l’uomo moderno è aggiornato su quanto si fa nel resto del mondo” ed “è consapevole dell’evoluzione dell’arte, del gusto e della moda di nazioni lontane e vicine” (Due case cilene 1949, 12), questo infatti era in larga parte dovuto proprio al lavoro svolto dalla rivista d’architettura. In questo senso, ci sembra di poter dire che essa svolgeva, in un modo o nell’altro, un’inevitabile funzione di mediazione e di dialogo tra un proprium locale e un contesto che forse non era propriamente globale, ma che senza dubbio trascendeva di gran lunga i confini patri. Gli equilibri e i pesi potevano variare, e variavano di caso in caso. E ancor più potevano variare le ragioni delle scelte compiute quanto a linea editoriale. Resta però il fatto che la rivista di architettura – o almeno la grande rivista ‘generalista’ di architettura dell’epoca, come “Domus” – si muoveva all’interno di una polarità che a un estremo aveva l’informazione sullo status quo a livello internazionale, e dall’altro – e sempre più consapevolmente – la definizione di una specifica ‘tendenza’. Poi naturalmente è evidente che non era per nulla facile far combaciare alla perfezione le due polarità – persino nella “Domus” di Rogers, ha osservato Ezio Bonfanti, si riscontra “una sorta di dissociazione fra le ambizioni espresse dai programmi e dagli editoriali e la ricaduta al livello di ‘supporto alla professione’ del corpo della rivista” (Bonfanti [1972] 2001, 336) – e che solo assai di rado, per non dire mai, queste si riscontrano nella loro forma pura: così come ogni linea editoriale sarà di per sé in dialogo con quelle concorrenti, così ogni selezione delle opere del ‘resto del mondo’ da presentare sulle poche pagine di una rivista difficilmente sarà totalmente disinteressata e – ammesso peraltro che questo sia un pregio – del tutto slegata dalla linea, o dalle linee, della rivista.
Visto in controluce, il mancato contributo di Steiner come corrispondente di “Domus” dal Messico ci consente proprio di cogliere tale polarità in azione. La “Domus” di Rogers (Argenti 2005) aveva un’idea ben precisa sull’Italia e sull’architettura italiana. Ma non era affatto cieca rispetto a quanto stava avvenendo fuori dai confini nazionali; e anzi, la sua idea di Italia, se così si può dire, passava attraverso l’allineamento ad alcune esperienze estere di punta. Per quanto da alcuni accenni contenuti nelle lettere sia lecito desumere che nel previsto numero di “Domus” si sarebbero mostrate anche case, ville e edifici di appartamenti, l’esperienza del Messico rivoluzionario – con i suoi ospedali, che stando a quanto dichiarato da Steiner stesso nella lettera alla redazione di “Domus” del 4 luglio 1946 erano “la cosa più importante del Messico e forse di tutta l’America Latina” (la lettera è riprodotta in Longhi 1946, 47), ma anche con le sue scuole pubbliche, a una vasta pubblicazione sulle quali il grafico milanese stava peraltro lavorando proprio allora – poteva inoltre entrare in risonanza con alcune questioni che la “Domus” di Rogers riconosceva centrali nella ‘ricostruzione’ italiana. Non abbiamo modo di sapere se e quanto parlando dell’architettura messicana Rogers volesse mostrare ai lettori italiani, sulla falsariga di quanto già fatto da Esther Born con il pubblico statunitense, l’esempio di un paese socialista, di cui – possiamo presumere – sarebbe stata evidenziata come centrale la produzione a committenza statale (Born 1937); ma il solo fatto che così possano essere andate le cose la dice lunga sulla proficua ambiguità della rivista di architettura, che anche quando parla dell’altro – e forse proprio soprattutto quando e nella misura in cui parla dell’altro – sta inevitabilmente facendolo alla e per la propria comunità nazionale.
Accettando, il 4 novembre, la proposta di “Domus”, Steiner non a caso si diceva convinto che presentando a un pubblico italiano l’architettura messicana “si potrà fare un ottimo servizio al nostro Paese”; come dobbiamo però interpretare queste parole, che apparentemente suonano candide, ma proprio per questo potrebbero essere ingannevoli, pronunciate come furono da un intellettuale militante? Certo è che, all’interno della polarità di cui abbiamo detto, distinguere tra definizione da parte di una rivista di una propria linea e aggiornamento su quanto sta avvenendo in architettura in altre parti del globo è sempre difficile, e talvolta persino capzioso.
2. “Come un faro di luce”: Lina Bo Bardi dinanzi all’architettura brasiliana
Se nel caso di Albe Steiner era stata “Domus” a proporre a un architetto prossimo alla redazione e momentaneamente residente all’estero di stabilire una collaborazione con la rivista, in altri casi le cose andarono diversamente. Ne cogliamo una traccia nella lettera rivolta a una delle principali figure del coevo milieu milanese come Piero Bottoni redatta da una collega appartenente al medesimo ambiente: “Ho scritto a Rogers che sarebbe bene, sarebbe una forte propaganda per l’arte e l’architettura italiane qui e anche interessante in Italia dedicare un numero speciale di una rivista italiana al Brasile; questa rivista potrebbe essere Domus (o anche Casabella esce ancora?)” – questo quanto Lina Bo Bardi raccontava a Piero Bottoni il 29 ottobre 1946.
Quando scrisse questa lettera, era da poco sbarcata a Rio de Janeiro, in un viaggio intrapreso a fianco dell’uomo che aveva appena sposato, Pietro Maria Bardi, dalla durata imprecisata ma che – nelle previsioni iniziali – non era inteso come un trasferimento definitivo (Pozzoli 2014). Dell’architettura brasiliana sapeva pochissimo. Più tardi, racconterà di essere giunta a Rio avendo già letto Brazil Builds, il catalogo dell’epocale mostra tenuta al MoMA nel 1943 (Goodwin 1943), e di essere rimasta colpita, ancor prima di metter piede a terra, dalla vista a partire del ponte della nave del capolavoro riconosciuto del modernismo brasiliano, il Ministério da Educação e Saude (Bo Bardi [s. d.] 1993, 12). Ma al tempo in cui stese la lettera sopra citata, era arrivata in città solo da pochi giorni, e quindi la sua conoscenza dell’architettura carioca – per non dire poi di quella del resto del paese – doveva essere libresca e poco approfondita. Ammessa quindi anche la sorpresa dinanzi a una scena architettonica effettivamente ricca, e per certi versi sconvolgente, la postura di Bo Bardi in quel momento non poteva che essere quella dell’architetto italiano che riteneva opportuno informare i propri connazionali intorno a quello che stava avvenendo in un paese che, per quanto stesse proprio allora entrando per la prima volta nelle mappe della critica internazionale, in Italia era a suo modo di vedere ancora troppo poco noto, per lo meno quanto a recenti sviluppi in architettura. È in quanto architetto italiano dell’ambiente milanese di cui facevano parte pure Rogers e Bottoni che Lina Bo Bardi proponeva pertanto la pubblicazione di un numero monografico interamente dedicato all’architettura brasiliana di una rivista italiana quale “Domus”; al tempo erano peraltro ancora in uscita i “Quaderni di Domus”, collana da lei diretta insieme a Carlo Pagani e concepita quando questi e Bo Bardi, negli ultimi anni di guerra, erano stati direttori di fatto della rivista.
Quel che è certo è che nell’ottobre del 1946 la conoscenza di Lina Bo Bardi nei confronti della produzione architettonica del Nuovo Mondo era assai limitata. Vi è poi anche un altro punto da tenere in considerazione: cosa era in grado di vedere di ciò che andava stagliandosi per la prima volta dinanzi ai suoi occhi? Sino a che punto era in grado, a pochi giorni dal proprio sbarco, di evitare la mera applicazione delle proprie categorie interpretative a opere che bene o male erano nate sotto un altro cielo? E come poteva provare a sfuggire al circolo vizioso a cui, d’altronde, la cultura europea sembrava costretta da secoli? Vale la pena di rammentare, a questo proposito, che tanto i conquistadores spagnoli guidati da Hernán Cortés che presero Tenochtitlán (per poi raderla al suolo onde sostituirla con Città del Messico), quanto Amerigo Vespucci, nel penetrare nel 1499 nel lago di Maracaibo, non seppero far di meglio che riconoscere tanto nell’enorme capitale degli aztechi tanto nelle palafitte indigene dell’attuale Venezuela le sembianze, per l’appunto, di Venezia (Pisani 2015; Id. 2016). E anche se dalla ‘scoperta’ erano ormai passati diversi secoli, di fronte a qualcosa di ignoto la tendenza era (e del resto lo è tuttora) a ricondurlo a qualcosa di noto. “The Architectural Review” proponeva più o meno allora un parallelo tra la Casa Cavalcanti di Oscar Niemeyer e la Chiswick House di Lord Burlington (Cavalcanti House 1944, 130), e qualcosa di non molto diverso si riscontrerà, come vedremo, nella ricezione dell’architettura brasiliana sulle riviste italiane.
Lina Bo Bardi sarà davvero capace di arrivare a ‘vedere con occhi nuovi’; ma questa capacità sarà una difficile conquista. Arriverà anzi persino a disconoscere la propria patria di origine, dichiarando che “Quando si nasce, non si sceglie nulla, si nasce a caso. Io non sono nata qui [in Brasile], ho scelto questo luogo per viverci. Per questo, il Brasile è il mio paese due volte, è la mia ‘patria d’adozione’” (Bo Bardi [s. d.] 1993, 12). Nel momento in cui scriveva a Bottoni, tuttavia, il suo lento, lungo processo di ‘abrasileiramento’ non era ancora nemmeno iniziato. A dimostrarlo stanno le categorie stesse con cui per anni continuò anche lei a inquadrare l’architettura brasiliana, deformandola sino a trasformarla in un ideale rovescio dell’Italia del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale. Particolarme sintomatica è l’immagine, ricorrente nei suoi scritti, delle rovine. Nel suo primo, programmatico editoriale per “Domus”, Rogers scrisse: “Chi fa un viaggio in Italia […] vede un immenso sfacelo: rovine e rovine”. Si trattava allora di ricostruire, tanto materialmente come moralmente, l’Italia: si trattava, diceva, “di costruire una società” (Rogers 1946, 2-3). Analogamente, nell’editoriale del primo numero di “Costruzioni” sotto la direzione di Franco Albini e Giancarlo Palanti – testo non firmato ma verosimilmente da attribuire alla loro mano – si leggeva: “Quasi il mondo intero è ricoperto di rovine e il compito e i compiti della ricostruzione sono immensi: si tratta di far sorgere veramente da queste rovine la ‘città di domani’ e l’architettura di domani; altrimenti si perderà anche questa occasione, unica nella storia dei millenni trascorsi…” (Costruzioni Casabella riprende le sue pubblicazioni 1946, 2). Ora, è proprio l’immagine delle rovine a ricomparire quasi ossessivamente nelle parole di Bo Bardi, già nel titolo del primo testo in assoluto da lei pubblicato in Brasile, Na Europa a casa do homen ruiu, poi ripreso nel Curriculum literário (composto dall’assemblaggio di testi risalenti a epoche diverse): “La casa dell’uomo è andata in rovina […]. In Italia le case andavano in rovina, lungo le strade dell’Italia, in Europa, le case andavano in rovina; in Francia le case andavano in rovina, in Inghilterra e in Russia; in Europa le case dell’uomo andavano in rovina” (Bo Bardi [s. d.] 1993, 10). Stagliato su questo sfondo, l’approdo in Brasile veniva a coincidere con la scoperta di un paese in cui le ferite del Vecchio Mondo non si erano mai prodotte: “Mi sono sentita in un paese inimmaginabile, dove tutto era possibile. Mi sono sentita felice, e a Rio non c’erano rovine” (ivi, 12). Retrospettivamente, persino Brazil Builds le era apparso, riandando ora con la memoria al giorno in cui l’aveva scoperto, “come un faro di luce che risplende in un campo di morte” (ivi, 12). A un’Italia vista come una terra in rovina, contrapponeva il Brasile in quanto paese rimasto intoccato dalla tragedia. Pur ignorando ancora quasi tutto della sua scena architettonica, proponeva subito di divulgarla in patria. Ma si trattava, occorre ribadirlo, di un Brasile sconosciuto, ad uso di un dibattito ancora tutto interno al suo paese di provenienza.
Non si può quindi non scorgere una forte ambiguità tra il desiderio di arricchire il dibattito nazionale e la propensione a dare conferma, per il tramite di esempi scovati dall’altra parte dell’Atlantico, a ipotesi precostituite. La risposta alle proprie domande poteva risiedere, ad esempio, nella (almeno presunta) estraneità del Brasile (e della sua architettura) rispetto alla catastrofe europea. Si trattava in prima istanza di selezionare opere straniere chiamate a svolgere un determinato ruolo in un discorso elaborato da architetti italiani per altri architetti italiani. Come mostra proprio l’esperienza di Lina Bo Bardi, una radicale messa in discussione dei propri presupposti era naturalmente possibile, ma solo al termine di un processo lungo e complesso anche per quelli che, come lei, sarebbero stati in grado di compierlo. La resistenza alla novità del nuovo, la tendenza a inquadrare l’ignoto nelle forme del noto, questo è quanto dovremo invece, inesorabilmente, aspettarci di norma.
3. Circoli viziosi. L’architettura brasiliana sulle riviste italiane
Non abbiamo qui di seguito la pretesa di offrire un quadro assolutamente esaustivo a proposito della circolazione dell’architettura brasiliana tra le pagine delle riviste italiane del dopoguerra – qualcosa può esserci sfuggito – e tanto meno di operare un confronto con quanto avvenuto in altri paesi. Vorremmo limitarci a segnalare ciò che abbiamo riscontrato, soffermandoci soprattutto sui casi più significativi, quelli che – come vedremo – ci aiuteranno a cogliere le difficoltà in cui la cultura architettonica italiana si dibatteva nello sforzo di render conto di una produzione che faticava a inquadrare nelle proprie categorie interpretative. Nel far questo, faremo ampio riferimento ad alcune ricerche che hanno preceduto quella presentata in queste pagine, e in particolare all’esaustivo saggio dedicato a tale tema da Clelia Pozzi (sulla ricezione dell’architettura brasiliana più in generale a livello europeo, rimandiamo invece ai diversi contributi di Ana Esteban Maluenda).
Ci concentriamo qui soprattutto su quanto avvenuto tra il 1946 e il 1949 (non senza tuttavia precluderci la facoltà di compiere incursioni in un arco di tempo più ampio). Si tratta di un periodo particolare, oltre che breve, a metà tra la cesura costituita dalla guerra e la più estesa – anche se sempre limitata – divulgazione dell’architettura brasiliana sulle riviste italiane che caratterizza gli anni Cinquanta, soprattutto ad opera di “Domus”. Si tratta di un periodo breve, ma fondativo. Le difficoltà in cui incorrono le riviste italiane nel loro sforzo (non troppo marcato) di comprendere l’architettura brasiliana appaiono in tutta la loro evidenza, senza essere ancora attenuate dall’apertura di ulteriori canali di scambio culturale che avverrà, seppur faticosamente, con gli anni. L’ipotesi che guida la stesura di questo saggio è che l’esiguità dei contributi dedicati all’architettura brasiliana sulle riviste italiane sia un primo, ineludibile fattore di cui tener conto. E che un’analisi di questi pochi contributi sia in grado di rilevare le ragioni di quello che possiamo tranquillamente definire un dialogo mancato.Il principale dato di fatto è che l’architettura brasiliana, sulle riviste italiane dell’epoca, appare solo di rado. “Metron”, a dire il vero, nel lasso di tempo qui considerato le dedica due contributi, che, considerata la rivista, non sono pochissimi. Se il secondo è rappresentato da un breve testo anonimo dedicato al primo allestimento di Lina Bo Bardi per il MASP (Architetti e critici 1948), di cui ci occuperemo più avanti, il primo, assai asciutto e distante, consiste solo in una rapida descrizione del programma ottemperato da Niemeyer nel progetto di concorso per il Maracaná, seguita da un tocco invero assai blando di colore locale, costituito dall’osservazione che il progetto è stato concepito in modo tale da risultare “aderente al clima brasiliano”, con la gradinata nord assai più sviluppata di quella sud (Tedeschi 1945; all’adattamento al clima è dedicato anche il primo, breve articolo della “Casabella” di Rogers all’architettura brasiliana, Facciate secondo l’orientamento, del giugno del 1946) [Fig. 4].
Non certo un esempio di quella critica che Baudelaire voleva “partiale, passionnée”. D’altro canto, nessuno dei membri del comitato direttivo della rivista ci sembra aver nutrito un interesse particolare per l’architettura brasiliana; certo, Enrico Tedeschi, autore dell’articolo, sarebbe emigrato lui stesso in Argentina (Liernur 1995), paese di cui avrebbe contribuito a divulgare l’architettura sulle pagine de “L’architettura. Cronache e Storia” (Tedeschi 1957); ma, per quel che riguarda chi teneva le redini di “Metron”, Bruno Zevi avrebbe continuato a mostrare nel corso degli anni una pervicace ostilità nei confronti dell’architettura brasiliana, che avrebbe probabilmente toccato il proprio apice nelle invettive contro Brasília “città di Kafka” (v. Zevi [1959] 1971, 410; inoltre almeno Id. [1955] 1971; Id. 1964).Al di là delle preferenze di uno studioso quanto mai idiosincratico quale Bruno Zevi, tuttavia, a rendere difficile la ricezione dell’architettura brasiliana era la sua recente irruzione sulla scena. Prima di Brazil Builds e della disseminazione di contributi sulle riviste di mezzo mondo che seguì (ma il tutto era avvenuto in soli due o tre anni), agli occhi del resto del mondo l’architettura brasiliana non esisteva.
Nel contesto di una messa in discussione della koiné dell’International Style e dell’affiorare di nuove istanze, come quella della New Monumentality, il suo successo era stato repentino, e sarebbe durato per alcuni anni, se ancora nel 1952, nel testo introduttivo al numero 42-43 de “L’Architecture d’aujourd’hui”, il suo direttore André Bloc sostenva che il Brasile era “la terre d’élection de l’architecture contemporaine la plus nouvelle et la plus audacieuse”. Ma questo successo si stagliava contro un’ignoranza del tutto giustificata, o per lo meno comprensibile. Se ad esempio proviamo a fare qualche passo indietro, quel che ci troviamo dinanzi – malgrado qualcosa ci debba essere certamente sfuggito – è un silenzio davvero quasi assoluto. A inizio anni Trenta, su “Domus” era comparsa una breve segnalazione – il testo consta di quattro sole righe – relativa alla casa costruita a São Paulo da Gregori Warchavchik per se stesso (Architettura moderna al Brasile 1933, 177); negli stessi anni, era uscita anche – ma non su una rivista di architettura, bensì su “Le vie d’Italia e dell’America Latina” del Touring Club Italiano – una serie di articoli di Giuseppe Vincenzo (alias José) Vicari, tra cui un paio in cui veniva affrontata anche l’architettura (Vicari 1930; Id. 1931); Vicari, si badi, era stato compagno di studi di Carlo Enrico Rava, Giuseppe Terragni, Piero Bottoni e Rino Levi presso la Scuola di Applicazione per Architetti Civili di Milano, e nel secondo dopoguerra sarebbe stato figura di una certa importanza sulla scena architettonica paulista, tanto come docente presso la Faculdade de Architetura e Urbanismo della Universidade des São Paulo (FAU USP), quanto come pubblicista su “Acrópole”.
Nel 1939, usciva poi un articolo di Bernard Rudofsky – vero e proprio hapax, questo, a livello internazionale – sulle pagine della “Casabella” di Giuseppe Pagano; per il resto, a quanto ci consta, è difficile trovare più che rapidi accenni. È questo il caso, ad esempio, di Ernesto Lapadula, che negli anni del regime aveva pubblicato, all’interno di un reportage fotografico della New York World’s Fair del 1939 per “Architettura”, la rivista del Sindacato Nazionale Fascista Architetti, il padiglione brasiliano di Lucio Costa e Oscar Niemeyer, e che nel dopoguerra dirà di essere stato uno dei tanti a trovarsi “sbalordito” dinanzi al Ministério da Educação e Saude di Rio (Lapadula [1948] 1986, 38)*. Nel frattempo, sempre il padiglione di New York aveva fatto una fuggevole comparsa anche sulle pagine del numero monografico dedicato da “Casabella” a L’architettura delle mostre. Ma lo aveva fatto come un caso tra i tanti, degno di essere riportato, certo, ma nulla più di questo. I due articoli più lunghi dedicati ad opere pensate per il Brasile che compaiano sulle riviste italiane del Ventennio, per contro, si riferiscono ad opere che rientravano o che venivano fatte rientrare anche a costo di forzature all’interno di un dibattito tutto interno alla coeva architettura italiana. È il caso – in entrambi i casi sulle pagine di “Architettura” – del progetto per la Città Universitaria di Rio de Janeiro, elaborato da Marcello Piacentini e Vittorio Ballio Morpurgo (Piacentini, Morpurgo 1938), che per questa ragione si recarono a più riprese nella capitale brasiliana, e di una selezione di opere di Rino Levi, architetto di nazionalità brasiliana, per quanto di origini italiane e formatosi in Italia, ma che Pasquale Carbonara faceva passare senza meno come “italiano” (Carbonara 1938, 275), non senza far notare che “il confronto di quest’opera con altre dovute alla produzione architettonica brasiliana di tutti i giorni tornerebbe a tutto vantaggio dell’architetto Levi”. In una prospettiva nazionalista, accentuata dall’autarchia, quel che compariva nelle riviste italiane dell’architettura brasiliana, se non era opera di architetti italiani, lo era di architetti fatti passare per italiani. Se si eccettua lo sforzo di apertura compiuto da Alberto Sartoris nel suo Elementi dell’architettura funzionale (Sartoris 1932), nei confronti dell’altro, per lo meno nella sua versione brasiliana, in Italia non sembra sussistere il minimo interesse. E del resto, come in fondo lasciava intendere Carbonara, il meglio che si potesse riscontrare nell’architettura realizzata in Brasile era stato creato da un nostro connazionale.
Ed è vero che il primo “manifesto” dell’architettura moderna brasiliana, Intorno all’architettura moderna di Warchavchik, era uscito sì in Brasile, ma in lingua italiana, nel giugno del 1925, e che pochi mesi dopo gli aveva fatto eco, quale secondo ‘manifesto’, A arquitectura e a esthetica das cidades, una lettera inviata al quotidiano “O Estado de São Paulo” da Rino Levi, che, nel momento in cui redasse la lettera, si trovava in Italia, dove peraltro aveva lavorato pure Warchavchik (Warchavchik 1925; Levi 1925). Come è pur vero che tra il Fascismo e l’Estado Novo di Getúlio Vargas vi era stata più di qualche vaga affinità, e che le relazioni tra i due paesi aveva avuto delle ricadute anche nel campo dell’architettura, come attestato in primis proprio dai progetti elaborati da Marcello Piacentini e Vittorio Ballio Morpurgo per il Brasile (Tognon 1999; Nicoloso 2018), tra cui quello appena menzionato per la Città Universitaria; ma, oltre al fatto che nel corso della Seconda Guerra Mondiale tali relazioni erano state bruscamente interrotte, si trattava di scambi affatto asimmetrici: se il Brasile guardava almeno in parte all’architettura italiana, l’Italia ignorava l’architettura brasiliana.
Nel dopoguerra, la sensazione è che la situazione si ribalti: come stiamo vedendo, l’interesse nutrito in Italia per l’architettura brasiliana era blando, ma con ogni evidenza molto maggiore di quello dimostrato dalla cultura architettonica brasiliana nei confronti di quanto avveniva nel nostro paese. D’altro canto, tutto impegnato a definire per il mezzo dell’architettura una presunta ‘identità’ nazionale, il Brasile avrebbe proseguito a lungo per questa strada, che lo avrebbe portato a contare su grandi figure, ma anche ad avere un dibattito settoriale tendenzialmente insulare e autoreferenziale. Ancora oggi, la formazione dell’architetto in Brasile assegna alla conoscenza dell’architettura nazionale un’importanza che è difficile riscontrare altrove.
Se ora torniamo alla ricezione dell’architettura brasiliana nell’Italia dell’immediato dopoguerra, risulterà ormai chiaro come a far difetto fossero sia una conoscenza diretta dell’oggetto in questione, quanto una rete concettuale grazie a cui organizzare i fatti: come fare, infatti, a inserire le magnifiche opere che stavano iniziando a circolare tra le redazioni delle riviste di mezzo mondo all’interno di un discorso critico? Il problema, naturalmente, non era solo italiano. In quegli stessi anni, in un contesto peraltro caratterizzato da un crescente interesse nei confronti delle esperienze altrui, il fenomeno della ricezione dell’architettura brasiliana si verificava un po’ in tutto il mondo. E alcune ricerche recenti hanno mostrato che in ogni paese questa ricezione fu profondamente diversa. Ad esempio, se in Colombia, tramite riviste come “Proa” e “Revista A”, a imperare fu il ‘canone’ costituito dalla cosiddetta Escola Carioca, e in particolare dall’opera di Niemeyer (Botti 2019; Id. 2021, 287-292), in Cile a destare l’interesse della redazione di “Arquitectura y Construcción”, che al tema dedicò una serie di articoli tra il 1947 e il 1948, fu invece la produzione di Rino Levi e dei fratelli Roberto (Torrent 2011). Da un lato, l’architettura brasiliana veniva pertanto veicolata dalle riviste come modello di esuberanza formale, dall’altro, invece, di sobrietà e di continuità con la tradizione. D’altro canto, la propensione a fornire a ciascuna comunità nazionale una certa idea dell’architettura brasiliana che si riscontra nelle coeve pubblicazioni periodiche dipende anche – in un circolo che è insieme vizioso o virtuoso, a seconda di come lo si considera – dagli ‘oggettivi’ scambi tra la scena culturale brasiliana e le altre. Ad esempio, molti architetti colombiani, all’epoca, si recavano effettivamente in Brasile per visitarlo, e numerosi studenti colombiani vi andavano addirittura per studiarvi, scegliendo come meta preferenziale Rio de Janeiro (Botti 2017; Id. 2019, 738-748), implementando così la già invalsa preminenza della cosiddetta Escola Carioca.
L’Italia, per conto suo, era molto più lontana. Un gruppo di architetti brasiliani, nel 1947, si recò in tournée in Europa, con tanto di visita a Milano in concomitanza dell’ottava Triennale, dove numerose opere di architettura brasiliana erano esposte presso la Mostra Internazionale Fotografica dell’Architettura allestita al Palazzo dell’Arte (Excursão Cultural de Arquitetos à Europa 1947, 5; Catalogo Guida T8 1947, 40-46). Alcune significative figure dell’architettura italiana si trasferirono – per un periodo o per sempre – in Brasile; ma queste figure, per quanto significative, si contano sulle dita di una mano, o poco più. Per lo meno nel periodo qui preso in esame, i canali diretti tra l’architettura brasiliana e quella italiana erano davvero assai limitati; le cose sarebbero poi cambiate con gli anni Cinquanta, ad esempio con le lezioni di Pier Luigi Nervi organizzate dall’Instituto de Arte Contemporânea del MASP, con il coinvolgimento di Gio Ponti in alcuni progetti per São Paulo, come quello del 1952 per l’Instituto de Física Nuclear da Universidade de São Paulo e, l’anno dopo, quello di concorso per l’Edifício Itália, peraltro accanto ad altri architetti italiani (K.P. Costa 2020), o con i viaggi di diversi architetti italiani, come Rogers, sempre a São Paulo, in occasione delle varie edizioni della Bienal de São Paulo (Herbst 2011, 88; Pisani 2019, 130, 141). Ma a questo punto ci veniamo ormai a trovare in una fase successiva a quella qui esaminata.
Non a caso, quello compiuto da Lina Bo Bardi con “Domus” fu, come abbiamo detto, un tentativo fallimentare: un’ottima idea, che però non sarebbe stata accolta se non solo in parte e molto più tardi, con le quasi cento pagine del Rapporto Brasile edito sul numero 6 di “Zodiac” del 1960 (su cui v. Braga 2010, 83-117), quando ormai l’interesse per l’architettura brasiliana era già da tempo in declino e quando numerose altre riviste straniere avevano già reso il servizio indicato da Bo Bardi. A muoversi, ‘rubando’ all’Italia il primato, sarebbe infatti stata la ‘concorrenza’. Certo, riviste come “The Studio”, “Architectural Record” e “The Architectural Review” si erano già mosse. Ma un ruolo chiave in questo processo lo svolse soprattutto la Francia, la cui rivista più prestigiosa, “L’Architecture d’aujourd’hui”, dedicò al tema ben due numeri monografici, il 13-14 del settembre 1947 (peraltro pubblicato il mese successivo anche in Argentina, in spagnolo, come “La Arquitectura del Hoi”) e il 42-43 dell’agosto 1952, a cui va aggiunta almeno un’intera sezione del 18-19 del giugno 1948 (in cui al Brasile si affianca, tra l’altro, l’Argentina); nel 1947, anche “The Architectural Forum” le dedicava un numero intero, l’11.
Salvo rari casi – ed ecco l’importanza eccezionale svolta da corrispondenti o conoscenti che risiedessero all’estero – le riviste dell’epoca dovevano però ovviare al problema, oggi difficile anche solo da concepire, della mancanza di adeguate informazioni. Ad esempio, in un articolo edito sul finire del 1946 su “Progressive Architecture”, si faceva notare che l’azzurro degli azulejos della cappella di São Francisco a Pampulha, di Oscar Niemeyer, purtroppo non poteva venire riprodotto nelle foto in bianco e nero lì pubblicate (Chapel of St. Francis 1946, 54). In un breve articolo sullo stesso tema e di poco anteriore scritto sulle pagine di “Stile”, Carlo Perogalli dichiarava invece di non essere in grado di valutare l’eventuale “importanza” svolta dal colore nell’opera di cui trattava – sempre la cappella di São Francisco – ammettendo candidamente che la ragione di questa sua incertezza andava ricondotta al fatto che “le fotografie non [la] documentano” (Perogalli 1946, 14). Le uniche immagini a sua disposizione, per dirla in altri termini, dovevano essere in bianco e nero [Fig. 5].
Sempre a proposito del repertorio iconografico allora a disposizione, non è certo un caso se numerose riviste – francesi, italiane, tedesche… – continueranno a lungo a usare le fotografie scattate da Kidder Smith per Brazil Builds (Braschi 2016, 39). E questo ci porta a un tema ulteriore, a cui possiamo qui fare solo un rapido cenno: la tendenza a veicolare immagini stereotipate di un certo contesto sul medium rivista – e rivista va intesa in questo caso come una rete – provocata dalla mancata pluralità di sguardi fotografici. Questione, questa, che però non riguardava solo le fonti iconografiche. Ancora nel 1954, per introdurre il proprio celebre Report on Brazil, la redazione di “The Architectural Review” avrebbe giustificato la scelta di fare ricorso alla testimonianza diretta di “autorevoli” visitatori europei con la scarsità in informazioni di prima mano e attendibili: “From Europe our view of the new architecture of Brazil is almost as misty and romantic as was our forefathers’ […]. To the European architect few creatures could appear as fabulous as his Brazilian counterpart […]. Our trouble is the lack of authoritative eye-witnesses”.
È assai significativo che, fatta salva l’eccezione più unica che rara costituita dall’articolo di Perogalli, i contributi sull’architettura brasiliana che si trovano sulle riviste italiane dell’epoca siano tutti riconducibili ad architetti italiani (o formatisi in Italia) che avevano avuto modo di vedere di persona le opere di cui parlavano – quanto di meglio si potesse pretendere, insomma, in mancanza di veri e propri corrispondenti – o che per lo meno erano in stretto rapporto con i loro autori. Alla seconda fattispecie va ricondotto Carlo Pagani, a lungo amico e socio di Bo Bardi e autore nel 1947, sulla “Domus” ancora di Rogers, del breve articolo Due ville in Brasile, dedicato appunto a due residenze rispettivamente opera di Álvaro Vital Brazil e di Rino Levi (Pagani 1947). Alla prima fattispecie vanno invece ricondotti diversi articoli di Luigi Claudio Olivieri, e più tardi – ma ormai al di fuori del periodo qui preso in considerazione – una vasta serie di testi di Gio Ponti; siamo inoltre a conoscenza anche di alcuni tentativi falliti, come quello compiuto da Giancarlo Palanti, che a inizio 1947, arrivato a São Paulo da pochi mesi, si premurava di raccomandare al suo amico e vecchio socio Franco Albini la pubblicazione su “Casabella”, o in alternativa su “Metron” o su di una non precisata rivista studentesca (doveva trattarsi con ogni probabilità dei “Quaderni degli Studenti della Facoltà di Architettura di Milano”, che tuttavia allora avevano già chiuso i battenti dopo soli due numeri, ma che Palanti conosceva bene, visto che sul suo numero “A” erano state pubblicate alcune sue proposte di riforma della scuola: v. Perogalli 1945, 20-21), di alcuni dei migliori progetti paulistas dell’epoca – e, in particolare, di quello per la Maternidade Universitária da Faculdade de Medicina da Universidade de São Paulo, di Rino Levi (Coelho Sanches 2004, 101).
Quando poi, ormai nel 1953, comparirà su “Domus” un articolo su una casa di un architetto ancora ampiamente sconosciuto al pubblico italiano come Henrique Mindlin (Caratteri di architetture Brasiliane 1953, 4-7), lo farà a sole quattro pagine di distanza da un articolo dedicato a un edificio di appartamenti di Palanti (Edifici ed appartamenti a San Paolo 1953, 12-14). La compresenza di due opere brasiliane sullo stesso numero della stessa rivista italiana potrebbe anche essere un caso, raro ma non per questo impossibile. A creare più di un sospetto, tuttavia, è il legame tra questi due architetti: intorno al 1954, infatti, essi diventeranno soci (Coelho Sanches 2004, 208-268). Ed ecco il sospetto: non sarà che a far da tramite con “Domus” fosse proprio Palanti, magari segnalando a Ponti la produzione di un collega che trovava così interessante da finire, da lì a poco, per sceglierlo come partner?
Per alcuni anni, comunque sia, la penna più impegnata a raccontare ai lettori italiani qualcosa dell’architettura brasiliana fu senza dubbio quella di Olivieri. Formatosi in architettura a Milano, aveva aperto uno studio in città inseme a Renato Angeli e Carlo De Carli. I tre colleghi si erano ben presto fatti notare e i loro progetti avevano iniziato a venire pubblicati su “Domus” (v. ad esempio Alcuni mobili tipici 1940; Un arredamento signorile 1940; Il Concorso Masonite per Mobili d’Ufficio 1940; L’ufficio è il luogo dove si vive 1940; cfr. anche Olivieri 1944a; Olivieri 1944b) e su “Lo Stile” (Tendenze in Italia 1942; Villa alta sul mare 1942; Angeli, De Carli, Olivieri 1942). Negli anni della guerra, come risulta dall’elenco degli indirizzi degli studi di architettura presente nel retro di copertina di ogni numero de “Lo Stile”, Angeli De Carli e Olivieri condividevano il luogo di lavoro con Pagani e Bo al numero 12 di Via del Gesù. Nel 1946 Olivieri era stato anche autore del quinto volume, L’illuminazione della casa, della collana dei “Quaderni di Domus” diretta da Bo e Pagani (Olivieri 1946); nello stesso anno si trasferì in Brasile. Da una lettera di Giancarlo Palanti a Franco Albini, Maurizio Mazzocchi e Carlo Pagani del febbraio del 1947, veniamo a sapere che il mittente aveva l’intenzione, poi abbandonata, di aprire uno studio a São Paulo proprio insieme a Olivieri (Coelho Sanches 2004, 100). Le cose nel Nuovo Mondo non dovevano però essere andate per il verso giusto, e Olivieri era ben presto tornato in Italia, non senza aver fatto tesoro di una certa conoscenza della coeva architettura brasiliana. Non a caso, fu proprio lui a redigere almeno tre testi sul tema.
Al primo di essi (introdotto da un breve editoriale di Gio Ponti, ormai ritornato direttore di “Domus”, e seguito da una scheda dedicata al Pedregulho di Affonso Eduardo Reidy), Olivieri assegna il compito di tracciare una sorta di quadro d’insieme. Si tratta dell’articolo Una nazione balza in testa all’architettura moderna, uscito su “Domus” nel 1948 [Fig. 6]. Malgrado il titolo, il giudizio espresso da Olivieri sull’architettura brasiliana non è affatto univoco. Riprendendo quello che era ormai quasi un topos (“From modest beginnings, the movement, happening to coincide with a building boom, spread like brushfire”, si trovava scritto, ad esempio, in Brazil Builds (Goodwin 1943, 81)), riconosceva il livello da essa raggiunto in pochissimo tempo, in cui – scriveva – ha letteralmente “saltato le tappe”. Ma questo apparente elogio si ritorceva contro il suo oggetto, perché Olivieri riconduceva il rapido sviluppo del modernismo brasiliano al carattere provinciale e prono alle novità straniere, soprattutto francesi, proprio della “élite brasiliana”, spinta dal suo stesso “complesso di inferiorità […] ad abbracciare con entusiasmo ogni tendenza che sembri rappresentare l’ultimo grido dell’intellettualismo francese”. Perché per Olivieri l’architettura brasiliana proveniva in ultima istanza da Le Corbusier:
L’architettura moderna è colà fiorita con l’improvvisa prepotenza tropicale, si può dire, che han preso alcune specie vegetali allogene trapiantate colà e che hanno trovato nel caldo ed umido ambiente dei tropici le condizioni per un impensato sviluppo (Olivieri 1948, 2-3).
Nulla di originale nemmeno in queste parole, a ben vedere, in cui risuona anzi un ulteriore topos, che peraltro continua a permeare molte letture dell’architettura brasiliana, troppo spesso tuttora intesa come il frutto del trapianto su di un suolo particolare e particolarmente fertile, un rigoglioso terreno tropicale, dell’universo figurativo approntato da Le Corbusier, che – aggiungeva, per l’appunto, Olivieri – “aveva gettato il seme delle sue idee tra un ardente gruppo di giovani” [Fig. 7].
Probabile che l’ambivalente lettura di Olivieri risenta della sua esperienza personale: in fondo, senza che se ne sappiamo bene le ragioni, era rimasto affascinato dal Brasile, ma ne era pure stato respinto o deluso; o comunque, aveva deciso di non trascorrervi il resto della propria vita. Ma nella sua interpretazione dell’architettura brasiliana, come abbiamo notato, si avverte anche la presenza di costruzioni storiografiche non apertamente menzionate e, soprattutto, adottate senza averne colto davvero le ragioni. Alle letture elaborate nel Brasile stesso, le più importanti delle quali portavano la firma di Lucio Costa (Piccarolo 2014; Ead. 2020), si era aggiunta e intrecciata a partire dalla mostra del MoMA Brazil Builds e del suo celebre catalogo una tradizione interpretativa che, per ragioni di smaccata natura geopolitica, nel Brasile ambiva a riconoscere (e del Brasile si riproponeva di fare) un potenziale partner politico degli Stati Uniti (Liernur 1999). Impegnati nella Seconda Guerra Mondiale, infatti, essi avevano assolutamente bisogno di stabilire buoni rapporti con i restanti paesi del loro continente; e la cultura venne individuata come un ideale veicolo per implementare, nel momento del bisogno, la loro “good neighbour policy”. È in questo quadro che si inseriva la grande mostra del MoMA, in cui l’architettura dell’enorme paese sudamericano veniva presentata in termini tutt’altro che disinteressati. Anche se a onor del vero, e malgrado tutti i suoi limiti, la lettura offerta da Brazil Builds era così ricca e vasta da lasciarne trapelare anche aspetti non direttamente subordinati a una preconcetta costruzione interpretativa [Fig. 8].
E anzi, a lungo il catalogo del MoMA sarà l’opera non solo più diffusa, ma anche quella più stimolante sul tema. Per alcuni anni non vi fu altra pubblicazione di valore comparabile, malgrado il continuo allargamento del repertorio offerto dai numeri monografici di alcune riviste internazionali già citate (e in particolare “L’Architecture d’aujourd’hui”), che culminerà poi, nel 1956, con Arquitetura moderna no Brasil di Mindlin, programmaticamente uscito sia in francese che in inglese e in tedesco: un libro che in un certo senso chiudeva un ciclo, proprio quando un altro – quello caratterizzato da Brasília – si stava per aprire. Quello che non cambiava malgrado il continuo allargamento del repertorio era invece il quadro interpretativo, che per certi versi continuava a rimanere ancorato al ‘mito di fondazione’ costituito dal trapianto ai tropici di motivi lecorbusieriani. Nella misura in cui non si limitava a riconoscere l’importanza di Le Corbusier, ma finiva per assegnargli il ruolo di un predestinato, che aveva finito per fecondare – e si noti la costruzione teleologica – un terreno ancora sterile, per quanto ricco di potenzialità, lo stesso Olivieri si allineava a una tradizione interpretativa che, con la sua combinazione di maschilismo ed eurocentrismo, era ed è ancora imperante, e pure tra i brasiliani.
Occorrerà attendere ancora qualche anno per sentire finalmente Giulio Carlo Argan asserire che “non si può sbrigativamente liquidare considerando l’edilizia brasiliana come una fiorente colonia dell’europea, con Le Corbusier per vicerè” (Argan 1954, 48), o per vedere Henry-Russell Hitchcock inserire la produzione del continente latino-americano all’interno degli sviluppi complessivi dell’architettura degli ultimi due secoli in una posizione non subordinata (v. Hitchcock 1958; a tale riguardo, v. almeno del Real 2011; Maluenda 2019b, 56-59).
La persistenza di tale mito è peraltro tra le concause del mancato incontro tra cultura architettonica brasiliana ed italiana. Se l’impatto dell’architettura brasiliana su quella italiana dell’epoca ci sembra essere stato così limitato da risultare impossibile da tracciare, insomma, è per l’intrecciarsi di varie ragioni: la distanza fisica e la difficoltà di approvvigionarsi di fonti di prima mano; la distanza culturale e la difficoltà di interpretare con categorie idonee l’architettura di un paese pressoché sconosciuto; l’ingannevole sensazione di una forte prossimità dell’architettura brasiliana e di una sua derivazione europea o, come stiamo per vedere, addirittura italiana; lo specchio deformante con cui arrivava il poco che arrivava dell’architettura brasiliana, vuoi che si trattasse della deformazione imposta dalle strategie geopolitiche degli Stati Uniti, vuoi che si trattasse di quella effettuata ab origine da chi fu per primo in grado di dar voce a quella architettura, a partire da Lucio Costa. Se in Italia l’architettura brasiliana fu a lungo scarsamente divulgata – e quella del resto del continente latino-americana fu assente, o quasi – e, comunque, fraintesa (il primo e soprattutto unico articolo del periodo o quasi e dal taglio davvero scientifico a nostra conoscenza è Sviluppo e problemi di S. Paolo di Carlos Lodi, uscito nel 1951 su “Urbanistica”), non fu quindi solo e tanto per il sommarsi di tanti demeriti individuali, quanto e soprattutto per una difficoltà storicamente determinata. La conseguenza, purtroppo, fu l’impossibilità sia di trarne degli spunti (di accendere “la miccia del materiale esplosivo” che vi era “riposto”, avrebbe detto Benjamin), sia di poterla rivolgere contro se stessi come una critica. A restare furono solo conferme di un discorso già scritto: un circolo vizioso, in cui la mancata comprensione fungeva da pezza d’appoggio di un discorso forse già di per sé un po’ sbilenco. “In the Italian criticism of Latin American architecture of the mid-Twentieth Century” ha scritto a tale riguardo Clelia Pozzi “Latin America seems to be the great absent” (Pozzi 2015, 17).
Alla mancata presa dell’architettura brasiliana sulla cultura architettonica del nostro paese doveva peraltro contribuire, come in un circolo vizioso, la selezione stessa delle opere ritenute adatte a venire mostrate al lettore nostrano. Dei capolavori di Niemeyer e di Reidy – il cui Pedregulho, l’opera più pubblicata sulle riviste europee del secondo dopoguerra (Maluenda 2017), nel 1949 venne non a caso esposto al CIAM 7 di Bergamo (Mumford 2000, 185-187, 320 n. 257) – non veniva veicolato che troppo poco per coglierne la grandezza e avvertirne l’opera come una salutare ventata d’aria fresca, se non come un’irruzione sconvolgente [Fig. 1]. A comparire più spesso sulle pagine delle nostre riviste erano, piuttosto, opere di Vital Brazil, Levi e Rudofsky che, per quanto notevoli, non potevano certo produrre uno choc nel lettore italiano; e tanto meno povevano farlo le opere di un architetto italiano quale Daniele Calabi.
Definito un quadro generale sull’architettura brasiliana nel suo primo articolo, nel 1949, non a caso, Olivieri ne redigeva altri due. Se nel primo emergeva un forte eurocentrismo, nella forma di una tendenza irresistibile a far risalire ad origini europee l’architettura brasiliana, in questi altri due si riscontra un atteggiamento che del primo costituisce una forma specifica. Si tratta di due articoli dedicati a opere realizzate in Brasile da parte di un architetto italiano, che in Brasile aveva trascorso alcuni anni ma che poi, non appena gli era stato possibile, era ritornato in patria. L’architetto in questione è Calabi, che aveva optato per il trasferimento in Brasile all’indomani dell’entrata in vigore delle leggi razziali (come peraltro pensò di fare pure Vittorio Ballio Morpurgo: v. Nicoloso 2018, 77), ma che poi, un decennio più tardi, preferì ritornare nel suo paese di origine. In Brasile non era riuscito ad ambientarsi, per quanto vi avesse realizzato alcune opere di rilievo, tra cui alcune residenze. Ed è proprio ad alcune di esse che Olivieri dedicava i suoi articoli, non senza osservare che il Brasile era “un paese in cui l’architettura moderna ha avuto una sì sorprendente diffusione ma non ha ancora saputo trovare una fisionomia propria” (Olivieri 1949a, 6) e rimarcando la filiazione di queste opere da un non meglio specificato – ma inequivocabilmente pontiano – “spirito mediterraneo” (Id. 1949b, 8) [Fig. 9].
Per quanto in questi due articoli di Olivieri il tema sia solo tra le righe, in questione è la presenza, sul suolo brasiliano, di una sorta di doppio modernismo, o di un modernismo dalla doppia ascendenza: accanto alla genealogia lecorbusierana, su cui l’architetto milanese si era espresso a chiare lettere nel 1948, traspare qui l’esistenza, a suo modo di vedere, di una seconda genealogia tutta italiana. Anche questa costruzione era stata peraltro anticipata da Brazil Builds, dove però svolgeva una funzione marginale. Vi si riconosceva, certo, che al di là della preponderante ‘influenza’ francese, esercitata soprattutto per il tramite di Le Corbusier, vi era anche quella italiana (“Brazil became increasingly aware of the achievements of modern architecture abroad, not in France alone, but in Germany and in Italy”) e che soprattutto a São Paulo era evidente “the influence of Italy’s heavier, more pretentious modern style” (Goodwin 1943, 81). Ma l’idea che il catalogo intendeva far passare era che l’architettura brasiliana – così come quella statunitense – fosse il prodotto di una specificità americana, dovuta alle specifiche condizioni del Nuovo Mondo: storia, clima, geografia. Ed è questa la ragione, per inciso, per cui nella pubblicistica il brise soleil venne a rivestire tutta l’importanza che ebbe: si trovava, infatti, al punto di intersezione tra due diverse necessità, tendenzialmente contrastanti, quella di rintracciare la derivazione europea dell’architettura brasiliana e quella di rivendicarne l’alterità. Era la seconda necessità, naturalmente, a interessare in modo particolare gli estensori statunitensi del catalogo. Nei due articoli su alcune delle residenze di Calabi, Olivieri finisce invece per esemplificare la prospettiva deformante attraverso cui l’architettura brasiliana tendeva e tenderà a essere osservata dalle riviste italiane dell’epoca: una prospettiva al tempo stesso (ma le due cose sono strettamente legate) paulista-centrica e italo-centrica. Come abbiamo già notato, con rarissime eccezioni – la principale consiste senza dubbio nel tentativo compiuto da Gio Ponti di immettere qualche dose di “esuberanza” brasiliana nella “classicità” della nostra produzione architettonica (Ponti 1953e, 9) – oggetto di una parte cospicua degli articoli sull’architettura brasiliana sono, infatti, figure di origine italiana – alcune delle quali assai apprezzate anche all’estero (Maluenda 2012, 29; Ead. 2017) – e strettamente legate al loro paese di origine (come Levi), oppure emigrate in Brasile (come Calabi prima, Bo Bardi poi). Detto in altri termini: in Italia, in questi anni, del Brasile si conosce pressoché esclusivamente un’architettura fatta da italiani, o da quasi italiani, narrata da italiani per italiani: una sorta di specchio, insomma.
Non dovrà quindi stupire che Olivieri sminuisse la produzione architettonica del colosso sudamericano osservando, come abbiamo visto, come qui “l’architettura moderna ha avuto una sì sorprendente diffusione ma non ha ancora saputo trovare una fisionomia propria” (Olivieri 1949a, 6), o che Pagani, elogiando invece i protagonisti di un paese ormai “all’avanguardia della moderna architettura”, finisse però poi, quando cercava di render merito di questa sua affermazione, per far trasparire quanto poco aveva colto di tale architettura, tentando di contrapporre – in termini alquanto nebulosi – il carattere “naturalistico” dell’opera di Levi alla “architettura per l’architettura” di Vital Brazil (Pagani 1947, 67-68). E non ci si dovrà poi stupire se continuerà a restare difficile, per la cultura architettonica italiana, cogliere le ragioni di quella brasiliana, come ad esempio attestano le parole di Franco Albini, a São Paulo nel 1954:
Il Brasile non ha una tradizione culturale; dirò per inciso che, se una tradizione si può trovare, risiede, a mio avviso, non nella classe dirigente economica di recente formazione, costituita dai bianchi, ma nel vastissimo sottostrato delle classi povere, costituite prevalentemente dai negri, i quali hanno trapiantato con grande forza la loro civiltà africana in Brasile con i loro riti, i loro canti, le loro danze: sono qui, secondo le mie impressioni, le possibili radici di una tradizione ancora da sviluppare (Albini [1954] 2016, 77).
Le parole di Albini contenevano in verità una possibile apertura, quella nei confronti della cultura popolare: e sarà proprio in questa direzione che si muoverà sempre più Bo Bardi. Di norma, tuttavia, traspariva una non dichiarata fede nella superiorità della propria cultura, come nel caso della lettera che il 7 novembre 1946 Pietro Maria Bardi inviava a Giuseppe Ungaretti (che in Brasile aveva vissuto a lungo, traendone peraltro notevoli spunti per la sua poetica: oltre a vari contributi di Luciana Stegagno Picchio, v. almeno Baroncini 2008, 145-148): “Il Brasile è in attività, sorprendente attività: è un grande paese che ha bisogno di umanesimo. La cultura potrà far molto, anzi dovrà fare” (cit. in Pozzoli, 2014). Affermazione, questa, che rivela un atteggiamento benevolo ma a dir poco paternalistico, come risulta evidente se ci si chiede da chi mai potrebbe provenire quel contributo in termini di “umanesimo” di cui il gigante sudamericano necessiterebbe, a parere di Bardi. Il Brasile, nelle sue parole, è implicitamente una ‘periferia’, che un ‘centro’ come l’Italia potrebbe illuminare.
In questa ottica, l’architettura – o meglio, il modo in cui si riteneva venisse praticata in Brasile – era vista come una disciplina a cui i nostri connazionali stavano apportando, con i loro contributi, un notevole miglioramento. Le cose, naturalmente, sarebbero ben presto cambiate. A partire dagli anni Cinquanta, con l’accumularsi di informazioni su scene culturali sino ad allora poco conosciute, ma anche e soprattutto con la crescente circolazione di persone e informazioni a scala globale, anche la quantità e la qualità delle informazioni relative all’architettura brasiliana sarebbero aumentate considerevolmente. Come abbiamo anticipato, sarà soprattutto “Domus” a riportare con una certa regolarità informazioni su quanto stava accadendo nel grande gigante latino-americano; e a partire dalla notizia della costruzione ex novo della nuova capitale del paese – quella che sarà Brasília – l’interesse nei suoi confronti, per alcuni anni, sarà quasi ossessivo, in Italia come nel resto dell’Occidente, per poi iniziare a spegnersi di nuovo. Ma proprio per le ragioni che stiamo dicendo, con gli anni Cinquanta saremo inevitabilmente entrati in una nuova epoca, che merita ed esige di essere trattata con strumenti diversi da quelli qui impiegati: finiti gli anni di una conoscenza fatta di pochi elementi isolati all’interno di un quadro di generale assenza di riferimenti, ossia di un’ignoranza quasi assoluta, anni che ci sembrano esigere – in fondo, è quel che stiamo facendo – un’analisi costretta (e disposta) a ipotizzare delle costellazioni significative a partire da occorrenze sporadiche, inizieranno a essere identificabili e analizzabili nella loro effettiva consistenza numerica dei precisi trend. Per indagare la ricezione dell’architettura brasiliana sulle riviste italiane degli anni Cinquanta e oltre, insomma, occorrerà inforcare altri occhiali e adottare metodi diversi. Si tratterà di affiancare a una lettura dei testi e a uno sforzo di contestualizzarli anche un’analisi di tipo quantitativo. E questo, come è chiaro, è il programma di una ricerca futura.
Se ci limitiamo, per ora, a sforare di qualche anno i limiti che ci siamo dati è solo per offrire qualcuna delle innumerevoli conferme possibili a proposito del senso di superiorità implicito in molte delle posizioni in cui ci siamo imbattuti: Lisa Ponti, in un articolo intitolato Le più desiderabili ville al mondo, dedicherà sì quasi dieci pagine a un’opera costruita a São Paulo, ma da Bernard Rudofsky, architetto nato nel defunto Impero Asburgico e formatosi e cresciuto in Italia, a tal punto da poter essere interpretato come un veicolo della diffusione della tanto agognata casa mediterranea (L. Ponti 1949) [Fig. 10], mentre Gio Ponti si premurerà di spiegare agli architetti paulistas come fare ad adattare la casa a patio alla forma dei lotti urbani locali, arrivando di fatto a ‘correggerne’ i progetti (Ponti 1953a). Nel frattempo, un’analoga rivendicazione dell’importanza del (reale, e presunto) contributo offerto dagli italiani alla causa dell’architettura brasiliana veniva compiuta anche sulla sponda opposta dell’Atlantico, soprattutto con la pubblicazione di Architettura italiana a San Paolo di Emma De Benedetti e Anita Salmoni (De Benedetti, Salmoni 1953). Nel corso degli anni Cinquanta sarà poi Ponti a utilizzare la ricezione dell’architettura brasiliana (e venezuelana) a fini di auto-promozione (Pozzi 2015, 11-13), e a compiere, così facendo, un uso personalistico della rivista (oltre che a piegare quanto mai chiaramente l’ordine del giorno della rivista ai suoi viaggi e incontri personali). Ma, per rientrare nel periodo qui preso in esame, è il momento di citare un articolo (purtroppo anonimo) pubblicato da “Metron” nel 1948 e dedicato al MASP:
Dal punto di vista architettonico, Lina Bo ha strettamente seguito la via intrapresa dalla scuola milanese. Ma in Brasile ha trovato un ambiente pronto ad accogliere i temi figurativi del razionalismo. Dal lontano viaggio di Le Corbusier, l’ondata moderna ha prevalso in quel paese con le note costruzioni di palazzi pubblici, di abitazioni collettive, di edilizia domestica. Architettura razionalista che ripete i temi europei su una scala più vasta, che molto spesso appare l’ingrandimento degli schemi originali. Molto coraggio, poca personalità, talora poco gusto. L’iniezione del coefficiente Bardi-Bo nella cultura brasiliana non potrà essere che positivo. Bardi darà il substrato storico, la spinta morale e intellettuale; Lina Bo, porterà quell’elemento di precisazione, di esattezza, di poétique mathématique senza di cui la via chiusa della tematica razionalista non può nemmeno vibrare. Poi l’entusiasmo ingenuo, il semplicismo dei neofiti brasiliani, dovrà cedere il passo, come avviene in tutti i paesi in cui l’esperienza razionalista è stata vissuta e scontata, a più profonde maturazioni. La cultura italiana, attraverso architetti e critici d’arte, potrà allora più fertilmente incidere (Architetti e critici d’arte italiani in Brasile 1948, 35).
Questo testo anonimo, con i suoi luoghi comuni, è a nostro giudizio il più significativo – non certo il migliore – tra tutti quelli pubblicati in Italia all’epoca [Figg. 11-12]. Contiene, in bella fila, tutte le componenti di una più generale tendenza a ostentare una benevola superiorità nei confronti dell’architettura brasiliana, ritenuta una mera appendice di quella italiana: una tendenza, quindi, a non vederla, per non averla nemmeno guardata. Si tratta, come si sarà ormai capito, di un caso estremo, non di un’eccezione. Ancora alcuni anni dopo, persino Bruno Zevi avrebbe intitolato un suo articolo per “L’Espresso” dedicato anch’esso al MASP come Un museo per educare i brasiliani (Zevi [1957] 1971).
4. Epilogo paulista. “Habitat” e l’architettura brasiliana come bela criança
Se il quadro che emerge dalle pagine precedenti è sconsolante, lo è per diverse ragioni. Tra di esse, spicca senza dubbio la difficoltà di misurarsi davvero, e non di rado sulla base di informazioni raccogliticce, con una produzione architettonica complessa e distante ma, almeno a prima vista, passibile di essere ricondotta a categorie famigliari. La cultura architettonica italiana dell’epoca mancava insomma, senza nemmeno rendersene conto, della capacità di cogliere come la coeva architettura brasiliana fosse profondamente diversa dalla propria, come fosse ben più e ben altro che un’inflessione locale del verbo lecorbusieriano o della millenaria tradizione italiana o mediterranea. Mancava la distanza. Per provare a capirla, bisognava ammettere che non la si capiva. E per riscontrare i primi passi in questa direzione, occorrerà solcare di nuovo le acque dell’Atlantico: sul finire del 1950 usciva, infatti, il primo numero di “Habitat” con il sottotitolo “revista das artes no Brasil” e l’indicazione che a dirigerla era Lina Bo Bardi.
Per molti versi, è forzato chiudere la nostra disanima prendendo in considerazione una rivista non specificamente orientata all’architettura e, per giunta, pubblicata a São Paulo e solo a partire dal 1950. Se lo facciamo è non solo e non tanto perché la sua direttrice era italiana, per quanto stanziata ormai da alcuni anni in Brasile, ma anche e soprattutto perché alcuni testi editi su “Habitat”, che ormai esulano anche solo dal punto di vista cronologico dal periodo qui analizzato, lasciano intravedere nuove e più produttive modalità di guardare l’architettura brasiliana.
Come abbiamo visto, Bo Bardi finì per prendere mano a mano le distanze dal proprio paese di origine. Diversamente da molti emigrati, arrivò addirittura a negare la propria provenienza, a considerarla come un puro e semplice (nonché trascurabile) accidente. Ciò che però omise sempre di dire è che questa presa di distanza fu l’esito di un lungo processo. Soltanto in alcune lettere del 1956 arriverà a dichiarare di essersi finalmente decisa per il paese in cui si trovava a vivere. Dal che si evince che sino a quel momento, e quindi proprio negli anni in cui fu direttrice di “Habitat”, era lei stessa a sentirsi a metà tra Italia e Brasile.
Per mostrare Bo Bardi in questa fase, a metà del guado, ci limitiamo in questa sede a riprendere le parole di uno dei testi più importanti da lei pubblicati su “Habitat”, Bela criança, uscito sul secondo numero del periodico, nel marzo del 1951 (anno dell’inaugurazione della Casa de Vidro) [Fig. 13]. Per comprendere le ragioni dell’articolo, occorre però in primo luogo cogliere qualcosa del contesto in cui venne scritto. Gli anni precedenti avevano visto l’architettura brasiliana ampiamente acclamata a livello internazionale. Proprio allora stavano tuttavia iniziando a circolare le prime autocritiche. Nel 1951, ad esempio, Lucio Costa pubblicava su di un quotidiano di grande tiratura come il “Correio da Manhã” il testo Muita construção, pouca arquitetura e um milagre, in cui dichiarava di avvertire “sintomi gravi di una malattia latente” nell’architettura del proprio paese (Costa 1951); e anche Abelardo de Souza palesava le sue perplessità sull’uso indiscriminato di alcuni elementi come i brise-soleil (Souza 1951), peraltro sullo stesso numero di “Habitat” su cui comparve pure Bela criança.
Allo stupore europeo per il grande livello raggiunto dall’architettura brasiliana (v. ad esempio Giedion 1952), che portò ben presto alla redazione delle prime monografie dedicate ad alcuni dei suoi architetti di punta (la prima, quella su Oscar Niemeyer, fu opera di Stamo Papadaki e risale al 1950), fece seguito un’epoca di sempre maggiori scambi, iniziata con la Bienal de São Paulo che, a partire dal 1951, iniziò a invitare periodicamente nella capitale paulista le grandi figure dell’architettura internazionale. Maggiori scambi volevano dire maggiori opportunità di capire e di capirsi, ma – per gli architetti stranieri di passaggio in Brasile – anche di vedere con i propri occhi i tanto ammirati capolavori del modernismo locale. Accanto alle autocritiche, iniziarono così a circolare pure le prime critiche provenienti da ‘fuori’; e come spesso accade, queste provocarono spesso difese a oltranza e d’ufficio.
Nel 1953, mentre Ponti proporrà di interpretare Niemeyer come un “genio” autentico, a cui – in quanto tale – tutto è concesso (Ponti 1953e, 9), sarà Max Bill ad affondare il colpo con le sue accuse di “formalismo” contro Niemeyer e, più in generale, contro larga parte della coeva architettura brasiliana (v. Aquino 1953a; Aquino 1953b; Bill 1953; Id. 1954), accuse a cui seguiranno a stretto giro varie repliche (v. almeno L. Costa 1953; Corona 1954; Niemeyer 1955; tutto questo culminerà poi in Id. 1958; più in generale, v. Fiammenghi 2020). Nel 1951, non era ancora avvenuto nulla di così clamoroso. Qualcosa, però, si stava muovendo. Bo Bardi darà ampio spazio, sulle pagine di “Habitat”, alle critiche di Bill contro il modernismo brasiliano, ma a dispiacerle profondamente all’epoca, dato che venivano da una figura a lei prossima (avevano diretto insieme la rivista “A” e sarebbero rimasti in contatto, per quanto spesso su posizioni diverse, per il resto della vita, come due interlocutori che non riescono mai a essere davvero d’accordo su nulla, ma non per questo non rispettano le posizioni altrui), furono le parole dedicate da Zevi all’architettura brasiliana nella sua Storia dell’architettura moderna del 1950. Zevi le assegnava uno spazio irrisorio, e i pochi cenni che le riservava non facevano che immetterla nel grande disegno dell’architettura cosiddetta moderna come una nota a piè di pagina di scarso valore: era stato Le Corbusier, scriveva Zevi, a recarsi negli anni Trenta in America Latina “suscitando il rinnovamento brasiliano”, e da allora a suo modo di vedere non doveva essere accaduto nulla di particolarmente rilevante, se della produzione architettonica brasiliana l’unica cosa che egli era in grado di dire era che vi “viene applicata rigorosamente e spesso scolasticamente la tematica di Le Corbusier” (Zevi 1950, 173 e 284). Analoghe voci critiche sull’architettura brasiliana, anch’esse provenienti dall’ambiente zeviano, giunsero poi a São Paulo anche almeno attraverso un altro canale, ossia le riunioni dell’Associazione per l’Architettura Organica a cui ebbe modo di partecipare il giovane architetto paulista (ma di origine triestine) Jorge Wilheim, che vi fece poi riferimento in un articolo anch’esso edito da “Habitat” (Wilheim 1952). Ed eccoci a Bela criança, dove in risposta a Zevi – esplicitamente menzionato – troviamo un’accalorata difesa dell’architettura brasiliana. Se il testo è però così importante, tuttavia, è per gli argomenti che adotta:
L’architettura contemporanea brasiliana non proviene dall’architettura dei gesuiti, ma dal pau a pique dell’uomo solitario, che ha faticosamente tagliato i rami nella foresta; proviene dalla casa del seringueiro, con il suo pavimento di tronchi e il tetto di capim; è allusiva, risuona persino, ma possiede, nel suo essere furiosamente risoluta a fare, una superbia e una poesia che sono la superbia e la poesia dell’uomo del sertão… […]. Questa mancanza di politezza, questo carattere rude, questo prendere e trasformare senza farsi troppi problemi è la forza dell’architettura contemporanea brasiliana, è il fatto di non perdere mai di vista, malgrado la consapevolezza della tecnica, la spontaneità e l’ardore dell’arte primitiva: ed è per questo che non siamo d’accordo con molti amici europei sul fatto che l’architettura brasiliana sarebbe già sulla via dell’accademismo […]. L’architettura brasiliana è nata come un bel bambino [bela criança], che non sappiamo come mai è nato bello, ma che poi noi dobbiamo educare, curare, seguire nella sua crescita (Bo Bardi 1951, 3).
Non vi è dubbio come vi sia ancora, in questi passi, “una buona dose di condiscendenza europea”, frutto di un atteggiamento “empatico ma paternalista” (da Costa Meyer 2019, 50); eppure vi è anche qualcosa di affatto nuovo, che consiste nello sforzo di introdurre nuove categorie con cui inquadrare l’architettura brasiliana e liberarla così dal ruolo di versione epigonale e periferica di una vicenda che era già stata scritta (e pure meglio) nel bel centro della cultura occidentale.
Gli spunti proposti da “Habitat” sembrano essere in larga parte caduti anch’essi nel vuoto. Certo è che di aperture così potenzialmente proficue non vi sarà poi più traccia sulle riviste italiane (e più in generale nella cultura architettonica del nostro paese) ancora assai a lungo, con scarse e parziali eccezioni – come il già menzionato numero 6 di “Zodiac” del 1960 – e numerose e soprendenti conferme. Una, piuttosto clamorosa, viene, ormai a metà anni Settanta, dalla tendenziale omissione dell’esperienza brasiliana – e dalla liquidazione di quel poco che se ne dice – dalle autorevoli pagine dell’Architettura contemporanea di Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co (per una brillante interpretazione delle ragioni di tale posizione, v. Liernur 2019). Siamo però ormai in un’altra epoca: l’assenza dell’architettura latino-americana è ora dovuta innanzi tutto a scelte di natura ideologica. Si tratta di un caso assai diverso rispetto a quello qui presentato, che ci parla invece di anni in cui con la sua esigenza di fornire informazioni virtualmente in presa diretta, con il ritmo accelerato a cui lavoravano le sue redazioni e con la sua mission di rivolgersi in prima istanza ai professionisti della propria comunità nazionale, il mondo delle riviste italiane risulta pieno non solo di dialoghi mancati, ma anche di occasioni perdute, di possibilità che non si sono concretate anche solo per il caso, per la fretta di uno degli interlocutori coinvolti, per l’impossibilità di raccogliere il materiale richiesto nel tempo stabilito. Tra le possibilità che non si sono mai concretate, non si può evitare di segnalarne, in chiusura, una particolarmente suggestiva.
“Habitat” aveva riscontrato un certo interesse nel pubblico brasiliano, ma nel 1953, a tre anni dall’uscita del suo primo numero, la situazione iniziava a farsi complicata sotto il profilo finanziaro. Rodolfo Klein, a capo della società proprietaria della rivista, aveva ormai pubblicato i tredici numeri previsti dal contratto iniziale, e dal momento che i ricavi erano in calo scriveva a Bardi, in quel momento a Parigi, suggerendogli di acquisirla (Perrotta-Bosch 2021, 258). Invece che rispondere direttamente, Bardi rilanciava: perché non proporre a “Domus” di fare di “Habitat” una sorta di ‘succursale’ brasiliana della prestigiosa rivista milanese? Non è chiaro se e quanto si sia lavorato concretamente a questa ipotesi. E nemmeno quali fossero le intenzioni di Bardi nel suggerire di avanzare la proposta proprio a “Domus”, di cui sua moglie era stata direttrice de facto e a cui aveva poi proposto la pubblicazione di un numero monografico sull’architettura brasiliana. Tanto meno è chiaro se e come Bardi stesse tenendo conto del fatto che “Domus” era nel frattempo cambiata profondamente, per tornare alla fine tra le mani di Gio Ponti, suo storico direttore negli anni Trenta e vecchio datore di lavoro di sua moglie (v. su questa stessa rivista Catalano 2020). Non abbiamo quindi la minima idea di cosa sarebbe potuta diventare “Habitat” una volta entrata e far parte dell’Editoriale Domus di Gianni Mazzocchi. L’impressione è che quella di Bardi fosse però una boutade: come interpretare altrimenti la scelta di un editore che aveva chiuso d’ufficio la rivista “A”, diretta da sua moglie e durata solo pochi numeri, per le sue divergenze ideologiche con Bruno Zevi? Resta, comunque sia, la domanda di cosa avrebbero potuto essere una “Domus” brasiliana, o una “Habitat” italiana: se avrebbero potuto fare da testa di ponte per il dialogo tra le due scene architettoniche.
* Ringrazio Gaia Piccarolo per avermi segnalato i riferimenti di Lapadula all’architettura brasiliana e Giaime Botti per aver condiviso con me i risultati delle ricerche da lui condotte sull’Avery Index.
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English abstract
This paper aims at investigating the reception of Brazil’s Modern Architecture in Italian architecture magazines between 1946 and 1949. The result of research is that, with few exceptions, only a limited number of articles were dedicated to the journal in this period most of which were focused on professionals who worked in Brazil but either emigrated from Italy or were of Italian descent. As a result, the unique traits of architectural production in Brazil ended up being misunderstood and omitted. The paper also attempts to understand the reasons—mostly cultural but also dependent on other factors, like difficulty in accessing first-hand information—for why there was this missed dialogue between the Italian architectural scene and the internationally acclaimed Brazilian one during this period.
Keywords | Brazilian Modern Architecture; Italian Architectural Magazines; Fortune; Albe Steiner; Lina Bo Bardi; Pietro Maria Bardi; Luigi Claudio Olivieri.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Daniele Pisani, Un dialogo mancato. La ricezione dell’architettura brasiliana sulle riviste italiane (1946-1949), “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 39-83 | PDF dell’articolo