Se la favola francescana racchiusa all’interno del film Uccellacci e uccellini rappresenta il versante più noto del francescanesimo pasoliniano, un francescanesimo di natura essenzialmente poetica e allusiva, Bestemmia ne costituisce il lato più oscuro, ma al tempo stesso più denso di implicazioni metalinguistiche. Trattasi infatti di un’opera in fieri, nel senso di un’impraticabilità e di un’impossibilità di realizzazione, la cui travagliata elaborazione si estende approssimativamente tra il 1962 e il 1967, al punto da assumere le sembianze di un laboratorio di esperimenti linguistici e stilistici, sfociati poi nelle opere emerse di quegli anni cruciali per la creazione pasoliniana.
Al pari di Uccellacci, Bestemmia racchiude al suo interno una riscrittura delle Laudes creaturarum, ma di natura profondamente diversa, così come profondamente diversa è la matrice francescana dispiegata in quest’opera incompiuta e ibrida, sia dal punto di vista del genere che dello stile. Siamo qui di fronte a un francescanesimo rovesciato e tormentato, molto distante dai toni favolistici delle deambulazioni di frate Ciccillo e frate Ninetto, sicché potremmo parlare per Bestemmia di un antifrancescanesimo pasoliniano, dove l’elemento prefissale allude al contempo a una regressione ideale e a una radicalizzazione in chiave riattualizzante dell’archetipo. Tale componente francescana, con i suoi risvolti al tempo stesso ideologici – nel senso di una riflessione sulla santità, con la conseguente elaborazione di un exemplum di santità sottoproletaria ed eretica – e stilistici – nel senso di una stilmischung spinta verso esiti espressionistici –, si coniuga con una tendenza manifesta alla drammatizzazione delle riflessioni che, proprio in quegli anni, Pasolini stava maturando sulla lingua di un cinema riproducente la realtà con la realtà. Una testimonianza importante della declinazione metalinguistica di questo francescanesimo tormentato emerge da quell’immenso apparato autocritico costituito dalla produzione poetica dell’autore, e più precisamente dai versi programmatici di Progetto di opere future, in cui le “ricerche per Bestemmia – qui associata in endiadi con la riscrittura dantesca della Divina Mimesis – menzionano “mescolanze di materie / inconciliabili, magmi senza amalgama” (Pasolini [2003] 2009 I, 1246).
La prima traccia di quella che si presenta come un accastellarsi di 158 pagine dattilografate, cui si sovrappongono innumerevoli e intricate correzioni, cancellature e aggiunte, risale ad alcuni versi di Poesie mondane – siamo nel 1962: in una “Primavera medievale” dai contorni appenninici e riverberantesi nel presente (“Quando gli Anni Sessanta / saranno perduti come il Mille”, Pasolini [2003] 2009, 1094), comincia a farsi strada, tra processioni di diseredati e passioni popolari in umbro, una figura di “Santo eretico” dai tratti vagamente accattoniani. A tal proposito, l’attività di magnaccia di quest’ultimo implicherebbe una consulenza in materia di prostituzione medievale da richiedere al “dolente Leonetti”. L’aspetto però più interessante di questa prima testimonianza si lega alle didascalie tecniche (“Girerò i più assolati Appennini” Pasolini [2003] 2009, 1093-1094) che farebbero propendere, almeno in questa fase, per la natura filmica del progetto originario. Nondimeno, con il passare degli anni si assisterà a un progressivo, quanto ineluttabile, allontanamento dalla matrice filmica e a un incremento di quella poetica. Sempre all’interno dello sterminato apparato di commenti pasoliniani, si passerà dall’allusione a una “specie di treatment in versi” a un “racconto in versi”, per approdare infine ad un “romanzo in versi, o sceneggiatura in forma di poema” (Pasolini [2003] 2009 II, 1724-1725). L’impressione generata da queste e da altre allusioni di Pasolini alla sua opera in divenire è quella di una caratterizzazione in senso filmico da interpretare piuttosto come tensione verso una forma che, come per altri progetti cinematografici ruotanti intorno a figure di santi – si pensi al film su san Paolo, rimasto allo stadio di sceneggiatura abbozzata, ma anche a quello su Charles de Foucauld –, ad un certo punto della parabola pasoliniana, è stata in parte riassorbita dalla realizzazione del Vangelo. Il risultato finale è un monstrum creativo evolventesi in funzione delle concezioni dell’autore in materia di lingua cinematografica, in una forma di porosità tra l’opera impossibile e blasfema e il versante compiuto della produzione dell’autore, cui va senz’altro aggiunta la concezione tutta pasoliniana della sceneggiatura in quanto “struttura che vuol essere altra struttura” (Pasolini [1999] 2008, 1489). L’ambiguità irriducibile da cui è segnato il genere dell’opera si insinua fin dentro il suo stesso titolo che, lungi dal riferirsi esclusivamente al solo treatment, si è di volta in volta prestato a rappresentare altri progetti pasoliniani, da una raccolta di sceneggiature del 1963, che poi sfoceranno nel più noto Alì dagli occhi azzurri, all’antologia poetica del 1970, dove il nostro Bestemmia si riduce a un frammento in mezzo ad altri. Un aspetto che va infine rimarcato a proposito del titolo è la sua forte pregnanza, derivata dalla sua doppia valenza patronimica ed eponimica: esso coincide infatti con il nome del protagonista, il “santo di Suburra” (Pasolini [2003] 2009 II, 1046), in un rovesciamento di segno della lode francescana, abbassata da inno alla bontà del Creato a un’allucinazione blasfema in cui si intravede il primo incrinarsi dei miti pasoliniani degli anni Cinquanta.
Se l’ibridismo e l’ambiguità sembrano caratterizzare di primo acchito la nostra raccolta di versi, un altro tropo – a suo tempo applicato da Franco Fortini al pensiero pasoliniano – risulta particolarmente adatto ad approcciarne l’antieroe eponimo. Facciamo qui riferimento alla sineciosi, ovvero una sottospecie di ossimoro nel quale la tensione tra termini oppositi è irriducibile a una sintesi dialettica (Fortini, [1959] 1993, 22).
Ma poi non si tratta proprio di san Francesco, si tratta di un santo completamente inventato che somiglia vagamente al santo di Assisi – ma è inutile nemmeno farlo questo nome […] perché in realtà questo santo inventerà Il cantico delle creature – però con un linguaggio ancora più rozzo che san Francesco – diventerà eretico e verrà addirittura ucciso dai soldati del Papa, come è successo in infiniti casi nel Medioevo… (Pasolini [2003] 2009 II, 1723).
E altrove:
Bestemmia è un racconto in versi ambientato in un medioevo ideale dell’Italia centrale, immagino durante il periodo delle invasioni normanne, a Salerno e in Puglia, che racconta la storia di un tipo profondamente simile ad Accattone, un magnaccia che vive in mezzo alle prostitute alla periferia di quella cosa incredibile che doveva essere Roma in quegli anni. E come Accattone ha una vena mistica, che, dati i tempi, ha delle soluzioni. E la soluzione prima è una visione. Questa specie di Accattone dell’anno 1100 immagina la Passione, una Passione popolare con le Marie che seguono Cristo, ecc. Da quel momento, da magnaccia, turpe individuo qual è, diventa santo. Ma al tempo stesso diventa anche rivoluzionario. Cioè fonda un ordine di tipo eretico che io inventerò, ma su basi storiche abbastanza precise. E di qui la lotta contro il papato del tempo. Bestemmia viene ucciso dopo aver ripredicato il Vangelo secondo la riscoperta, che sarà poi francescana, dei sacri testi (Pasolini [2003] 2009 II, 1724).
Ripercorrendo queste note dell’autore, la prima sineciosi che salta agli occhi è quella che oppone, da un lato, la mimesi del personaggio storico – che, a parte il riferimento alle invasioni normanne dell’Italia meridionale e una possibile allusione alla ben più tardiva crociata contro gli Albigesi (Pasolini [2003] 2009 II, 1071), non lascerà tracce significative all’interno dei versi –, e dall’altro, la riplasmazione di esso, che ne accentua parossisticamente i tratti eretico-rivoluzionari, comprensiva della ricreazione della sua parola poetica in un registro ancora più “rozzo”. In tal senso, la reiterata ostentazione di una dimensione filologicamente e storicamente fondata è in aperta frizione con l’inventio pasoliniana, sicché l’esito di tale operazione si orienta inesorabilmente verso la regressione arcaicizzante di un “medioevo ideale” e un anti-Francesco il cui misticismo è alieno da qualsiasi compromesso con la storia. Oltre al calco apertamente rivendicato della leggenda francescana, al suo dirottamento e alla sua ibridazione con un’intertestualità dichiarata – icasticamente riassunta nella formula di un “Accattone dell’anno 1100” –, vediamo qui drammatizzarsi quel filone della riflessione pasoliniana, di ascendenza paulina, divaricantesi tra gli opposti poli del carisma e della norma. A esso è sottesa la constatazione amara, e a contrario, di un’impossibilità del sacro nel mondo presente (“una vena mistica che, dati i tempi, ha delle soluzioni”) che richiama alla mente un altro passo dell’apparato critico pasoliniano, provocato dall’analisi dei versi di Danilo Dolci, in cui viene affermata l’impossibilità di una regressione condotta sulla falsariga dell’exemplum francescano (“ma per un uomo moderno che voglia seguire il sentiero dell’umiltà, cioè del regresso, la cosa non è così facile come per san Francesco, che dopo di sé, nella sua società, trovava quasi subito la Natura” (Pasolini [1999] 2008 I, 396). La sineciosi potrebbe a ben guardare ridursi a quella tra un pessimismo di fondo, legato al declino – in questo scorcio di inizio anni Sessanta – del mito di un sottoproletariato rivoluzionario, e la tentazione di liberare attraverso un composito Bestemmia – magnaccia, santo, eretico e infine martire, in un climax inarrestabile nella sua predestinazione – il “momento potenzialmente eretico” contenuto in nuce nell’“umiltà cristiano-francescana” (Pasolini [1999] 2008 I, 396). Ma vediamo come operano nella scrittura questi “magmi senza amalgama” di un francescanesimo ridotto a un arsenale di stilemi, di una santità sottoproletaria che in forme diverse irrora le opere contigue di Accattone e della Ricotta, e di una santità autobiografica strettamente connessa al cristomimetismo dell’autore. Dopo la dedica, anticipatrice di quella del Vangelo, a “quell’uomo delizioso / che fu Giovanni XXIII” – censurata di una chiusa che lo identificava quale “il più grande Papa dei tempi moderni” (Pasolini [2003] 2009 II, 1726), ecco l’avvio delle peregrinazioni della strana coppia formata da Bestemmia e dal suo socius Agonia.
Bestemmia col suo compagno Agonia
se ne andavano, scarpignando no,
ché erano scalzi, per la Shangai di un secolo
dopo l’Anno Mille. Ma chi è povero non cammina,
la fa a pedagna, in qualunque anno
della Grazia (Pasolini [2003] 2009 II, 1726).
Se non fosse per i loro nomi parlanti densi di oscuri presagi, la coppia ricorderebbe, in un’ottica ancora una volta di forte osmosi e intertestualità, altre coppie dell’opus pasoliniano, a partire da quelle che solcano le periferie dei romanzi romani fino a quelle del Decmonstrum ameron e di Porno-Teo-Kolossal, senza ovviamente tralasciare i fraticelli di Uccellacci, mentre, sul piano linguistico, questi primi versi condensano già i tratti salienti del pasoliniano: l’indistinzione meravigliosa e surreale è quasi immediatamente abbassata per mezzo di una sintassi anacolutica e di un lessico infarcito di colloquialismi e regionalismi. Ma subito dopo, un’altra categoria sembra entrare in gioco, a metà strada tra ascendenze dantesche e spunti auerbachiani: Bestemmia e Agonia vengono evocati quali “due giovani di vent’anni / nati nei regni della Fame, e lì Re” (Pasolini [2003] 2009 II, 1726), in un’associazione di alto e di basso richiamante l’umiltà reale del Francesco del Paradiso dantesco e la Stilmischung di sublime e ignominia che il critico tedesco vedeva perfettamente incarnata nell’“uomo” Francesco e nel suo messaggio (Auerbach, [1946] 1968, 52). Per il resto, l’ambientazione è quella di un’umanità di miseria sottoposta ad un processo di bestializzazione – valgano le “piccole mandrie di bambini / con la pancia grossa e il tracoma / – tra capannelli di donne nere come salme, / scapigliate dalla tramontana, i capelli secchi / ritti sui capi di muli” e i “porcili abitati da uomini” del suburbium romano, riecheggianti le “non case ma porcili” dell’invettiva A un papa (Pasolini [2003] 2009 I, 1009) –, dove però il miscuglio di sermo umile e sublime s’insinua fin dentro l’elemento vegetale con le “distese, gloriose come di grano, di gramigne / cammimille, cardi, ortiche, ecc. ecc. / che si perdono verso l’Appia sepolta” (Pasolini [2003] 2009 II, 998). Per il resto, nulla al momento lascerebbe presagire l’imminente destino di santità di colui che, “bandito: / Musolino o Giuliano ancora innocente, / dedito solo al sogno / di una vita fuori dalla legge” ( 1000), sembrerebbe piuttosto un degno precursore del protagonista di Porcile, se non fosse che vari elementi disseminati qua e là confermano il filone di un Bestemmia reincarnazione medievale di Accattone e condividente alcuni tratti – ma solo a livello di superfici esterne – dei fraticelli di Uccellacci e uccellini: con il primo, Bestemmia condivide in particolare uno stornello popolare – il “Fior de limone […] fior de limone, / mamma me ce fece de carnevale: / me fece de allegria no de passione!” (Pasolini [2003] 2009 I, 1009 e Pasolini 2001 I, 48) ci giunge direttamente dalla sezione degli Aritornelli velletrani del Canzoniere italiano dell’autore (Pasolini 1955, 125) – mentre con frate Ciccillo il nostro giovane bandito ha in comune la topografia ciociara delle sue scorribande – ma a breve, anche l’intonazione della parola poetica francescana. Pasolini [2003] 2009 II, 1102: “Tu Bestemmia / sei nato nell’Appennino. / Vedi la stella del mattino sopra i tuoi colli? / Senti nitrire i cavalli? // La campana che fra poco suonerà / in qualche villaggio della Ciociaria”. In realtà, le molteplici indicazioni disseminate nel testo – Cassino, Cori, la costa tirrenica, le alture del Monte Cavo e del Soratte, ma ancora Velletri e Viterbo - disegnano uno spazio più esteso della regione nota come Ciociaria (per le origini ciociare del fraticello di Uccellacci, Pasolini 2001, 806: “lui che non è un umbro elegante, ma un ciociaro un po’ buffo”).
Ancor prima che prenda avvio il vero e proprio processo di conversione del giovane magnaccia, possiamo rinvenire i primi segnali di un francescanesimo rovesciato, in particolare in quella componente cruciale della riflessione pasoliniana, e cioè quella che ha come oggetto la “rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso” (Pasolini 1999, 599). Il corpo del pauper è qui concepito quale veicolo di una violenza incoercibile che, proprio nella povertà subita, trova la sua radice: “sotto la veste / dove l’alberello ha chioma e ramaglia: / una belva nera, fetida, che non conosce padrone né Dio, ma ha gloria di un solo fratello, Bestemmia” (Pasolini [2003] 2009 II, 1001). Questa fraternitas all’insegna del sesso è all’origine di un improvviso incresparsi del tessuto drammatico della narrazione, con un dittico dalle tonalità macabro-oscene: a seguito di una tentata violenza sessuale da parte della coppia di banditi su una ragazzina accompagnata da un “fratello, uccellino già troppo esperto” (Pasolini [2003] 2009 II, 1005), che si concluderà con l’annegamento della prima – da notare la dimensione di una fraternitas in chiave di minoritas francescana che trapela dall’uso insistito dei diminutivi, e la tonalità d’insieme della scena che ricorda da vicino il doppio annegamento della rondine e di Genesio in Ragazzi di vita (Pasolini 1986, 704-705; De Laude 2018) –, assistiamo ad una vera e propria orgia iniziatica dove la derivazione francescana è ormai scevra da qualsiasi dubbio. Ecco come le sei sorelle prostitute al seguito di Bestemmia, strano incrocio tra le dieci spose con le lampade di evangelica memoria e le Povere Dame di San Damiano, operano un vero e proprio rito, a metà tra diasparagmos dionisiaco e spogliazione francescana, su un certo Nicolino, il piccolo protetto dell’imminente santo:
Le altre furono addosso a Nicolino
e gli alzarono la veste succinta […]
Lo spogliarono nudo come un santo.
Poi spinsero Bestemmia su di lui.
Nicolino non si difese, ma obbedì.
I suoi quattordici anni
erano quattordici anni di umiltà.
Nelle civiltà dei poveri ci sono ragazzi
come Nicolino, e giovanotti come Bestemmia.
Nicolino si china davanti a Bestemmia
come davanti a un padre fortunato (Pasolini [2003] 2009 II, 1012).
La denudazione qui messa in scena costituisce a nostro avviso un rovesciamento di segno dell’episodio della Rinuncia ai beni, uno dei più noti della leggenda francescana anche a livello iconografico (Vauchez 2009, 317-323; Frugoni [1995] 2014, 29). Il rovesciamento opera a più livelli: dalla sostituzione del soggetto della spogliazione, non più il futuro santo bensì il “puttanino” Nicolino offerto in qualità di vittima sacrificale agli impulsi di un Bestemmia che, a sua volta, si trasforma in “padre fortunato” – dove il “fortunato”, con la sua ambiguità etimologica, potrebbe rimandare al Pietro di Bernardone padre del santo – alla potente similitudine iniziale (“nudo come un santo”) potenziata da una costellazione francescana fatta di obbedienza (“obbedì”), umiltà (“quattordici anni di umiltà”) e povertà (“nella civiltà dei poveri”). La mise en scène – da Auerbach associata al gesto francescano (Auerbach 1968, 172-173) e qui rovesciata di segno – continua ad operare anche nei versi successivi, quando l’umiltà, etimologicamente allusiva di quella vicinanza fisica alla terra e al Creato che aveva caratterizzato gli ultimi istanti della vita di Francesco, viene riattualizzata in chiave ideologica:
Guarda il corpo di Bestemmia, nudo
su quell’erba,
nudo, e non bello come noi borghesi
siamo abituati a concepire la bellezza
[…]
per il suo amore con le sei sorelle puttane,
di quella notte, è nudo, che quindi già il suo corpo è di un santo (Pasolini [2003] 2009 II, 1018).
Da notare che in una versione precedente nei documenti, prima che operasse una probabile autocensura, al posto del “suo corpo è di un santo” – dove il complemento di specificazione opera un allontanamento tramite la similitudine –, trovavamo il ben più incisivo “è nudo, e quindi è un santo (Bestemmia, 36-37).
Nel frattempo, l’orgia iniziatica appena evocata ha prodotto una vera e propria metanoia che dà avvio al secondo tempo della sceneggiatura, quest’ultima essendo incentrata sulla formazione della fraternità (“Tutto cambiava senso sotto quella luna di sasso, / e sei puttane e un maschietto sporco ancora di sperma”) (Pasolini [2003] 2009 II, 1017). Le conversioni si succedono in un ritmo vorticoso (“le sante puttane diventano sante, nient’altro che sante”, “cadendo in ginocchio / e abbandonando tutto ciò che aveva”), in una sequela Christi che porterà alla fondazione di quello che, più che a un vero e proprio ordine, assomiglia per il momento piuttosto a una forma vitae di laici religiosi, un “nuovo stato” (Pasolini [2003] 2009 II, 1020). Il tutto condito con la tradizionale fenomenologia associata ad una santità fatta di digiuni e stati mistici di trance – possibile fonte di ispirazione per le levitazioni di Emilia, la serva-santa contadina di Teorema –, miracoli sui bambini storpi, e con la formazione, intorno al villaggio di reietti accampato ai margini della città eterna, di un’atmosfera di sagra. Quest’ultima, di primo acchito, potrebbe rievocare la corte dei miracoli formatasi intorno all’altare improvvisato di frate Ciccillo in Uccellacci, se non fosse che i venditori di “zucchero filato / o bruscolini o pizze”, ai quali si accrocchiano “frotte di giovani / maschi amanti di maschi” (Pasolini [2003] 2009 II, 1033-1034), sono immersi in una diversa dimensione linguistica. Le continue didascalie interne – al tempo stesso sintomo dell’originaria matrice filmica e della sua stessa impraticabilità – lasciano infatti intravedere i primi segnali di quella crisi stilistica che, dalla “sacralità tecnica” delle inquadrature di Accattone, sfocerà in quel “magma” che “sconsacrando [le sue] precedenti mitologie tecniche, ne ricostitu[ì] un’altra meno religiosa e più impressionistica-espressionistica” (Pasolini 2001 II, 2772). Se in Uccellacci, film omaggio a Rossellini, la scena della sagra era stata girata per mezzo di piani d’insieme dalla forte impronta neorealistica, in Bestemmia la macchina di ripresa “vaga come impazzita” e “gira, a spalla, saltellando, tremando / a cercare qualche risposta tra la folla” (Pasolini [2003] 2009 II, 1032), in uno scivolamento verso quel “cinema di poesia” che, nell’ottica del regista, “fa sentire […] la macchina da presa” (Pasolini [1999] 2008 I, 1539), quasi che l’autore volesse farci penetrare nel punto di vista del santo-magnaccia (“A uno a uno, gli infermi vengono verso l’obiettivo, / nella lunga soggettiva ch’è mero sguardo di Bestemmia” Pasolini [2003] 2009 II, 1032).
Questi incessanti effetti di distanziamento, oltre a richiamare costantemente la filigrana di un discorso metalinguistico soggiacente alla sceneggiatura, avviano una riflessione su una santità che, nel caso del nostro “santo di suburra”, è una santità subita, una santità fragile che dura il tempo di un abbaglio, quello folgorante della cecità – di derivazione paolina e forse anche francescana. L’esito, un Bestemmia cristoreferenziale (“non c’è che una sola idea, che si ripete come un sogno. // Bestemmia era sotto l’ipnosi di questa ripetizione. / C’era sempre quel Cristo in carne ed ossa davanti a lui” (ibid., 1022), ci conduce al secondo snodo cruciale dell’opera, e cioè alla visione – le visioni scandiscono a dire il vero l’intera matassa dei versi del treatment – del nostro santo malgré lui. Essa interrompe, con una digressione che questa volta si estende per un numero importante di versi, lo svolgimento della quarta scena, poco dopo la scena di spogliazione, e dà adito a un’apostasia dirompente, da parte dell’autore, di tutti i miti del passato. Agli antipodi dei versi della Ricchezza, in cui i tesori della basilica aretina di San Francesco, si ergevano a “simbolo dell’ideale possesso, / se oggetto dell’amore di maestri, / Longhi o Contini” (Pasolini [2003] 2009 I, 910), in questo caso l’immagine abbassata della foresta dantesca trasformatasi in “orto ben coltivato” tornato “selvaggio” si fa il teatro di un rinnegamento dei punti di riferimento ideologici e stilistici di un tempo.
Così, alle volte, a più di quarant’anni
si torna adolescenti: si sa solo quello che si sapeva
in quei primi anni della vita. […]
Tuttavia, per vendetta contro il mio fallimento,
voglio tornare ancora più indietro. […]
Alle origini di un’educazione, fonte di passioni,
non avrei resistito a immaginare
il Cristo d’una visione,
in qualche stile […]
La mia cristologia, ora, più che imberbe
è barbarica; vuol esserlo; teme di fallire
se non suscita un’idea di Cristo
anteriore a ogni stile, a ogni corso della storia,
a ogni fissazione, a ogni sviluppo; vergine;
riprodotta dalla realtà con la realtà
senza un solo ricordo di poemi o pitture,
ma addirittura senza poemi e pitture; coi mezzi della realtà che rappresenta sé stessa: Voglio non solo
non conoscere Masaccio, (Il Masaccio di Longhi, che a lungo ha dominato i miei occhi, il mio cuore, il mio sesso) ma non voglio neanche conoscere la lingua o la pittura (Pasolini [2003] 2009 II, 1013-1014).
Nella nozione di una “cristologia barbara” si fondono magistralmente il motivo della passione cristica, quello della visione di Bestemmia – possibile variazione del crocifisso parlante di San Damiano, all’origine della conversione francescana – e l’idea di una lingua del cinema riproducente direttamente la realtà, senza bisogno dei filtri simbolici delle lingue scritte-parlate e dei loro auctores. Siamo in realtà qui nel cuore delle riflessioni pasoliniane degli anni ’65-’66 sul cinema come “lingua scritta della realtà” (Pasolini 1972) e, al contempo, nella dimensione jakobsoniana di un’opera per definizione metalinguistica, in quanto inclusiva, al proprio interno, del problema della sua stessa realizzabilità.
Voglio che quel Cristo si presenti come realtà.
Non è forse una buona ragione
perché questo sia un film, non un poema?
Nel film ch’io penso, e a cui ti faccio pensare,
lettore,
sono un mago rozzo,
non voglio aver più bisogno dei filtri
evocativi della lingua […]
Ma è solo quella realtà, che, una volta evocata, conta!
Essa è la sola cosa bella e veramente amata!
Quante parole, strumento e stile,
per evocare un’immagine reale di Cristo sulla croce!
Ma io, con un uomo in carne e ossa,
con una vera croce di legno,
con chiodi veri,
e, vorrei, con vero sangue e vero dolore,
riproduco la realtà con la realtà (Pasolini [1999] 2008, I, 1505).
E impercettibilmente scivoliamo, dal piano barthesiano di un cinema come “arte metonimica esprimente la realtà con la realtà” (Pasolini 1999, 1308), a quello di una “semiologia della realtà”, laddove la realtà in questione non è altro che un “cinema in natura” e “il primo e principale dei linguaggi umani, può essere considerata l’azione stessa” (Pasolini [1999] 2008 I, 1505). Proprio la nozione di un exemplum incarnato costituisce, a nostro avviso, il principale punto di contatto tra il francescanesimo dell’autore e le sue teorie sulla lingua del cinema. L’exemplum, in tale visione, non è altro che il versante drammaticamente umano di una realtà che “si rappresenta e agisce” (Pasolini [1999] 2008 I, 1419), mentre il cinema – o ciò che, in una tensione votata ad un’intrinseca irrealizzabilità, vorrebbe diventarlo – ha per vocazione di cogliere l’uomo proprio in quanto testimone esemplare, in quanto scandalo contraddicente la norma, sia essa morale, fisica, religiosa o stilistica, fino alla sua forma parossistica e senza ritorno rappresentata dalla santità. Ecco allora che la declinazione francescana si incarna nell’immagine del “povero mimo di Cristo in carne e ossa”, possibile attestazione della prossimità genetica di Bestemmia con La ricotta, ma soprattutto – come sembrerebbe comprovare una nota in cui il “mimo” è sostituito dal ben più pregnante “imitatore” – rimando probabile al Francesco ioculator Dei. Subito dopo però, Bestemmia “Vide Cristo nella sua natura”, passando dallo stadio mediato dell’imitatio Christi a quello di vero e proprio alter Christus, svelando così il processo autoriale di autosantificazione – la “tentazione di santità” di Poesia in forma di rosa (Pasolini [2003] 2009 I, 1116). Se la visione rivelerà Bestemmia in quanto figura Christi, una semplice rotazione della macchina da presa lo paleserà in quanto proiezione autoriale, sotto il sigillo del martirio e di un Ecce homo del presente.
Così Bestemmia vide Cristo – e per forza!
Lo vide com’era lui: un corpo:
non c’è fisica differenza tra Bestemmia e ciò che vede.
Si tratta soltanto di voltare la macchina da presa.
E non per nulla Bestemmia
era un italiano, uno dei milioni che hanno vite
deboli come fiammelle, ma barbaro,
non sapeva nulla,
né leggere né scrivere,
e neanche l’esistenza reale del leggere e dello scrivere Completamente innocente,
come un cane,
come me (Pasolini [2003] 2009 II, 1016-1017).
Se la visione di Bestemmia si situa alle origini di una fraternità di diseredati, quest’ultima avrà una vita difficile nel seguito del treatment. Tralasceremo in questa sede la netta e autobiografica bipartizione dell’Istituzione in un papa buono – che “altro non sapeva di divino che il sorriso” e che, accarezzando la guancia del neo-santo “ancora grigia di magnaccia e di ladro, / sullo zigomo alto colore dei muri poveri” (Pasolini [1999] 2008 I, 1038), gli si rivolge in dialetto del nord – e un “Papa Cicogna” dipinto con tratti iacoponiani-danteschi, in un climax che esplode nell’imprecazione contro l’“informità ferità del bue di Dio, del / mercante, del sensale di Dio” dipinto con una testa “disegnata come in un prepuzio” (Pasolini [1999] 2008 I, 1080) –, per concentrarci ancora un attimo sulla natura dell’eresia che costerà al “fantoccio visitato da Dio” (Pasolini [1999] 2008 I, 1039) e al suo seguito una feroce persecuzione da parte della Chiesa. Se l’autore non perde l’occasione, con un nuovo effetto di freddura, di sottolineare l’inverosimiglianza linguistica di alcune argomentazioni scolastiche messe in bocca al suo capopopolo (“Così parlò. Ed è poco credibile, lo so”, Pasolini [1999] 2008 I, 1046), è interessante notare come tale eresia si ponga ancora una volta su un piano che sta a metà strada tra il discorso sulla lingua e quello sulla santità. Essa infatti mirerebbe a distruggere i simboli religiosi (“Bestemmia alzò finalmente lo sguardo / e vide intorno a sé la folla degli stendardi / e delle croci d’argento e d’oro. / Le strappò dalle aste e le calpestò sotto i piedi”), e con essi anche quelli linguistici (“Le parole che ora dico, / non sono che una parte, l’ultima, dell’esempio / che io testimone di Dio, vi do con la mia azione”), in uno slancio che culminerà nell’impiego anacronistico e distanziante dello slogan preso in prestito da Pasolini al black power americano (“Gettate il vostro corpo nella lotta!”, Pasolini [1999] 2008 I, 1080). Per quanto riguarda il discorso sulla santità, ci rifaremo all’ennesima contro-annunciazione da parte di un angelo sinistro che fa da contrappunto all’ultima notte di solitudine di Bestemmia – calcata sulla notte getsemaniana dei Vangeli, con i consueti inserti ornitologici pasoliniani. La santità si configura allora come un destino involontario e passeggero, un’“ombra profonda” sepolta sotto una “leggera ombra” (Pasolini [1999] 2008 I, 1021), di cui alla fine Dio libera Bestemmia come da un incubo (“Mi ha mandato Dio. / Egli ha altrove i suoi santi […] Sei libero, Bestemmia. Altra è la strada, / dice il Signore, della tua santità” Pasolini [1999] 2008 I, 1102). Con un movimento oscillatorio che ritroveremo in altri luoghi dell’opera pasoliniana, specie in quella degli anni Settanta, si scivola impercettibilmente da una santità – che è poi quella del poeta – sognata, imitata, fittizia e finta dei miracoli, che pure non lascia indenne il suo vas electionis (“Non si passa inutilmente, attraverso la santità!”), alla vera santità, quella dell’uomo orfano di Dio (“Ora Bestemmia era veramente santo. Non aveva più accanto / la presenza di Dio”). E così Bestemmia tornerà alla sua vita anteriore, fatta di gioie sensuali ed ingenue (“l’idea di una festa, / la sera, o di un gioco con gli amici, o di una speranza / segreta d’un amore sicuro”) (Pasolini [1999] 2008 I, 1103) e di “parole da bandito” (Pasolini [1999] 2008 I, 1105). Chiudiamo allora queste nostre riflessioni con quel luogo della “strana cosa” in cui la parola di Bestemmia incrocia e contamina la parola poetica e religiosa di Francesco.
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
so’ tua le lauda, la gloria l’onore e ogni benedizione!”
(Fuori da ogni carità, da ogni pietà,
da ogni parola, in un cespuglio tra altri cespugli,
si sveglia chissà da quale sonno, da quale pace,
un usignolo, e qualcuno canta in lui il suo amore.)
(Ma Bestemmia è nella radura, fuori dai cespugli
su una tomba nata dalla carità, vestita dalla pietà,
e non c’è nessuno che canti per lui: egli
non può muoversi di lì, dalla veglia che vuole le parole
che diano al destino l’ordine della religione.)
“Ad te solo, altissimu, se konfano,
e nissun omo è degnu de mentovatte.”
………
Cosa manca allo sguardo del contadino Bestemmia,
che se ne sta lì nel buio della notte,
a far la veglia al suo amico Nicolino,
in compagnia di un antico usignolo?
“Laudato sie, mi’ Signore, co’ tutte le tue creature,
speciarmente fratemo lu sole
lo quale è giorno, e c’allumini co’ llui,
e lui è bellu, a radiante, co’ grande splendore:
porta er segno tuo.”
Poi si accorge, il contadino che non sa dire
le cose, come un bambino, se non nominandole,
che c’è la luna, sul bosco nel cielo (Pasolini [1999] 2008 I, 1063-1064).
Il cantico di Bestemmia, con la sua riscrittura delle Laudes creaturarum in un “linguaggio ancora più rozzo che san Francesco”, rappresenta a nostro parere il punto culminante del francescanesimo sommerso – aggettivo, quest’ultimo, da intendere nella sua molteplice valenza di aprocrifo, corsaro, disperato – dell’autore. Sebbene tale riscrittura possa, e forse debba innegabilmente, essere messa in risonanza, in una logica evidente di intertestualità e di riprese, con il versante più cauto e autocensurato del francescanesimo pasoliniano, e cioè con la citazione, intonata da Frate Ciccillo, del Cantico di Frate Sole che richiude la gemma francescana di Uccellacci e uccellini, esistono tra i due passi delle differenze di rilievo, tanto sul piano del registro quanto su quello delle implicazioni semantiche e linguistiche, nel ricorso alla parola del santo. Se nel film del 1966 predominava la dolce parodia di un francescanesimo neorealista-rosselliniano al quale il regista intendeva rendere il suo omaggio ambiguo, in Bestemmia, ancora una volta, il senso dell’operazione è spiccatamente metalinguistico. Va sicuramente rimarcato in primis il paradosso scandaloso derivante dall’innesto del testimone archetipico della laus su colui che, sin dentro le pieghe del suo nome, incarna i tratti di una blasfemia che di primo acchito si erge agli antipodi del sentimento creaturale francescano, paradosso inquadrabile in quella logica di rovesciamento totale che informa l’insieme della nostra opera. Sempre in tale logica antifrastica, cominciamo col dire che quel cantico il quale, come ci ricorda Gianfranco Contini, nella vicenda dell’Assisiate si collocava sì dopo una “notte di tormenti” dovuti alla malattia, ma “consolata alla fine da una visione celeste che gli avrebbe certificato la salvezza eterna” (Contini 1969 I, 29), nel nostro caso il santo-magnaccia intona il suo canto subito dopo aver saputo dall’angelo malefico che Dio lo aveva abbandonato al suo destino di martirio. Inoltre, se nella ripresa di Uccellacci la natura matrigna riprende il sopravvento, con un effetto comico stridente, solamente alla fine del Cantico intonato dal fraticello – con il sopraggiungere di un rapace che arpiona la sua povera vittima –, il passo della sedicesima scena del treatment in versi è sin da subito ambientato in una natura ostile e come dimenticata dalla bontà del suo Creatore, dove il nostro bandito pappone è immortalato nell’atto di seppellire il corpo del suo giovane protetto morto in oscure circostanze. Nello smarrimento infernale della scena (“va con la sua preda stretta tra le braccia, / senza fretta, occultatore di cadaveri, / mostro che cammina di notte con bambini morti”), sottolineato da tocchi di un impressionismo allucinato (“Bestemmia si avvicina a lui, macchia appena / visibile di luce sul giallore del prato, mucchietto / di stracci”), cominciano tuttavia a farsi strada le prime spie dell’imminente ripresa francescana (“ma solo con infinita / obbedienza”, “l’obbediente / Nicolino”, “l’umiltà”, “la sua obbedienza”, “un’umile tomba senza ricordi” Pasolini [2003] 2009 II, 1061-1062).
Ecco allora che, ai margini del bosco, in un tempo liminare tra la notte e le prime luci dell’alba, si innesca un canto amebeo che vede alternarsi i versetti smembrati e alterati del Cantico di Frate Sole con il canto di un usignolo in cui, oltre ad uno dei più noti camouflages del soggetto autoriale e dei suoi miti aurorali, è forse possibile intravedere – per via dell’ambientazione lunare e dell’emergere dell’usignolo da un cespuglio – una citazione dissacrante della chiusa del Paulo Ucello pascoliano. In quest’ultimo, al dileguarsi del santo di Assisi, “l’usignolo cantò da un arbuscello […] E poi ne pianse al lume della luna” (Pascoli 1980, 633). Tornando alla riscrittura pasoliniana, possiamo fin da subito notare come lo stravolgimento a cui è sottoposta la struttura metrica dell’originale derivi in fondo dallo spazio interstiziale che si è scavato tra la mémoire fictionnelle dell’incolto Bestemmia, ora ritratto nei panni di un contadino, quella appannaggio dell’autore e di un immaginario condiviso, e la reinvenzione per via di reductio preventivata da Pasolini stesso (“questo santo inventerà il cantico delle creature – però con un linguaggio ancora più rozzo che san Francesco”). Se la selezione operata sul modello tende significativamente a prediligere i versi ruotanti intorno all’indegnità dell’uomo a nominare Dio, rispetto alla versione di Uccellacci che si concentrerà sulle lodi alle creature – il versante “ottimistico” del cantico, secondo Leo Spitzer (Spitzer 1976, 69) –, il resto non è altro che deformazione linguistica. In un’ottica di desacralizzazione in cui lo stesso elemento del sole, da prima delle creature celesti e ipostasi del divino, perde nella bocca di Bestemmia il suo titolo di “messor”, i latinismi vengono sostituiti da forme dialettali desunte dal gergo romano e da idiomi meridionali più recenti – in una commistione anche diacronica. E così, oltre alla scomparsa dei processi di epitesi tipici dell’originale, notiamo “so’ tua le lauda” al posto del “tue so’” del modello, “nissun omo” per “nullu homo”, “mentovatte” per “te mentovare”, “co’ tutte” per “cum tucte”, “speciarmente” per “spetialmente”, e il potente “porta er segno tuo” al posto del “de te porta significatione”, dove l’“Altissimo” originale è stato semplicemente omesso. Dal piano di una lingua che scivola decisamente dall’“assisiate illustre” dell’archetipo – compromesso, sempre secondo Spitzer, tra il dialettto umbro e il latino (Spitzer 1976, 70) – ad una dimensione di forte impronta dialettale, passiamo infine a quello dei simboli, in quanto riteniamo che l’interpretazione complessiva dell’accesso pasoliniano alla parola di Francesco, quale si dipana in Bestemmia, vada ancora nella direzione di un annientamento di questi ultimi.
Alla domanda posta direttamente dall’autore, in chiusura del cantico reinventato, su ciò che manca allo “sguardo del contadino Bestemmia”, la risposta è racchiusa non più nella citazione del simbolo per eccellenza, ovvero in quello che è considerato come il primo testo letterario della nostra tradizione poetica, bensì nella semplice denominazione degli elementi del creato (lo splendido e folgorante di sintesi “Poi si accorge, il contadino che non sa dire / le cose, come un bambino, se non nominandole, / che c’è la luna, sul bosco nel cielo”).
Fonti documentarie
Bestemmia, PPP.II.1.111 bis (1962-67), Carte n.158 c. + 12 c., Gabinetto Vieusseux, Fondo Bonsanti, 36 37.
Riferimenti bibliografici
- Contini 1961
G. Contini, Francesco d’Assisi, in G. Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1961. - Fortini 1993
F. Fortini, Le poesie di questi anni,“Il Menabò” 2 (1959), ora in Id., Attraverso Paolini, Torino 1993. - Pascoli 1980
G. Pascoli, L’opera poetica, scelta e annotata da P. Treves, Firenze 1980. - Pasolini [2003] 2009
P.P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano [2003] 2009. - Pasolini [1999] 2008
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Milano [1999] 2008. - Pasolini 2001
P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano 1999. - Pasolini [1999] 2008
P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano [1999] 2008. - Pasolini 1955
P.P. Pasolini, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Milano 1955. - Spitzer 1976
L. Spitzer, Nuove considerazioni sul Cantico di Frate Sole, in Studi italiani, a cura di C. Scarpati, Letteratura e cultura dell’Italia unita, Milano 1976.
English abstract
Bestemmia is a little-known unpublished work by Pier Paolo Pasolini, whose troubled composition extends between 1962 and 1967. In its hybrid genre and form, halfway between poem and screenplay, the author declines the apocryphal and unresolved side of his Franciscanism. Parallel to the elaboration of a notion of underclass holiness, in a genetic proximity and in a strong intertextuality with the most famous movies Accattone and La ricotta, Bestemmia is characterized by a strong metalinguistic connotation. In some digressions, wich interrupt the narration set in an ideal middle Ages and where Pasolini’s Christomimetism merges with the Franciscan poetic and sacred word, the author alludes, in a poetic form, to those reflections that will culminate with the essays of Empirismo eretico.
keywords | Pasolini; Bestemmia; Uccellacci e uccellini; san Francesco.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio (v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Pierre-Paul Carotenuto, La “strana cosa”. Bestemmia e l’antimedioevo pasoliniano, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 177-195. | PDF dell’articolo