Un’allegoria
In Dal laboratorio, Pasolini improvvisamente menziona, in un breve esquisse di storia della stilistica, la figura di Leo Spitzer:
Non solo c’è aroma di Vico, ma odore di Croce, e addirittura puzza di Bertoni… L’homo sapientissimus della stilistica come linguistica generale e l’homo alalus si confondono nelle interiezioni sentite come avrebbe potuto sentirle un allievo di Vossler… o Wagner… Si agitano intorno ombre di neo-linguisti Spitzer sorride dans le tombeau… I devoti di una nazione unita prima letterariamente che socialmente vogliono a tutti i costi vedere in ogni contadino sotto-sviluppato un poeta, e nel poeta scrivente un diffusore di invenzioni linguistiche in un paese dove, all’unità, il novanta per cento delle anime non sapeva leggere… (Pasolini 1971, 1334).
Questa piccola ricostruzione sembra riferirsi, dieci anni dopo, all’epoca in cui Pasolini comincia a studiare la poesia popolare, avvalendosi di strumenti nuovi come la stilistica, e confrontandosi con le tesi di Croce e del dibattito dell’epoca, prendendo la posizione, derivativa ma non scontata, dell’assenza di originalità dei fenomeni di letteratura popolare. In questo contesto, beffardo ed enigmatico è il riferimento al sorriso di Spitzer. Per comprenderne il senso, in ultima analisi allegorico, è necessario ricostruire la catena dei rimandi intertestuali contenuti nel brevissimo lacerto. Nel 1960, Contini aveva firmato un Tombeau di Leo Spitzer. In questo ricordo Leo Spitzer veniva così rappresentato, a chiosa di un episodio in cui lo stilcritico viennese se ne usciva con una delle sue formidabili pointes: “un sibarita di rara qualità fa uno sberleffo, quanto salubre e ricreativo!, agli inappetenti sacerdoti della scienza” (Contini 1961, 660).
Se Pasolini nasconde, en abîme, la silhouette del suo vero maestro (assieme a Longhi) e primo recensore, ossia Contini, il suo ricordo, da un lato, e l’attitudine di Spitzer, dall’altro, non esauriscono le virtualità della scena: il cui focus sta in una serie di particolarità o caratteristiche della stilistica che evidentemente Spitzer (e con lui Contini) incarnava; quella stilistica che, secondo Pasolini, ha desunto le sue unità d’analisi principalmente dal decadentismo[1]. Del quadro va però rilevato almeno un altro particolare. Su “Officina”, proprio a Spitzer Scalia aveva dedicato un testo. Lì, a un tratto, si leggeva: “Lo Stilistico sorride, sa bene che la stilistica non è così ingenua” (Scalia 1959, 13). Il sorriso cui faceva cenno Scalia era determinato dalla vittoria del carattere irrazionale dei fenomeni individuati dalla stilistica sulla razionalità letteraria marxista. Che nel 1965 Pasolini si produca in questa particolare forma di contaminatio la dice lunga su ciò che la stilistica deve aver significato per lui: la possibilità – vissuta agonisticamente – di integrare razionalità e irrazionalità, marxismo e borghesia, popolo e borghesia. Il sorriso di Spitzer sembra significare, in questo nuovo contesto storico, la vittoria di un certo tipo di irrazionalità (senz’altro borghese), che stavolta si situa in un momento biografico del tutto diverso. In questo senso probabilmente allude alla rilevanza, nell’ultima fase della poetica di Pasolini, dell’umorismo[2]. Non a caso, in svariate occasioni, Spitzer da Pasolini viene tratteggiato come un umorista:
Ho sentito solo la seconda delle conferenze: quella su Rabelais. Non mi è sembrata certo tra le cose più belle di Spitzer. Quindi, parlandone in sintesi, non potrei aggiungere altro a quanto ho già detto. In quell’occasione ho conosciuto di persona Spitzer: era un vecchio alto e chiaro, allegro come un ragazzo, di quelli che capiscono subito tutto, ascoltano e ricordano: il suo umorismo mancava totalmente di ogni forma di scetticismo e di amarezza. Amava la vita e i suoi fenomeni, tutti, come un adolescente (Pasolini 1960d, 1559).
Lo Spitzer umorista rappresenta, per Pasolini, la via irrazionale alla explication de texte. Ma ecco quanto Pasolini dice del suo rapporto con l’umorismo:
Essendo io privo di umorismo, dovrebbe essere logico che amassi molto gli umoristi. Invece, se proprio dovessi confessarlo, direi che per loro provo soltanto una cupa ammirazione: il solito rispetto per il possesso altrui. In realtà, non li amo: per due ragioni. La prima è che sono i campioni dell’oggettività, se si adopera questa parola nel suo senso corrente, pratico, non ideologico, in quanto preveda un atteggiamento anti-lirico, non soggettivo e autobiografico: la totale mancanza dell’io, espunto dal testo come fatto importuno, indiscreto, ineducato, e totalmente privo di humour. La seconda ragione è che gli umoristi sono sempre dei conservatori, quando non addirittura dei reazionari. Per ridere del mondo, pare, non bisogna crederci affatto: non credere, cioè, nei suoi destini evolutivi. Insomma, per queste persone generalmente di ottima famiglia che sono gli umoristi classici, che ridono spersonalizzati di cose su cui io mi dispero, provo più soggezione che simpatia (Pasolini 1961b, 2311).
Questo tentativo di una sintesi teorica originale è connotato, ab ovo, in senso politico: l’umorismo è un fenomeno reazionario, di marca borghese (“ottima famiglia”). Ma questa elaborazione teorica, di due anni più tarda rispetto alla morte di Spitzer, va integrata con altri frammenti:
Quanto al resto, il “discorso libero indiretto” borghese, che, volendo o non volendo, ho dovuto distendere sotto il tessuto della prosa poetizzante, ha finito col contagiare anche me, fino a dotarmi di un leggero senso dell’umorismo, del distacco, della misura (e rendendomi forse, con grande mia rabbia, meno scandaloso di quanto il tema avrebbe richiesto): tutto comunque, credo, resta sostanzialmente osservato e descritto da un angolo visuale estremistico, forse un po’ dolce (me ne rendo conto), ma, in compenso, senza alternative (Pasolini 1968, 2506).
Anche Pasolini viene contagiato insomma dalla dimensione dell’umorismo. Questo contagio ha carattere reattivo: reazione, evidentemente, contro la perdita della bussola teleologica della razionalità marxista. Di fronte all’evidenza – tale già a inizio anni Sessanta – che la rivoluzione marxista è “rimandata sine die” (Pasolini 1995, 70), a mano a mano, Pasolini afferma, nel 1969, di “stare scivolando verso una forma di umorismo di cui diffida profondamente […] è una reazione di difesa tipicamente borghese, un modo dell’essere borghese […] Il popolo non è umorista […] il popolo è comico” (Pasolini 1983, 1442-1443). Fin qui, si possono desumere due corollari: una opposizione di natura classista tra umorismo e comico; il superamento preterintenzionale del comico popolare attraverso l’umorismo borghese; quello stesso umorismo che Pasolini riconosceva a Spitzer, e che nei brani ora letti si trova appunto collegato al discorso libero indiretto: altro concetto che probabilmente giunge a Pasolini proprio da Spitzer[3].
Da Spitzer a Auerbach
Potrà sembrare strano cominciare un saggio su Auerbach[4] con una lunga riflessione sul ruolo di Spitzer nella poetica di Pasolini. Tuttavia, bisogna registrare un fatto: dall’abbozzo di storia della stilistica registrato all’inizio di questo discorso, l’assenza del nome di Auerbach risulta in effetti eclatante. Perché Auerbach non è menzionato? I concetti desunti da Auerbach, nel metodo critico di Pasolini, sono numerosissimi[5]. Ma, va detto, se la stilistica di Spitzer ricava per Pasolini le sue unità d’analisi dal decadentismo, è evidente che quella di Auerbach trae la sua ripartizione stilistica e l’idea di Stilmischung soprattutto dal confronto con la produzione letteraria medievale. Ora, Pasolini, da un certo momento in poi, comincia a razionalizzare e storicizzare il suo rapporto con il decadentismo[6], ma insieme prende a modellizzare le sue opere non più su precedenti di epoca tardo-moderna, ma piuttosto di epoca medievale (si pensi ad esempio alla Divina Mimesis). Se questa versione del concetto di umorismo è almeno in parte riconducibile a Spitzer, come si è visto, proprio a Auerbach, nei lavori di Pasolini, è indubbiamente riconducibile quello di comico. Nel 1974, Pasolini scrive, riguardo a Volponi:
Esiste tuttavia una qualificazione che fa perfettamente al nostro caso, garantendoci di restare immuni da ogni genericità e ambiguità. Si trova in Auerbach: secondo il grande stilcritico esiste infatti un tipo di realismo (che si occupa in stile comico del quotidiano) il cui senso profondo consiste in una “pietà creaturale” verso gli uomini, sia come principio pre-razionale sia come ultima risoluzione di una ideologia (non necessariamente cristiana). Il mondo sociale di tale “realismo creaturale” è il “coin detourné de la nature”, dove secondo Pascal si trova a vivere l’uomo, ma che ha tuttavia tutte le connotazioni dell’usuale, del normale, del quotidiano (ed è proprio per ciò che commuove) (Pasolini 1979, 2020).
Il comico è quindi, per Pasolini, uno stile, connotato diastraticamente: il comico di Auerbach non è connesso automaticamente con il riso, con il livello sociale.
Mentre lo stile in Spitzer corrisponde all’estrinsecazione di un fondo irrazionale individuale, il principio che informa l’idea di stile realistico o comico, di matrice auerbachiana, è invece, non irrazionale, ma pre-razionale, e in questo senso intersoggettivo e in ultima analisi politico. Quella stilistica è una configurazione discorsiva che insieme imita la situazione sociale reale riproducendola anche nella forme, e che la razionalizza:
Il neorealismo è il prodotto di una reazione culturale democratica alla stasi dello spirito del periodo fascista: letterariamente essa è consistita in una sostituzione del classicismo decadentistico, ipotattica, ordinante dall’alto e implicante una netta "distinzione stilistica" verso uno stile sublimis (in cui se c’era del realismo, si trattava di realismo prezioso o di genere) con un gusto della realtà, paratattico, operante documentaristicamente al livello della realtà rappresentata, attraverso un processo di mimesis da cui nasceva la riscoperta del monologo interiore, del discorso vissuto e di una mescolanza stilistica, con prevalenza dello stile humilis (o dialettale). Alla base di questo rinnovamento letterario è il rinnovamento politico: e i marxisti e coloro che ne hanno accettato la discussione – ne sono stati all’avanguardia. Primo effetto di questo rinnovamento è stata la ricomparsa dell’Italia che per venti anni era sparita: l’Italia quotidiana e bassa, dialettale e piccolo-borghese (Pasolini 1957, 702).
In questo passaggio così familiarmente auerbachiano nella terminologia, si annida un ulteriore riferimento: quell’“ordinante dall’alto”. Anche questo sintagma è desunto da Auerbach, che in Mimesis scrive: “E lo stile basso del linguaggio non ha per fine di far ridere un grande pubblico, ma di dar colorito vivace a un quadro presentato a un’élite sociale e letteraria che guarda le cose dall’alto, placida e gaudente” (Auerbach, 1946, 55). Se lo stile basso può comunque essere al servizio delle classi dirigenti, la Stilmischung pare valere per l’effetto contrario: “Invece il racconto della rinnegazione di Pietro e in genere quasi tutto il Nuovo Testamento è stato scritto nel mezzo degli avvenimenti e immediatamente per ciascuno. Qui non si ha visione razionalmente ordinata dall'alto, né intenzione d’ arte” (Auerbach 1946, 56). Ecco allora che proprio nel superamento delle inclinazioni stilistiche individuali attraverso la mescidazione stilistica è rinvenibile la sua pre-razionalità, ossia il suo preludere alla razionalità; infatti, dal momento che il concetto di stile comico o umile obbedisce a una caratterizzazione diastratica, la Stilmischung costituisce una volontaria apertura all’alterità sociale, che dev’essere in parte cosciente e cercata e in parte preterintenzionale:
Come sempre, ci sono, si mescolano nelle mie opere – direbbe un critico stilistico – lo stile sublimis e lo stile piscatorius, e cioè ho messo insieme Bach a rappresentare lo stile sublimis e dei canti di mendicanti negri oppure dei canti popolari russi oppure la messa cantata dei congolesi per rappresentare lo stile piscatorius, lo stile umile (Pasolini 1964, 783).
Della fondamentale importanza della mescidazione stilistica in Pasolini testimonia questo brano[7]:
Su questo si è realizzato concretamente l’impegno del dopoguerra – come ho più volte ripetuto: esso, dal punto di vista linguistico, è praticamente consistito in una serie di inserti nelle opere letterarie di “discorsi diretti” ( tutto il neorealismo, con le sue “registrazioni”), e in una serie di “discorsi liberi indiretti” ( tutto il naturalismo espressionistica): per cui l’autore finiva sempre per parlare, completamente o in parte, attraverso la lingua del suo protagonista popolare e dialettale. Era l’unica strada concreta e possibile – sotto la specie dell’epicità, che l’oggettività implicita nella ideologia marxista, garantiva – di applicare alla letteratura la nozione gramsciana di nazional-popolare: la concomitanza di due punti di vista nel guardare il mondo, quello dell’intellettuale marxista e quello dell’uomo semplice, uniti in una contaminatio di “stile sublime” e di “stile umile”[8] (Pasolini 1971, 1299).
Stile sublime e stile comico (o umile) si incontrano attraverso il discorso indiretto libero, che contamina quindi attraverso la mimesi la postazione ideologica dello scrittore e del suo protagonista popolare. In qualche modo Auerbach e Spitzer si incontrano in un unico stilema, il che potrebbe apparire paradossale. Ma i paradossi dello stile comico non finiscono qua: “La lingua di Vanni Fucci ricorda insomma, come annota il Sapegno, la lingua dell’Angiolieri: un uomo colto che rifà lo stile comico degli ignoranti, per raffinatezza e rabbia” (Pasolini 1971, 1394). Lo stile comico è un fenomeno basato sull’imitazione di qualcosa che è già stilizzato (“rifà lo stile comico”). In un certo senso, ossia, è già in partenza un pastiche[9], una commistione, già, per molti versi, codificata.
Il realismo
È sulle categorie di Auerbach medievista che Pasolini forgia i frammenti sparsi della sua teoria della letteratura, integrandoli con suggestioni provenienti da Spitzer. Auerbach, con la sua impostazione teorica che aiuta a riconoscere il principio dell’ontologia sociale dello stile, costituisce quell’utile trait d’union che rende la stilistica compatibile con quello che per Pasolini in letteratura dovrebbe significare il marxismo (sia di matrice gramsciana che lukácsana), ossia con la proposta teorica di un realismo che getti il suo sguardo, attraverso la prospezione del ruolo del popolo, non esclusivamente sui contenuti, ma anche sulle forme, altrettanto storicamente rilevanti rispetto ai primi: Pasolini in questo senso stigmatizza in più di un’occasione l’arretrato contenutismo del PCI di Salinari. Lo stile comico e la mimesi non sono nulla più che due estrinsecazioni della problematica del realismo. Su quest’ultimo concetto Pasolini si trova a riflettere, fin dalla fine degli anni Quaranta, sulla scorta del clima culturale neorealista, con un incessante tentativo di risaltarne la storicità, come in questo caso del 1965:
Ci sono certi giocatori di dadi, che potrebbero illustrare un’opera scritta un secolo dopo e certe sue figure che non sono grottesche, come ha detto Guttuso e come si disse generalmente, non sono affatto grottesche, ma sono fatte di un realismo come poteva vederlo un uomo del Cinquecento, cioè sotto la specie del cosiddetto stile comico: è un realismo comico contrapposto allo stile tragico. Questo realismo comico noi lo citiamo come grottesco, invece era il modo di essere realistici in quel momento (Pasolini 1976, 2796).
Le forme del realismo si adattano quindi all’epoca in cui vive l’autore. Qual è il modo, pur sempre mimetico, di fare realismo per Pasolini negli anni 50-60? Pensando a Una vita violenta:
è una serie di tipi d’uso dialettale di specie verghiana: implicanti cioè una regressione dell’autore nell’ambiente descritto [popolare], fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico, mimetizzandolo incessantemente, fino a fare di questa seconda natura linguistica una natura primaria, con la conseguente contaminazione. […] Il mio realismo io lo considero un atto d’amore: e la mia polemica contro l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso, implica una presa di posizione politica contro la borghesia fascista e democristiana che ne è stata l’ambiente e il fondo culturale (Pasolini 1958, Pasolini 1999a 2729).
Il dispositivo su cui riflette Pasolini indica una coerente presa di posizione storica attraverso l’interazione consapevole con un contesto storico predefinito. Componente essenziale di questo realismo è un discorso indiretto libero mescidato con l’operazione mimetica; ancora una volta Spitzer sembra sposarsi con Auerbach, e, con loro, borghesia e popolo:
Il miracolo pare nascere sempre al livello più basso, nel cuore del popolo. I migliori della classe borghese – e ce ne sono stati, e hanno lottato! – visti così, in questa tragica sintesi, sembrano prodotti essi stessi da questa fonte di energia proletaria, su cui le forze dell'ordine borghese possono operare massacri, violenze, domini, ma che non riescono mai a possedere, come non si possiede la vita se non la si ha. I veri vivi della classe borghese vengono a identificarsi con la grande vita della classe proletaria, che è la sola, per definizione, a poter resistere. E, ripeto, i suoi momenti di resistenza più disperata o più gloriosa, hanno qualcosa di miracoloso: la fatalità del progresso, così razionale, si attua, poi, in stupendi momenti irrazionali (Pasolini 1992, 171).
Nel 1961, borghesia e popolo possono ancora porsi su un’unica lunghezza d’onda, dal lato pre-razionale del popolo: pre-razionale in quanto irriflesso, ma concorde con la razionalità della storia. La concezione della mimesi di Pasolini allora, sembrerebbe potersi rappresentare come una pratica di appropriazione borghese – in qualche modo identificativa – più che di imitazione, della parola altrui, e cioè popolare. Non sono casuali in questo senso i riferimenti al magnetofono dell’autore, per descrivere con un pizzico di esagerazione le modalità di produzione dei suoi testi: “Operazione da ‘magnetofono’, dunque, con qualche leggera correzione nel senso della contaminatio” (Pasolini 1958, 2730). Pasolini sta puntualmente rifunzionalizzando e aggiornando, attraverso il vaglio della stilistica, concetti che provenivano da sue formulazioni teoriche risalenti agli anni Quaranta, come quello di regresso[10]. Lo si vede ancora meglio in questo frammento:
per far parlare le cose, bisogna ricorrere a una operazione regressiva: infatti le “cose” – e gli uomini che ci vivono immersi, sia proletari, nelle “cose” intese come lavoro, lotta per la vita – sia borghesi, nelle “cose” intese come totalità e compattezza di un livello culturale – si trovano dietro allo scrittore-filosofo, allo scrittore-ideologo. Tale operazione regressiva si traduce quindi in una operazione mimetica (dato che i personaggi usano un altro linguaggio, rispetto a quello dello scrittore, atto a esprimere un altro mondo psicologico e culturale). L’operazione mimetica è poi l’operazione che richiede le più abili e accanite ricerche stilistiche (data la necessaria contaminazione di linguaggi, quello del narratore e quello del personaggio, lingua e dialetto ecc.) (Pasolini 1959, 2744).
Il “regresso” è rideclinato attraverso ciò che viene chiamato “contaminazione” (ma è la Stilmischung) e la mimesi, ossia concetti di provenienza stilcritica che servono a chiarire la relazione storica tra dimensione individuale e collettiva, che per Pasolini, secondo un’attestazione del 1962, ha natura semantica:
la storia è spessa, scorre su più strati! E lo spirito non è che la coincidenza semantica dell’individuo con la storia […]. Uno di questi memorialisti sottoproletari, senza coscienza e senza problematica colte, può cogliere in pieno la coincidenza che dicevo: e con i solidi argomenti di una poesia lucidissima e concreta, rappresentare compiutamente un ‘caso’ umano negli strati bassi ma non meno significanti del nostro tempo (Pasolini 1992, 235).
È di specie (socio)linguistica il concetto di realismo che Pasolini può portare avanti, e la stilistica ha l’effetto paradossale di consentire di isolare singoli fenomeni (semantemi, stilemi, opere) storicizzandoli:
Poiché per i crociani – ossia per i critici borghesi – l’operazione artistica è un dato unico, inimitabile e metastorico, l’esame di un’opera d’arte tende a diventare tutto interno: e quando, con la critica stilistica – che discende per li rami da Croce – l’esame, disperatamente interno, si propone come funzione ultima quella di leggere nell’opera d’arte singola un’intera epoca letteraria, finisce poi per risultare soltanto un contributo a una critica sociologica o marxista. (La dolce vita di Fellini) (Pasolini 1960b, 2269).
L’operazione artistica non è dunque un “dato unico”, dice Pasolini. Non lo è in primis dal punto di vista storico. Ma qui si apre un’aporia: il singolo particolare, rispetto al sistema, ha valore di causa o di effetto? E rispetto a quale tempo storico è causa e/o effetto? Il proprio, o quello futuro? L’opera è marcata dal non-contemporaneo perché è caratterizzata da una stratificazione (stilistico-linguistica), e perché la sua fruizione è dislocata in un tempo che supera il momento della scrittura e i presupposti della sua produzione sono gettati in tempi precedenti. La poetica del regresso e del discorso indiretto libero, nella sua natura di Stilmischung, diventa per Pasolini la conferma della possibilità di produrre e controllare una mescolanza, nonché di stili, di livelli storici differenti. Proprio in questo sta la sua forza. Qualcosa di simile si può dire anche della mimesi.
La simpatia
Questa impostazione teorica desunta con molta libertà da Auerbach trascina con sé ulteriori problemi ideologici. Se l’imitazione del popolo implica la commistione di due differenti livelli storici, e quindi di due ideologie differenti, c’è il rischio allora di fare un lavoro sporco, portando avanti ideologie antistoriche. Quando la Stilmischung diventa la risorsa principale del realismo pasoliniano, ciò accade perché costituisce una giustificazione teorica efficace, anche se a posteriori, del dispositivo narrativo basato sul discorso indiretto libero che Pasolini inaugura con Ragazzi di vita: in questa forma di aristotelismo di ritorno, indiretto libero e mimesi, interclassisti, devono essere caratterizzati dall’empatia e dalla comunanza ideologica con i suoi oggetti, integrando differenti strati della storia e della società con identica finalità. Non sempre è possibile un dialogo tra classi (e quindi l’intersoggettività); solo in alcuni periodi storici, come la Resistenza, o come il Medio Evo:
il fatto consta del passaggio del potere da una classe aristocratica di origine teologico-barbarica a una classe borghese di origine autoctona. E se si tiene presente – sempre col dovuto abito semplificatorio – che, per questo periodo, “borghese” vale ancora “popolare”, essenzialmente, in quanto la nuova classe dirigente è in formazione e non si è scissa dal popolo da cui si sta producendo, il “rapporto” cui si accennava ha un‘intensità eccezionale (Pasolini 1960, 891).
In queste epoche si riesce, tra classi dirigenti e sottoposte, a trovare una forma di comunanza di intenti. Allora un borghese – così afferma Pasolini nel 1961 – può farsi carico delle istanze di un’altra classe sociale:
La domanda è questa: "Per quale moto della coscienza - della sua coscienza personale - un uomo nato borghese, educato in un mondo borghese (come me, per esempio, oppure come Alicata, oppure come Togliatti...) si decide ad un certo punto della sua vita a "tradire" la sua classe sociale, e ad abbracciare la causa della classe operaia e contadina? e in questa sua lotta si dedica interamente, a costo delle più gravi rinunce e dei più gravi sacrifici?" (Pasolini 1992, 195).
La posizione dello scrittore deve essere consonante rispetto a quel popolo di cui intende farsi portavoce; ciò era possibile nel Medio Evo e fino a un certo punto della storia:
In termini linguistici, sotto la lingua gergale-letteraria del poeta vociava continuamente la bassa corte dei parlanti popolari, a dar contributi di vivacità o addirittura di comicità, sempre in posizione ancillare, direttamente proporzionata alla posizione paternalistica dei privilegiati cultori delle lettere (che, come dicono i demopsicologi, qualche volta non sdegnavano di "scendere" agli strati inferiori, a far provviste linguistiche in natura) (Pasolini 1963, Pasolini 1999a 2414).
In questo contesto in cui la borghesia non sdegna di attingere a strati inferiori, però, proprio la mimesi sta diventando progressivamente impossibile. Una sorta di radicale coupure si ha al termine dell’ancien régime, visibilissima in un autore come Belli, che per Pasolini diventa un vero e proprio banco di prova ideologico-teorico:
Dopo la Rivoluzione francese, però, e il fondamento della civiltà industriale (il Manifesto di Marx è del ’48, la prima stesura dell’introduzione del Belli al suo corpus di sonetti – stavo per scrivere il suo ça ira – è di 17 anni prima. Però l’ultimo sonetto è del ’49), tale rapporto unicamente poetico tra l’uomo colto facitore di versi e il volgo, o plebe, o popolo, non era più possibile. Col Belli sentiamo per la prima volta, con fisica violenza, che quel rapporto è ormai una “differenza di classe sociale”, a tutti gli effetti, eccetto che, per un soffio, nella coscienza del poeta. Era un rapporto politico, insomma. Non per niente se ogni censore è un autocensore – nella sua tremenda vecchiaia, il Belli, facendo appunto con infamia il censore della reazione, ha scontato “politicamente” il peccato della sua produzione poetica. Ma: sapeva o non sapeva egli, comunque, il saltus che la storia compiva in lui, povero poeta operante in un’area così mortuariamente marginale com’era Roma in quegli anni? Sapeva o non sapeva il distacco di qualità tra il suo rapporto mimetico col popolo e quello di “tutti” i poeti italiani che l’avevano preceduto – e avevano compiuto, in qualche modo, in qualche momento, la sua operazione? (Pasolini 1963, 2414).
Natura non facit saltus, ma la storia ne fa eccome; con Belli il salto è che la mimesi diventa ormai qualcosa di non pienamente possibile nei modi con cui si era codificata dal Medio Evo in poi. Si vien sviluppando infatti una sorta di "poesia in quanto tale"[11], ossia privilegio insieme individuale e di classe. Ma se la poesia è un privilegio individuale, l’imitazione che non sia empatica lede e problematizza questo privilegio. In questa ricostruzione, a partire da Belli, si potrebbe dire, l’imitazione di un personaggio con cui si è in una situazione di assente adesione ideologica costituisce un problema di etica della scrittura. In soldoni: se il reazionario Belli suo malgrado può fare il pifferaio della rivoluzione, Pasolini e qualunque altro intellettuale marxista potrebbe fare il pifferaio della controrivoluzione; ed ecco che la mimesi diventa pericolosa soprattutto a partire dall’epoca in cui vive Pasolini stesso. Al centro di tutto c’è naturalmente il problema della borghesia, ideologicamente progressista nel Medio Evo, passatista invece dall’Ottocento in poi[12]. Pasolini si troverà a scrivere:
Un autore può rivivere i pensieri e non le parole che li esprimono, solo in un personaggio che abbia almeno la sua educazione, la sua età, la sua esperienza storica e culturale: in altre parole, che appartenga al suo mondo. Allora accade un fatto terribile: che quel personaggio è unito all’autore dal fatto sostanziale di appartenere alla sua ideologia (Pasolini 1971, 1356).
È giusto imitare quindi la borghesia? In parte, Pasolini tende a escludere la liceità di una simile mimesi:
Escluderei invece di poter mai scrivere in tutta la mia rimanente vita del mondo borghese o piccolo-borghese; oppure il mondo dei privilegiati primi: non potrei mai esserne mimetico; d’altra parte non ne sono abbastanza distaccato e privo di odio per parlare un italiano puro, di codice (tutt’al più potrei riadottare la lingua sognata labile di Teorema) (Pasolini 1970, 1657).
In realtà, Pasolini non smetterà mai di pensare alla possibilità di un realismo aggressivo e demistificatorio nei confronti della borghesia. Già nel 1961, in una serie di appunti inediti:
naturalmente, nell’intellettualismo della ballata, questo verrebbe a essere un ingranaggio della mimesis: mimesis della mimesis: Gadda fa il verso – usando un eufemismo tipico della lingua italiana del Melzi – a un personaggio, per natura borghese, eufemizzante: e io faccio il verso a lui, Gadda, che fa il verso. Ormai l’oggetto eufemizzante è lontano: c‘è l‘interposta persona di Gadda, monumentale, tra me e lui. Il disprezzo verso l’eufemizzare si avvale dunque di un precedente storico: si codifica. Ormai non c’è più dubbio che lo "zio" o il "nonno" stazionante in uno dei rami genealogici de li Accoppiamenti va disprezzato. È, come dire, una codificazione documentata, pronta, per il testo normativo, coi relativi exempla: quasi quasi una figura retorica del nostro secolo, a livello massimo: mutuata da una cultura disprezzante con trauma (Gadda), a una cultura disprezzante con fede (io, miòdine) (Pasolini 2003, 1363).
La necessità di imitare la borghesia, connessa alla sua problematicità, porta Pasolini a ipotizzare forme di mimesi al quadrato. Il sistema di Auerbach (mimesi e mescidazione stilistica, da Pasolini identificata con il discorso indiretto libero) mostra quindi un punto cieco che Pasolini prova a superare dall’interno. Così, nasce la necessità di aggiungere mediazioni formali a mediazioni formali, con una apertura verso quelle soluzioni metaletterarie che caratterizzeranno l’ultima stagione. La questione della mimesi, ossia l’infrastruttura concettuale attraverso cui Pasolini pensa il realismo, è in pratica strettamente connessa con quella della “simpatia”, ovverosia dell’adesione ideologica a quanto rappresentato. La metaletterarietà e l’umorismo paiono risposte (magari borghesi, decadenti, e quindi spitzeriane), al problema dell’illiceità della mimesi che viene fuori alla luce dell’assorbimento, entro la poetica pasoliniana, della posizione storica di Gadda. Così Pasolini vaglia la via del superamento della mimesi attraverso l’idea di quello che definisce "terza prosa" e del "pastiche", quindi (con Gadda a indicare la via, in questo ambito): "L’idea della prosa come rifacimento di un’altra prosa, il pastiche. Qui ci troviamo di fronte alla mimesis di un periodo latino-ciceroniano; […] L’idea che una prosa non può esser rifacimento di un’altra prosa se non assumendo i caratteri di una terza prosa mediatrice" (Pasolini 1963a, 2396). Questa via gaddiana è al contempo continiana ma anche spitzeriana, costruita com’è sul pastiche:
Se confrontiamo lo stile dei nostri pastiches con quello abituale di Proust, colpisce il fatto che lo stile della Recherche è assai simile a quello del pastiche "alla maniera di Saint-Simon", ma nient’affatto alle imitazioni da Faguet o da Balzac. Si dà dunque il caso che: o Proust si è appropriato, nella Recherche, dello stile di Saint-Simon, o ha adottato invece, nel suo pastiche, le proprie abitudini stilistiche. Ma forse una terza ipotesi è quella giusta: Proust ha creato un amalgama tra la prosa di Saint-Simon e la propria […] Ma nel pastiche c’è anche una serie di modi affatto proustiani, ed è naturale ricercarne le corrispondenze in Saint-Simon (Spitzer 1959, 336-337).
Se si accetta che il concetto di "terza prosa" sia stato da Pasolini esemplato anche a partire da quello di pastiche spitzeriano, questo offrirebbe, in questo vasto fenomeno di interferenza tra Auerbach e Spitzer, una soluzione a un problema cruciale: si sa che infatti Pasolini ha spesso parlato del concetto di "amalgama" (associandogli quello di magma), riconducendolo esplicitamente a Auerbach, che però non ne presenta occorrenze[13]. Ecco però che l’idea del pastiche come amalgama tra due prospettive entro cui però finire sempre per localizzare fenomeni stilistici di matrice individuale, può altrettanto essere ricondotta appunto a Spitzer. Così, Spitzer risulta l’autore a cui Pasolini si appella per trovare l’individuale anche nel collettivo, e viceversa Auerbach quello da cui attinge per pensare il collettivo anche nell’individuale. Per Pasolini, insomma, Auerbach è un pensatore dell’intersoggettività, e Spitzer della soggettività; ma quell’intersoggettività va, negli ultimi anni, corretta (correzione è un concetto spitzeriano che ricorre più volte in Pasolini[14]) con tutta una serie di fenomeni antimimetici come umorismo e metaletterarietà, mentre l’ipotesi dell’intersoggettività, nella sua fondazione mimetica, diventa sempre più problematica. Con questo, diventa impossibile non tanto il realismo, quanto l’idea di un realismo integrale: “L’ipotesi di lavoro di un integrale realismo pare destinata a rimanere ipotesi. Bisognerà rassegnarsi a pensare che ogni poesia è realistica, e che poesia, in certi casi, è la vita” (così Pasolini in Siciliano 1961a, 814). Tutto ciò accade in quanto la soggettività individuale va sempre ricondotta a una prospettiva storica, anche quando contraddice l’ideologia maggioritaria dell’orizzonte storico coevo. Ciò pone allora una domanda: nell’opera, nel singolo dato discreto bisogna ricercare il minimo comune multiplo di una serie atomizzata di fenomeni individuali o il massimo comune denominatore di una serie di fenomeni di tipo intersoggettivo? Il singolo modifica l’ambiente, o l’ambiente plasma il singolo? Quale di queste domande è più vera?
L’integrazione figurale
Fino all’inizio degli anni Sessanta a Pasolini sembrerà che mimesi e Stilmischung siano una soluzione effettiva ai suoi problemi teorici. Il principale dei quali è in primo luogo che c’è una scissione diacronica fin dentro la soggettività stessa dell’autore. L’intersoggettività abita e scompone l’individuo; l’individuo resiste continuamente ai tentativi di assorbimento nell’orizzonte dell’intersoggettività. Già nel 1956, a ridosso della prima lettura di Mimesis, Pasolini poteva scrivere:
Per uno scrittore, almeno apparentemente, parrebbe più facile il far coincidere i due momenti di razionalizzazione: quello stilistico e quello ideologico. Assunto il mondo popolare come oggetto, magari solo di pura denuncia o di dolorosa descrizione, egli avrà sempre la possibilità della mimesis, in cui far rivivere nella sua vita, far parlare nella sua lingua quel mondo. Il pittore – Vespignani – ha fermo, nelle sue linee esterne, davanti a sé, quel mondo: i luoghi dove il proletariato lavora, soffre, ha le sue disperate allegrie, i suoi tremendi grigiori, le sue tristezze senza fondo: riprodurlo significa necessariamente giungere a una contaminazione stilistica. Se è vero, infatti, che i mille particolari della realtà di quel mondo popolare sono organizzati e unificati da una visione ideologica ben chiara, tuttavia l’unificazione e l’organizzazione, in sede tecnica, espressiva, sono dovute a un’educazione stilistica che, con quella ideologica, è tuttora in rapporto diacronico e contraddittorio (Pasolini 1956, 652).
La possibilità della mimesi è un modo per medicare, attraverso l’opera, la scissione storica individuale, che si riverbera continuamente in quella collettiva. Dato che la mimesi – ma più in generale, lo stile – è frutto di un cosciente lavoro di mediazione tra sopravvivenze passate, attese future e dati certi del presente, è uno degli indici storici su cui si regge la leggibilità dell’opera; ma questa leggibilità è soggetta a una forma particolare di diastasi, perché ogni autore/lettore insieme guarda a un presente suo personale, a un suo passato traumatico da cui è impossibile districarsi e a un futuro su cui proiettare le proprie ansie estetiche. Di fronte a questa dislocazione tragica in cui si trova il produttore di oggetti estetici, la preoccupazione di Pasolini è stata il pensare come l’opera entra in relazione con le forme immanenti e trascendenti della sua temporalità. Per farlo, Pasolini elabora un concetto a tutta prima desunto da Auerbach, ma poi sottoposto a una forma di anamorfosi: l’“integrazione figurale”[15]. In un passaggio ben preciso di Mimesis, si legge: "L’interpretazione ‘figurale’ stabilisce una connessione fra due avvenimenti o due personaggi, nella quale connessione uno dei due significa non solamente se stesso, ma anche l‘altro, e il secondo invece include il primo o lo integra". È a partire da questo brano che Pasolini trasforma il concetto di interpretazione figurale in quello appunto di integrazione figurale. Benché Pasolini comincia a dichiararsi insoddisfatto da Auerbach fin dal 1956[16], l’integrazione figurale diventa fin dalla prima lettura di Mimesis un passe-partout buono per storicizzare tutti i fenomeni estetici:
È noto come l’integrazione figurale del novecentismo dalla seconda “Voce” in poi sia stato un ideale aprioristicamente “estetico” (la “poetica della Parola”, la “poesia pura”). Le poesie singole nel loro attuarsi si integravano o modellavano sulla Poesia. Da ciò derivava un tipo di interpretazione della poesia che necessitava di una specie di compartecipazione del critico al lavoro del poeta. Abbandonata l’interpretazione tradizionale, per capire i versi ermetici, bisognava essere in grado di capire, per simpatia, la dilatazione semantica operata dagli autori sulla lingua, fino alla pura e squisita fonicità. Stinta, abrasa, scaduta la figura ideale della poesia pura, i versi e le opere che vi si integravano si sono a loro volta deteriorati, invecchiando precocemente e perdendo i loro valori: ischeletrendosi, e diventando proprio ciò che non volevano essere: struttura. Questo eccesso di funzione della poesia tipica del rondismo e poi dell’ermetismo si può individuare fin dal primissimo Novecento: la figura del poeta s’era fatta ineffabile, prodotto di una classe sociale al limite squisito della cultura. (Pasolini 1960, 1118).
Non è un caso che, nel trattare la questione dell’integrazione figurale, emerga l’idea di “simpatia”: l’integrazione figurale è in primo luogo il modo in cui la figura soggettiva del poeta riesce a rendere coerente la propria prospettiva ideologico-storica nell’opera. L’articolazione di stile e ideologia su un piano storico è ciò che può rendere l’opera un prodotto culturale autonomo:
Il carattere dominante di questa poesia è dunque la clandestinità: una clandestinità, direi, metastorica, diventata una categoria dell’essere, una forma culturale. Se l’integrazione figurale richiesta da ogni poeta è però una lotta come lotta, una lotta indiscussa, ontologica, insostituibile, inderogabile, accadente, s’intende che l’allusività di questa poesia è insieme troppo vecchia e troppo generica. La Resistenza – appunto perché soprattutto azione – non produce, neanche qui – come in Italia, come in Europa negli anni Quaranta – un prodotto culturalmente autonomo. Si tratta quasi sempre di un ibrido, di una contaminazione culturale. La reale cultura di ogni Resistenza, pare consistere in quel tanto di significativo che essa pone a integrare, direi quasi nella lettera, ogni poesia: cioè il suo stesso esserci, e, naturalmente, il suo grande futuro. Ormai la nostra poesia non guarda più al futuro, è costretta a ripiegarsi sui suoi problemi specifici: sui rigurgiti del passato: a definirsi nella nuova situazione in cui l’azione par non debba avere più senso. Lo "sguardo al futuro", che era tipico in noi in quei famosi anni Quaranta, lo ritroviamo qui, con la stessa quasi impudica freschezza, con la stessa imprecisa ma emozionante irruenza, con la stessa meravigliosa convinzione dell’autosufficienza della speranza. E anche, con le stesse caratteristiche di ingenuo e quasi passivo pastiche stilistico (Pasolini 1961c, 2345).
Il pastiche allora è in primo luogo ancora una volta un pasticcio di temporalità, di prospezioni e retrospezioni. Così, la stilistica spitzeriana sembra fin dall’inizio chiamata da Pasolini a integrare in un dialogo continuo le categorie di Auerbach:
Ma seguendo, magari goffamente, lo Zirkel im Verstehen della critica stilistica verso le deduzioni storiche o generali, che sintesi trarre dall’analisi delle sia pur troppo genericamente scelte pagine qui sopra indicate? Mettere l’accento sulla democratizzazione del linguaggio (in sincronia col confuso affermarsi di una repubblica democratica, fortemente influenzata da un grosso partito comunista), su un realismo quindi del concreto-sensibile, della vita quotidiana, linguisticamente alquanto ricco (dai modi della koinè, giornalistici, a quelli mimeticamente popolari e dialettali)? Mettere l’accento, insomma, su una specie di stile “medio”, “creaturale” al limite basso, prospettivistico piuttosto che figurale, al limite alto? Un realismo tipico delle transizioni, con cui, in attesa del formarsi oggettivo e vivente di una ideologia non meramente prospettata, si operi a descrivere – teleologicamente – l’insieme concreto e materiale dei fenomeni? O mettere piuttosto l’accento, come parrebbe più conseguente, sulla divisione interna, che, separando il mondo politico-sociale in due parti – la borghese, attuale, e la socialista, futura, ma operante già nelle coscienze – viene a separare, o almeno a incrinare, ogni particolare di quel mondo, ogni suo fenomeno? Seguire, drammaticamente, il serpeggiare di quella linea divisoria, di quella sutura, di particolare in particolare, di superficie interna in superficie interna, di pagina in pagina, di stilema in stilema? Ma, per una qualsiasi sintesi, siamo troppo immersi in questo farsi della storia; ci è possibile pensare meglio che contemplare: pensare in un incalzante susseguirsi di decisioni pratiche e di scelte stilistiche. Al di là della divisione, ci sarà pure – coniamo l’irrazionale definizione – un “tono storico”: un’anima del tempo; se non altro, appunto, nel dramma, nel dolore della divisione: da attingere se ci è lecito moraleggiare un poco – attraverso una grande intransigenza interiore o una grande pietà per il mondo esterno (Pasolini 1960a, 1087-88).
Il “tono storico” minaccia di trasformarsi sempre in uno stile “prospettivistico piuttosto che figurale”: in questo minimo frammento si annida allora forse la soluzione di quel pasticcio di suggestioni e significati per cui Pasolini, per anni, parla di integrazione figurale anziché interpretazione. Quello di prospettivismo è infatti un concetto che Pasolini riconduce direttamente a Lukács[17]. Ora, la correctio di Pasolini acquista tutto un altro senso perché quello che lui chiama “tono storico”, e che è un altro modo di pensare ciò che dal punto di vista estetico può restituire l’idea di totalità, vede necessariamente un processo di integrazione tra l’elemento individuale e quello collettivo. Proprio da questo punto di vista, resta curioso notare che Pasolini parla di "stile prospettivistico"; ma il concetto di prospettivismo non è qualcosa di direttamente ricollegabile allo stile, in Lukács. Tuttavia, vale la pena di ricordare che fin dal 1950, Lukács tratta di stile, parlando di uno stile sfaccettato:
Per il “difetto” stesso del materiale Gor’kij è costretto a rinunciare al modo di costruire in grande stile, proprio dei poeti epici antichi. Poiché però, in quanto grande e genuino poeta, non rinuncia a presentare l’uomo integrale come processo evolutivo e per mezzo dell’azione, si forma in lui un singolare stile “a faccetta” nel modo di presentare i personaggi: gli sfaccettatori di diamante lavorano in questa maniera. Con la rapida successione delle brevi scene, il poeta getta luce su tutti gli aspetti del personaggio. Egli riveste tutte le possibilità del personaggio di qualche vicenda, e dalla connessione delle scene brevi e misurate risulta tutta la ricchezza della personalità umana distrutta dal capitalismo, e, in pari tempo, risulta anche l’unità individuale e sociale di questa personalità (Lukács 1946, 330).
Si noterà che il campo lessicale dell’integrità è tra quelli che più affollano i testi di Lukács, con la sua idea – appunto – di realismo critico. Al centro del discorso lukácsano è il concetto di totalità, cui tenta di pervenire Gor’kij attraverso il suo stile sfaccettato, ossia desultorio, fatto di piccole scene staccate. Qui, si può aggiungere, l’effetto dello stile a faccetta prende il posto del grande stile, ossia proprio lo stile tragico. Ma c’è di più. In Lukács troviamo anche occorrenze effettive della parola integrazione:
La “zona intermedia” è dunque per entrambi [ossia Hegel e Goethe] il passaggio dall’esistenza oscura e immediata alla chiarezza della vita. Il divario, il contrasto, la reciproca integrazione, derivano dal fatto che questa ultima chiarificazione, questo ritorno alla vita, possono aver luogo poeticamente o filosoficamente, e la “zona intermedia” può condurre al Faust e alla Fenomenologia dello spirito (Lukács 1948, 452).
Se questo contrasto di oscurità e chiarezza consuona perfettamente con la sensibilità di Pasolini, si può aggiungere che, nelle parti immediatamente successive, Lukács comincia a discettare appunto di "figura", che certo ha un senso differente da quello inteso da Auerbach, ma costituisce un interessante fenomeno di interferenza:
i “fenomeni archetipi”, le “figure”, perdono, nel sistema filosofico, quell’esistenza apparentemente sicura e ben delimitata che possedevano, per le ragioni a nei già note, nel critico-scrittore. Essi emergono davanti ai nostri occhi da una totalità di vita ancora incompresa, e proprio in quanto le loro determinazioni si precisano concettualmente ed essi dispiegano la propria vita e affermano la propria indipendenza, fermezza e delimitatezza, essi sprofondano via via nella totalità della vita, ormai compresa. In questo modo già Aristotele ha delineato la sua teoria del dramma. Nella Fenomenologia dello spirito il quadro di tale interpretazione è quella dello sviluppo storico del genere umano. La necessità e la peculiarità dell’epopea e del dramma e la successione dì epos, tragedia e commedia, si rivelano come destino storico del popolo. La Struttura esterna ed interna della vita popolare è il motore della vicenda del sorgere e del perire. Il “fenomeno archetipo” ha qui un’origine, una storia, una nascita e una morte (Lukács 1948, 452-453).
La “figura” viene qui messa in relazione con la totalità; ma anche Pasolini, per esempio nel 1960, mette in relazione l’integrazione figurale con la totalità:
I critici stilistici dicono che ogni opera ha la sua “integrazione figurale”: ossia ogni opera, nell'atto di essere scritta o letta, brano per brano, pagina per pagina, parola per parola, si integra in una sua totalità immanente ad essa, in una sua ideale conclusione che le dà continuamente senso e unità. Così – per questo disco – è atroce dirlo – la integrazione figurale, che gli dà quasi una dignità estetica, è la morte dei giovani lavoratori di Reggio, è la calcolata brutalità della polizia (Pasolini 1992, 35).
Totalità immanente: che Pasolini se ne esca con una simile espressione, di un hegelismo così accusatamente lukácsano, proprio nel ridefinire l’integrazione figurale, induce, una volta di più, a sospettare una inedita jonction Lukács-Auerbach. Si tratta di una jonction necessaria per ricollegare la dimensione epica che sostanzia il realismo nella versione di Lukács alla teoria della mescidazione stilistica. Auerbach è molto più compatibile con il marxismo di Spitzer. Così, fino a una certa data, a Pasolini importerà soprattutto come l’opera integra le forme mutevoli della storia: ossia Pasolini cercherà il suo massimo comune denominatore dentro l’opera, attraverso il principio, intersoggettivo e auerbachiano, dell’integrazione figurale. Ma, bisogna aggiungere, l’integrazione figurale resta possibile solo in un mondo in cui è possibile la mimesi; non invece nel mondo della Nuova Preistoria: se l’integrazione figurale è un processo che accade nella storia, per l’appunto, dopo la seconda metà degli anni Sessanta pensare una forma di integrazione figurale per le proprie opere diventa sempre più complesso, pressoché impossibile, perché gli istituti entro cui l’integrazione figurale si dispiegava positivamente, ossia mimesi e indiretto libero, per Pasolini non sono più praticabili in una chiave emancipativa: “Il problema è un problema del marxismo. Poiché la crisi del Libero Indiretto è sua” (Pasolini 1965, 2947). Del resto, già a suo tempo, avevano un senso diverso da quanto entusiasticamente poteva apparire: “ci siamo accorti che la denuncia fatta dal neorealismo aveva come integrazione figurale nel futuro non la rivoluzione operaia e classista, ma le riforme del centro-sinistra” (Pasolini 1969, 1632). Il fallimento dell’integrazione figurale Pasolini lo esplicita con assoluta chiarezza: “Per capire i prodotti poetici che nascono direttamente dall’esistenza, in periodi di vuoto letterario, non si hanno più ‘chiavi’ specifiche: l’integrazione figurale non è più uno strumento della cultura letteraria” (Pasolini 1971, 2557)[18]. Non a caso, dalla fine degli anni Sessanta in poi Pasolini comincia a utilizzare un nuovo lessema per spiegare come il singolo integri la sua esperienza nella storia, spostando l’attenzione dall’opera all’autore. Il fenomeno attraverso cui un singolo, con le sue opere, si integra in una totalità si realizza infatti in ciò che Pasolini definisce, a partire dal 1969, adempimento:
La morale è che anche un “pezzo” di cinema che fa parte di un’esperienza superata dagli altri (che l’hanno solo appresa, ma non vissuta!) può essere ancora un’opera di poesia: e che quindi ognuno deve adempiersi secondo le proprie esperienze, non rinnegarle. Questo per quel che riguarda il primo "pezzo" appunto, del tuo film. Per quel che riguarda il secondo, il discorso è diverso. Perché a una volontà di adempiersi sinceramente secondo ciò che fatalmente si è, si è aggiunta una volontà "reazionaria" di compiere tale operazione (Pasolini 1992, 559).
Adempiersi è un fenomeno soggettivo, individuale. L’uso riflessivo del verbo adempiere è reiterato in più occasioni:
Insomma, in questo caso, lo scontro delle due generazioni è qualcosa di totalmente diverso da tutti gli analoghi scontri precedenti: la visione del mondo dei maestri e quella degli studenti, sono incommensurabili tra loro. Perché in realtà si tratta del fronteggiarsi di due “opinioni pubbliche” diverse: ossia di due epoche storiche diverse. Non si tratta più di un fatto di pura pedagogia: e la colpa dei maestri non è più semplicemente quella di essere “ufficiali”, “tradizionalisti”, di parlare “ex cathedra” ecc. Anche se noi prendessimo un maestro modello, pedagogicamente avanzato, che considera “ogni educazione un’autoeducazione”, ecc., tale scontro resterebbe drammatico, e le due diverse visioni del mondo inconciliabili. Il maestro (bravo, sia pure) si adempie, fatalmente, in un’altra epoca storica; e gli studenti assistono a tale adempiersi come a un fenomeno sopravvivente che non li riguarda più. Nelle scuole si è sempre detto che le "epoche storiche" non si tagliano con l’accetta. Ebbene, stavolta, c’è stato, tra un’epoca e un’altra, quasi un colpo d’accetta (Pasolini 1992, 559).
Adempiersi è qualcosa che accade proprio in rapporto a un’epoca storica. Ora, questa estrema forma di realizzazione storica avviene in ossequio alle più intime ragioni individuali. Il più forte motore di adempimento è la morte: “la morte di Gadda dà una strana certezza di pace: non solo perché è oggettivamente la morte di un uomo molto vecchio che si è meravigliosamente adempiuto". Altrove: "la mia idea della morte, dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. Alla vita intesa dunque come adempimento, come tendenza disperata, incerta e continuamente in cerca di supporti, pretesti e relazioni, versa una sua perfezione espressiva". La morte è vista, nella sua irriducibilità alla ragione, come un potente motore di individualizzazione. Infine:
Anna Banti, con questo suo libro, adempie se stessa: la sua esperienza, la pienezza di una cultura e di una interpretazione della storia. E lo fa con estrema purezza di cuore, con dedizione quasi di apprendista. Forse la fiducia di trovare un lettore capace di comprendere questo Suo “adempiersi” in un altro momento storico – successivo a quello in cui si è formata ed è maturata – è così imperterrita proprio perché disperata. Ma scegliere di avere tale fiducia era una scelta senza altra alternativa che quella di tacere e andarsene inadempiuta (Pasolini 1979, 1784).
Solo un altro momento storico – rispetto al 1974 di questa citazione – potrà comprendere la singolare, unica soggettività di Anna Banti. Solo in futuro Anna Banti potrebbe diventare, candita in una sua opera, il minimo comune multiplo di una vasta serie di esperienze soggettive singolari. Questa gamma di significati che assume la parola adempiere compare solo dopo la seconda metà degli anni Sessanta, proprio mentre l’integrazione figurale declina. Ci si può chiedere se ciò non abbia a che fare con la pubblicazione degli Studi su Dante di Auerbach. Lì, il verbo adempiere/adempiersi compare in un senso tecnico ben preciso, legato al figurale: “Catone è una “figura”, o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciò alla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità di quell’avvenimento figurale”. Pasolini sembra riprendere in mano Auerbach, per cavarne una lezione simmetrica ma inversa rispetto a quella dei tardi anni cinquanta. Sempre Auerbach: “la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta”. E nello stesso testo, si rilegge, in una lezione parzialmente differente, il passaggio che spiega cosa sia l’interpretazione figurale: “L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto sé stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende e adempie il primo” (Auerbach 1944, 209). Insomma, a partire dalla fine degli anni Sessanta, Pasolini recupera ancora una volta la lezione di Auerbach, ma per torcerla in un senso soggettivo e individuale che sembra sovvertirne in blocco, verso una soluzione spitzeriana, la lettura fino a poco prima portata avanti.
In questo senso, si potrebbe dire che attraverso l’integrazione figurale di Auerbach con Spitzer (e di questi due con Gramsci e Lukács), Pasolini fino all’ultimo ha cercato, senza trovarlo, il suo adempimento. L’uscita dalle secche della mimesi verso soluzioni antimimetiche come la metalettarietà e l’umorismo, è appunto il segno dell’impossibilità di trovare questo adempimento: di individuare un grimaldello formale che, di un’intera epoca potesse fungere, se non da massimo comune denominatore, almeno da minimo comune multiplo. Si può allora tentare di dare una risposta alla domanda iniziale sul perché Pasolini non avesse menzionato Auerbach in quel frammento citato all’inizio di questo studio. Ebbene, catafratto dall’allusione a Vico, in qualche modo non si trovavano appunto solo Spitzer (che cita Vico all’inizio del suo libro del 1954), o solo Croce, del resto nominati esplicitamente, ma si trovava appunto, con identico meccanismo allusivo rispetto a Contini, proprio Auerbach, autore di lavori su Vico, e che su Vico aveva costruito, in fin dei conti, il suo passaggio da una visione metastorica a una storicistica dei fenomeni estetici. E si trovava forse anche Pasolini stesso, che in un saggio arcinoto del 1955 aveva dichiarato in fondo Vico precursore della teoria del regresso. Ma solo a Spitzer, è concesso di ridere: a sancire allegoricamente il superamento dell’integrazione figurale, l’accantonamento della mimesi, la crisi dell’indiretto libero, attraverso l’umorismo: solo espediente che consente di porsi, almeno per un attimo, fuori dalla storia.
* Il presente testo si confronta esclusivamente con il lavoro critico di Pasolini. Una verifica sui testi creativi, inevitabilmente, mostrerebbe un paesaggio ben differente da quello che qui verrà tratteggiato, ma va rimandata, per ragioni di spazio, ad altra occasione.
Note
[1] Secondo Pasolini la stilistica è “un prodotto del decadentismo agnostico e univoco” (Pasolini 1960c, 2297).
[2] Di umorismo, Spitzer parla a più riprese in L’originalità della narrazione (Spitzer 1956) e in vari loci di Marcel Proust e altri saggi (Spitzer 1959, 142, 277, 311, 317). Sul tema dell’umorismo in Pasolini sono fondamentali i rilievi di Sebastiani (2007) e Bazzocchi (2013).
[3] Pasolini, nel 1965, riconduce il discorso libero indiretto esplicitamente a Spitzer: “Devo polemicamente osservare che lo Herczeg e gli studiosi di stilistica che egli cita, fatta in parte eccezione per lo Spitzer, accettano implicitamente per il Libero Indiretto una fenomenologia ontologica, cioè l’immedesimazione o osmosi o comunque rapporto di simpatia tra l’autore e il personaggio, come se le loro esperienze vitali fossero le stesse” (Pasolini 1971, 1356).
[4] Su Auerbach in generale si veda il fondamentale Colussi (2016). Giuseppe Nava sottolinea come la ricezione di Auerbach negli anni Cinquanta fu in parte assimilata a quella di Spitzer (cfr. Nava 2008, 177-182).
[5] In generale, sul rapporto tra Pasolini e Auerbach si vedano Panicali (2009), Bazzocchi (2007), Bologna (2009), De Laude (2009), Cadoni (2011), Castellana (2013, 164-167).
[6] Ad esempio, Pasolini scrive, nel 1961: “Possibile che non si possa trascendere questa immediata fisicità che attraverso la cultura del decadentismo?” (Pasolini 1992, 286). Ancora: “Nel mio caso [...] l’ideologia estetica proviene - per quanto poi profondamente modificata - dall'esperienza decadentistica" (Ivi, 194). La condanna del decadentismo che progressivamente compare nelle dichiarazioni di Pasolini può naturalmente essere riportata al clima culturale degli anni Cinquanta, e quindi a nomi come quello di Lukács.
[7] Auerbach, dal canto suo, in Mimesis, scrive: “Ma nello stesso tempo è innegabile che il concetto che Dante ha del sublime si distingue essenzialmente da quello dei suoi antichi modelli, non meno nei soggetti che nella forma linguistica. I soggetti che la Commedia presenta, offrono una mescolanza di sublime e d’infimo che agli antichi sarebbe sembrata mostruosa” (Auerbach 1946, 200).
[8] Il concetto di epicità senz’altro torna più volte nei Saggi sul realismo di Lukács (1950).
[9] Il concetto di pastiche è presente, via Contini, in Pasolini fin dal 1947.
[10] Per il concetto di “regresso” si rimanda a Desogus 2018, 35-73, e a Gasparotto 2014.
[11] Pasolini scrive: “è Auerbach che in un suo aureo manualetto di sinossi di storie letterarie romanze comparate, elegge Villon a ‘primo poeta in quanto tale’” (Pasolini 1971, 1383).
[12] Secondo Pasolini “la borghesia italiana non crede in nulla: neanche, naturalmente, nella sua religione. […] si rifiuta al futuro” (Pasolini 1992, 250).
[13] Sul concetto di amalgama, Pasolini, parlando dell’uso della musica in Accattone, dichiara: “È l’amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach” (Pasolini 1983, 1510). Sulla questione fondamentale De Laude (2009) e Cadoni (2011).
[14] Il concetto di correzione si trova in Spitzer 1959, 272-273. Pasolini se ne avvale in svariati loci della sua opera. Nella Divina Mimesis, per esempio, si legge: “sentivo la sua continua correzione linguistica, e mi commuoveva; perché capivo che, come l’ironia, non era fatta per lui, campione della serietà, della passione, del rigore del gergo... Era la litote che egli ora applicava: l’attenuazione” (Pasolini 1975, 1085).
[15] Sull’integrazione figurale mi permetto di rinviare a Picconi (2012), e all’importante saggio di Joubert-Laurencin (2012).
[16] “Quanto a Auerbach, se proprio L. vuole conservarlo, non insisto: ma lo invito alla prudenza, a possibili pentimenti futuri, quando, come ora succede a me, il primo entusiasmo per A. cominci a stingere” (Pasolini 2021, 1030-1031).
[17] “La crudezza e la durezza ideologico-tattica di Salinari e di altri era viziata da quello che Lukács — in una intervista concessa a un inviato appunto dell’‘Unità’ durante i lavori del Congresso del Pcus chiama prospettivismo” (Pasolini 1956, 630).
[18] L’ultima occorrenza significativa del sintagma “integrazione figurale” si ha nel 1970.
Riferimenti bibliografici
- Auerbach 1944
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English abstract
This essay investigates the contribution of Auerbach's stylcritic to the elaboration of Pasolini's critical method. The paper focuses on three notions derived from Auerbach: mimesis, integrazione figurale (figural integration), adempimento (fulfilment); all concepts that aim to develop an idea of realism. So, Auerbach's contribution appears to be closely connected with that of Spitzer, although it is also, in Pasolini’s works, in partial contrast.
keywords | Pasolini; Auerbach; Spitzer; Mimesis.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Gian Luca Picconi, Aroma di Vico. Appunti su Pasolini e Auerbach, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 11-43. | PDF dell’articolo