In quel sepolcro infernale, che cosa facevano? Quel che si può fare in un sepolcro, agonizzavano,
e quel che si può fare in un inferno, cantavano. Infatti, dove non c’è più speranza, rimane il canto.
Victor Hugo, I miserabili
Frammenti infernali
Il senso della fine, l’avvertimento e la concreta esperienza “caos”, della degenerazione di cultura e di valori prodotta dalla società neocapitalistica, assumono, all’interno dell’ultima produzione artistica di Pasolini, a cavallo fra la metà degli anni sessanta e il fatidico 1975, il carattere di ossessione, di fissazione traumatica dell’esprimersi, per sfuggire all’avanzata inesorabile della storia, che si inarca sopra i “propositi di leggerezza” di un ragazzo del 1922. Il limite di questa pasoliniana saison en enfer sembra essere la parola; la parola come postulato dell’essere, come immedicabile dato dell’esistenza, che un incessante furore antropologico continuamente attraversa e demolisce, fino a farla ri-suonare nella “ripetizione di un sentimento che si fa ossessione […] ripetizione ch’è perdita di significato; e perdita di significato ch’è significato…” (Pasolini, La Divina Mimesis I, 1085).
Questa catena di significazione è il sintomo di un nuovo investimento, da parte di Pasolini, nei confronti della lingua, tesa a una ricognizione puntuale del presente dentro gli asfittici e inermi orizzonti del linguaggio delle infrastrutture, vero e proprio monstrum di un’espressività di massa. Alla raziocinante geometria del logos, che sistematizzava i “progetti di opere future”, subentrano – sul crinale degli anni Sessanta – l’idea e la forma di “un sogno fuori dalla ragione”, la pratica di una scrittura sincretica che rielabora materiali eterogenei nel tentativo di attuare una vera e propria regressione, un ritorno a “memorie barbariche”, ma anche un procedere verso una temporalità circolare e indistinta, “com’è la realtà / delle cose quando sono nella memoria / alla soglia dell’essere nominate, e già / piene della loro fisica gloria” (Pasolini, Progetto di opere future, 821). La vera passione di Pasolini continua ad essere “la vita furente [o nolente] [o morente] / – e perciò, di nuovo, la poesia” (ibidem), ma il divaricarsi delle esperienze e l’attraversamento dei codici determinano una moltiplicazione dei punti di vista, una contaminazione di stili e linguaggi e quindi l’impraticabilità di generi puri.
I contenuti e le forme di questa degradazione si addensano e si coagulano intorno alla metafora della catabasi, al paradigma dantesco del viaggio oltremondano, in qualche modo già presente nell’immagine di Roma cinta dal suo inferno di borgate, al tempo della vitale immersione dentro gli scenari arcaici della periferia della capitale, ricostruita e rivissuta, quasi in lontananza, nel vagabondare del flâneur delle Ceneri di Gramsci. Di quella stagione resta solo “un’ombra, una sopravvivenza…” (Pasolini, La Divina Mimesis I) di pagine ingiallite, ma di fronte all’avanzata inarrestabile dell’universo orrendo nasce il progetto di una replica in prosa della Divina Commedia, La Mortaccia, che sostituisce il viator con una prostituta romana, personaggio socialmente e semiologicamente più caratterizzante.
È una visione analoga a quella dantesca, ricalcata su quella. Al posto di Dante una prostituta che ha letto, in vita, la Commedia a fumetti e ne è rimasta particolarmente colpita; dal canto suo, Dante nella Mortaccia è trasformato in novello Virgilio che parla come Gioacchino Belli ed è marxista. Dunque all’inferno la prostituta ritrova padre, madre, parenti, sfruttatori, colleghe, invertiti da un lato; e dall’altro lato trova i personaggi più noti della cronaca e della politica contemporanea. […] Stalin sarà al posto di Farinata, Gadda fra i golosi, Migliori e Tupini fra i lussuriosi, i dorotei sotto la cappa di piombo degli ipocriti, Moravia nel limbo dei virtuosi non battezzati… (Pasolini 1960).
Linguisticamente il “romanzo” si sarebbe ricollegato al filone romanesco, essendo tutti gli avvenimenti visti con gli occhi della prostituta, approfondendone l’evidenza mimetica e il proposito di aderire “tout court al magma” (Pasolini, Una disperata vitalità II, 1185). Il progetto della Mortaccia – a cui è dedicato il saggio di Desogus – viene spostato nei Frammenti infernali de La Divina Mimesis e, più tardi, nella Visione del Merda di Petrolio, che sostituiscono, all’Inferno arcaico ed enfatico, “un inserto d’Inferno dell’età / neocapitalistica, per nuovi tipi / di peccati (eccessi nella Razionalità / e nell’Irrazionalità) a integrazione degli antichi” (Pasolini, Progetto di opere future). La critica pasoliniana ha ampiamente approfondito le matrici di senso di queste rivisitazioni, cruciali per intendere la capacità metamorfica dell’imagerydell’autore; qui è importante richiamare però il ‘doppio movimento’ con cui lo scrittore teorizza la necessità del ritorno a Dante, secondo traiettorie che segneranno un’intensificazione del paradigma dantesco in corrispondenza con l’elaborazione del progetto drammaturgico del teatro di Parola.
Ecco, insomma, volevo dire semplicemente… che rifare questo viaggio consiste nell’alzarsi, e vedere insieme tutto da lontano, ma anche nell’abbassarsi e vedere tutto da vicino – per continuare ad esprimersi senza il minimo pudore. Tu sai cos’è la lingua colta; e sai cos’è quella volgare. Come potrei farne uso? Sono entrambe ormai un’unica lingua: la lingua dell’odio (Pasolini, La Divina Mimesis II).
La persistenza e la variazione di tale paradigma, che sconfina nella lucida e aberrante sistematicità dell’universo concentrazionario di Salò o le 120 giornate di Sodoma, coniuga alle espressionistiche e allucinate “visioni” della città di Dite, ricostruita e immaginata dietro le insegne del kitsch e del pulp, l’assunzione di un linguaggio “figurale” che diviene laboratorio della parola, apprendistato estetico e semiologico capace di ricodificare la “scena” del mondo. Il canto, che pure riemerge dai precipizi della storia in cui sembrava ristagnare il verso pasoliniano, con l’interruzione della voce poetica dopo la pubblicazione di Poesia in forma di rosa (siamo nel 1964) e la concomitante sperimentazione della “lingua scritta della realtà” nella regia cinematografica, si scorpora in puro flatus vocis, è appena un grido, il silenzio assediato dalle ombre di un palcoscenico che chiede di essere violato, perché “la carne vuole sangue” (Pasolini, L’alba meridionale, 1240).
La scena come spazio abissale
Per continuare ad esprimersi “senza il minimo pudore”, Pasolini nel cuore degli anni Sessanta sceglie ancora il teatro, per quella abitudine a drammatizzare tutto che lo ha naturalmente spinto al dialogo, alla rifrazione della propria voce attraverso le maschere di Narciso, all’assimilazione degli impasti gergali dei “ragazzi di vita” tramite gli squarci disarticolati del discorso libero indiretto, altra forma di transfert mimetico. Tale approdo è, quindi, intimamente connaturato alla natura del verso pasoliniano, al suo fare poetico che si snoda entro gli ingorghi di una coscienza che si fa segno e voce, tempo e memoria continuamente presenti, perché pronunciati, gridati.
[Nelle poesie in versi] io, parlandovi in prima persona ero, insieme, l’autore e un vero e proprio personaggio monologante. Ciò mi ha portato al teatro, quasi ineluttabilmente. Non è né un merito né un demerito, ma credo che poche poesie siano fatte per essere lette “ad alta voce” (a essere orali) come lo sono le mie. Esse infatti sono raramente “oggetto”; sono quasi sempre (e senza che io lo volessi – da letterato ambizioso) sospese, in lavorazione. Erano confessioni, perorazioni, meditazioni: insomma monologhi, proprio come quelli dell’Amleto… (Pasolini 1971, 99).
La forma teatrale, imponendo una lettura non silenziosa, diventa il mezzo più coerente per riformulare la questione tra oralità e scrittura, secondo due angolazioni diverse, entrambe rappresentative dello scarto innovativo di Pasolini rispetto alla tradizione del teatro della Chiacchiera e dell’Urlo: la pronuncia e la voce. Il ritorno al teatro si pone, dunque, nella logica consequenzialità di uno stile che procede lungo itinerari di accumulo e stratificazioni, variando continuamente toni e accenti, anche se “un poeta dice che un poeta è un passero / che ripete tutta la vita le stesse note” (Pasolini, Quasi alla maniera dell’Achmatova, per lei).
Nel continuo rifacimento di se stesso che è il metodo laboratoriale di Pasolini, il corpus teatrale delle sei tragedie viene ad assumere il senso di un re-citare che, lungi dall’essere pratica spettacolare, scenica, investe le parole e gli oggetti di un’“espressività intrinsecamente affabulante” (Augieri 2001, 19).
‘Il potere ha deciso che noi siamo tutti uguali’. L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui ‘deve’ obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una ‘falsa’ uguaglianza ricevuta in regalo. […] Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza nell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale […] è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale (Pasolini [1975] 1999, 330.
Di fronte al determinismo linguistico della comunità tecnologica, capace di costruire e produrre un tipo di messaggio basato sulla ripetitività e monotonia semantica, sulla “normatività di grammatica e di lessico non più purista ma strumentale” (Pasolini [1972] 2000, 1262), sull’omologia e la regolamentazione di significati pratici, Pasolini tenta di ri-simbolizzare gli ipersegni ciecamente pragmatici attraverso i “sensi inconsumati” (cfr. Langer [1969] 1972) del mito, dell’epico e del sacro, perché solo la parola espressiva recupera una soggettività libera e creativa, seppur scissa e lacerata. Le riflessioni linguistiche e metaletterarie sembrano orientare la scrittura drammaturgica pasoliniana, ne costituiscono il presupposto teorico, nella direzione di un’estetica della “voce” e del “limite” (cfr. Contini 1943), cui si aggiunge lo scarto di una prassi artistica rivitalizzante in grado di incunearsi tra le pieghe della storia per “in-scenarne” le contraddizioni, fino alla ricreazione di nuovi investimenti narcisistici. Il teatro viene assunto pertanto come scrittura insieme pubblica e privata, come atto volontario, eppure ineluttabile, di un percorso di comunicazione sovrastrutturale divorante, perché “ciò che ci tocca molto da vicino non può diventare pubblico senza profanazione” (Barthes [1973] 2001, 206). Costruito come scena dell’io, come “drammaturgia dell’io”, il teatro di parola è giocato sul registro di una voce recitante, quasi amletica, che mima i tempi e i movimenti di una soggettività lacerata che si sdoppia e si moltiplica in personaggi-idea.
Pur votandosi al recupero di una certa idea di classicità, con l’insistenza tra le pagine del Manifesto per un nuovo teatro verso il modello della tragedia greca e della specifica ritualità culturale ateniese, il tessuto immaginativo e stilistico delle sei opere scritte per la scena sembra capace di riformulare alcune “pose” che Pasolini scopre e sperimenta in Dante, a partire dai tanti affondi teorici dedicati al sommo poeta. Una attenta lettura dei saggi di Empirismo eretico permette infatti di riconoscere nelle atmosfere tragiche pasoliniane, così come nelle loro impalcature retoriche, una serie di indizi che rivelano più di un debito nei confronti di Alighieri: si pensi alla spiccata “agency” metalinguistica delle dramatis personae, al reiterato impiego di doppi – da intendersi come calchi dell’originale processo di rifrazione messo in atto nella Commedia –, alla spiccata frizione fra lingua aulica e scivolamenti scatologici, tutti segni che inducono a riflettere sulla persistenza dei paradigmi danteschi nell’immaginario letterario e artistico di Pasolini. La tassonomica declinazione di fabulae nere non esclude lampi di assoluto, improvvise accensioni sacre, tanto più che tutto il corpus tragico è attraversato da una dirompente disposizione martirologica, ma è indubbio che l’abisso in cui si muovono i protagonisti somigli alle bolge di un inferno ora arcaico ora postmoderno, effetto di un convincente restyling dell’originale dantesco.
Per spingersi oltre la cortina di ferro di un presente-passato fuori misura occorre recuperare l’ultimo monito pasoliniano, espresso a chiare lettere nella celeberrima intervista a Furio Colombo, e destinato a restare come lucida evidenza di un sapere profondamente ancorato agli spasmi del suo tempo:
Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte e generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la “vita violenta”. Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. (Pasolini [1975] 2005).
L’allusione al doppio movimento (l’alzarsi e l’abbassarsi) già espressa ne La divina mimesis qui torna a motivare la necessità di non ignorare gli spettri e le contraddizioni della società, di “gettare il proprio corpo nella lotta” fino a immergersi nel cuore delle cose. È questo slancio a ridefinire l’attrito con il modello dantesco, a richiamare il perimetro dell’inferno come metafora, ovvero come possibile specchio della vita. Se il cinema giunge a confrontarsi con le insegne della Divina commedia in modo cifrato, attraverso filtri figurativi e letterari, la forma drammaturgica assume il principio della catabasi senza riserve, inscenando viaggi oltremondani – è quel che accade in Porcile e in Bestia da stile – o mettendo in cortocircuito finzione e realtà, come avviene nel terzo sogno di Calderón, ambientato “dentro” la fotografia di un Lager, espressione massima dell’inferno “salito” sulla terra (su questo particolare uso dell’immagine fotografica si rimanda a Pontillo 2015). L’anomalia scenografica di Calderón fa slittare su un altro piano la relazione fra segno e simbolo e pertanto resterà fuori da questa analisi, mentre gli esempi di Porcile e Bestia da stile offrono l’occasione per cogliere l’importanza delle rifrazioni dantesche: in entrambi i casi ‘scendere all’inferno’ significa per i protagonisti maturare una nuova consapevolezza di sé e del mondo, sperimentare una diversa “agency”, guadagnare una visione più ampia, che non porterà alla salvezza ma confermerà il postulato sacrificale dell’imitatio Christi.
Un inferno mancato
Porcile immette nell’orizzonte delle sei tragedie pasoliniane un livello di ambiguità potente, legato all’ambientazione e alle dinamiche d’azione. Con una scelta singolare, solo in parte indagata, lo scrittore situa Porcile e Calderón nel medesimo anno, un fatidico 1967, preludio a una feconda impresa rivoluzionaria che in realtà viene demistificata in entrambe le opere. Sullo sfondo di una generale concitazione si stagliano infatti le vicende delle tre Rosaure e di Julian, personaggi in cerca di una via di fuga dal carcere reale e metaforico dell’esistenza quotidiana, a cui l’autore assegna due destini differenti (l’accettazione di una morte in vita contro il sacrificio in nome della purezza del desiderio), eppure lacerati dalla stessa ferita: la memoria del lager. Se il trauma dello sterminio viene assunto come principio stesso del sogno/risveglio in Calderón, per la insistita immagine della prigione, la straniante favola di Porcile sancisce il sacrilego compromesso di una storia di Ebrei con una di maiali, dietro cui si adombra il promettente futuro della Germania della ricostruzione. Al di là di possibili letture incrociate, ciò che resta è un dato inequivocabile, ovvero l’aberrante potere camaleontico della borghesia, capace di superare indenne i più terribili traumi. Alla geometrica e labirintica costruzione dei sogni calderoniani si sostituisce l’espressionistico gioco al massacro di Porcile, ambientato nella Germania neocapitalistica di Bonn e Colonia, che “non è mica la Germania di Hitler!” (Pasolini, Porcile I, 590) sebbene ne riproduca il cannibalesco principio di conservazione della forza.
Così la declinazione del paradigma di classe diviene in Porcile sinistra allegoria delle leggi di produzione e di consumo che hanno sostituito le arcaiche idee del possesso e della conservazione del vecchio mondo padronale; la logica utilitaristica e meschina della borghesia viene enfatizzata dall’arguzia e dalla sfrontatezza delle marionette del potere, l’industriale Klotz e il suo rivale Herdhitze, contro cui si stagliano l’algida e inconsapevole ieraticità di Julian, l’abiezione bestiale e innocente del suo amore per i “porci”, che nasconde la purezza e il disincanto di un’estrema ribellione.
Un giovane soffre tutti i fenomeni di un amore tragico (molto sensuale, carnale ecc. ma sublime): rasenta la follia (c’è una donna innamorata di lui, e sua madre ecc. (?)). I Visione: discesa di questo giovane nell’Ade, in mezzo ai più atroci martiri e carneficine (da Living Theatre ecc.), lager, camere a gas, torture, napalm ecc. ecc.: un concentrato di tutte le più orribili atrocità ecc. ecc.: tutti coloro che sono martirizzati desideravano di esserlo: la domanda è questa: perché desideravano di essere martirizzati.
Al risveglio della seconda visione, il giovane (un tedesco o un austriaco: tutta la tragedia si svolge nella Germania di Bonn) conosce il proprio desiderio di essere martirizzato (?). A questo punto si ha la rivelazione del suo segreto ecc. con particolari della sua biografia, della sua infanzia ecc.: egli può amare sessualmente solo i maiali, nei loro porcili (cfr. un caso clinico reale, da consultarsi ecc. ecc.). […] Alla fine della seconda Visione (del tutto sublime e senza riferimenti al sesso), egli viene sbranato e divorato dai maiali (Pasolini 2001, 647).
Nelle Note e notizie sui testi del volume dedicato al Teatro, De Laude e Siti consegnano a lettori e studiose dei frammenti preziosi, che permettono di rinvenire la fortissima matrice dantesca del progetto Porcile e con essa la profonda tensione grottesca del dramma, che in questi ‘brani’ espunti si accende di toni inauditi. Già nella prima stesura il piano dell’opera appare delineato con grande chiarezza ed evidenzia una marcata insistenza verso l’idea di una naturale propensione di Julian al martirio, legata senz’altro alla sua radicale diversità erotica. Ancora una volta, come in Pilade, Affabulazione e Bestia da stile, è un desiderio fuori misura a mettere in moto il dispositivo drammaturgico, che qui però viene sublimato dalla vocazione sacrificale della vittima, che con ferma determinazione si immola quasi ad irridere lo scellerato patto di sangue tra il potere e la storia. L’abbozzo della scaletta lascia emergere una forte connotazione dantesca che si manifesta nella straniata architettura delle visioni e nell’assunzione del modello della catabasi, intesi come strumenti di una progressiva messa a fuoco delle dinamiche relazionali del protagonista. Lo stile apparentemente distaccato e neutro del trattamento non azzera la disposizione visuale dell’opera e anzi rende riconoscibile alcuni items che andranno poi a ‘colorare’ i frammenti della Divina Mimesis, confermando la circolarità dell’immaginario pasoliniano. I “più atroci martiri e carneficine (da Living Theatre ecc.)” (Pasolini Scaletta prima stesura, 647) sono il primo indizio relativo al processo di rimediazione dell’inferno dantesco e dichiarano altresì l’appartenenza a un preciso modello performativo, quello del ‘teatro vivente’ americano, che Pasolini accoglierà in Edipo re assegnando a Julian Beck il ruolo simbolico di Tiresia per poi rinnegarne le matrici all’altezza dell’ultima stesura di Bestia da stile (intorno al 1974). Gli appunti rivelano altresì – in forma di “visioni” – lo sviluppo dell’azione drammatica senza alcuna censura, sottolineando il tabù sessuale di Julian e aggiungendo dei sintagmi che non troveranno spazio nella versione finale. Lo scarto fra abbozzi e opera si coglie pienamente nel dettato degli episodi esclusi, all’interno dei quali Pasolini dà forma e corpo al viaggio oltremondano attraverso un sottile gioco linguistico e metariflessivo.
JULIAN
dove mi porti?
ZAÙM
A fare un’esperienza ultraterrena, una «summa» che comprende Inferno, Purgatorio e Paradiso: un viaggio non sentimentale, ma
rigorosamente intellettuale.
[…]
ZAÙM
Io sono lo Spirito della Parola, e proprio
perché lo stile usato in mio nome
consisteva in parole senza senso, in varianti
sulla radicale di una sola parola detta a caso:
qualcosa insomma di molto simile a Dadà.
Ora, la tua tragedia, Culettino, o Merdina mia,
non richiede l’azione, ma la parola.
L’inconscio non si fonda sui principi aristotelici.
Nel sogno A non è uguale ad A; e non è vero neanche
che se A non è B, B non è A. Io, Zaùm,
fratello di Dadà, sono qui per parlare
mentre è solo l’azione che conta.
JULIAN
E quale azione?
ZAÙM
Lo vedrai: per ora io sono lo tuo duca,
e muoviamo i passi là dove il tuo sogno vuole (Pasolini, VI episodio escluso della prima stesura, 650)
Questo rapido estratto fa intendere quale sia la veste retorica impiegata da Pasolini per ricalcare la struttura della Commedia: alla coppia Dante-Virgilio si sostituisce quella formata da Julian e Zaùm, maschera culturale che rivendica la libertà e la possibilità di articolare l’inarticolato presentandosi come fantasma corporeo in “funzione didascalica”. La presenza di questo “duca” sui generis fa sì che il drammaturgo possa spingere al massimo grado il linguaggio del sogno, concentrando nei diversi gironi scene di grande violenza visiva, condite da un impressionante humor nero. Nonostante la tarda abiura nei confronti del Living Theatre, sembra che a questa altezza sia ancora attiva la “agency” del gruppo americano, portatore di un alto tasso di performatività dentro orizzonti in cui politica e rivendicazioni libertarie segnano un punto di non ritorno nel secondo Novecento.
Il primo girone si apre nel segno di una accesa sinfonia del sangue (“siamo nel sangue fino alla caviglia, / e il sangue fresco puzza di becco”); subito dopo si squaderna dinnanzi agli occhi del giovane protagonista una sequenza che ibrida una euforica litania onomastica (che annovera uno dopo l’altro Cok il becchino di Lock, il cuoco No-Cock di Pock, Cock-Cock il culattone di Kape-Kennedy in una lunga catena iperbolica) con atmosfere politicamente scorrette, in cui “Negri” dai denti smaglianti si sottomettono allo sguardo di un Bianco e si abbandonano a gesti estremi (come estrarre con un cucchiaio un bulbo oculare dalle orbite, mimando la scena cult di Un chien andalou ma senza la stessa carica sublimante). Il carnevale alla rovescia di questo girone lascia presto il posto a un altro personaggio, un certo Sigmund Einstein, quintessenza dell’ebraismo, in vena di lunghe tirate monologiche al limite del non sense. Il discorso di Einstein è un distillato di stili diversi, con slarghi poetici commoventi, qualche punta di acuminata ironia e un aspro senso della predicazione. Se le prime due scene si concentrano su questioni di grande evidenza (in primis razza e religione), quel che resta dell’episodio incompiuto insiste invece sulla dimensione del desiderio, evocando figure di transfert (“un bel ragazzino quattordicenne, alle prime masturbazioni”) e prefigurando una dozzina di capitoli, dei quali la voce di Zaùm rivela solo pochi dettagli. Il ricorso alla rima baciata, e a un più scorrevole eloquio, sembra apparentemente alleggerire le ultime battute, ma quel che resta è una livida profezia (“quando tornerai a riveder le stelle / avrai capito / perché ti turba tanto il suono di un grugnito”), destinata a compiersi tra le pieghe della tragedia.
Veri inferi, non solo linguistici
All’inferno postmoderno della visione di Julian fa da pendant figurativo la catabasi di Jan in Bestia da stile, ennesima rifrazione dantesca nel corpus della scrittura pasoliniana. Bestia da stile è un’opera complessa, ha la consistenza scivolosa di un palinsesto, per via del costante lavorio critico a cui è stata sottoposta.
Ho scritto quest’opera teatrale dal 1965 al 1974, attraverso continui rifacimenti, e quel che più importa, attraverso continui aggiornamenti: si tratta infatti di un’autobiografia. Quindi, man mano che passava il tempo, e tenevo l’opera inedita a causa dei continui rifacimenti – passava anche la mia vita, e si rendevano dunque necessari anche i continui aggiornamenti. Nell’estate del 1974 ho deciso di smettere. Con gli aggiornamenti, ma non con i rifacimenti (per cui l’opera è rimasta ancora per più di un anno inedita: chiudendosi così il decennio 1965-1975). Nell’estate del 1974 ho scritto praticamente, la lunga appendice. Che il lettore, se vuole, può però non leggere. L’opera finisce con le parole “ebbro d’erba e di tenebre”. Poi nell’appendice ci sono ancora cose importanti (per me), ma la “fine” (la cui risonanza nel silenzio della “fine” è di solito lo stilema più bello dell’opera) è lì (Pasolini, Bestia da stile, 761).
L’intento autobiografico, marcatamente scoperto, rivela una vocazione testamentaria alla quale si aggiunge la necessità di sigillare la propria esperienza rintracciando i frenetici sussulti della aspirazione poetica di un giovane slovacco, il protagonista Jan, dietro cui si adombrano – in un doppio transfert mimetico – le ombre di Jan Palach e dello stesso Pasolini. Jan, in preda agli “astratti furori” della gioventù e di un’indomabile pulsione civile, declina ‘allegoricamente’ il cursus honorum della carriera pasoliniana, accentuandone i caratteri avanguardistici e alterandone allo stesso tempo successi e fallimenti, in un’avvincente cavalcata nel cuore del Novecento. L’immediata chiarezza del “patto autobiografico” viene tradita così dalla codificazione di una scena figurata che sembra allontanare la discorsività pasoliniana confinandola dentro il chiuso ventre della Slovacchia, da cui si irradieranno l’ineffabile spirito della rivoluzione e il valore testimoniale di una parola martoriata.
Nel tratteggiare gli snodi del destino sacrificale di Jan, pronto a immolarsi per vivere fino in fondo la propria aspirazione artistica e libertaria, Pasolini ripropone nel VI episodio il paradigma del viaggio oltremondano, rinunciando ai tratti apocalittici disegnati in Porcile, ma confermando l’attitudine conoscitiva della catabasi.
Coro
Egli compì la sua discesa agli inferi
dentro l’anima dei piccolo-borghesi di Praga.
Erano veri inferi, non solo linguistici!
La vita ivi era incandescente, nel suo divenire
disordinato come lava e fiamma maleodorante,
con lampi e cecità improvvise, e un continuo
sordo come la consunzione,
non solo perché la lingua era colta nel suo nascere
e nel suo uso reale, sospeso nel vuoto
come tutto ciò che si muove, ma perché
l’ideologia politica e la religione umana
erano impietrite nella più estrema confusione (Pasolini, Bestia da stile VI, 800).
Il Coro, restaurato nel cerchio magico di questa tragedia imprendibile, descrive i contorni di un inferno che in verità sembra più alluso che reale, perché la dimensione magmatica riguarda i conflitti di classe e le aspirazioni religiose. Questa discesa nel ventre brulicante di Praga è funzionale all’acquisizione da parte di Jan/Pasolini di una nuova tecnica poetica, lo Skaz, una prosa della pura sonorità, che utilizza liberamente tutti i procedimenti della genesi del testo, al pari della poesia transmentale. Analogon dello Zaùm, lo Skaz è il secondo movimento di avvicinamento al magma, lo strumento di uno scambio dissonante tra suoni e significati: il punto di fuga verso la fisica immagine del nulla. Non sembra esserci più spazio per slanci visionari, punizioni e contrappassi, l’inferno è conficcato nello spazio vivo della città, si confonde con gli ardori del quotidiano, si slabbra nella concitazione poetica perché anche se l’azione drammatica procede a sbalzi, quel che più conta è il valore salvifico dell’arte opposto alle distrazioni della storia.
I bagliori dell’avanguardia, i paradossi di linguistica e fonologia non azzerano la tensione metamorfica del protagonista né l’azzardo immaginifico di Pasolini, che si concede un ultimo corpo a corpo con il fantasma di Dante, inscenando una disputa fra il Capitale e la Rivoluzione per il possesso dell’anima di Jan. Il seguito del IX episodio è un piccolo prodigio di retorica e affabulazione, la sintesi di concetti chiave che attraversano tutta l’opera di Pasolini per arrestarsi infine di fronte al palpitare del paesaggio nelle luci della sera: il Capitale, con sdegnata superbia, abbandona l’agone e lascia alla Rivoluzione il controllo su Jan, “ebbro d’erba e di tenebre” (Pasolini, Bestia da stile IX, 830). Pur trattandosi di una conclusione provvisoria, per l’aggiunta di una fitta appendice, il senso riposto dell’opera vibra nell’intimità di questa scena, distante dalle intermittenze dello stile e tutta ripiegata nella vertigine del giorno che scolora. La metafora di “un paese nel fondo della provincia”, dentro cui “trema l’anima del mondo” (ibidem), diviene così l’antidoto alle feroci violenze di Lager e prigioni, l’unica resistenza all’avanzare dell’inferno, il margine estremo della meraviglia, contro ogni abiezione.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
Pasolini’s cinema reinvented Medieval styles and formats through an intense exchange with models typical of Dante and Boccaccio, thus creating memorable sequences and works. His theatre, which apparently is more distant from Medieval schemes, in reality contains interesting revisitations in which katabasis becomes paradigmatic. This essay is an attempt to identify where the tragedy echoes in exemplary ways the Divine Comedy.
keywords | Pasolini; Dante; Catabasi; intertextuality; theatre.
Per citare questo articolo: Stefania Rimini, Rifrazioni dantesche nel teatro di parola, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 197-211. | PDF dell’articolo