Non si dà percezione senza immaginazione.
Non c’è un grado zero dello sguardo (né quindi l’immagine è allo stato bruto).
Non c’è uno stato documentario puro sul quale verrebbe a innestarsi
in un secondo tempo una lettura simbolizzante.
Ogni documento visivo è immediatamente finzione
Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, [1992] 1999.
1. Accecáti dalla conoscenza
Ne Lo spettatore emancipato Jacques Rancière scrive:
La finzione non è la creazione di un mondo immaginario, opposto al mondo reale. Essa è il lavoro che produce dissensi, che modifica i modi di presentazione sensibile e le forme di enunciazione, cambiando le cornici, le scale e i ritmi, costruendo rapporti nuovi tra l’apparenza e la realtà, tra il singolare e il comune, tra il visibile e il suo significato (Rancière [2008] 2018, 77).
Per Rancière la finzione non è che un modo singolare di cogliere e interpretare la realtà, la modalità di un pensiero la cui radice è il sensibile. Non esiste pertanto una realtà in sé, ma solo configurazioni di ciò che è dato come la nostra realtà, come l’oggetto delle nostre percezioni. La finzione può essere considerata un dispositivo percettivo, una costruzione dello spazio in cui si annodano il visibile, il dicibile e il fattibile.
Dunque, in una procedura di interpretazione, se il problema dello studioso resta quello di recuperare un nesso, una congiunzione che permetta di comprendere l’azione o la circostanza che ha portato alla produzione di un determinato oggetto, può essere utile misurarsi anche con la storia dello sguardo che noi posiamo sulle cose per rappresentarle, e considerare casi singolari di attribuzione impropria, di consapevole falsificazione, dove la manipolazione della prova, allargando i margini dell’invenzione, rimbalza generando nessi immaginari, sulla base dei quali possono essere formulati nuovi principi di lettura e di descrizione della realtà.
Il balcone di Giulietta, per esempio, non esiste (probabilmente non è esistita neppure Giulietta): ma a Verona nel 2019 in via Cappello più di due milioni di persone lo hanno visitato; forse nessuno si è chiesto se sia vero o falso. In realtà il balcone con il suo parapetto marmoreo è il risultato dall’assemblaggio di resti del XIV secolo che, ancora nel 1920, giacevano al Museo di Castelvecchio come pietre da reimpiegare, secondo la moda architettonica del tempo. L’edificio, in origine una casa-torre costruita tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, chiamata Stallo del Cappello, già più volte rimaneggiato, verso la fine degli anni Trenta viene rimodellato come casa di Giulietta, con una serie di fantasiosi restauri su progetto di Antonio Avena, allora direttore dei Musei Civici d’Arte. Le intenzioni di Avena erano dichiaratamente quelle di ricreare una scenografia rinascimentale ispirandosi, sembra, più che all’architettura della città storica, al colossal americano di grande successo Romeo and Juliet, diretto da George Cukor nel 1936. Versione hollywoodiana della tragedia di Shakespeare, il film si distingueva per l’efficacia delle scene, scorci di una Verona interamente ricostruita dallo scenografo Cedric Gibbons negli studi della Metro Goldwyn Mayer a partire da suggestioni pittoriche ottocentesche, come L’ultimo bacio di Romeo e Giulietta di Francesco Hayez (1823).
Dunque il balcone di Giulietta, pur in assenza di prove, è diventato più vero che se fosse semplicemente vero, perché avvalorato da un falso, veicolato da un immaginario letterario tradotto con linguaggi diversi in figure di grande diffusione e di facile accesso, assai lontane da ogni possibile autenticazione storica.
Un immaginario potente anche prima del cinema e del balcone, se è vero che già Byron e Madame de Staёl sospiravano sulla presunta tomba di Giulietta custodita nella cripta di San Francesco del Corso, antico convento francescano appena fuori dalle mura cittadine. In realtà si tratta di un sarcofago in marmo rosso vuoto e senza coperchio, forse di età romana, ma già a inizio Ottocento inserito negli itinerari storici di Verona come tomba di Giulietta.
Disinvolta e consapevole pratica del falso, dunque, che nell’ambito della fruizione dell’arte ha precedenti antichi e illustri – basti pensare alle invenzioni delle Wunderkammern, tra mummie di sirena o di chimera e tanti corni di unicorno – e che si carica nel tempo di significati sempre più complessi in relazione al potere seduttivo esercitato sullo spettatore dalla ‘meraviglia’: la “grande forza della mente che conosce e che crea […] forza interna, primordiale, della capacità umana di stupirsi, di fare un salto di trasformazione sui dati della realtà obiettiva che ci circonda” (Lugli 1983, 101).
Oggi la pratica della verità apparente è così pervasiva che ha un nome: Truthiness, un neologismo intraducibile coniato nel 2005 dal comico e conduttore televisivo Stephen Colbert per il programma The Colbert Report, spin-off di The Daily Show, in cui Colbert, nei panni di un giornalista, mette in parodia il tipico esperto di politica televisivo (Detmer 2009). Lo studio è costruito con tutti gli elementi dell’originale ma, alle spalle del giornalista, il finto caminetto con accanto la bandiera americana reca inciso il motto “Videri quam esse”, ribaltando il latino di ciceroniana memoria “Esse quam videri” (Cicerone, De amicitia, 98: “Virtute enim ipsa non tam multi praediti esse quam videri volunt” “Pochi sono coloro i quali preferiscono essere virtuosi, piuttosto che sembrare tali”). Il motto, peraltro, era già stato reinterpretato in questo senso da Machiavelli, che ne Il Principe capovolge questa frase in “Videri quam esse” (“Sembrare più che essere”), con riferimento al modo in cui un Principe avveduto dovrebbe comportarsi.
Selezionata dal New York Times come una delle parole che catturano lo Zeitgeist dell’anno 2005 e parola dell’anno per l’American Dialect Society, Truthiness finisce registrata nell’Urban Dictionary – dizionario online attivo dal 1999 dedicato ai neologismi e allo slang in lingua inglese, trasposto in forma cartacea in due edizioni, nel 2005 e nel 2007 – come “la qualità di concetti o affermazioni che si desiderano o che si credono essere veri, senza la prova dei fatti” (Cappelletto 2017).
Sostantivo improbabile per definizione, dunque, che al debutto del terzo millennio sintetizza lo spirito del tempo: Truthiness definisce qualcosa che ha a che fare con la verità che non possiamo, però, pretendere o provare che lo sia. Naturalmente deriva da truth ma, come sostiene lo storico dell’arte Geoffrey Batchen a proposito degli ‘inganni’ della fotografia, ha piuttosto a che fare con “ciò che ti aspetti che i fatti siano, anziché ciò che sono”. Nel saggio Human Nature: Joan Fontcuberta and the Truthiness of the Photograph, Batchen utilizza espressamente il neologismo di Colbert, ricordandone la definizione:
Truthiness, according to Stephen Colbert, is “what you want the facts to be, as opposed to what the facts are” […] The dictionary describes it as “the quality of seeming to be true according to one’s intuition, opinion, or perception without regard to logic, factual evidence […] a serious joke, a joke about truth and falsehood that is itself a lie, a lie one tells in order to reveal a greater truth that lies beneath it” ( Batchen 2013, 5).
A sottolineare quanto il concetto di Truthiness sia al centro del problema dell’elaborazione dell’informazione e tema ricorrente nella riflessione di molti artisti contemporanei sono soprattutto alcune strategie curatoriali, che dilatano anarchicamente il campo di azione storicamente ascritto alla critica istituzionale. Concentrata sul carattere parziale e ideologico dell’autonomia artistica, questa pratica dalla fine degli anni Sessanta è stata promotrice di interventi site-specific per svelare essenzialmente le logiche politiche e commerciali dei musei e delle gallerie d’arte (Buchloh 1990, 105-144).
Per la Biennale Arte di Venezia del 2019 il curatore Ralph Rugoff, per esempio, assumeva la Truthiness come metodo, a partire dal titolo apparentemente ottimista di May You Live in Interesting Times, cui aggiungeva una sorta di sottotitolo “not to uncover some absolute truth, but to pose new questions about”, rendendo esplicita l’opportunità del dubbio e la necessità della qualità della domanda nella ridefinizione di molte risposte sulla realtà che ci circonda.
Ma il tranello era più sottile: nella sua prima conferenza stampa, infatti, Rugoff dichiara che “may you live in interesting times” non era un augurio ma una maledizione, un antico anatema cinese in voga nell’Inghilterra degli anni Trenta per evocare periodi di incertezza, crisi e disordini, importato, si dice, da un non meglio identificato diplomatico britannico di stanza in Asia, in realtà mai esistito. Un falso, dunque, da quasi un secolo riportato con disinvoltura nei discorsi di autorevoli politici occidentali, da Sir Austen Chamberlain a Hillary Clinton. “Un frutto dell’immaginazione, un surrogato culturale che ha avuto però un effetto reale nella retorica e nel dibattito pubblico”. Così una citazione fasulla diventava emblematica per una Biennale che nel progetto del curatore intendeva proporre opere capaci di far scattare quello che Rugoff definiva “the forensic method”:
The forensic method is a surprisingly effective tool, for it serves both as an approachable way for the general public to pry open the often hermetic shell of contemporary art (Columbo vs. Conceptualism), and as a viable critical model for understanding recent art that relies on clues, obscurities, and residue (Darling 1998).
Tesi fondante dell’azione curatoriale di Rugoff, autore già alla fine degli anni Novanta di mostre come Scene of Crime, è che il pubblico di una mostra possa assumere “a scanning gaze”, uno sguardo scrutatore, che non si ferma alle apparenze, in grado di esaminare le opere come i dettagli di una scena e mescolare frammenti di informazioni che sembrano casuali, come l’investigatore sul luogo di un delitto (Sherman 2007).
Del resto è post-verità un’altra parola chiave coniata all’inizio del terzo millennio, con un significato dalle molteplici implicazioni, per definire qualcosa che va oltre la verità – con il prefisso post inteso come ‘oltre’ invece del consueto ‘dopo’: “si tratta cioè di un ‘dopo la verità’ che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza” (Biffi 2016).
Truthiness, post-verità, ma anche neo-truth, soft truth, faux truth, truth lite, sono tutti neologismi per cercare di definire un’etica, per così dire, alternativa, basata su un concetto di verità talmente relativo e opinabile da poter essere ritenuto ininfluente.
In the post-truth era we don't just have truth and lies but a third category of ambiguous statements that are not exactly the truth but fall just short of a lie. Enhanced truth it might be called. Neo-truth. Soft truth. Faux truth. Truth lite (Keyes 2004).
Variabile insidiosa che, considerando i fatti meno influenti nell’orientare l’opinione pubblica che non gli appelli mirati a eccitare le pulsioni personali, si muove tra la banale propaganda, sempre intessuta di false notizie e richiami all’emotività, e una sorta di virtuosa quanto complessa emancipazione della verità dai gravami retorici, cioè l’affrancamento, come sostiene Gianni Vattimo, da quelle forme della verità acriticamente ereditate dalla tradizione (Vattimo 2009). Già negli anni Novanta, Vattimo sottolineava come, in un’epoca di “relativismo pratico”, il termine ‘verità’ indicherebbe la validità di un enunciato che:
in base a determinati criteri si conferma e si dimostra e, quindi, si ‘impone’ come la soluzione di un problema, la risposta giusta a una domanda. Ora però, l’enunciato si verifica sempre in base a regole che, a loro volta, non sono in ultima analisi oggetto di dimostrazione; esse sono piuttosto ‘data’ […] (Vattimo 1995, 94).
Dunque anche la filosofia, da sempre votata alla ricerca della verità, deve farsi debole, consapevole del fatto che le sue stesse proposte sono il frutto di letture parziali e provvisorie della realtà che ci circonda. Lo spazio dell’infondato e dell’incerto è sempre più vasto e complesso, inevitabile dunque sviluppare una riflessione sulla precarietà del sapere (Vattimo, Rovatti 1986).
Tra le forme della tradizione svaporate nella dissoluzione del significato di verità degli ultimi anni si può includere anche quella dell’esporre secondo una logica di costruzione rigida e unitaria della storia raccontata. Mostrare, più che una forma della verità ereditata dalla tradizione e fissata nell’invariabile somma di opere in sequenza, può essere considerato, oggi, una delle espressioni di una nuova fenomenologia, che analizza le strategie culturali nel rapporto con il presente e con la memoria, capace di misurarsi anche con aspetti disturbanti o rimossi. Così, se ancora la maggior parte dell’arte di ogni tempo continua a essere esposta secondo modalità rigide quanto scontate, che non lasciano dubbi né domande su come l’opera possa essere considerata o riconsiderata in relazione al suo significato, le avventure più avvincenti del curare contemporaneo si propongono di far deragliare questa tendenza, per coinvolgere gli spettatori in logiche interpretative più sofisticate, utilizzando il display come meccanismo rivelatore.
Parafrasando Joan Fontcuberta (che si riferisce alla fotografia) si potrebbe dire che anche la pratica del mostrare può rivelarsi una sorta di bacio di Giuda: proprio quando cerca di farti credere di essere oggettiva e documentaria, ti sta tradendo e consegnando agli imbrogli della manipolazione.
Come non pensare all’improbabile eppure affollatissimo (venticinquemila visitatori all’anno) Museum of Jurassic Technology, fondato nel 1988 da David Hildebrand Wilson insieme alla moglie Diana, al 9341 di Venice Boulevard, nel quartiere Palms di Los Angeles? “[…] an educational institution dedicated to the advancement of knowledge and the public appreciation of the Lower Jurassic” (come dichiarato in Introduction & Background in The Museum of Jurassic Technology), dove la pertinenza del termine “giurassico inferiore” in relazione alle collezioni del museo resta incerta e inspiegabile (Rothstein 2012).
Il museo è magistralmente descritto da Lawrence Weschler nell’indimenticabile Mr. Wilson’s Cabinet of Wonder. Pronged Ants, Horned Humans, Mice on Toast, and Other Marvels of Jurassic Technology, del 1995. Il libro di Weschler, che nel sottotitolo riporta un elenco di stampo borgesiano – “formiche dentate, esseri umani con le corna, topi sul pane tostato e altre meraviglie della tecnologia giurassica” – tenta di spiegarne il mistero. Il museo contiene un’insolita collezione di reperti e oggetti con gradi di autenticità variabili e incerti; Weschler lo esplora facendosi guidare dal suo stesso fondatore e successivamente approfondendo alcuni reperti con ricerche personali e appropriate. Così alcuni risultano creati dall’immaginazione di Wilson mentre altri potrebbero essere esposti in un autentico museo di storia naturale. Alle frequenti curiosità di Weschler sul senso di tutto questo, Wilson candidamente risponde: “Specificamente, ci interessa presentare fenomeni che altri musei del genere sembrano voler ignorare. […] Il nome dà un’idea di ciò che è esposto, ma non si riferisce a un particolare periodo geologico” (Weschler [1995] 1999, 35).
Nonostante l’indiscutibile fisicità dell’esperienza del Museum of Jurassic Technology, l’impressione visiva e narrativa dei reperti esposti conduce effettivamente il visitatore in luoghi mentali bizzarri e oscuri che hanno poco a che fare con il mondo reale e con la sua conoscenza. Possiamo imparare tutto quello che viene raccontato sulle sue apparizioni nella penombra delle sale, sui favolosi pipistrelli in grado di trapassare corpi solidi imprigionati in blocchi di piombo, sulle formiche stridulanti impazzite per l’inalazione di spore fungine, sui corni umani resecati dal capo di distinte signore inglesi, e ancora sulle api o i bachi da seta dei botanici Thums, ma non saremo in grado di portare con noi questa conoscenza e renderla significativa nelle nostre vite, perché in realtà è un altro l’obiettivo del museo. Tutta l’operazione, infatti, solleva interrogativi non sulla natura e i suoi segreti ma sullo scopo e sul ruolo dei musei e su come noi, come cultura, organizziamo e archiviamo i manufatti. Attraversare questo museo ci porta a sfidare le nostre percezioni di ciò che è reale e ci costringe a confrontarci con la nostra comprensione della scienza, della storia naturale e dell’arte.
Nel suo articolo Beyond Belief. The Museum as Metaphor, Ralph Rugoff descrive in modo eloquente il Museum of Jurassic Technology (Rugoff 1995). Secondo Rugoff, facendo uso di informazioni che si trovano ai margini della nostra alfabetizzazione culturale – cose di cui abbiamo sentito parlare ma di cui non sappiamo necessariamente molto, come il radar dei pipistrelli, i raggi ultravioletti o lo stesso giurassico – il museo ci attira in una zona d’ombra, dove le cose mostrate scivolano dal reale al metaforico con una fluidità disarmante. Al suo interno si mescolano disinvoltamente le categorie, come la storia e la letteratura, o la scienza e l’arte, suggerendo che non vi è separazione se non convenzionale e che il contagio e la sovrapposizione tra quegli ambiti è possibile, se non addirittura comune nella realtà stessa.
Questo museo non è semplicemente un modello di qualcos’altro ma una sorta di macchina, una tecnologia per alterare i modi abituali di vedere e pensare. Invalidare l’autorità del museo disorienta ma è centrale in questo processo, che, mettendo in discussione la sua facciata istituzionale, ci libera dal sentirci ancorati alla sua tradizionale oggettività e apre la strada al recupero dell’autorità dell’esperienza soggettiva.
Per gli autori di Visual Display. Culture beyond Appearances, il corposo volume curato nel 1995 da Lynne Cooke e Peter Wollen con il Dia Center for the Arts di New York, il compito di una nuova generazione di curatori sembrava essere sempre più spesso quello di svelare le manipolazioni celate dietro la presunta innocenza e neutralità della pratica espositiva, mettendo in discussione i miti che stanno alla base delle verità assolute su cui è stato costruito il nostro sistema dell’arte (Cooke, Wollen 1998).
Non si tratta necessariamente di opporre verità a verità o finzione a finzione, ma di costruire ibridi o una terza via, qualcosa di palesemente inventato ma che potrebbe essere vero, come il Museum of Jurassic Technology, per esempio, che attraverso la sua indecidibilità tra vero e falso non solo decostruisce l’opposizione ma apre su un versante ulteriore tutto da decifrare.
2. L’immaginazione è la regina del vero
Se la Truthiness del balcone di Giulietta lo rende oggi più vero che se fosse vero, e quella del Museum of Jurassic Technology ne costituisce il ‘compimento scientifico’, sempre più frequenti ai nostri giorni sono le pratiche di Truthiness in azioni artistico-curatoriali. Alcune tra le più enigmatiche mostre del panorama contemporaneo, per esempio, mescolano e compenetrano diverse forme di narrazione declinando a piacere impostura, ambiguità e anacronismo.
Si tratta di operazioni di non facile accesso per il pubblico, cui si offre un attraversamento denso e spesso privo di visione prospettica, dove coesistono temporalità diverse e differenti gradi di realtà si confondono. Il linguaggio del display viene utilizzato come strumento critico e come tale impiegato per alimentare e al tempo stesso sfatare i miti moderni messi alla prova della contemporaneità. Operazioni dove il display è pensato più come processo che come strumento, che non si limita a mostrare ma scopre, smaschera, disvela ciò che sta al di là dell’evidenza di scenari credibili architettati ad arte. Ciò che ci appare interamente può non essere che un velo, “a barrier, a curtain between two things, something that you can look at and pass through. It’s solid yet invisible and reveals and yet obscures the truth, the thing that we are searching for”, dice Damien Hirst in esergo alla mostra della sua serie del 2018, The Veil Paintings.
“Somewhere between Lies and Truth Lies the Truth” era il monito quasi dantesco per chi, a Venezia nell’estate del 2017, entrava a Punta della Dogana, nella colossale operazione artistico-museografica Treasures from the Wreck of the Unbelievable, messa in scena da Damien Hirst per la Fondazione Pinault in quella sede e a Palazzo Grassi. Operazione plurifotografata ma mai veramente analizzata dal punto di vista dei significati profondi, o meglio della transizione dei significati nei significanti e della contestuale falsità di ogni momento del vero, come direbbero i situazionisti. L’opera di Hirst traduceva perfettamente il rapporto tra i registri di immaginario, simbolico e reale, un rapporto di intreccio e di conflitto con variabili di inclusione paradossale. Come in un racconto di Borges, Hirst applicava al linguaggio del display le tecniche dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee, che impongono al visitatore la sospensione dell’incredulità. Le vere finzioni di Hirst si rivelano, così, una simbolica e labirintica ricerca della verità. Hirst come Borges affida allo strumento della finzione quelle realtà semplificate che sono espressione di un senso comune troppo legato al materialismo esistenziale, contrapponendovi una visione più complessa e scomposta, a tratti fantastica, a tratti metafisica.
La realtà è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo […] Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza (Debord [1967] 1979, 12).
Ma se Treasures from the Wreck of the Unbelievable è in tutto e per tutto un’operazione artistica in cui Hirst, in qualità di autore e curatore, realizza – riprendendo Debord – “un mondo dichiaratamente rovesciato, dove il vero rappresenta un momento del falso”, può accadere che una mostra si misuri con forme meno vistose e più sofisticate di falsificazione. Basti pensare a The Boat Is Leaking. The Captain Lied, allestita nel 2017 dalla Fondazione Prada nella sede veneziana di Ca’ Corner della Regina.
Qui il curatore Udo Kittelmann si misura con la complessità del nostro tempo attraverso un diverso genere di capovolgimento, meno ludico di quello proposto in contemporanea da Damien Hirst, ma certo non meno singolare. Attraverso le opere filmiche di Alexander Kluge, le fotografie di Thomas Demand e le scenografie di Anna Viebrock, squadernate senza soluzione di continuità negli spazi del settecentesco palazzo veneziano, Kittelmann dà vita a un’esposizione immersiva e disorientante, con la volontà esplicita di coinvolgere lo spettatore in maniera diretta sulle dissonanti contraddizioni dell’attualità, mettendo in discussione la sua stessa capacità di percepire la realtà e la finzione, come concetti appartenenti a domini differenti.
“Patterns of intention”, si potrebbe dire citando Michael Baxandall, dove, però, l’aspetto singolare e anche un po’ misterioso sta nel fatto che il confronto tra gli artisti si avviti intorno a un malinteso, una lettura errata dell’indizio di partenza, vale a dire l’interpretazione della riproduzione che Kittelmann ha inviato separatamente a ciascuno di loro come prima suggestione di lavoro. Si tratta del dipinto Giorni… ultimi! di Angelo Morbelli, datato 1882/83, che ritrae un gruppo di anziani indigenti con abiti e cappelli neri, seduti su panche ordinate in un buio salone del Pio Albergo Trivulzio di Milano. L’immagine provoca nei tre artisti e nel curatore varie interpretazioni; ciascuno di loro, però, ugualmente seppur separatamente, riconosce negli anziani del quadro marinai non più in servizio, ormai al ricovero come barche dismesse. Da questa suggestione Kittelmann deriva la metafora marinara contenuta nel titolo, ispirato al brano Everybody Knows (1988) di Leonard Cohen, come anche la citazione che funge da viatico, dal Giulio Cesare di Shakespeare: “Soffia ora, vento; gonfiatevi, onde; sta bene a galla, barca: scatenata è ormai la gran tempesta, e tutto adesso è rischio”. L’unità irreale che la mostra mette in scena annuncia la turbolenza inafferrabile dei nostri tempi; la metafora della barca in difficoltà misura il senso di un percorso ingovernabile; “the captain lied”: la colpa è del capitano che ha mentito, ora il naufragio è imminente, ma forse non inevitabile, perché – “everybody knows” – qualcosa può ancora dipendere da noi, dalla nostra capacità di individuare la falla come via di fuga più che come causa del disastro.
“Un errore – scrive Kluge nel catalogo – ha lo stesso valore di una verità” (Kluge 2017, 328), non nel senso etico di disconoscerne la differenza ma in senso propedeutico, per attivare una reazione, azionare un pensiero. E Kittelmann osserva come la falsa interpretazione di partenza ne fosse in realtà una versione poetica, generata dalla “comune consapevolezza, a livello emotivo e teorico, delle criticità del nostro presente e della complessità del mondo in cui viviamo” (Kittelmann 2017, 314).
3. A Copy Is a Meta-original
A questa disinvolta pratica del falso carica di virtuose intenzioni non si può non ascrivere l’articolato, e ancora poco indagato, progetto orchestrato da alcuni intellettuali e artisti, in particolare dalla filosofa croata Marina Gržinić e dal concettualista serbo Goran Djordjević, autori, sin dalla fine degli anni Settanta, di opere basate sulla copia (si veda Gržinić 2001; Gržinić 2002; e l’intervista History and Museum of Modern Art, Goran Đorđević, in New Media Center_kuda.org).
Poco dopo la fine dei conflitti nell’ex Jugoslavia, tra il 2001 e il 2002 due istituzioni slovene producono una singolare mostra, Fiction Reconstructed. The Last Futurist Exhibition, che, presso la galleria Škuc di Lubiana e la Galleria d’arte contemporanea di Celje, mette insieme diverse ‘situazioni’ concepite quindici anni prima da artisti volutamente anonimi, come dichiarato nella nota introduttiva: “the author(s) of the project is/are anonymous, and information on him/her/them is not available”.
La mostra è una riproposizione sui generis di tre esposizioni storiche, che hanno svolto un ruolo cruciale nell’affermazione e diffusione delle avanguardie primonovecentesche: Ultima esposizione futurista 0, 10 di Kazimir Malevič, una delle mostre più significative nella storia dell’avanguardia russa pre-rivoluzionaria, tenutasi a Pietrogrado tra il 1915 e il 1916; il Salon de Fleurus, l’appartamento-galleria parigino di rue de Fleurus dove Gertrude Stein visse dal 1904 al 1934; e International Exhibition of Modern Art (Armory Show), la prima grande mostra di arte moderna realizzata negli Stati Uniti, datata 1913. Le singole ricostruzioni tenute insieme in Fiction Reconstructed erano apparse rispettivamente in un appartamento di Belgrado nel 1985, in spazi semi-privati di New York, Beirut, Parigi e Los Angeles a partire dal 1992 e presso la stessa galleria Škuc di Lubiana nel 1986 (si vedano i siti delle mostre Kazimir Malevich. The Last Futurist Exhibition, in MG+MSUM; Salon de Fleurus, in Independent Curators International). A queste operazioni si aggiungeva una performance lecture dal titolo Mondrian ’63-’96, tenuta da un riapparso Walter Benjamin a Lubiana nel 1986 (una versione della performance fu trasmessa da TV Galerija nel 1987 ed è disponibile online all’indirizzo https://vimeo.com/61669696).
In una inarrestabile concatenazione di fiction, alla costruzione di queste mostre fatte non di riproduzioni ma propriamente di copie, realizzate in maniera grossolana esibendo volontariamente i segni di una fattura recente, via via si affiancavano pubblicazioni e ulteriori conferenze. Intorno alle copie, infatti, che interpretano il ruolo delle opere d’arte che imitano, appaiono alcune figure significative della prima metà del Novecento, riportate sulla terra da anonimi personaggi che diventano Gertrude Stein, Alfred H. Barr, Dorothy Miller e appunto Walter Benjamin, il più presente di tutti:
“Kazimir Malevich” and “Walter Benjamin” are often described as pseudonyms for the “anonymous” author of these projects, but “pseudonym” here is imprecise: it isn’t only the names of these figures that have been borrowed but their identities as well (Wetzler 2014).
Dopo la prima comparsa a Lubiana nel 1986, Benjamin redivivo nel corso degli anni rilascia interviste, diffonde articoli, tiene conferenze e persino pubblica nel 2013 una raccolta di saggi dal titolo Recent Writings (Benjamin 2013). Attivamente interessato alla demistificazione dell’arte, il meta-autore, lavorando sulla copia, intende dimostrare che l’arte può essere compresa solo nel suo contesto storico, e che de-storicizzare l’arte produce interpretazioni non solo confuse ma anche pericolose in quanto facilmente manipolabili.
A fake (deceptively) wants to be the original, a copy (overtly) tries only to imitate it. Thus the purpose of a fake is to conceal, whereas a copy proposes to reveal. A fake is essentially opportunistic – it does not question the system […] On the other hand, a copy is out in the open, obvious and blunt; once it is incorporated into the system, it starts questioning everything (Benjamin 2013, 23).
Tutto il progetto non è molto conosciuto e spesso a chi se ne occupa sfuggono molti tasselli proprio per la sua natura anonima e clandestina (Camart 2016). Si tratta comunque di un tentativo articolato di revisione e di riscrittura della Storia dell’arte. Tutti gli artisti coinvolti lavorano, infatti, su una rilettura della modernità, ripercorrendo la storia degli allestimenti delle grandi mostre occidentali, ormai considerati strumenti essenziali della sua affermazione.
In un’intervista con Daniel Miller pubblicata su Recent Writings, Benjamin spiega:
I think that art is rather an invention of the Western society that began with the Enlightenment and was finally shaped in Romanticism when some aspects of society begin to worship certain God-like properties, such as uniqueness, originality, and creativity. Again, “art” represents a relatively recent invention of what we call Western culture. It is an expression of a belief in human creativity and originality, organized according to a myth called “art history,” which tells us a story based on the uniqueness of its characters, principally artists and works of art (Benjamin 2013, 173-174).
In linea con l’intricato progetto della Gržinić, un’altra importante azione artistico-espositiva persegue questo lavoro clandestino di revisione: si tratta del MoAA, il Museum of American Art, di cui Goran Djordjević si dichiara technical assistant, aperto a Berlino nel 2004 con esplicito riferimento al MoMA, tempio stesso del modernismo. Il MoAA si definisce “an educational institution dedicated to assembling, preserving and exhibiting memories on the MoMA International Program and its Circulating Exhibitions” (presentazione nel sito Museum of American Art). In realtà il Museum of American Art è la meta-versione del Museum of Modern Art, dove “American” sta per “Modern” nel senso di ‘individualismo’, ‘internazionalismo’ e ‘progresso’. Il MoAA ribalta la costruzione di questa storia tutta americana utilizzando la logica del ready-made al contrario, mostrando, cioè, opere d’arte riconoscibili come i dipinti trasformate in artefatti non artistici.
Ai visitatori della sede berlinese il MoAA presenta due allestimenti permanenti: Museum of Modern Art e Americans. La prima, un omaggio alle mostre di Alfred H. Barr, è composta da copie in scala 1:1 di quarantasei dipinti e una scultura – la Fontaine di Duchamp – scelti da Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada, Surrealism, organizzate dal primo direttore del MoMA nel 1936. La seconda reinterpreta una serie di mostre sull’arte americana organizzate per il MoMA dalla curatrice Dorothy Miller tra i primi anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta, attraverso la presentazione di dipinti, realizzati in acrilico su tela da un artista sconosciuto, che rappresentano le copertine dei cataloghi. Alla collezione si aggiunge una maquette, bianca e squadrata, con le miniature in scala 1:10 delle copie allestite secondo la stessa logica di accrochage. Sorprendenti e spaesanti anche i crediti, esposti in mostra e nel catalogo, dove omonimi e anonimi personaggi si mescolano in un ordine alfabetico anche in questo caso di borgesiana memoria. Nell’elenco, senza soluzione di continuità, sono citati venerabili direttori e curatori (Alftred H. Barr, Dorothy Miller, Porter McCray), nuovi curatori (Inke Arns, Marina Gržinić, Yoann Gourmel ed Elodie Royer), artisti (Kazimir Malevič, Piet Mondrian), filosofi (Walter Benjamin), collezionisti (Lillie Bliss, Gertrude Stein, Katherine Dreier); biografie sovrapposte, che non distinguono vivi e morti, persone reali e personaggi fittizi. Questa ambiguità sta nella logica di tutto il progetto; i collettivi degli artisti infiltrati, infatti, interpretano anche questa doppiezza come parte del processo di destabilizzazione e di messa in discussione dei ruoli dell’artista, del curatore o dello storico dell’arte, affermandone così una reciproca commutabilità. Le mostre rivisitate dalla Gržinić, riprodotte da Djordjević e allestite al MoAA sono quelle che, secondo la posizione critica di questi artisti, “helped establishing throughout western Europe the first post-war common cultural identity based on internationalism, modernism and individualism” (Benjamin 2013, 173-174), e questi sono, in sostanza, i presupposti da confutare e invalidare nelle intenzioni del lavoro clandestino e guerrigliero (come direbbe Germano Celant!) di queste pratiche espositive, apparse, volutamente anonime e in contesti geograficamente distanti, tra il 1986 e il 2014, e forse ancora oggi in grado di riaffiorare a una sconosciuta latitudine.
La messa in crisi dell’arte come sistema e del modernismo come modello unico e insindacabile passa inevitabilmente dalla messa in crisi del suo principale strumento di diffusione, il museo, e dei suoi presupposti teorici. Nelle mostre ‘mendaci’ sopra descritte “i concetti di originalità, autenticità e presenza, essenziali per il discorso ordinato del museo, vengono scalzati dall’azione artistica” (Crimp [1980] 2005, 116). E non c’è da stupirsi se tra i redivivi più gettonati troviamo l’inossidabile Walter Benjamin: in fondo tutto comincia dalla rivoluzionaria riproducibilità meccanica.
Douglas Crimp nel suo saggio Sulle rovine del museo sottolinea con riferimento a Benjamin che “mediante la tecnologia della riproduzione, l’arte post modernista fa a meno dell’aura. La finzione di un soggetto creatore cede il passo alla ripresa dichiarata, alla citazione, all’isolamento, all’accumulazione e alla ripetizione di immagini già esistenti” (Crimp [1980] 2005, 116). Il concetto di originalità, al centro della cultura moderna e in particolare dell’arte modernista, è già messo in crisi a partire dagli anni Settanta, in particolare negli Stati Uniti, dove Rosalind Krauss riconosce nella copia il centro del processo creativo e gli artisti identificano l’immagine come icona deprivata dell’aura, intercambiabile e assimilabile a ogni altro documento. Nuovi contesti, utopici o quanto meno eterotopici ‘qui e ora’, capovolgono l’idea di originale. Gli artisti producono ogni volta non solo le cose ma anche la loro aura. In questa logica, a ogni apparizione, a ogni performance l’azione espositiva produce una sua propria autenticità. “In altre parole ogni ripetizione porta a una rottura, a una presa di distanza dal suo contesto storico naturale, organico, e assume una forma che le è propria: il suo contesto artificiale” (Groys 2013, 681).
Dunque a guardare attentamente queste curiose e dissonanti pratiche di contraffazione si direbbe che contengano una autenticità specifica e un certo grado di verità, se, per definirne il concetto, recuperiamo l’etimologia greca piuttosto che quella latina, traslata nella nostra lingua. In greco, infatti, aletheia (ἀλήθεια) indica qualcosa di non-più-nascosto, o anche di non-dimenticato. Per il mondo antico la verità non è tanto un dato di fatto o una prova scientifica ma un processo, un’azione di svelamento; con Heiddeger, una “rivelazione”, la maniera in cui le cose appaiono come entità nel mondo. L’aletheia, dunque, in quanto stato del non essere nascosto, dell’essere evidente, misura la comprensione della realtà nello stesso processo di svelamento.
In questa logica anche il balcone di Giulietta, assimilabile a una sorta di reenactment delle invenzioni hollywoodiane di Cedric Gibbons, è falso come monumento ma autentico come dispositivo, involontariamente riconducibile alle pratiche artistiche e alle invenzioni espositive viste fin qui. Copia fin dall’origine anonima ed espressamente inautentica con esplicito valore narrativo, non falsifica un originale probabilmente inesistente, ma prende forma su apparenze possibili avvalorate dalle molte narrazioni. Ciò che il balcone ci mostra, infatti, non è il balcone ma la sua dimensione mitica nella società dello spettacolo, quel “capitale – come scrive Debord – a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (Debord [1967] 1979, 15), carico di significati tutti da interpretare.
E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro (L. Feuerbach, cit. in Debord [1967] 1979, 11).
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English abstract
For Rancière in The Emancipated Spectator, fiction is nothing more than a singular way of grasping and interpreting reality, a thought modality whose root is the sensible. Therefore, there is no reality in itself, but only configurations of what is given as our reality, as the object of our perceptions. Fiction can be considered a perceptive device, a construction of space in which the visible, the speakable and the feasible are intertwined. The neologism Truthiness, according to Stephen Colbert, is ‘what you want the facts to be, as opposed to what the facts are’. The problem of information processing is a recurring theme in the reflection of many contemporary artists, and numerous and interesting curatorial strategies have underlined this. This article compares some ‘false’ exhibitions and museums in which the concept of vision and understanding of the contemporary world is investigated through the relationship true/false, copy/original.
keywords | Truthiness; Vero/falso; Hirst; Rugoff; Gržinić; MoAA.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Huber, Pratiche di display nell'epoca della Truthiness, “La Rivista di Engramma” n. 186, novembre 2021, pp. 185-207 | PDF