Per le circostanze della genesi, la forma incompiuta e progettuale, la diretta affiliazione a Dante, così come per altri aspetti di ordine tematico e stilistico, La Mortaccia si colloca al primo stadio di gestazione di quel complesso corpo a corpo che Pasolini ha instaurato con la Commedia e in particolare con i versi della sua prima cantica. Iniziato nel 1959, ma pubblicato solo sei anni più tardi all'interno del magmatico volume intitolato Alì dagli occhi azzurri, questo breve insieme di frammenti rappresenta il primo tentativo di riscrittura dell'Inferno su cui Pasolini si è cimentato a più riprese per sottoporre a verifica la propria poetica o, come come avvenuto più tardi nei testi della Divina Mimesis, per ragionare sullo sgretolamento delle condizioni di possibilità della mimesi dopo la crisi del nazionale-popolare gramsciano, la crescente mutazione antropologica delle classi subalterne e, più in generale, il radicamento del neocapitalismo in Italia.
Pur rappresentando i poli estremi di un medesimo percorso letterario e intellettuale il rapporto di discendenza tra La Mortaccia e La Divina Mimesis non è tuttavia di semplice continuità. Per molti versi risulta anzi accidentato, problematico e in qualche caso persino conflittuale. Non si contano i ripensamenti, le precisazioni e le spiazzanti palinodie compiute da Pasolini nei suoi tentativi di riadattamento dell'Inferno. Più che gli elementi di distanza, come la divergenza stilistica, linguistica e strutturale o il diverso ordine di interrogativi alla base della genesi delle due opere, sono tuttavia i punti di prossimità che rendono il loro rapporto di non facile decifrazione. La Divina Mimesis è anche la testimonianza dell’impossibilità de La Mortaccia, del fallimento di quest'opera che avrebbe dovuto rigenerare l'ideale di oggettività dei romanzi romani realizzato anche nel segno di Dante, del suo plurilinguismo e di quel percorso a ritroso negli inferi da cui estrarre quella preziosa materia creaturale, biologica e passionale da volgere in espressività letteraria.
L’ambientazione nel Mandrione, la scelta di una prostituta – Teresa Macrì – come protagonista, nonché l'ampio uso dell'indiretto libero ne fanno un'opera ancora legata alla produzione romana degli anni Cinquanta. Lo stesso Pasolini nel dialogo con un lettore risalente alla fine del 1960 afferma che per La Mortaccia si sarebbe servito dello “stesso procedimento linguistico” adottato in Ragazzi di vita e Una vita violenta, “ma con degli ovvi allargamenti” (Pasolini, 1960d, 920). Il proposito non è infatti più solo quello di estendere il proprio sguardo a quella del personaggio, per vedere il mondo attraverso i suoi occhi e riconoscerlo per mezzo della sua lingua. Con La Mortaccia Pasolini intende integrare lo schema narrativo dantesco per guardare anche oltre la realtà sottoproletaria. L’inferno che Teresa dovrà affrontare contiene nei progetti di Pasolini un'umanità più ampia e disomogenea: “dai ministri democristiani a Stalin, dai ladri e dai magnaccia a Moravia, dai napoletani ai milanesi”[1]. Come spiega poco oltre lo scopo è di “dare un giudizio, storicamente oggettivo, e una diagnosi, marxisticamente esatta, della nostra società” (921). Stando almeno a queste intenzioni, si direbbe dunque un'opera in continuità progressiva col passato, ancorata cioè a un ideale di mimesi giustificata letterariamente dalla tradizione critica che risale a Dante (agli studi di Contini sul plurilinguismo e alle pagine memorabili di Auerbach sulla mescolanza degli stili), e politicamente da Gramsci, il quale poneva l'esigenza di una letteratura capace di calarsi nel sentire delle classi subalterne ponendosi “il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri” (Gramsci 1975, 2114). E tuttavia non mancano elementi di ambiguità. Questa lettura, apparentemente solida e poggiata su fondamenta profonde, è perturbata da un altro elemento che a margine Pasolini dichiara di voler introdurre e che riguarda la volontà di dare forma a un'opera che sia anche “comica e satirica” (Pasolini 1960d, 920).
Non è chiaro se con questo riferimento Pasolini abbia in mente una particolare forma di mescolanza degli stili. Ad ogni modo nel dicembre del 1962 questa volontà – oramai più teorica che reale, dato che il progetto sembra essersi arenato – ritorna in modo ancora più netto. Sempre in un dialogo con un lettore, Pasolini riprende il discorso su La Mortaccia, che questa volta descrive come l'opera che ha preso “prepotentemente” il posto del Rio della grana, ovvero il romanzo, rimasto allo stadio di progetto, che avrebbe dovuto chiudere la trilogia romana. Se ne ricavano diversi cambiamenti di prospettiva. Scompare quella mediazione tra poetica realista e innovazione narrativa messa in risalto inizialmente. Anche il riferimento al comico, che poteva ancora ricondurre a una componente cruciale del modus loquendi dantesco, sparisce. La Mortaccia, scrive Pasolini, è ora “un pamphlet”, dunque un testo polemico, o ancora un “poema satirico in prosa” (Pasolini 1962b, 319). Il progetto che si profila in questa nuova fase non reca più traccia di quella mescolanza degli stili che caratterizza la Commedia e che, con la mediazione di Auerbach, Pasolini sembrava voler recuperare. A due anni di distanza la funzione di quest'opera è ormai mutata. Nel suo progetto prevale un senso di inappartenenza, di distacco dalla cultura e dalle forme espressive che in precedenza dovevano essere l'oggetto di mimesi mediata dal pluristilismo e dalla coscienza marxista.
Non è da escludere che in questa fase, segnata dai nuovi interrogativi estetico-linguistici posti dalla realizzazione della Ricotta e dalla stesura dei primi componimenti di Poesia in forma di rosa, Pasolini continui a riferirsi a La Mortaccia avendo però già in mente La Divina Mimesis[2], che effettivamente contiene elementi riconducibili a un taglio polemico-satirico nell'ottica dello stile medio codificato dalla tradizione (Auerbach 1956, 203-204), poi rivisitato nella chiave della “lingua dell'odio” (Pasolini 1975, 1090), e dove soprattutto la crisi della mimesi viene messa in grande evidenza. L’incongruenza più significativa, da cui è derivato l'abbandono del progetto de La Mortaccia, riguarda del resto proprio l'impianto linguistico e stilistico che Pasolini intendeva sviluppare a partire dagli esiti letterari di Ragazzi di vita e Una vita violenta. Nonostante le somiglianze, non pochi elementi indicano la condizione di incertezza e di dubbio in cui lo scrittore si è trovato in un anno molto particolare come il 1959. Manca anzitutto quel carattere dinamico, orientato su più registri, che caratterizzava l'impianto stilistico e linguistico dei due romanzi romani. Quell'alternanza di lingua e dialetto che consentiva a Pasolini di calarsi nella vita dei suoi personaggi con intervalli descrittivi più ampi e ariosi è del tutto assente (Desogus 2018a, 215-222). Domina anzi un impasto di italiano e romanesco statico e artificiale. Ne risente in particolar modo l'indiretto libero, usato ampiamente anche ne La Mortaccia. Sul piano formale le marche riconducibili all'istanza autoriale, che soprattutto in Ragazzi di vita contribuivano a creare un effetto di indecidibilità e tensione tra autore e personaggio, vengono meno. Gli indici di spazio rimandano a un punto di vista terzo, a un osservatore anonimo, pienamente mimetizzato. Non interagiscono direttamente con il punto di vista dell'autore. Nei due romanzi romani, al contrario, l'intersezione degli indici preannunciava quegli effetti più tardi raggiunti nel cinema con la soggettiva libera indiretta, dove l'autore con-partecipa alla vita dei suoi personaggi, senza mai del tutto scomparire in essi, nel loro mondo, nel loro sguardo sulle cose e nella loro parlata. Nei frammenti de La Mortaccia l'autore assume invece una posizione impersonale, molto vicino a Verga, che del resto in quegli anni Pasolini riscopre come maestro[3]. I cortocircuiti fra gli indici di spazio e di tempo del narratore e del personaggio creano una compenetrazione di mimesi e diegesi, ma senza scarti, senza quella consentimentalità che faceva dell'indiretto libero qualcosa di più di un semplice dispositivo realistico, ovvero un modo per Pasolini di esprimere il suo empito verso i subalterni: un voler vivere nel loro mondo, al loro fianco, nelle loro aspirazioni, come desiderio di desiderio. Tutto sembra invece soffocare in un naturalismo arbitrario, estraneo al progetto iniziale e alle riflessioni poetiche del periodo. La Mortaccia invece di rinnovare il rapporto con il reale lo svilisce in forme convenzionali che prefigurano quel decadimento linguistico sintetizzato nella formula della “lingua dell’odio” poc'anzi evocata.
Non è raro trovare in Pasolini incongruenze, talora anche molto forti, tra quanto effettivamente realizzato nell'opera e le intenzioni dichiarate in saggi, interviste e talvolta persino nelle quarte di copertina che confezionava accuratamente. La smania di autocitarsi, di autorecensirsi, di leggere gli scritti altrui in riferimento alla propria poetica sono il segno, talvolta equivocato dalla critica, di un corpo a corpo con i propri prodotti, che persiste anche quando sono oramai consegnati al pubblico e dunque resi autonomi rispetto alla sua volontà autoriale[4]. Nel caso de La Mortaccia questa tensione giunge però alle estreme conseguenze addirittura prima della pubblicazione, tanto che i suoi esiti, cioè la versione data alle stampe nel '65, insieme ai tanti epitesti (saggi, interviste, versi e persino una canzone) che hanno accompagnano il lavoro su quest'opera, appaiono come il risultato di una violenta esplosione innescata dalle contraddizioni che, in quella fase creativa, Pasolini ha vissuto con la propria poetica e con la secolarizzazione dei mezzi espressivi a cui non riesce a porre rimedio. La parola dialettale sembra infatti aver perso quel suo spontaneo carattere prensile che le consentiva di aderire alla realtà, al mondo visto e sentito dai suoi parlanti sottoproletari. Una forma di disincanto si è insinuata nel modello linguistico messo a punto nei romanzi romani. Tra parole e cose si è aperto un divario insanabile, un vuoto impossibile colmare. La reazione di Pasolini è però contraddittoria, incerta se proseguire nell'illusione che il realismo possa ancora sostenersi ricorrendo ai dispositivi stilistici del passato o se invece tentare altre vie per una loro nuova riconsacrazione mediata, come ne La Mortaccia, da Dante.
La lacerazione di questi anni è ad esempio ben riconoscibile in alcuni passaggi tratti dai testi già citati, dove Pasolini oscilla tra una postura di tipo neorealista, che alimenta il mito di un rapporto magico e spontaneo tra opera e realtà, e un atteggiamento che invece rivendica il carattere mediato e colto del lavoro di scrittura. In un'intervista del 5 luglio 1960 racconta la genesi dei suoi personaggi borgatari: “Sono tutti miei amici” afferma. “Ed io sto insieme ad essi senza schermi o pregiudizi di sorta. Parliamo, mi raccontano di sé, della loro vita: poi torno a casa e appunto quello che mi ricordo. Tutto qui” (Pasolini 1960d, 11). Pochi mesi dopo, su “Vie Nuove”, Pasolini ritorna con parole molto diverse sul suo lavoro di scrittura che “molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo”. Al contrario, “io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria” (Pasolini 1966c, 920). Si tratta di due posizioni che lasciano davvero poco spazio a mediazioni. Da un lato Pasolini sente il bisogno di restituire al proprio lavoro letterario un'aura referenziale nel tentativo di restare ancorato a un mondo ancora carico di possibilità espressive; dall'altro percepisce però anche il disincanto della propria mimesi e sente quindi la necessità di accettare la sua natura di artificio, di studiarne i meccanismi e di risalire alle tendenze letterarie italiane ed europee più illustri che ne hanno problematizzato l'aderenza con il reale. L'avanzata del neocapitalismo ha esaurito le fonti di espressività che nel dopoguerra si erano rivelate agli autori neorealisti e che permettevano una connessione al reale immediata, priva di quelle problematicità che invece Pasolini vede sorgere dopo il fallimento del Rio della Grana e dei progetti che si accumulano all'indomani della pubblicazione di Una vita violenta, nel 1959 – secondo Siti – “un anno cruciale per il destino di Pasolini narratore” (Siti 2007, XX). Tra questi compaiono Il lodo De Gasperi, romanzo che lo scrittore progetta di riprendere per mettere ordine alle prose friulane degli anni Quaranta, e la sceneggiatura per il film, intitolato Puzza di funerale – realizzato col titolo Morte di un amico da Franco Rossi nel 1960 – che è costretto a ripudiare dopo gli interventi del produttore che hanno deturpato quegli elementi del suo realismo ricavati dall'esperienza letteraria (cfr. Pasolini 1960b, 2263-2268).
Il 1959 è però un anno altamente problematico non solo sul piano poetico, ma anche su quello più strettamente intellettuale. È infatti l'anno della fine di “Officina”, che dopo appena due numeri interrompe la seconda serie e con essa il lavoro critico su uno dei temi più discussi da Pasolini e da tutto il gruppo dei redattori, ovvero il rinnovamento dell'impegno in letteratura. L'ultimo numero in particolare raccoglie il saggio pasoliniano che già nel titolo, Marxisants, riprende le riflessioni, formulate da Scalia (1959, 13) e Roversi (1959, 18) intorno alla rilettura antidogmatica del marxismo che la rivista si accingeva a svolgere. In questo scritto, non privo di ombre e incertezze, Pasolini auspica una “rigenerazione del marxismo” (Pasolini 1959b, 86) per fronteggiare le più recenti trasformazioni del capitalismo italiano di cui percepisce un cambio di passo insidioso e pervasivo, soprattutto per il coinvolgimento di una vasta area progressista. Il mondo popolare subalterno da lui rappresentato è ora minacciato dalla capacità del capitale di integrarlo all'interno di un disegno orientato a modificarne i bisogni sociali, le aspettative e i modi di vivere. La condizione di marginalità rispetto alla storia non è infatti più garanzia di estraneità e salvezza dai processi di alienazione consumistica e di sfruttamento.
A dispetto, dunque, del miglioramento economico del paese, in Marxisants Pasolini rileva come nelle periferie avanzi una forma di deterioramento non solo materiale, ma anche morale e sociale. Già nel passaggio da Ragazzi di vita a Una vita violenta, aveva mostrato questo progressivo degrado aumentando il tasso di realismo della sua prosa e introducendo elementi di ferocia e abiezione prima assenti. In una penetrante analisi di questo secondo romanzo Walter Siti osserva che “I ragazzini amorali sono diventati dei delinquenti” (2007, X) e questo porta Pasolini a indugiare sempre più sulla violenza delle loro azioni e del loro linguaggio. Nella prosa di Una vita violenta – ma se vogliamo anche in alcuni dei contributi per il cinema, si pensi al film La notte brava di Bolognini, uscito anch'esso nel 1959 – si inizia a percepire il deperimento della loro vitalità insieme a quella mutazione del loro vivere e sentire il mondo che ha reso poi impossibile la stesura del Rio della grana. In Marxisants Pasolini giunge dunque a riflettere sulle ricadute letterarie di questo processo sociale. In particolare ne ricava la necessità di allargare lo sguardo oltre il mondo borgataro:
Al letterato in questo periodo transitorio – scrive Pasolini su “Officina” – si presenta […] una immensa quantità di materiale: la scala fenomenologica è vastissima, in questo mondo complesso e antitetico, pieno di casi estremamente particolari ed estremamente tipici: distribuiti in una società che, in un momento di particolare calma, efficienza e quasi ottimismo, è, al contrario, alle soglie della sua più grande crisi (Pasolini 1959b, 88).
Difficile non riconoscere in questa “immensa quantità di materiale” quell'universo umano che ne La Mortaccia la prostituta Teresa avrebbe dovuto incontrare nel nuovo inferno pensato attraverso Dante e la Commedia. Solo il particolare impianto letterario di un'opera grandiosa, capace di abbracciare l'insieme del mondo terreno in cui la singolarità non dilegua, ma anzi trova modo di esprimersi nella sua piena attualità, è adeguato all'impresa di descrivere il reale in tutti i gradi della vastissima “scala fenomenologica” evocata da Pasolini. Le tre cantiche non si limitano infatti a ordinare le anime secondo determinate categorie teologiche e morali. La grandezza del realismo dantesco risiede anche nella capacità di fissarle nell'orizzonte eterno dell'oltrevita, senza distruggere la loro individualità, ma al contrario “portandola a compimento e rendendola del tutto trasparente” (Auerbach 1946, vol. 1, 209). Il modello della Commedia, e in particolare dell'Inferno, consente infatti di raffigurare l'individuo nella sua totalità, di conferirgli apparenza fenomenica e di dare forma sensibile al suo fare e patire in una tessitura che unisce ordine morale e ordine fisico-cosmologico e che attinge a una gamma tonale amplissima, che combina “sublime grandezza e spregevole bassezza” (Auerbach 1946, 205).
Ne La Mortaccia Pasolini ritorna a Dante per rinnovare e anzi riconsacrare i mezzi espressivi e linguistici su cui aveva potuto confidare sino a quel momento per afferrare quel dato “terreno-sensibile”[5]della sua prosa. Si tratta di un ritorno a Dante, ovvero del recupero di quel rapporto diretto con il reale che anche grazie allo studio della Commedia lo scrittore aveva scoperto a Casarsa, nella seconda metà degli anni Quaranta, e poi ritrovato a Roma, dove matura una più salda consapevolezza del proprio stile e di quel nesso che unisce l'elemento materico, fisico ed erotico della rappresentazione con la forma estetica e squisita della parola poetica. A supporto di questa operazione concorre anche il magistero di Contini a cui si aggiunge, dal 1956 la scoperta di Auerbach attraverso Mimesis (cfr. Bologna 2009; De Laude 2009; Cadoni 2011; Picconi 2015). Queste letture consentono di riproblematizzare il tema del realismo nell'ottica di quel “regresso lungo i gradi dell'essere” (Pasolini 1952, 856) sviluppato da Pasolini negli anni giovanili (Desogus 2015), in seguito a una grande varietà di interessi artistici, linguistici, politici che in forme diverse, anche dopo il trasferimento a Roma, ritrovano linfa nell'incontro con il sottoproletariato dell'estrema periferia di Pietralata, di Ponte Mammolo e del Mandrione.
Come si osserva già nelle prose degli anni Cinquanta, Pasolini concepisce le borgate romane come il luogo in cui è ancora possibile compiere quel ribaltamento assiologico descritto da De Sanctis in alcune sue pagine dedicate alla prima cantica della Commedia. “Il regresso dell'inferno” è da lui descritto come “un cammino a ritroso dell'umanità”, un ritorno “ai formidabili inizi del genere umano”, al “puro terrestre”, espressione di fisicità, forza, “materia stupida” (De Sanctis 1870, 195). E tuttavia questo movimento “pare un regresso: pure è un progresso” (ivi, 248). Come De Sanctis spiega in un'altra pagina dei suoi saggi critici, “[l]'umanità nel suo corso ideale va da inferno a paradiso, da carne a spirito; l'inferno è il mondo della carne e il suo progresso è il regresso” (De Sanctis 1872, 52). Allo stesso modo Pasolini in un'importante pagina dell'Italiano è ladro definisce il suo lavoro di scrittura come un “regredire e riaffiorare” (Pasolini 1949-1950, 872), ovvero come una discesa negli abissi dell'umano attraverso un percorso che dal dato concreto-sensibile risale poi alla parola letteraria rigenerandola e conferendole un'espressività legate alle cose del mondo. In particolare in Ragazzi di vita e in Una vita violenta l'impasto di lingua e dialetto, l'indiretto libero e la narrazione tendente alla frammentazione consentono queste continue incursioni dall'alto verso il basso e viceversa, che isolano momenti di vita dei sottoproletari di Roma e che mettono in evidenza il tratto contraddittorio e irrisolto del loro agire.
Seguendo questo doppio movimento Pasolini ha ritratto numerosi personaggi dal profilo ambivalente, combattuto, nonché dotati di una personalità dai tratti morali contraddittori, riferibili direttamente a una forma estetica, a un'apparenza caratterizzante. Uno degli antesignani è Gabbriele, protagonista di Squarci di vita romana del 1950: “nero come un demonio, bianco come un arcangelo” (Pasolini 1950a, 339)[6]. Dello stesso anno è Il biondomoro, che già dal titolo lascia intravedere una polarità paradossale, irriducibile, che nel corso del racconto finisce per frantumarsi nei diversi volti dei pischelli che scorrazzano in una Roma a sua volta divisa tra inferno e paradiso (Pasolini 1950b, 372). È però soprattutto con Riccetto e Tommasino che lo scrittore riesce a tratteggiare il profilo del sottoproletario lacerato da forze di segno opposto, che aggregano e disgregano brutalità e innocenza, impulso e grazia. Entrambi sono capaci di comportamenti bassi e vili, ma anche di esprimere amore e coraggio. Allo stesso modo la loro volontà oscilla tra impeto e svogliatezza, curiosità e ottuso conformismo. Riescono ad essere fascisti e comunisti, spensierati e pronti a metter su famiglia. La loro è una sensualità rozza e allo stesso tempo nobile: come in un quadro di Caravaggio attinge dai più profondi flussi del corpo, attraversa le sue fibre ed esplode in passioni violente e incontrollate. Anche sul piano più strettamente espressivo il tono elevato della lirica e lingua dell'abiezione sono sempre convocate dallo scrittore in quell'ottica della mescolanza degli stili che riconduce a Dante.
L’Avvertenza che chiude Alì dagli occhi azzurri consente di estendere questa doppia natura anche ai personaggi del suo cinema o quanto meno ai personaggi della prima parte della sua produzione. In queste pagine Pasolini ringrazia Sergio Citti, fratello di Franco e futuro regista, (“il suo demone percorre questo libro”, Pasolini 1965a, 889) e Ninetto Davoli (“ossesso, con gli occhi dolci e ridarelli”, ivi). Anche nei suoi film, e soprattutto nella prima produzione cinematografica, Pasolini configura il personaggio sottoproletario su piani espressivi in conflitto: il piano corporeo e creaturale insieme al piano visivo, che richiama l'arte italiana rinascimentale o al piano musicale con innesti dalla tradizione colta di Bach (Accattone), Vivaldi (Mamma Roma), Mozart e Prokofiev (Il vangelo secondo Matteo). La mescolanza degli stili è così importante in Pasolini da essere uno degli oggetti tematici della Ricotta che, sullo sfondo della passione cristiana, racconta la difficoltà di un regista – un alter ego dell'autore – a unire lo stile umile e popolare allo stile sublime della poesia religiosa medievale (Iacopone da Todi), dell'arte tardo rinascimentale (Rosso Fiorentino e Pontormo) e della musica barocca (Scarlatti)[7].
In un confronto col Sartre della Critica della ragione dialettica, Enzo Paci ha affermato che “Pasolini non crede ad una 'coscienza pura' gratuita che non passi attraverso la ‘fenomenologia della coscienza impura’” (Paci 1961, 309). Il lavoro estetico sui suoi personaggi si nutre proprio per questo del carattere terreno, sensuale e persino immorale della realtà sottoproletaria, secondo una chiave che risale alla tradizione cristiana, mediata sul piano politico da Gramsci e da quello letterario dal realismo di Dante. Sull’esempio della Commedia, e soprattutto dell’Inferno, la concretezza terrestre stimola e intensifica la mimesi poetica, ne è anzi un ingrediente indispensabile, necessario per sollevare il velo di uniformità che spegne i caratteri dei personaggi e non lascia rilucere nella parola il brulichio della vita di borgata, il suo dato concreto, materico. E del resto anche in Pasolini non c'è nulla da elevare o nobilitare, vale per lui quanto detto per Dante, l'autore in cui “la dignità delle cose è la loro verità” (Auerbach 1944, 89).
Alla fine degli anni Cinquanta, come osservato in precedenza, questa verità appare a Pasolini offuscata, appiattita. La parola letteraria smarrisce il contenuto sensibile del mondo sottoproletario. Con l’inizio del miracolo economico e le trasformazioni sociali e politiche della fine del decennio, anche le periferie si trasformano. La carica vitale ricavata dalla parola di Ricetto o di Tommasino si dissolve nelle nebbie del neocapitalismo. Viene dunque a perdersi quella profondità che rendeva le loro figure duali, angeli e allo stesso tempo demoni. Non è più sufficiente “risalire e riaffiorare” attraverso il lavoro linguistico dei primi anni Cinquanta. Pasolini se ne rende conto con le difficoltà a scrivere il Rio della Grana, di cui lascia al lettore solo uno schema in lingua (Pasolini 1959c). Il progetto di questo romanzo, la cui stesura viene addirittura annunciata nella quarta di copertina di Una vita violenta, non trova più le proprie pezze d’appoggio nell'elaborazione stilistica che restituiva alle cose la loro dignità preservandone i contrasti espressivi e la profondità terrestre. Nella selva oscura della fine degli anni Cinquanta, dell'Italia in cui il miracolo economico produce i primi effetti, Pasolini smarrisce il proprio referente sociale, esistenziale ed estetico. La mimesi perde il proprio slancio sulle cose, sull'agire e patire dei personaggi, soffocata da una lingua viepiù convenzionale. Non gli resta che tematizzare questa crisi, portando in scena uno degli ispiratori del suo modello poetico, ovvero Dante che in qualità di guida compare all'interno de La Mortaccia.
La presenza di Dante come personaggio, chiamato a soccorrere una giovane prostituta nella selva oscura della borgata ha un valore non solo narrativo, ma anche meta-letterario. La Mortaccia è un’opera-laboratorio che mette in scena le inquietudini dell'autore sulle proprie possibilità espressive di cui percepisce la crisi. La mimesi pasoliniana ha perso la sua ovvietà, il suo diretto contatto con le cose del mondo. L’aura magica della parola dei subalterni, di questa realtà sino alle soglie degli anni Sessanta rimasta ai margini della storia, ha dissipato la propria efficacia. Il mondo che essa evoca non è più riflesso nel loro sguardo, ma è sempre più confuso dalle immagini rutilanti che impone il neocapitalismo. Per contrastare questo processo di sconsacrazione gli è allora necessario esplicitare le premesse del proprio stile e risalire al suo padre nobile, cioè Dante che assume la veste di guida e che dovrà accompagnare la prostituta borgatara Teresa Macrì all'interno di un percorso in cui i suoi occhi potranno vedere la realtà senza i filtri ideologici che impone la nuova egemonia consumistica. Vi è in questa scelta una sorta di rovesciamento ironico, forse involontario, che tuttavia non sembra tradire la vena dantesca. Là dove infatti nel Convivio Dante prendeva posizione contro chi aveva lasciato “la litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice” (Conv. I, I, 5), Pasolini cerca di uscire dalla propria impasse poetica incaricando una prostituta di riscattare il lavoro letterario attraverso un viaggio negli abissi della modernità che ha secolarizzato il rapporto mimetico tra parole e cose.
Quella della prostituta è una figura molto presente nell'opera pasoliniana, soprattutto nel cinema. La più nota è Roma Garofalo, interpretata da Anna Magnani in Mamma Roma, film in cui compare anche Bruna. Risalendo cronologicamente all'indietro altri due personaggi importanti sono Maddalena e Stella di Accattone. Si tratta di quattro figure femminili molto diverse tra loro, accomunabili tuttavia per alcuni tratti specifici che le caratterizzano sia sul piano narrativo che su quello estetico-morale. La prostituta, ovvero la “zozza”, la “donnaccia” o come appare nei romanzi la “scausa”, la “scaja”, la “zanoide”, è in Pasolini la figura più vulnerabile, la più debole e irresoluta, l'ultima nella scala dei sottoproletari. Anche Roma, cui non mancano l'astuzia, l'intraprendenza, l'aspirazione a una vita diversa, a un desiderio di cambiamento e persino di rivalsa individuale, è costretta a soccombere, incapace di sottrarsi al proprio vecchio protettore, ma soprattutto a una forza interiore e irredimibile che la respinge nel fango della periferia romana. La sua miseria, come quella di Bruna, Maddalena e Stella, è “una condanna indelebile, [...] un peccato originale” (Pasolini 1962a, 26) che torna a galla continuamente. A questa debolezza, sia materiale che esistenziale, si aggiunge poi la fragilità fisica su cui la macchina da presa indugia. Le scene di aggressione dei napoletani ai danni di Maddalena, dei pischelli che prendono di mira Bruna e ancora l'immagine di Roma, che invano tenta di reagire a Carmine e al destino della strada, descrivono una condizione di inferiorità, di subalternità radicale e ancora di precarietà ontologica da cui tuttavia sorge anche un'autentica forma di innocenza, l'estrema verità della esistenza di queste figure femminili. La vita terrena è l'unica cosa che possiedono, per questo anche nelle situazioni di feroce abiezione Pasolini riesce a cogliere nel loro dramma un'essenza umana e creaturale che nelle prose romane, dove domina invece il personaggio maschile, emerge con maggiore difficoltà.
A questo stadio avanzato di elaborazione della figura della prostituta Pasolini giunge tuttavia non con l'esordio al cinema, ma dopo un'intensa fase di sperimentazioni poetiche, compiute in ambito letterario, di cui La Mortaccia è un esempio. Esistono per la verità numerosi altri precedenti, il più importante dei quali è probabilmente Mignotta (relazione per un produttore) (Pasolini 1954[8]). Si tratta di un testo che in forma germinale presenta alcuni degli aspetti più compiuti di Accattone e Mamma Roma. Nonostante lo stile narrativo tardo naturalista, la protagonista, Nannina, ha molto di Stella e di Roma. È intraprendente ma ingenua; aspira a una tranquilla vita piccolo-borghese – che a un certo punto riesce pure a raggiungere –, ma sa conservare una propria dignità, anche quando nella disgrazia viene trascinata dagli eventi ed è costretta a ritornare nella baracca e prostituirsi.
Il racconto, che come evoca il titolo era stato inizialmente immaginato per il cinema, ha trovato sede solo nel 1965, ancora una volta all'interno di Alì dagli occhi azzurri. Tuttavia il personaggio di Nannina ha continuato a maturare nella mente di Pasolini, forse anche per via di alcune circostanze da lui stesso indirettamente propiziate con la pubblicazione di Ragazzi di vita nel 1955. Appena un anno dopo, infatti, sull'onda dell'interesse verso le borgate romane, due collaboratori di Ernesto de Martino, Franco Cagnetta e Franco Pinna, lavorano a un'inchiesta etnografica sulle realtà più povere di Roma. La loro attenzione si concentra sulla periferia sud, in particolare sulla borgata del Mandrione, dove Pasolini aveva ambientato la fine della parabola di Nannina. Lui stesso, insieme a Elsa Morante, Alberto Moravia e Goffredo Parise, viene coinvolto nelle spedizioni in questa borgata, all'epoca nota non solo per la miseria, ma anche perché riuniva vecchi abitanti del posto, famiglie ancora sfollate dai bombardamenti di San Lorenzo e una comunità rom che aveva conservato molte usanze della propria tradizione (Pinna 1996, 302).
La gran parte degli scritti ricavati da Cagnetta sul tema è tutt'ora inedita o dispersa. È rimasto il materiale fonografico raccolto con la collaborazione di Giorgio Nataletti e Diego Carpitella del Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare. Tra i reperti più significativi vi sono inoltre le immagini scattate da Franco Pinna ad alcune prostitute di una baracca del Mandrione. Secondo la testimonianza di Cagnetta una di queste è Silvana Rubes, diciassettenne, dedita alla prostituzione da otto mesi (Cagnetta 1956, 136), dopo tante traversie che ricordano la vicenda di Nannina e di altri personaggi femminili pasoliniani, come Teresa Macrì, anch'essa legata al Mandrione. Non è chiaro che tipo di rapporto abbia avuto Pasolini con Cagnetta e Pinna durante la loro ricerca etnografica. Probabilmente è stato solo interlocutorio o comunque legato alle comuni frequentazioni del Centro Etnologico Italiano fondato da de Martino nel 1953. Ad ogni modo le immagini che rimangono di quella piccola impresa immortalano una realtà che ha continuato a operare in Pasolini anche negli anni seguenti. Un'importante traccia è il breve reportage, pubblicato su “Vie Nuove” nel maggio del 1958 e intitolato I tuguri. L’umanità impura che Pasolini descrive arricchisce di molto la descrizione del Mandrione, anche più di quanto comparisse nelle pagine dedicate a Nannina. Qui Pasolini raffigura se stesso per le strade della borgata, dove tra le baracche, i ragazzini vestiti di stracci e le prostitute ritrova quell'impasto di disumanità e vitalità che aveva contrassegnato le prose romane. La realtà del Mandrione è però solo evocata. Non c'è dialetto, non c'è indiretto libero, né mimesi. Il fango, i muraccioli scalcinati, le baracche fatte di assi fradice non sono raffigurati e resi evidenti attraverso il lavoro espressivo. Emergono tuttavia quei contrasti laceranti che tante volte l'autore aveva cercato nei suoi personaggi borgatari: “La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto” (Pasolini 1958, 1466).
Non stupisce allora che anche Teresa Macrì provenga dal Mandrione, come un’ideale erede di Nannina o di Silvana Rubes. La sua realtà esiste. Pasolini l'ha vista con i propri occhi. Decide dunque di vincolare il suo personaggio agli spazi di questa borgata: “l’archi, con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi”, “il funtanone”, “la muraglia dell'Acquedotto Felice” (Pasolini 1959a, 519). Il legame tra Teresa e il Mandrione è sin dalle prime righe de La Mortaccia fortissimo, forse persino eccessivo. Non si tratta dell'unico esempio in cui Pasolini ricostruisce nei dettagli le aree urbane in cui colloca i suoi personaggi. Vi è da parte sua un forte attaccamento ai luoghi, alle strade, al dato referenziale della scena. Eppure, nel caso de La Mortaccia, si direbbe che questa insistenza superi la semplice esigenza di realismo. Lo si osserva anche in un paratesto de La Mortaccia, una canzone risalente al 1960, scritta per Laura Betti, e intitolata Macrì Teresa detta pazzia. In questi versi una giovane donna, rinchiusa in una caserma, dopo una retata, racconta i dettagli esatti sulla propria residenza: “Via del Mandrione a la baracca ventitré” (Pasolini 1960a, 1313). Nella canzone si scoprono numerosi altri dati biografici di Teresa, che in qualche modo mostrano come Pasolini sentisse la forte necessità di far vivere questo personaggio, di calarlo all’interno di uno spazio concreto, denso di immagini, suoni, vita quotidiana. Più che rafforzare il realismo quest’ansia referenziale tradisce tuttavia un senso di precarietà. Il reale gli sfugge di mano e deve inseguirlo. Si percepisce un primo senso di svuotamento sensibile della parola, evidente del resto anche in altri aspetti della prosa, che come è stato detto in precedenza risente di un ritorno all'impersonalità verghiana e di un impasto di lingua e dialetto usurato, quasi convenzionale. L’opera che avrebbe dovuto riconsacrare il rapporto tra parole e cose, e quindi rinnovare la mimesi pasoliniana, fallisce sin dalle prime pagine e manda a monte quell'allargamento di prospettiva che gli occhi di Teresa avrebbero dovuto offrire sulla società contemporanea, al principio della grande avanzata neocapitalistica che di lì a poco modificherà profondamente l'Italia. A Pasolini si offre tuttavia subito un'alternativa che sebbene non permetta di affrontare subito lo sgretolamento delle vecchie certezze letterarie, gli consente di recuperare la riflessione su Dante e sulla mimesi, ovvero sull'idea che “imitazione della realtà è imitazione dell'esperienza sensibile della vita terrena” (Auerbach 1946, 207). Al dialetto e ai diversi dispositivi espressivi messi a punto sin dall'arrivo a Roma nel 1950, Pasolini predilige ora il cinema, dunque lo strumento che salta la mediazione verbale e mira a far emergere direttamente l'esperienza sensibile.
Si tratta dello sbocco naturale che segue il fallimento della mimesi referenziale tentata invano, come extrema ratio, ne La Mortaccia. Le riprese di Accattone iniziano nell'autunno del 1960 e rivelano subito quello splendore osceno di cui si aveva avuto un primo esempio nelle foto di Franco Pinna scattate al Mandrione e che consentono a Nannina e Teresa di riscattarsi nelle figure di Maddalena, Stella e più tardi di Bruna e Roma. Attraverso i loro corpi, le loro voci, i loro gesti la coscienza impura di Pasolini ritrova, anche se solo provvisoriamente, la sua concretezza, il suo dato terreno-sensibile.
Quasi un epilogo
Nel novembre del 1965, al momento della pubblicazione del frammento della Mortaccia in Alì dagli occhi azzurri, Pasolini aveva già iniziato o si accingeva a completare la maggior parte delle sezioni più tardi raccolte nella Divina Mimesis. Il distacco dal primo tentativo di riscrittura dell'Inferno emerge in un'intervista della fine del 1964 ad Alfredo Berberis, dove annuncia che non sarà più una donna a compiere il viaggio nell'oltrevita, ma sarà lo stesso Pasolini. Sul piano linguistico lascia emergere qualche segnale di continuità: “ci sarà sempre una mescolanza di dialetti” che però considera “arcaici” (Pasolini 1964b). In ogni caso non fa riferimento alla Divina Mimesis, sebbene questo titolo sia già comparso in un'intervista (Pasolini 1963) e soprattutto nei versi di Progetto di opere future, risalenti agli ultimi mesi del 1963 e poi raccolti in Poesia in forma di Rosa[9]. In questo controverso componimento Pasolini fa esplicito riferimento alla “ricerche” che sta compiendo per la Divina Mimesis, che definisce “opera, se mai ve ne fu, da farsi” (Pasolini 1964a, 1251).
La formula scelta, “opere da farsi”, è tutt'altro che innocente. Essa compare anche in altri punti del corpus pasoliniano con un significato via via sempre più precisato e chiarito. Fa capolino persino nella quarta di copertina di Alì dagli occhi azzurri, insieme ad altre preziose indicazioni sul travaglio intellettuale vissuto dallo scrittore nel fatidico 1959. In questo breve testo di autocommento, per molti versi tendenzioso e strumentale, Pasolini descrive la crisi del suo realismo degli anni Cinquanta, orientato alla “realizzazione di una totale mimesi stilistica” volta a far emergere il conflitto tra i “ribollenti contenuti ideologici” e la “violenza biologica” (Pasolini 1965b, 2458) del mondo sottoproletario raffigurato nei suoi romanzi. Segue una descrizione del volume, ordinato secondo un percorso che inizia con i “racconti ‘da farsi’ per arrivare, con gli ultimi racconti ‘non fatti’”(ibid.). Si tratta tuttavia di una divisione da prendere con beneficio d'inventario. Non è infatti chiaro perché i primi racconti, relativi all'inizio del periodo romano, debbano essere considerati “da farsi”, mentre gli ultimi, tra cui gli schizzi narrativi di film effettivamente realizzati come di Accattone, Mamma Roma e La Ricotta, debbano essere invece considerati come “non fatti”. Allo stesso modo è difficile capire in che posizione collocare La Mortaccia, e dunque se inserirla tra i testi che prefigurano qualcos'altro, come retrospettivamente il lettore di oggi può dire riferendosi alla Divina Mimesis, o se invece questo racconto debba essere considerato solo come un relitto narrativo incompiuto, che intrattiene con gli esiti letterari posteriori solo un wittgensteiniano rapporto di “somiglianze di famiglia”.
Che il concetto di “opera da farsi” abbia comunque una significativa rilevanza e che la sua comparsa non sia affatto casuale è dimostrato dalle occorrenze degli anni seguenti, la più importante delle quali è contenuta nel volume di “Nuovi Argomenti” del gennaio 1966, dove compare un testo che sotto il medesimo titolo di Laboratorio unisce due saggi non pienamente comunicanti tra loro: Appunti en poète per una linguistica marxista e il secondo di La sceneggiatura come “struttura che vuole essere altra struttura”. Questi due importanti scritti, ripubblicati separatamente in Empirismo eretico, contengono al loro interno numerose riflessioni, strettamente connesse con le preoccupazioni letterarie sorte nel corso del lavoro su La Mortaccia e con l'esordio al cinema del 1961 con Accattone. Si tratta di un testo che, come molti di questo periodo, esibisce un carattere transitorio e precario. Lo stesso stile perentorio e talvolta apodittico lascia trasparire l'affanno prodotto dal folle lavoro intellettuale e artistico in cui in questa fase Pasolini si cimenta, rapito dai suoi tormenti, dalla furia di rispondere colpo su colpo alle mutazioni culturali, sociali e politiche del suo tempo. Non mancano poi gli assilli del passato. Sono infatti questi gli anni in cui rimedita sul discorso indiretto libero e si spinge a estendere questa nozione anche a Dante, provocando un ampio dibattito con gli intellettuali dell'epoca, tra cui Cesare Segre e Cesare Garboli (Desogus 2018b, 150-152).
Del Laboratorio è a questo proposito interessante anche la genesi strettamente legata al concetto di “opera da farsi”, che qui Pasolini impiega per spiegare il rapporto tra la sceneggiatura e il film. In particolare la seconda parte del saggio rielabora e aggiorna alcune prime riflessioni pubblicate su “Filmcritica” qualche mese prima, dove compare l'abbozzo teorico di una semiotica primitiva fondata su tre forme espressive, ovvero il segno orale, il segno grafico e l'immagine. Non staremo a verificare la validità scientifica di questo modello, quello che interessa è il modo in cui Pasolini fa interagire tra loro queste tre forme: “Non c'è parola così astratta che non susciti in noi, contemporaneamente alla sua pronuncia o alla sua apparizione scritta, una qualche immagine” (1966a, 9). L’espressione verbale più convenzionale, così come quella più finemente elaborata riportano sempre a un'immagine, a un dato sensibile che sarà a sua volta più o meno carico di senso.
A supporto di questa riflessione Pasolini fornisce alcuni esempi, il più significativo dei quali riporta ancora una volta a Dante. L'occasione gli viene offerta da un verso del Purgatorio (“Conobbi il tremolar della marina”, Purg., c. 1, v. 117 ) che consente di mostrare come la parola poetica sia in grado non solo di veicolare un contenuto sensibile, di esprimere un mondo, ma anche di stimolare la capacità immaginativa (Pasolini 1965a, 10). Si tratta a ben vedere di una variante della riflessione giovanile sul “regresso lungo i gradi dell'essere”, questa volta filtrata però da Auerbach, che meglio di ogni altro ha riflettuto sulla capacità della parola dantesca di raffigurare il mondo e di suscitare la fantasia del lettore. Nella Commedia infatti anche “la più astratta costruzione dottrinale diventa un incantesimo il cui splendore sensibile si fonde col contenuto, in ogni coscienza recettiva, e sembra appartenergli” (Auerbach 1962, 7).
È sulla traiettoria di questa prospettiva che nel Laboratorio prende le mosse la riflessione sullo statuto letterario della sceneggiatura, che Pasolini definisce “struttura che vuol essere altra struttura” e che in quanto tale possiede il carattere esemplare dell'opera da farsi, ovvero di quel testo verbale che in misura maggiore o minore del proprio potere espressivo rinvia a un'esperienza sensibile. Pasolini non chiarisce se questo contenuto sia idiosincratico o se invece possieda anche una natura intersoggettiva. Ma più che lo statuto semiotico del contenuto si direbbe interessato al movimento di rinvio, all'allusione non verbale che determina l'opera da farsi. La riflessione sulla sceneggiatura gli ha infatti consentito di fare una piccola scoperta che gli vale per qualsiasi altra formazione espressiva verbale e che impiega anche per valutare la propria opera: “La mia lingua non consiste [...] in una struttura stabile, ma vive la inquietudine motoria, il bisogno di metamorfosi di una struttura che vuoi essere altra struttura” (Pasolini 1966b, 1316). In assenza di questo movimento la parola diventa “pretestuale”, autoreferenziale, incompiuta.
Opera da farsi od opera non fatta? Struttura che vuole essere altra struttura o struttura pretestuale? Il dilemma sul valore de La Mortaccia nel corpus pasoliniano passa anche da questi interrogativi. Come si accennava, in Alì dagli occhi azzurri Pasolini non risponde e forse confonde deliberatamente le acque. Vuole che sia il lettore a scegliere e dividere i testi della raccolta. Non bisogna però stare completamente al suo gioco. Occorre forse guardare La Mortaccia da un'altra prospettiva ancora, quella della Divina Mimesis che, certo, è un'opera radicalmente diversa anche per il solo fatto che Pasolini la colloca tra le opere “se mai ve ne fu, da farsi”. Al suo interno cambia la lingua, cambia lo stile e cambiano anche i personaggi: Teresa lascia il posto a Pasolini, mentre Dante, che rivestiva il ruolo di guida, lascia il posto a un altro Pasolini, al Pasolini degli anni Cinquanta, l'autore delle Ceneri di Gramsci, ma anche l'autore che con la riscrittura dell'Inferno avrebbe dovuto riscattare la mimesi degli anni Cinquanta dalla secolarizzazione prodotta dal neocapitalismo.
Anche in una fase intermedia di redazione de La Mortaccia Pasolini aveva pensato di calare se stesso nel racconto (Massara 1960, 16). In questo caso si assiste però a un suo vero e proprio sdoppiamento in due distinti personaggi che innesca una sorta di mise en abyme. Il Pasolini-guida è in quest'ottica una “sopravvivenza”[10], un dato superstite che giace nel sostrato della sua opera proprio di poeta del mondo terreno, di scrittore che ha seguito la via del realismo e che ora ricompare nella Divina Mimesis. Nel romanesco più triviale diremo che è uno dei “mortacci sua”, un antenato maledetto, imprecato, proprio come sarebbe dovuta apparire Teresa nella prima riscrittura dell'Inferno. Vi è tuttavia una differenza: mentre la giovane prostituta resta un inespresso del passato, senza redenzione, il Pasolini degli anni Cinquanta si manifesta nei termini di Auerbach come figura che ha trovato nella Divina Mimesis un paradossale riscatto, un compimento. Il Pasolini del passato persiste come guida, come colui che nel 1975, avrebbe dovuto accompagnare il Pasolini autore e personaggio corsaro nella modernità della mutazione antropologica, del nuovo fascismo e di quell'universo orrendo del neocapitalismo “diserto d’ogne virtute” e “di maliza gravido e coverto” (Purg, c. 16, vv. 58-60).
Note
[1] In modo simile, in un'intervista Pasolini afferma: “Quanto agli altri personaggi poi avremo delle vere e proprie sorprese…Stalin sarà al posto di Farinata, Gadda fra i golosi, Migliori e Tupini fra i lussuriosi, i dorotei sotto la cappa dorata degli ipocriti, Moravia nel limbo dei virtuosi non battezzati… li ritroveremo tutti, prima o poi, i personaggi più in voga del mondo contemporaneo; e nella bolgia dei ladri, come dicevo, gli scippatorelli di Panigo che racconteranno la loro storia” (Pasolini 1960c, 11). Cfr. inoltre Massara 1960.
[2] Il primo documento che dà notizia della Divina Mimesis risale del 1963 (Pasolini 1963).
[3] Alla domanda di Walter Pedullà se Verga fosse un suo maestro Pasolini risponde: “Il procedimento stilistico dei miei romanzi non è diverso da quello di Verga. Egli ha usato il discorso libero indiretto, perché intendeva raccontare i fatti così come erano visti dagli umili; io li racconto come li vede e li sente il sottoproletariato romano” (Pasolini, Un pizzico di irrazionalità, Mondo nuovo, 18 dicembre 1960e, 7).
[4] Come più in generale ha spiegato bene Mengaldo, la produzione critica di Pasolini non riflette gli ideali poetici dell'autore, ma è un suo elemento dialettico (Mengaldo 1981, 425).
[5] Questa espressione è di Auerbach ed è riferita a Dante (1929, 5).
[6] Sulla natura angelica e allo stesso tempo demoniaca dei borgatari pasoliniani cfr. Simonetti 2028, 46.
[7] Sull’influsso di Auerbach nel cinema di Pasolini attraverso la nozione di “mescolanza degli stili”, cfr Cadoni 2011.
[8] Negli apparati di Romanzi e Racconti. 1962-1975, vol. 2, Walter Siti e Silvia De Laude retrodatano il racconto al 1953 (1960).
[9] “Mi rifaccio cattolico, nazionalista, / romanico, nelle mie ricerche per “BESTEMMIA”, / o “LA DIVINA MIMESIS”” (Pasolini 1964a, 1246).
[10] Sul concetto di “sopravvivenza” in Pasolini, cfr. Picconi 2014.
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G. Scalia, Una prefazione a Spitzer, “Officina”, n.s., 1 (marzo-aprile 1959), 10-13. - Simonetti 2018
G. Simonetti, Da un Dante all’altro. Pier Paolo Pasolini e la “Divina Mimesis”, “Parole Rubate” 18 (dicembre 2018), 39-51. - Siti 2007
W. Siti, Un amore pagato caro, pref. a P.P. Pasolini, Una vita violenta, Torino 2007, IX-XXI.
English abstract
The essay offers an analysis of the La Mortaccia, an unfinished work thought as a rewriting of Dante’s Inferno. The main points examined concern the style and the language used, the construction of the suburban character (borgataro), the crisis of realism after the publication of Una vita violenta (1959), the influence of Dante’s interpretation by Auerbach, the study of the historical and political context marked by the publication of the article Marxisants and the relationship with The Divine Mimesis, which in 1975 takes up the project of rewriting Dante's Inferno. In conclusion, the article shows how La Mortaccia, as a literary failure, exhibits some of the main theoretical and poetic problems leading Pasolini to make his film debut in 1961 with Accattone.
keywords | Pasolini; La Mortaccia; Dante.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio (v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Paolo Desogus, Pasolini poeta del mondo terreno: La Mortaccia, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 45-69. | PDF dell’articolo