“Che racconta Vanessa Paradis
di cui tanto si parlava una volta?
in quale paese è poi andata
se la sua voce più non si sente?
e quella donna che ci ha incantati
con la sua aria da duchessa importante
ritrovo adesso quel nome che canta
Fanny Ardant dove sei bell’attrice?”
William Cliff, Ballata delle donne del tempo presente
1.
In un articolo apparso nella rivista “Tempo” nel dicembre del 1961, il giornalista Franco Calderoni accosta la figura di Pasolini a quella di François Villon (Calderoni 1961, 28). Appena un mese prima, Pasolini viene accusato di rapina a mano armata dal titolare di una pompa di benzina al Circeo (Apice 2007). Nel decennio precedente, i processi e gli scandali hanno segnato, anche con rilevanti strascichi giudiziari, la vicenda umana di Pasolini, come ricostruito dai suoi principali biografi (Siciliano 1978, Naldini 1989). L’interesse della stampa, anche e soprattutto di quella borghese (giacché borghesi sono senza dubbio la redazione e la linea editoriale di “Tempo”), è rivolta allo scandalo determinato dall’esistenza di Pasolini, ammantata da una leggenda nera analoga, in certi suoi sviluppi, a quella di Villon. Poeta, quest’ultimo, identificato sin da quando è ancora in vita come un delinquente e un corruttore, modello di maledetto ante litteram intorno al quale si registra una messe di biografie – congetturali o meno – tutte tese a metterne in rilievo la marginalità e la diversità. La maggior parte dei biografi di Villon concorda nel riconoscere l’appartenenza di quest’ultimo a una vera e propria società criminale, quella dei cosiddetti Coquillards, dove, secondo le ricerche condotte da Marcel Schwob (Schwob 1974, 81), il poeta entra intorno al 1455. A testimoniarlo, sarebbero anche gli elementi di jargon rilevati nei testi poetici e riconducibili all’universo criminale in questione (Guiraud 1968), oltre che alcune fonti provenienti dagli archivi giudiziari (Longnon 1877). Nel testo di Calderoni, la figura di Pasolini è assimilata a quella dell’autore medievale in una chiave eminentemente biografico-scandalistica, nel tentativo di svelare l’identità di un autore indefinibile ed enigmatico, operando un parallelo fra i due rispettivi percorsi criminali. Scrive il giornalista Calderoni:
Non intendo parlare dello scrittore, del saggista, del poeta, per quanto in lui la vita e letteratura siano così profondamente avviluppate, ma dell’uomo. In questi ultimi anni ce lo hanno di volta in volta descritto corrotto e corruttore, favoreggiatore di guappi e rapinatore a mano armata. Ci troviamo dunque di fronte ad un nuovo Villon? (Calderoni 1961).
Sin da questo preambolo all’articolo, appare evidente come parlare “dell’uomo” orienti il discorso su altre categorie, lo allontani dal piano letterario e lo spinga verso la componente scandalosa e scandalistica, anche con riferimenti precisi al succitato episodio della rapina al Circeo, che tanto clamore suscita presso l’opinione pubblica. Se il giornalista tenta di materializzare un comune lignaggio fra Pasolini e altri autori, tutti francesi (“Pasolini come Villon, come Sachs, come Genet?”), questa filiazione o fratellanza si riduce a un mero fatto biografico, nello specifico Villon, il collaborazionista Sachs e Genet[1], figure ambigue, di scrittori non borghesi, dichiaratamente omosessuali, ai margini della società, talora coinvolti in imprese criminali.
Dal testo di Calderoni, dove si ripete per ben tre volte il senhal di Villon, si può anche desumere come il poeta francese non sia ignoto al lettore italiano, poiché è qui eretto a primiero modello di poeta maledetto; non è qualche altro più vicino maudit d’ascendenza francese, non è Rimbaud, nella cui figura pure Pasolini talvolta si identifica (il “poeta di sette anni” di “Una premessa in versi”, ad esempio) e di cui alcuni hanno rilevato indiscutibili tracce intertestuali (Bardotti 2009). La scelta del giornalista di Tempo, all’apparenza secondaria, è in realtà la prima chiave per decifrare la presenza di Villon nell’opera di Pasolini: presenza che, come vedremo, non va interpretata in chiave meramente “intertestuale”, ma che può invece essere identificata come modello formale e pure come elemento di riconoscimento e affermazione della propria soggettività marginale.
È complesso determinare in quale occasione sia avvenuto per Pasolini il primo contatto con Villon. Se nella traduzione della Storia dei francesi di Sismondo de Sismondi (1836) Villon è presentato come “poeta ubriaccone”, i cui versi si distinguono per “l’oscenità ed empietà loro” (de Sismondi 1836, 497), nella prima metà dell’Ottocento il poeta conosce in Francia una particolare fortuna critica (Edelman 1936); anche nei primi anni del Novecento, i medievisti rivolgono il proprio interesse verso la sua poesia, alla quale si consacrano nuove edizioni e i primi studî critici (Paris 1901); seguono poi alcune ricostruzioni biografiche sull’autore e sul suo transito da Parigi (Champion 1913, Bernard 1918). In Italia si assiste al medesimo fenomeno: oltre alle traduzioni di opere di Villon (una delle prime traduzioni del Testamento risale al 1930, presso la casa editrice Trimarchi), negli anni trenta vengono pubblicate biografie del poeta, in prevalenza congetturali e romanzate come L’avventura di Villon di Antonio Foschini del 1933 e Il merlo sulla forca di Domenico Giuliotti, dell’anno successivo. Il romanzo di Foschini vince il premio Viareggio nel 1932 ed è oggetto di numerose recensioni positive sulla stampa culturale vicina al regime, riscuotendo un discreto successo di pubblico. Più mitigate sono, invece, le reazioni al romanzo di Giuliotti, che è oggetto di critiche da parte degli ambienti ecclesiastici e della stampa di orientamento cattolico, come mostra per esempio una severa recensione apparsa su Civiltà cattolica nel 1935:
Nessuno dice che questa simpatia per “il poeta maledetto” era ciò che avrebbe pregiudicato a priori il libro; il quale, per essere giusti, non sarebbe stato lontanissimo dal riuscire buono, pur offrendo un ritratto fedele del Villon; ma ciò che ha rovinato tutto è quella voluta mancanza di misura, che ha costretto molti amici del Giuliotti a respingerne il libro e l’autorità ecclesiastica di Firenze a disapprovarlo[2].
Pare che l’esistenza di Villon, almeno in questi anni, sia materiale da romanzo, nello specifico materiale per romanzi popolari che hanno come oggetto la sua vita avventurosa: è più figura marginale e ambigua che poeta, sebbene negli anni trenta già appaiano varie traduzioni dei suoi testi più noti, a partire dalla Ballade des pendus, tradotta poi dallo stesso Giuliotti (Brunelli 2005). In questi anni non mancano, inoltre, le prime prove cinematografiche direttamente o indirettamente ispirate alla figura del “poeta vagabondo”: The Higher Law e The Oubliette di Charles Giblyn sono del 1914, If I were King di J. Gordon Edwards del 1920, The Beloved Rogue di Alan Crosland risale invece al 1927. Si tratta in prevalenza di produzioni statunitensi, prive di rigore storico-filologico, ma che ci testimoniano l’interesse nei confronti della figura del poeta e l’esigenza di proporre ulteriori narrazioni sulla sua vita. Alcuni di questi film sono distribuiti, tra l’altro, anche in Italia.
Negli anni Trenta la figura di Villon è dunque oggetto di pratiche di scrittura che si accompagnano a una significativa diffusione dei suoi testi poetici in traduzione italiana. In quegli stessi anni, Pasolini è studente presso il Liceo Galvani di Bologna, dove avviene la fondamentale scoperta della poesia di Arthur Rimbaud, grazie alla lettura compiuta da un giovane supplente di storia dell’arte, il poeta Antonio Rinaldi, che diventerà in seguito amico dello stesso Pasolini:
Parlai di Rimbaud e della Saison en enfer, poi lessi una mia traduzione di Le bateau ivre. Già nel ’34-’35 Rimbaud aveva sconvolto e affascinato anche me. Forse ancora più di Baudelaire, Rimbaud mi aveva portato a rifiutare la società d’allora (Rinaldi 1976, 1).
Pasolini, analogamente a Rinaldi, identifica la scoperta della poesia di Rimbaud come un punto di frattura, il momento esatto nel quale si disvelano le proprie convinzioni antifasciste e si materializza la possibilità di una rivolta contro l’ordine sociale a lui contemporaneo: Rimbaud è parte di un singolare apprendistato che da poetico si rivela in seguito anche soggettivo e politico. Si potrebbe ipotizzare che anche la scoperta di Villon avvenga in quel contesto, tramite Rinaldi o addirittura attraverso la lettura di Rimbaud, poeta che senz’altro conosce bene Villon (si veda il suo Bal des pendus[3]) ed è anche autore di un pastiche dedicato al poeta medievale. Il pastiche su Villon è un esercizio scolastico attribuito a Rimbaud dal suo insegnante Izambard, una immaginaria supplica redatta da Charles d’Orléans a Luigi XI per salvare Villon dall’impiccagione. È difficile che Pasolini abbia letto questo testo, riportato alla luce solo in anni più recenti, ma si può comunque considerare l’homme aux semelles au vent, spesso messo in relazione – almeno nell’immaginario – a Villon, come un possibile punto d’accesso al poeta medievale. Più verosimilmente, l’incontro con Villon avviene nel contesto dell’ateneo bolognese, durante il corso di Amos Parducci dove Pasolini, “apprendista di filologia romanza”, scopre per la prima volta la lirica trobadorica, intertesto essenziale sin dalla prima prova poetica di Pasolini in lingua friulana, Poesie a Casarsa, che si apre, com’è noto, nel segno di Peire Vidal. Un altro elemento utile a questa prima ricognizione indiziaria è rappresentato dall’esistenza di un volume di Villon nella biblioteca personale di Pasolini, da prima del 1950 (Chiarcossi e Zabagli 2017), volume in francese dal titolo Le lais, le Testament et les ballades, pubblicato nel 1944 presso l’editrice torinese Chiantore e accompagnato da un commento del critico Ferdinando Neri. Sappiamo, inoltre, che Pasolini sostiene un esame di letteratura francese con Vittorio Lugli, francesista dell'Università di Bologna che pubblicherà poi alla fine degli anni Quaranta un’antologia Da Villon a Valéry. Il libro della poesia francese. Pur nell’impossibilità di definire il momento preciso nel quale Pasolini accede alla poesia di Villon, ciò avviene sicuramente in giovane o giovanissima età, molto probabilmente in un contesto scolastico o universitario; e di questa lettura è possibile cogliere le risultanze fin dai primi testi poetici in friulano, nella seconda metà degli anni Quaranta, come vedremo in seguito.
2.
Di fronte a queste prime, malferme ipotesi il senhal di Villon si manifesta ancora più nitidamente in una lettera inviata da Pasolini a Franco Farolfi, amico degli anni bolognesi, nel settembre del 1948 (Naldini 1986, 341-343). La traccia del poeta medievale riluce e ci consente di definire meglio lo sguardo di Pasolini nei confronti di Villon. Vi è, in questa lettera, come un rispecchiamento, l’emergere di un doppio nel quale riconoscersi e attraverso il quale definire meglio la propria soggettività non normativa. La lettera precede di un anno i fatti di Ramuscello: Pasolini è ancora a Casarsa e ha profuso grandi energie per la campagna elettorale del marzo ’48, conclusasi con la sconfitta del Fronte Democratico Popolare. In quegli stessi anni si origina in Pasolini un progressivo processo di accettazione della propria diversità, qui espresso con particolare franchezza a un amico di gioventù quale è Farolfi:
Seconda cosa da dirti... è che io ho finito il periodo della vita in cui si crede di essere saggi per avere superato le crisi o soddisfatto certi terribili bisogni (sessuali) dell’adolescenza e della prima giovinezza. Son disposto a ritentare a rifarmi illusioni e desideri; sono definitivamente un piccolo Villon o un piccolo Rimbaud. In tale stato d’animo, se trovassi un amico, potrei andare anche nel Guatemala o a Parigi. | La mia omosessualità è entrata ormai da vari anni nella mia coscienza e nelle mie abitudini e non è più un altro dentro di me. Ho dovuto vincerne di scrupoli, di insofferenze e di onestà... ma infine, magari sanguinante e coperto di cicatrici, sono riuscito a sopravvivere salvando capra e cavoli, cioè l’eros e l‘onestà (Naldini 1986, 341-343).
Definendosi come “piccolo Villon” o “piccolo Rimbaud”, Pasolini individua due figure di poeti nelle quali specchiarsi e riconoscersi, figure di marginali, di irregolari, ma soprattutto di omosessuali (Lepage 1986), giacché il nucleo fondamentale della missiva è proprio rappresentato dall’auto-analisi associata alla scoperta e all’accettazione di sé. Si manifesta, qui, un conflitto interiore che pare in via di rimarginazione, simbolicamente illustrato dalle “cicatrici”, oltre che dal riferimento ad un “altro dentro di me”, testimonianza di una frattura fra due diversi stati psichici. La lettera ricorda, per certi versi, quella ben più nota inviata nell’agosto dell’anno precedente a Silvana Mauri (Naldini 1986, 313-316), dove il poeta confessa all’amica, “la sola donna verso cui ho provato e provo qualcosa che è molto vicino all’amore”, il proprio orientamento sessuale:
Ricordati ancora una cosa, Silvana, e poi avrai finalmente capito: rivedi noi due in quel ristorante di Piazza Vittorio, davanti ai “calzoni” e ricorda il calore con cui ho difeso quella tua amica omosessuale. Non allarmarti, per pietà, Silvana, a questa ultima parola: pensa che la verità non è in essa, ma in me, che infine, malgrado tutto, sono largamente compensato dalla mia joy, dalla mia gioia che è curiosità e amore per la vita (Naldini 1986, 314).
Ma rispetto alla lettera indirizzata a Silvana Mauri, la dichiarazione di Pasolini a Farolfi, più che informarlo semplicemente della propria omosessualità, tenta di restituire il travaglio interiore che ha segnato gli anni precedenti e il desiderio che pare essersi finalmente liberato, nell’attesa di un “amico” o un compagno con il quale “andare anche nel Guatemala o a Parigi”. Se Farolfi è, per Pasolini, ammantato da un’aria “molto pura e […] dostoiewschiana”, l’autore si considera invece alla stregua di Rimbaud o di Villon. L’innestarsi in questo lignaggio tutto letterario con due maudits per eccellenza – entrambi francesi, del resto quali autori del canone “nazionale” italiano avrebbe potuto scegliere Pasolini? – va interpretato sia in chiave biografica, come tentativo di rispecchiamento o di riconoscimento, sia in una prospettiva autoriale, in quanto entrambi sono, come lui, poeti. Leggere Rimbaud e Villon può dunque diventare uno strumento – obliquo, almeno inizialmente inconsapevole – per leggere meglio sé stesso, per scoprirsi e poi sviluppare una forma di autocoscienza che si origina nel campo della letteratura.
3.
Pochi anni dopo la lettera a Farolfi, due testimonianze narrative ci consentono di definire meglio i contorni di questo legame insieme biografico e autoriale con Villon, traccia onomastica inserita nell’ordito narrativo dei racconti Squarci di notti romane e Gas, che aprono il volume Alì dagli occhi azzurri (Pasolini 1998). Come riportato in calce, entrambi i racconti risalgono al 1950, anno del Giubileo convocato dal Pio XII. Villon si fa qui personaggio incarnato: la traccia onomastica esposta, che chiarisce immediatamente la natura del personaggio in questione, è in realtà un modo per creare un alter ego di Pasolini stesso, come si nota soprattutto in Squarci di notti romane (Pasolini 1998, 329-360). In questo racconto, dalla natura dichiaratamente frammentaria (Pasolini procede per “squarci”, per “studi”, per “appunti”), si anticipano alcuni dei nuclei tematici che segnano la narrativa pasoliniana degli anni Cinquanta e il cinema dei primi Sessanta: l’apparizione dei ragazzi di vita, la prostituzione, l’universo del sottoproletariato urbano. Il racconto, che si orienta fra inchiesta sociologica e ricostruzione lirica, propone uno sguardo geografico e cartografico rispetto alla città nella quale Pasolini si è appena stabilito, Roma, “stupenda e misera”, che viene raffigurata in molti testi del decennio successivo:
Come avrebbe voluto, Villon, provare per un momento ad andarsene per Roma possedendo, dentro di sé, in tutte le sue cellule, la Geografia del ragazzo. Dopo un breve maremoto – pensava – si sarebbe vista Roma ricomporsi in un modo così divino da turbare come certi sogni nascenti dal benessere sessuale, dalla floridezza. Architetture floride e pure, emergenti da cloache orrende (Pasolini 1998, 343).
Anche Villon, come Pasolini e i suoi personaggi, vive dentro la città, nelle sue strade, lungo il fiume, diverso e libero: la Roma che appare in questi “squarci” può far pensare, almeno indirettamente, alla Parigi di Villon (Frappier 1969), una città sporca, buia, abitata da marginali di tutti i tipi, dove risuona una lingua che non è certo il mediofrancese della tradizione ma piuttosto un gergo che riflette, secondo alcuni, quello degli omosessuali. Mi riferisco, nello specifico, alla traduzione realizzata alla fine dagli anni Novanta da Thierry Martin (Villon 1998), in cui le sue “ballate in gergo” vengono considerate come “ballate in gergo omosessuale”, linguaggio notturno (McCrea 2015) dei luoghi di incontro o battuage, forse già noti ai tempi Villon. In questo racconto, Pasolini si cela dietro ad altre figure di maledetti, come il poeta di Maldoror Lautréamont, oppure di omosessuali, come Proust:
Oh dunque. Ci siamo. Al Porto Proust era stato condotto pochi giorni prima da Gabriele. Il gasometro, le scarpate bisunte, le gru, i depositi, i silos, e dappertutto un’enorme colta di carte sporche e immondizia.| Il Tevere in mezzo, lurido, celeste. L’arcata dell’orizzonte immensa (Pasolini 1998, 359).
Queste scelte definiscono una sorta di comunità di autori nella quale Pasolini si inserisce, come fosse alla ricerca di una possibilità di riconoscimento, di un semblable cui sentirsi vicino o con cui identificarsi. È notevole, già lo si è messo rilievo, come nessuno degli autori nei quali Pasolini si rispecchi sia riconducibile a un cosiddetto “canone nazionale”, ma come tutti o quasi provengano dalla tradizione letteraria in lingua francese. Anche l’esergo degli Squarci, una citazione di Sainte-Beuve da leggersi come paradossale elogio vitalistico, è parte di questa medesima tradizione: “La cosa più bella, la più santa, la più poetica del mondo è l’esser sani” (Pasolini 1998, 329).
Nel racconto Gas (Pasolini 1998, 373-381), invece, François Villon appare sin da subito come un personaggio dall’identità più definita e stabile, non semplicemente come alter ego dell’autore. Nelle carte di Pasolini emerge come il titolo originale del racconto sarebbe dovuto essere “Villon a Roma” o, in alternativa “Villon in Campidoglio” e del resto il personaggio principale di questo racconto è proprio François Villon, cui viene conferita una esistenza finzionale in un cronotopo contemporaneo, la Roma dell’immediato Dopoguerra, anche con riferimenti precisi a quel contesto politico: Pasolini cita, ad esempio, il progetto di legge elaborato da un parlamentare democristiano, Florestano di Fausto, che propone di reintrodurre la pena capitale per i reati contro l’infanzia. Villon è responsabile, insieme ai suoi sodali travestiti da preti, dell’evasione da Regina Coeli di un criminale, il corruttore di minorenni Virgili:
L’evasione riuscì. Villon e i suoi complici, travestiti da ecclesiastici, estrassero da Regina Coeli il povero Virgili semplicemente sbudellato dal Di Fausto: aveva gli abiti tutti sporchi di vomito. Lo caricarono più impiccato che vivo nella macchina prelatizia, e Villon, semi-ubriaco, cercò di intavolare discorso con lui durante il tragitto, ma cavandone ben poco (Pasolini [1965] 2003, 373).
Poco dopo l’evasione, Virgili, che vaga per la periferia romana, viene azzannato alla gola e ucciso da un lupo mannaro; Villon, alla vana ricerca di avventure notturne, partecipa a un comizio al Teatro Borgia e, all’alba, mentre cammina, si imbatte nei resti umani di Virgili, abbandonati sul marciapiede:
Sotto un muretto sconnesso Villon cominciò a vedere i primi resti umani; ora il luogo era ben visibile, lo si distingueva: l’asfalto, il marciapiede, il muretto…Il cadavere vi giaceva a brandelli, come un mucchio di immondizia, come se fosse l’Inorganicità stessa. Villon lo smosse con un piede: ma non lo riconobbe subito, perché lì c’era solo il tronco: i pezzi del viso erano sparsi più avanti. Ne toccò qualcuno con la punta del piede, ma, inzuppati di sangue, erano irriconoscibili: però più in là c’era qualcosa di nero…come una punta nera…: l’occhio. Villon vi riconobbe subito lo sguardo del Virgili – quello sguardo bruno di uomo biondo, quello sguardo fanciullesco di adulto, che era risaltato così nitido fin dalle prime fotografie del mostro: per es. in un primo piano apparso nella copertina dell’“Europeo” (Pasolini 1998, 380).
Il racconto si conclude con un’ampia descrizione geografica della città all’alba: Villon, “con le lacrime secche negli occhi”, sale la scalinata del Campidoglio. Si può considerare l’assassinio di Virgili, azzannato da un lupo, come una metafora del linciaggio compiuto nei suoi confronti da parte dell’opinione pubblica e dalla stampa borghese che sbatte in prima pagina, come fa l’“Europeo”, le fotografie del “mostro”. Alcuni (Zigaina 1987, 35), forse effettuando una sovralettura, hanno considerato questo racconto come una delle tante profezie pasoliniane, quasi un documento premonitore del ritrovamento del corpo del poeta, a Ostia, venticinque anni dopo. In realtà, l’esposizione del corpo di Virgili si può simbolicamente interpretare come la fine tragica di un delinquente escluso e martirizzato dalla società borghese, abbandonato, a brandelli, su un marciapiede di periferia. E le lacrime di Villon, che piange e si morde le dita mentre si dirige verso il Campidoglio, sono le lacrime di chi sente Virgili come un fratello, un semblable: anche le scelte onomastiche di Pasolini, che crea la coppia di autori Virgilio/Villon, sembrano definire un’atroce fratellanza fra due esclusi.
Qui Villon è solo un pretesto, un nome evocativo e denso di significati che conferisce al personaggio principale una certa riconoscibilità. Di lui resta un’immagine opaca, il ricordo di una descrizione. Mi pare che sia, piuttosto, la figura di André Gide a risuonare, almeno nella prima parte del racconto, appaiono i complici di Villon travestiti da ecclesiastici, come nella truffa a Fleurissoire narrata ne I sotterranei del Vaticano; o quando, successivamente, lo sguardo del narratore diviene geografico e paesaggistico, riproduce nel dettaglio gli spazi e i luoghi di Roma. È forse proprio la sotie gidiana, I sotterranei del Vaticano, ad apparire, carsicamente, in questo testo, dove pure Gide viene evocato, in una schiera di altri autori, all’apparenza privi di legami, ma in realtà accomunati dall’aver tutti scritto testi sulla città Roma:
Dal grigio fumo a un giallo ruggine: chiarissimo, l’aria solcata dai raggi, come in un salotto di provincia, nelle prime ore del mattino, mentre le cameriere fanno le pulizie [...]; la stupenda carrellata, carica di aeree panoramiche, compie il suo giro intorno ai fianchi del Campidoglio imbevuto di sole, sprizzante sole, duro al sole; Gogol, Goethe, Stendhal, Seneca, Gide: quanta floridezza (Pasolini [1965] 2003, 381).
Questa ipotesi, che meriterebbe un ulteriore scandaglio aperto al necessario studio de I falsari (romanzo dal sottotesto chiaramente pederastico) può essere letta anche in chiave biografica: in occasione dei fatti di Ramuscello, Pasolini dichiara “di aver tentato un’esperienza erotica di carattere e origine letteraria accentuata dalla lettura di un romanzo di argomento omosessuale di Gide” (Naldini 1989, 135). Poco tempo dopo sarà nuovamente Gide – insieme a Sartre – ad essere chiamato in causa nel severo comunicato redatto dalla federazione di Pordenone che sancirà l’esclusione di Pasolini dal Partito Comunista.
4.
Se la traccia di Villon attraversa le prime prove narrative di Pasolini, esprimendosi ora come alter ego mascherato dell’autore ora come personaggio inserito direttamente nell’ordito narrativo, la medesima traccia può essere individuata nella sua poesia, che testimonia un’attenta lettura di alcuni dei testi di Villon oltre al recupero di alcuni dei suoi modelli formali. La poesia di Villon, in particolare quella del Testament, è l’indubbia matrice stilistica del Testament Coràn (Pasolini [1954b] 2003) ma pure di alcuni testi in italiano, ballate scritte successivamente che secondo il critico Gian Luca Picconi discendono dalla forma della ballade à la manière de Villon (Picconi 2016) e non dalla ballata propria alla tradizione italiana. Eppure sarebbe riduttivo considerare, anche alla luce delle già evidenziate intersezioni biografiche, quello di Villon come un semplice modello formale: al contrario, il fattore Villon si esprime sul piano della soggettività poetica, mostrandoci il delinearsi di una comune sensibilità fra i due diversi autori.
L’istanza di rispecchiamento o riconoscimento che si orienta da Pasolini a Villon si esprime già nell’esergo di Tornant al país, uno dei primi testi di Poesie a Casarsa. Si tratta di un verso di Villon, oramai divenuto proverbiale e che Pasolini riproduce nella traduzione in francese moderno: “où sont les neiges d’antan?”, tratto dalla Ballade des dames du temps jadis contenuta nel Petit Testament. L’epigrafe di Villon non trova una ripresa nel testo poetico, ma si può comunque osservare una continuità tematica fra l’evocazione nostalgica di un ricordo passato e ormai svanito – le nevi di un tempo – e la meditazione dei versi conclusivi, espressa tramite il discorso diretto, sull’immutabilità e la staticità del tempo:
Il timp a no’l si mòuf:
jot il ridi dai paris,
coma tai rams la ploja,
tai vuj dai so frutìns[4].
In Poesie a Casarsa oltre all’epigrafe di Villon si ritrova quella di Peire Vidal: come è stato notato da alcuni (Infurna 1985, Cacciari 1995), il libro sembra animato da uno spirito “provenzale” e Pasolini si inserisce in questa lontana tradizione poetica, scoperta in occasione del corso di filologia romanza tenuto da Parducci; a dire il vero, la presenza di Villon mette in discussione l’idea di un Pasolini esclusivamente “provenzale” e delinea invece la figura di un percorso di scoperta pienamente romanzo, non rinchiuso sterilmente in un solo canone nazionale, ma aperto ad altre forme poetiche, che nei libri successivi saranno anche in spagnolo e catalano, come a immaginare una vasta “Romània” con cui instaurare un dialogo possibile e con cui porsi in una relazione anticanonica o “sul margine” del canone.
Nel Testament Coràn (Pasolini [1954b] 2003), del resto, il modello di Villon è quello dominante. La composizione si inserisce in un più complesso sistema di riferimenti alla sua poesia: l’intera sezione ha come titolo El Testament Coràn; un’altra sezione, contenuta in Romancero, reca invece come titolo Il vecchio testamento. Il testo in questione è formalmente aderente al testo di Villon: sia in termini metrici, poiché Pasolini concepisce strofe di otto versi in due quartine a rime alterne proprio come nel Testament; sia in termini poetici, in quanto il testamento di Coràn “piciàt / in tal moràr de l’osteria” (“impiccato al gelso dell’osteria”) si apre in maniera del tutto simile all’ipotesto medievale dei Lais:
In ta l’an dal quaranta quatro
Fevi el gardon dei Botèrs
Al era il nuostr tim sacro
Sabuìt dal sòul dal dover […][5]
E Villon:
Mil quatre cens cinquante et six,
Je, François Villon, escollier,
Considérant, de sens rassis,
Le frain aux dents,
franc au collier […] (Villon 1992, 1)[6]
L’io poetico che si esprime nel componimento, Coràn, si presenta come un ragazzo di sedici anni che nel 1944 aderisce alla Resistenza e racconta alcuni avvenimenti della propria vita, fino alla morte:
Dopo tre dis a me àn piciàt
In tal moràr de l’osteria.
Lassi in reditàt la me imàdin
Ta la cosientha dai siòrs. […][7]
Lasciando in eredità la propria immagine ai ricchi, elogiando contestualmente le qualità dei poveri, l’io poetico interpella il lettore rispetto alla questione della giustizia e delinea la possibilità di una fratellanza umana fra i subalterni: temi che si possono facilmente ritrovare nella Ballade des pendus di Villon. Del resto, in questa ballata, la soggettività poetica prende la parola attraverso la forma dell’epitaffio, esprimendo la possibilità di una fratellanza con gli uomini del futuro, i frères humains qui après nous vivez. Anche nel testamento pasoliniano, la forma è quella dell’epitaffio aperto al futuro, in questo caso alla coscienza dei ricchi affinché ammirino l’eroico sacrificio di un povero nella lotta di resistenza. Il testamento di Pasolini pare dunque risemantizzare il modello d’origine, rinnovandolo e facendone il lascito umano e politico di un giovane caduto durante la Resistenza.
Che l’ipotesto di Pasolini possa essere la Ballade di Villon è suffragato da altri due elementi: la morte di Coràn per impiccagione, la stessa di Villon e dei suoi compagni nella ballata; l’analogo riferimento agli occhi, che per Coràn son vuòiti, vuoti e che per i pendus dell’epitaffio sono cavez, svuotati dai corvi affamati che girano intorno al patibolo. È legittimo immaginare una possibile filiazione fra la ballata di Villon, il testamento friulano di Pasolini e, a molti anni di distanza, i “versi del testamento” di Trasumanar e organizzar, nei cui versi finali appaiono immagini molto simili, in particolare i “fratelli dei cani” che richiamano, deformandoli, i “frères humains” di Villon:
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani (Pasolini [1971] 2003,118).
Tra i versi in friulano de La meglio gioventù (fine degli anni Quaranta) e le poesie di Trasumanar e organizzar (1971) si rileva, come accennato, un’ulteriore ripresa dei modelli formali di Villon, in particolare della ballata, cui Gian Luca Picconi ha dedicato un solido studio che prende in esame pure la poesia di Edoardo Sanguineti e che si condivide quasi interamente (Picconi 2016). Si conviene in particolare con l’autore quando afferma che “Villon è il nome-feticcio di un tentativo di guadagnare capitale simbolico in forme alternative a quelle comuni”, tentativo che, peraltro, per Pasolini va avanti sin dalla seconda metà degli anni Quaranta. Altrettanto convincente è l’identificazione del teatro di Brecht come un ulteriore modello per le ballate pasoliniane, anche alla luce delle innumerevoli presenze di Villon nei testi del drammaturgo: si potrebbe dire che la conoscenza di Villon non passa esclusivamente da un’esperienza di lettura diretta, ma anche da una mediazione brechtiana – l’Opera da tre soldi è, del resto, densa di echi e riscritture del poeta medievale.
5.
Fino a qui, si sono formulate alcune ipotesi circa le forme della contaminazione di Villon nella scrittura di Pasolini, quasi catalogando e disponendo in un sistema unico le numerose presenze del poeta medievale. Partendo da una lettera a Franco Farolfi, si è evidenziato come definendosi “piccolo Villon” Pasolini abbia l’esigenza di individuare una soggettività simile a lui e nella quale riconoscersi. Si è poi ipotizzata l’eventualità di un senhal Villon che, come nella lirica trobadorica, cela l’identità dell’autore stesso e di cui diviene alter ego: è così in alcuni racconti di Alì dagli occhi azzurri. In seguito, si sono osservate le corrispondenze poetiche fra il Testament di Villon e alcuni testi degli anni friulani. Questa prima ricerca ha avuto l’ambizione di sistematizzare una ricorrente traccia intertestuale, fornendo alcune ipotesi relative al primo incontro di Pasolini con Villon e al quadro di diffusione della poesia di quest’ultimo nel contesto italiano. In futuro, occorrerà utilizzare queste tracce per impostare un discorso sistematico e poetico ancora più solido, anche partendo dal concetto di “realismo creaturale” elaborato da Auerbach. Come è noto, in Mimesis, Auerbach definisce così la poesia di Villon:
François Villon porta all’estrema perfezione un realismo creaturale che rimane tutto nei limiti del sensibile e che con tutto il suo radicalismo del sentimento e dell’espressione non mostra nessunissima traccia di capacità di ordinamento intellettuale ovvero di forza rivoluzionaria, anzi nessuna volontà di foggiare il mondo terreno diverso da quale è. Si tratta qui ancora, e la cosa è chiara proprio in Villon, delle conseguenze della mescolanza cristiana degli stili; senza di ciò quella specie di realismo che abbiamo definito creaturale, sarebbe inconcepibile. Ma esso si è già liberato dal servire il pensiero ordinatore universale-cristiano; non serve più in genere nessun pensiero ordinatore; è indipendente, è diventato fine a se stesso. (Auerbach [1956] 2000, 281)
Il concetto di realismo creaturale – introdotto per commentare un episodio della Guerra dei Cent’anni narrato nel Réconfort di Antoine de la Sale – giunge, per Auerbach, alla sua forma più elevata proprio nella poesia di Villon: radicale eppure priva di una prospettiva rivoluzionaria, espressione della “mescolanza cristiana degli stili” che ne condiziona gli esiti poetici. È noto quanto sia cruciale per Pasolini la lettura, nel 1956, di Mimesis e, in particolare del capitolo X su Madame du Chastel dove troviamo il riferimento a Villon: a partire da quel momento Pasolini scopre la nozione di “realismo creaturale”, che viene ripresa fin dal saggio del 1957 “La confusione degli stili” (ora in Pasolini 1999, 1070) e anche in saggi successivi. Non si ritornerà qui né sulla definizione di realismo creaturale, giacché numerose interpretazioni assai convincenti sono già state fornite (Castellana, 2013) né sulla lettura pasoliniana di Auerbach (De Laude 2009 e soprattutto De Laude 2018, 45-51, oltre a Patti 2018, 143). Ciò che non è stato ancora messo in evidenza – e che vuole essere un punto di partenza per ricerche future – è invece come Pasolini, leggendo il saggio di Auerbach, si trovi di fronte a un poeta, Villon, che è innervato già da oltre un decennio nella sua poesia e nella sua scrittura, una presenza che non si riduce, lo abbiamo visto, a semplice modello formale, ma che si apre anche a una fratellanza umana e testimonia di una simile sensibilità poetica. Il Testament Coràn, che riprende la forma del Testament e alcune delle immagini della Ballade des pendus, è già un esempio – forse “per anticipazione” – dell’espressione di un realismo creaturale che si rivela nelle “comuni condizioni creaturali di vita” (Auerbach [1956] 2000, 280) dei pendus e del piciàt Coràn. E sarà forse a partire da questo punto di vista che si potranno snodare nuove prospettive di ricerca, che considerino la lettura pasoliniana di Villon, “primo poeta in quanto tale”[8] , insieme come riflesso della propria soggettività e come traccia carsica, soggiacente, delle successive evoluzioni.
Note
[1] Su Pasolini e Genet, si veda Impellizzeri 2010.
[2] Recensione non firmata apparsa su La Civiltà Cattolica, anno 86, 1935, vol. II, 197-198.
[3] Ripresa trasparente della Ballade des pendus di Villon, non tanto su un piano formale quanto piuttosto su un piano delle immagini poetiche.
[4] “Il tempo non si muove: guarda il riso dei padri, come nei rami la pioggia, negli occhi dei fanciulli” (Pasolini [1942] 1954, 19).
[5] “Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Boter: era il nostro tempo sacro arso dal sole del dovere” (Pasolini [1954b] 2003, 119).
[6] “Nel millequattrocentocinquantasei, io François Villon, scolare, nel pieno delle mie facoltà mentali, con il morso ai denti ma senza collare…” (trad. A. Garibaldi, in Villon 2015).
[7] “Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria. | Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi” (Pasolini [1954b] 2003, 122).
[8] Espressione auerbachiana ripresa e messa in crisi dallo stesso Pasolini nel saggio del 1965 La volontà di Dante a essere poeta, ora in Pasolini 1999, 1383.
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English abstract
The essay investigates Villon’s presence in Pasolini’s work: as a model of a marginal poet, transfigured in the experience of his own authorial subjectivity; as a formal model for some texts, in particular in the Friulian language; as an intertextual specter, in some of his poems; as an embodied character, in Alì dagli occhi azzurri.
keywords | Pasolini; Villon; poetry; marginailty; poètes maudits.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio (v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Jessy Simonini, Villon-Pasolini. Tra forme poetiche e “realismo creaturale”, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 71-91 | PDF dell’articolo