"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Costellazioni eccentriche

L’universo Olivetti e la rivista “Zodiac”

Aldo Aymonino, Federico Bilò

English abstract

Copertine di “Zodiac” 1 (ottobre 1957), 2 (maggio 1958), 3 (novembre 1958). Courtesy Fondazione Olivetti.

Il presente scritto è la sommaria sintesi di una ricerca sulla vicenda editoriale di “Zodiac”, in via di ultimazione e di imminente pubblicazione.

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Non si può capire la struttura intellettuale e biografica di “Zodiac” senza avere un’idea, sia pure di massima, della complessa vicenda imprenditoriale, intellettuale, editoriale e finanziaria della costellazione olivettiana. I numeri, la pluralità e la straordinaria varietà di occasioni, persone, risultati ottenuti dalla Olivetti in pochi decenni (e a cavallo di due guerre mondiali), rappresentano un unicum nella storia del capitalismo occidentale: il racconto della Ing. C. Olivetti & C., S.p.A., Ivrea, contiene qualcosa di epico e purtroppo irripetibile che va guardato con la distanza critica ed emotiva che solo il tempo trascorso aiuta a formare e rendere credibile, rimanendo tuttavia qualcosa di difficilmente plausibile all’interno della squilibrata competizione industriale tra Europa e America nei primi due terzi del XX secolo.

Qualche dato, molto sommario: Camillo Olivetti, appena laureato, parte per un soggiorno biennale a Londra tra il 1891 e il 1893 per lavorare in un’industria meccanica di precisione e, appena tornato a Ivrea, viene invitato dal suo relatore Galileo Ferraris ad accompagnarlo a un congresso negli Stati Uniti, dove si fermerà per altri due anni, facendo per un semestre anche l’assistente universitario a Stanford in California. Adriano, seguendo le orme del padre, farà un viaggio in America negli anni 1925-26. L’esperienza in situ farà percepire gli Stati Uniti agli Olivetti non come modello irraggiungibile, ma come obbiettivo superabile: per la prima volta in Europa viene sconfitto un inferiority complex genetico. Seguirà più tardi, nel 1929, un soggiorno in Sudamerica di Camillo per aprire lì alcune concessionarie (e nel contempo verrà fondata la prima società estera, la Hispano Olivetti). Nel 1913-14, l’impresa fondata da Camillo stesso nel 1908 passa in meno di un anno dalla produzione di 4 macchine da scrivere alla settimana a 4 al giorno, mentre i dipendenti quasi raddoppiano passando da 110 a 210. Nel 1929 nasce l’Ufficio Progetti e Studi. La ristrutturazione della produzione abbatte i tempi di produzione di una macchina di 2 terzi (da 12 a 4 ore). La prima macchina compatta è la M40 (1929), mentre la MP1 (1932) è la prima a sviluppo orizzontale. Nel 1935, con la Studio 42, viene inaugurata la prassi di coinvolgere architetti/designer (Figini e Pollini, il pittore Schawinsky) nel disegno delle scocche dei prodotti industriali, mentre il processo di pressofusione, tutto eseguito intra moenia, garantisce che la funzione e la forma vadano di pari passo.

Subito dopo il secondo dopoguerra, negli anni Cinquanta, la Olivetti diventa la leader mondiale delle tecnologie sofisticate. La quantità e la qualità degli eventi sono impressionanti e formano un’antologia di eccellenza industriale senza soluzione di continuità: Pier Giorgio Perotto progetta nel 1965 il P101, primo calcolatore da tavolo del mondo, Mario Tchou dirige il centro elettronico Olivetti di Barbaricina (PI), dove nel 1957 progetta e produce il calcolatore elettronico Elea 9000 (la divisione elettronica della Olivetti verrà venduta nel 1964 alla General Electric), e un operaio (!), Natale Capellaro, progetta già nel 1948 la calcolatrice Divisumma 14, ovvero la prima calcolatrice che esegue le 4 operazioni, costruita assemblando 3000 pezzi e con scocca disegnata da Marcello Nizzoli. Vendendo milioni di pezzi (insieme al modello successivo Divisumma 24, con la sua straordinaria nuda meccanica), Divisumma diventerà una dei simboli del Made in Italy, conquistando giustamente la copertina del libro di Vittorio Gregotti Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, pubblicato nel 1982, e proietterà la Olivetti al vertice mondiale della produzione, con un terzo delle vendite globali e la metà del fatturato complessivo.

Il rapporto tra costi e ricavi, grazie a un’attentissima ricerca di produzione interna su materiali economici per la progettazione e costruzione di manufatti sofisticati, sfiora l’incredibile rapporto di uno a dieci, e genera una significativa plusvalenza che, sotto la guida politica e intellettuale di Adriano Olivetti prima, e di suo figlio Roberto poi, verrà massicciamente reinvestita fino alla metà degli anni Settanta nella costruzione di un patrimonio industriale, culturale e sociale unico in Italia sia per dimensione che per anticipazione di fenomeni socio-economici di là da venire, che verranno imitati spesso in maniera parziale e distorta da alcune delle grandi corporate italiane. Già nel 1958, la Olivetti ha fabbriche in tre continenti (America, Africa e Europa), 235 negozi in Italia, 5 centri di produzione in Europa, 2 in Sudamerica, 2 in Africa, più 12 consociate in 3 continenti, mentre nel 1963, i dipendenti all’estero superano per numerosità quelli italiani. Parallelamente alla ricerca scientifico-industriale, la Olivetti svilupperà forme di sviluppo e assistenza sociale all’avanguardia per i propri impiegati, che la faranno diventare modello planetario di sviluppo armonico e sostenibile. I primi tentativi sono del 1909, un anno dopo la fondazione dell’azienda; nel 1934 viene aperto il primo asilo aziendale, nel 1936 i Servizi Sanitari di fabbrica (un servizio di assistenza sanitaria complementare a quello statale, con un’infermeria interna, le cure sul posto di lavoro e a domicilio) e la mensa aziendale; dal 1932 vengono aperte le colonie estive per i figli dei dipendenti.

La Olivetti introduce il servizio assistenziale e gli assegni familiari nel 1919 – ben prima dello Stato Italiano – mentre il Consiglio di Gestione, un organismo paritario tra operai, impiegati e proprietà, è istituito nel 1949. Oltre ai servizi e alle residenze, viene allestita anche una rete di 11 linee di bus navetta per i lavoratori residenti fuori Ivrea. Inoltre, insieme alla Volvo, la Olivetti è la prima azienda che prova a scardinare il modello fordista: dalla produzione a catena di montaggio si passa a quella a isola con l’acronimo UMI: unità di montaggio integrate. Infine viene introdotta, per la prima volta nel nostro Paese, la riduzione di orario lavorativo a parità di salario: siamo nel 1957, stesso anno dell’avvio della pubblicazione di “Zodiac”, ed è la nascita, in Italia, del concetto di weekend.

E se il termine glocal ha senso, negli anni Sessanta e Settanta la Olivetti lo declina alla perfezione: casa madre a Ivrea nel Canavese, sedi a Milano e Roma, ma anche fabbriche in Argentina, Brasile, Spagna, USA, GB, Francia, Germania, Giappone, Messico, Singapore, Cina. Un vero impero su “cui non tramonta mai il sole”, del quale, secondo il dettame di Adriano per cui “l’architettura è la forma con cui si esprime una Società”, gli architetti saranno Le Corbusier (1961/62), Louis Kahn (1966/70), Kenzo Tange (1970), Egon Eiermann (1970/72), Richard Meier (1971), James Stirling (1973). A Ivrea lavoreranno, tra gli altri, BBPR, Gardella, Figini e Pollini, Quaroni, Ridolfi, Vittoria, Zanuso (che progetterà anche la fabbrica argentina e quella brasiliana dell’azienda), Gabetti e Isola, Cappai e Mainardis; mentre la fabbrica modello di Pozzuoli (1951-54) sarà firmata da Luigi Cosenza. Per non parlare dell’invenzione assolutamente innovativa e geniale dei negozi Olivetti, veri flagship-store anticipatori di una maniera di intendere il commercio al dettaglio che verrà imitata e perfezionata nei cinquant’anni successivi, con oltre duecento progetti che coprono un arco temporale di quarant’anni.

Questo insieme di iniziative, che definiscono il volto unico della Olivetti, comprendono una delle sue più prestigiose iniziative editoriali, quale è appunto “Zodiac” (una stranezza: nella time-line pubblicata alla fine della pubblicazione per i cinquant’anni della Olivetti, che arriva al settembre 1958, non si fa menzione della prima uscita di “Zodiac”, che è dell’ottobre 1957).

Copertine di “Zodiac” 8 (giugno 1961), 15 (dicembre 1965), 18 (ottobre 1968), 20 (dicembre 1970). Courtesy Fondazione Olivetti.

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Perchè Adriano Olivetti decide di fondare una rivista di architettura, per di più di respiro internazionale? L’interesse di Olivetti per l’architettura e, soprattutto, per l’urbanistica, ha origini remote, ed è strettamente legato alla sua idea di comunità. Si chiede Olivetti: “Cos’è dunque la nostra Comunità?”. Le risposte che fornisce sono più d’una. Secondo la più elementare e intuitiva, la comunità è “il luogo d’incontro del tuo prossimo”; articolando appena un po’ la risposta, essa è “una piccola patria intorno alla città natale, lo spazio vitale dove si esprime la nostra vita sociale, la natura che ci è intorno, monti, colline, campagne”; ancora, “la Comunità è storia che si fa ogni giorno”. Queste tre risposte evidenziano tre dati fondamentali della concezione comunitaria di Olivetti. Primo, si tratta di un ordine politico generato dal basso, che prevede la partecipazione di tutti i cittadini e lo sviluppo in “un sistema di livelli di governo che parte dal basso (le comunità), passa attraverso gli Stati regionali e, attraverso vari strumenti connettivi, crea uno Stato federale fortemente coeso”. Secondo, ogni comunità insiste su una porzione di territorio; come è stato rilevato, “l’idea seminale olivettiana era individuare i confini adeguati a un nuovo ente territoriale locale che, permettendo ai suoi abitanti di enucleare interessi concreti comuni, facilitasse il governo del territorio e la composizione degli inevitabili conflitti sociali”. Terzo, la comunità olivettiana mira alla buona amministrazione del quotidiano: mira a qualificare l’ordinario, tessendo, giorno dopo giorno, i destini dei suoi cittadini.

Di conseguenza, un’appropriata organizzazione dello spazio è, nel pensiero olivettiano, il corrispettivo fisico dell’organizzazione sociale comunitaria. Assetto dei luoghi e assetto sociale si legano, per l’industriale di Ivrea, in maniera indissolubile. Non solo: l’urbanistica è organizzazione dello spazio così come di processi e in questa ottica il piano “diviene una strategia per governare la dinamica dell’innovazione e renderla operante in tutte le direzioni e attraverso tutti i collegamenti che le opere istituiscono fra di loro”. Dimostrazione di ciò sono i molti piani che Olivetti commissiona e/o ispira, a partire dal Piano per la Valle d’Aosta, avviato nel 1937. E si possono rimettere in fila le tante operazioni condotte sulla sua azienda, sui servizi ad essa collegati, sulla sua città – Ivrea – e sul territorio da essa investito – il Canavese. A ciò si dovrebbero ancora aggiungere le azioni svolte dai soggetti istituzionali investiti dalla sua energia, come l’UNRRA Casas (e, sulla scia di questo, l’ISES), l’INU o l’IRUR; ancora, le esperienze di Matera e di Pozzuoli; infine le tante battaglie, purtroppo spesso perse, come quelle per una nuova Legge Urbanistica.

Occorre poi evidenziare come Adriano Olivetti abbia sempre proceduto per esperimenti pilota, cioè per verifiche concrete degli assetti produttivi, istituzionali, sociali, spaziali e gestionali immaginati e progettati. A riprova di ciò si possono considerare gli atti degli organismi nei quali Olivetti ha avuto un ruolo significativo (come l’UNRRA-Casas o l’INU) o quelli inventati da lui stesso (come l’I-RUR), oltre, ovviamente, all’operato per e tramite l’azienda di famiglia. Giancarlo Lunati parlava, per l’esperienza di Olivetti, di “progetto come orizzonte della vita”: non vi sono dubbi, infatti, sull’intensità e la vastità delle ipotesi di trasformazione che Olivetti ha sempre perseguito e che ha visto regolarmente scontrarsi contro il muro della politica e della pubblica amministrazione, per superare il quale egli tentò l’avventura politica in prima persona nelle elezioni politiche del 1958 (che, come noto, registrarono un sostanziale insuccesso).

Se le precedenti considerazioni valgono per l’impegno urbanistico di Olivetti, un analogo discorso può essere fatto per l’architettura: la buona formalizzazione dello spazio è necessaria ad una vita comunitaria felice: ciò spiega la convocazione dei migliori architetti italiani e stranieri, come già detto. E ciò spiega anche la sua costante attenzione per questa disciplina, dimostrata anche dall’impegno editoriale: basti pensare a “Metron” o alla rubrica regolarmente dedicata all’architettura sul periodico “Comunità”. È alla luce di questi presupposti, dunque, che deve essere letta la vicenda di “Zodiac”, pur con tutte le particolarità che essa presenta.

Alvar Aalto, Villa Sambonet, prospetti, in “Zodiac” 3 (novembre 1958). Courtesy Fondazione Olivetti.

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“Zodiac” è stato un periodico internazionale di architettura, uscito in 22 fascicoli, esattamente per 16 anni, fino all’ottobre 1973, nato da un’idea di Bruno Alfieri. Nel 1957 Alfieri ha trent’anni ma varie esperienze editoriali alle spalle e propone ad Adriano Olivetti di fondare e sostenere una nuova rivista di architettura, di respiro internazionale, anche in considerazione del fatto che, nel 1954, “Metron” ha cessato le pubblicazioni. Il rilevante interesse di Olivetti per l’architettura e l’urbanistica si riversa, in quel momento, solo in “Comunità”, ma in misura limitata, e in “Urbanistica”, diretta prima da Olivetti stesso, quindi, dal 1952, da Giovanni Astengo. Entrambi questi periodici, tuttavia, hanno un orizzonte prevalentemente nazionale. Intervistato da Manolo De Giorgi, Enrico Morteo e Alberto Saibene, Renzo Zorzi ricordava che un giorno Alfieri gli disse:

“Dovresti farmi un piacere: vorrei incontrare Adriano”. Li misi in contatto e Alfieri propose ad Adriano di fare “Zodiac”. Doveva essere una rivista internazionale di architettura, con ampi articoli di presentazione dei maggiori architetti del mondo. […] Adriano costituì un piccolo comitato in cui c’erano Ragghianti, Pampaloni, Riccardo Musatti e Sergio Bettini (De Giorgio, Morteo 2008, XX).

Come già rilevato, mentre alcuni esponenti dell’inner circle olivettiano vengono sapientemente collocati nel Comitato di Direzione, l’apertura internazionale è garantita dall’affinità strutturale con un altro periodico ideato da Bruno Alfieri: ci riferiamo a “Quadrum”, fondata due anni prima insieme a Ernst Goldschmidt ed edita a Bruxelles con il patrocinio del Palais des Beaux-Arts diretto da Pierre Janlet, della quale “Zodiac”, inizialmente, replica il medesimo impianto. Senza entrare nel merito della complessa vicenda gestionale della rivista, può essere utile fare un confronto tra il colophon del primo fascicolo e quello dell’ultimo, soffermandosi su un fascicolo quasi mediano, il numero 13.

Dal primo, stampato nel 1957, apprendiamo che “Zodiac” è una rivista internazionale di architettura contemporanea; che è pubblicata sotto gli auspici de “l’Association pour la diffusion artistique et culturelle, Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, et de la société Ing. C. Olivetti & C., de Ivrea, Italie”; che ha un comitato di direzione, presieduto da Adriano Olivetti e composto da Giulio Carlo Argan, Pierre Janlet, Riccardo Musatti, Enzo Paci, Geno Pampaloni, Carlo Ludovico Ragghianti e, nelle vesti di segretario, Pier Carlo Santini. Ma la struttura è ben più complessa, perché si articola anche in un comitato internazionale di redazione (per il Belgio, Robert L. Delevoy; per la Francia, François Mathey; per la Germania, Gerd Hatje; per la Gran Bretagna, E. Maxwell Fry; per l’Italia, Pier Carlo Santini; per i Paesi Bassi, W.H.J.B. Sandberg; per la Svizzera, Georg Schmidt; per gli Stati Uniti, John Entenza); in un direttore editoriale, Bruno Alfieri; in un art-director, Roberto Sambonet; in una serie di corrispondenti (per il Brasile, Salvador Candia; per il Giappone, Noboru Kawazoe; per il Messico, Max Cetto; per il Venezuela, Graziano Gasparini). Infine, vari sono gli editori locali nei diversi paesi, ma l’editore generale si trova a Milano, ed è le Edizioni di Comunità. Si possono fare varie osservazioni: prima, il carattere internazionale che il periodico intendeva avere è assicurato dalle intense relazioni con i più importanti paesi di quello che allora era “l’occidente”; seconda, molti esponenti importanti della cerchia olivettiana occupano posizioni preminenti (Pampaloni, Musatti, Ragghianti); terza, i contributori della prima ora, che compaiono nell’elenco, sono alquanto eterogenei per generazione, per nazionalità e per formazione: alcuni sono architetti, altri intellettuali o letterati, altri ancora storici dell’arte. Proprio su questi ultimi si impone una quarta, ultima e cruciale osservazione. Come confermato da constatazioni oggettive e come già rilevato, “Zodiac” impegna il decennio del dissolvimento del progetto moderno; pertanto, risulta cruciale comprendere quale posizione assuma il periodico nei confronti del movimento moderno e della sua crisi, ovvero, quali parziali posizioni assumano, rispetto al fenomeno, i più qualificati collaboratori al periodico. Ci riferiamo a personaggi del calibro di Hitchcock, Giedion, Scully, Veronesi, Argan, Ragghianti e altri (Tafuri e Portoghesi erano ancora molto giovani e Zevi scrive una volta soltanto). Entro tale quadro, e specialmente nella prima metà della storia di “Zodiac”, gli storici dell’arte giocano un ruolo decisivo, in ragione di due considerazioni convergenti: da un lato, perché nel panorama storiografico e critico dell’architettura gli autori con formazione non propriamente architettonica risultavano ancora preponderanti e a tale proposito, Manfredo Tafuri, molti anni dopo, lamenterà “il monopolio che avevano avuto gli storici dell’arte nel campo della storia dell’architettura”; dall’altro lato, perché negli anni nei quali “Zodiac” viene pubblicata, la fase di revisionismo storico e storiografico del movimento moderno è appena incipiente, mentre ancora prevale la costruzione storiografica canonica avvenuta lungo gli anni Cinquanta, che infatti si aprono con la Storia dell’architettura moderna di Bruno Zevi (1950) e si chiudono con la Storia dell’architettura moderna di Leonardo Benevolo (1960).

L’indice del fascicolo n. 13, del 1964, è preceduto da una scarna comunicazione che annuncia l’avvicendamento alla Direzione di “Zodiac”: “A partire da questo numero la direzione editoriale di “Zodiac” viene assunta da Pier Carlo Santini. Le Edizioni di Comunità ringraziano vivamente Bruno Alfieri che col n. 12 ha lasciato la rivista per altri impegni di lavoro”. Alfieri, infatti, si dedicherà alla fondazione di “Lotus”, ma questa è un’altra storia. Santini, un antico laureato di Ragghianti, subentra ad Alfieri e, a partire da questo numero, prende avvio la collaborazione di Maria Bottero, che sempre più importanza assumerà nella gestione e nella conduzione del periodico. Occorre evidenziare come Santini, nonostante il nuovo e prestigioso incarico appena assunto, non senta la necessità né di scrivere un editoriale, né di individuare un baricentro o un tema cui riferire tutti i pezzi del fascicolo, né di fornire un orientamento per i futuri fascicoli di “Zodiac”: un comportamento quanto meno singolare.

Consideriamo ora il colophon dell’ultimo fascicolo, stampato nel 1973. Vi si legge che la rivista è stata “fondata da Adriano Olivetti” e che viene “edita sotto gli auspici della Ing. C. Olivetti & C., Ivrea, Italia”. La controparte belga non è più presente, come non è più presente un comitato di direzione. La struttura, nel complesso, si è molto semplificata, e risulta così organizzata: direttore responsabile, Renzo Zorzi; direttore, Maria Bottero; redazione, Lucia Matino e Paolo Nepoti; impaginazione, Italo Lupi; copertina, Umberto Riva; seguono una lista di traduttori, l’elenco dei vari distributori nel mondo e i riferimenti utili alle inserzioni pubblicitarie. Infine, rimane invariato l’editore: Edizioni di Comunità, Milano. Tuttavia tale contrazione dell’apparato non inficia l’apertura internazionale di “Zodiac”, che era dovuta non solo al suo patrimonio genetico, né solo alla rete di corrispondenti dislocati nei paesi occidentali, già illustrata, ma era dovuta anche ai luoghi presentati dai servizi di “Zodiac” e alla nazionalità dei tanti contributori. Cominciamo da questi ultimi: in maggioranza sono ovviamente italiani, ma dobbiamo segnalare la presenza importante degli statunitensi Henry-Russel Hitchcock ed Esther McCoy, le presenze episodiche di Siegfried Giedion, ceco ma svizzero di adozione, di Vincent Scully, statunitense, di Joseph Rykwert, polacco ma inglese di adozione, di Ulrich Conrads, tedesco, e le rare comparse di James Stirling, inglese, Aldo Van Eyck, olandese, Jean Petit, francese, Arthur Drexler, ancora statunitense, e molti altri. Come si vede, un panel di grande ampiezza geografica, oltre che di prima qualità. Consideriamo poi i luoghi: se l’Italia è, inevitabilmente, il Paese più presente, nondimeno la rivista si interessa davvero di gran parte del mondo occidentale. Questo accade sia con fascicoli monografici (due dedicati agli Stati Uniti, uno alla Spagna, alla Gran Bretagna e all’Italia) sia con ampi reportage da vari luoghi (Giappone, Messico, Brasile, Danimarca, Francia, Germania e altri). Sull’apertura internazionale di “Zodiac”, dunque, non possono rimanere dubbi.

Frei Otto, Tensostrutture per i Giochi della XX Olimpiade (Monaco 1972), in “Zodiac” 21 (settembre 1972). Courtesy Fondazione Olivetti.

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La rivista (come tutto in natura) è un territorio in costante movimento e mutazione. Il concetto warburghiano di “buon vicino” è più che una stretta concatenazione tra i contenuti critici e pubblicistici: è il tentativo di pubblicare numeri il cui motore primo sia la fascinazione degli scritti e dei progetti pubblicati, un glamour incantato che si spande da ogni pubblicazione, al contempo eteronoma e autosufficiente, capace di attrarre lettori con (quasi) soltanto l’aspetto prezioso dell’oggetto. Questo determina una ortodossia fortemente attratta dall’eterodossia, sempre in nome della fascinazione e della capacità seduttiva dei contenuti. In alcuni numeri vi è una salutare e vivifica prevalenza dell’ignoto sul noto, sul già affermato: presentazioni e letture critiche dedicate a opere e autori di primaria importanza a livello mondiale vengono alternate sapientemente a saggi che introducono nuove personalità emergenti nel panorama internazionale quali Utzon, Nelson, Ungers, Valle, Sottsass, Zvi Hecker, etc. La costruzione di un paesaggio critico fatto non solo dai saggi, ma anche dai progetti pubblicati e dalla loro sequenza, visualizza un “paesaggio brado”, nel quale molti si possano riconoscere. Scegliere cosa pubblicare spesso smuove gli strati più profondi di una sedimentazione culturale e addirittura psicologica di chi è chiamato a scegliere e, spesso, i numerosi ‘no’ detti contribuiscono alla costruzione di un’opera intellettuale più di tutti i possibili ‘sì’. Così come escludere spesso è un atto molto più chiarificatore, deciso e selettivo rispetto all’inclusione generica. Tuttavia, nella galassia del pubblicato, si possono riconoscere enclaves che rimandano ad altri piccoli sistemi semantici e iconografici, in un continuo gioco di specchi e di confronti che è uno degli esercizi cui la rivista ci costringe. Vi è una continua alternanza di pezzi lunghissimi, quasi da rivista letteraria o specialistica (filosofica, medica, etc.) e pezzi ‘manifesto’ o di cronaca, di due o tre pagine.

Una rivista con i dorsi in bella vista, come le collane saggistiche e letterarie, soprattutto come gli almanacchi (Bompiani 1925-1980). Il modello di riferimento ipotizzabile potrebbe essere una crasi tra i Saggi Einaudi, l’Almanacco letterario Bompiani, il glamour delle illustrazioni di “Spazio” di Luigi Moretti e la rivista “Botteghe Oscure” (nulla a che fare con la sede storica del PCI, ma l’indirizzo dove abitava la sua direttrice, la principessa Marguerite Caetani, pubblicata dal 1948 al 1960, dove scrivono 700 autori in 5 lingue). L’ambizione e l’autorevolezza della rivista si manifestano sin dall’aspetto esterno (un incrocio tra un almanacco, un coffee table book – seducente al tatto e alla vista – e un prodotto di saggistica) sia all’interno, dove la gabbia editoriale libera e multiforme ideata da Roberto Sambonet – della quale esistono ancora i magnifici menabò originali autografi, disegnati pagina per pagina – incuriosisce e tiene alta l’attenzione del lettore, accompagnandolo e sottolineando i passaggi da un tema all’altro. Completa questo seducente cocktail intellettuale la pubblicazione dei progetti attraverso foto e disegni, spesso a doppia pagina e con una grafica intensa, punteggiata da rare cromie, che non fanno altro che sottolineare l’importanza del soggetto mostrato (memorabile, in questo senso, la pubblicazione nel numero 3 del progetto di Villa Sambonet di Alvar Aalto – purtroppo rimasto soltanto sulla carta – con la stessa cromia della copertina). inoltre, L’eccellente qualità di stampa permette di apprezzare anche i dettagli e le didascalie più minute. Non sono state molte le aziende italiane che hanno sponsorizzato e sostenuto riviste di tema architettonico/urbano e antropologico: oltre a “Zodiac”, Olivetti ha pubblicato, come già ricordato, “Metron” (54 numeri tra l’agosto 1945 e dicembre 1954), mentre la Pirelli chiama a dirigere “Edilizia Moderna”, tra il 1963 e il 1965, un giovanissimo (32 anni) Vittorio Gregotti. I destini delle due riviste conosceranno incroci e travasi. Brilla per assenza la Fiat...

Particolarmente interessante è la lettura degli ultimi numeri di “Zodiac” (19, 21 e 22), che rappresentano un vero e proprio corpus critico e sperimentale autonomo, non solo all’interno della storia della rivista, ma nell’intera pubblicistica italiana di settore. L’esaustivo sguardo d’insieme che essi offrono sulle ricerche di matrice matematico/geometrica, sulle tensostrutture, sulle costruzioni gonfiabili e sui gusci autoportanti che all’epoca venivano sperimentate e sviluppate nel mondo, vengono integrate in una linea di ricerca che, partendo dai “padri nobili” del campo di sperimentazione (Le Ricolais, Buckminster Fuller, Candela, Kiesler), arriva, apparentemente senza soluzione di continuità, alle sperimentazioni di giovani e giovanissimi architetti contemporanei (tra cui le prime ricerche di un trentacinquenne Renzo Piano, fresco vincitore – insieme a Gianfranco Franchini e Richard Rogers – del concorso internazionale di due anni prima per il Centro Pompidou a Parigi). Queste ricerche, considerate antagoniste quando non apertamente ostracizzate da quella parte dell’intellighenzia architettonica più ideologizzata che dominava larga parte dell’accademia e della pubblicistica di settore (come ad esempio lo IAUS negli Usa, il Team 10 e la Tendenza in Europa) allora invecchiate rapidamente e altrettanto velocemente tornate in auge negli ultimi tempi, stavano costruendo proprio in quegli anni quello che può essere considerato il loro capolavoro assoluto e manifesto: il complesso olimpico di Monaco per le Olimpiadi del 1972 su progetto di Gunter Behnisch e Frei Otto, puntualmente documentato nel numero 21 della rivista da un memorabile servizio fotografico sul cantiere di Gianni Berengo Gardin. In questi ultimi tre numeri, diretti da Maria Bottero, traspare in tralice la nostalgia di quello che poteva essere e non è stato: una architettura tecnica, sperimentale e all’avanguardia, apparentemente gemmata dall’epica e brevissima stagione della Divisione Elettronica dell’Olivetti, ceduta in maniera frettolosamente sospetta alla General Electric nel 1964 dai nuovi soci Olivetti, Fiat e Mediobanca.

Frei Otto, Tensostrutture per i Giochi della XX Olimpiade (Monaco 1972), in “Zodiac” 21 (settembre 1972). Courtesy Fondazione Olivetti.

Riferimenti bibliografici
  • Bordogna 2018
    E. Bordogna, “Zodiac” da Adriano Olivetti a Guido Canella, “FAM” 43 (2018).
  • Canella 1989
    G. Canella, Fondazione e ripresa di una testata, “Zodiac” 1 (1989), 6-10.
  • De Giorgi, Morteo 2008
    M. De Giorgi, E. Morteo, Olivetti: una bella società, Torino 2008.
  • De’ Liguori Carino 2008
    B. de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1940-1960), Roma-Ivrea 2008.
  • Fabbri 1983
    M. Fabbri, L’urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi. Storia, ideologie, immagini, Bari 1983.
  • Gregotti 1982
    V. Gregotti, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, Milano 1982.
  • Morteo 2008
    E. Morteo, Grande atlante del design dal 1850 a oggi, Milano 2008.
  • Musatti, Bigiaretti, Soavi 1958
    R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, Olivetti 1908-1958, Ivrea 1958.
  • Olivetti 2009 
    A. Olivetti, Fini e fine della politica, a cura di D. Cadeddu, Soveria Mannelli 2009.
  • Pierini 2012
    O.S. Pierini, “Zodiac”, in M. Biraghi, A. Ferlenga (a cura di), Architettura del Novecento, Torino 2012.
  • Ristuccia 2009
    S. Ristuccia, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica, Venezia 2009.
English abstract

This article is a synthesis of the research that the two authors are carrying out on the editorial history of "Zodiac", which will soon be published in a book. The first series (1957-1973) was published by Edizioni di Comunità, Adriano Olivetti's publishing house. Since it is impossible to understand the intellectual and biographical structure of Zodiac without having an idea, albeit approximate, of the complex entrepreneurial, intellectual, editorial and financial history of the Olivetti constellation, the first part of the essay is dedicated to these events. The essay then examines the relationship between Olivetti and architecture, a relationship based on the theme of community. It then analyses the structure of the magazine, the people involved and the authors who contributed to it. Finally, it explores the various themes addressed by the magazine and the relationship between articles, images and drawings.

Keywords | Adriano Olivetti; Bruno Alfieri; “Zodiac”; Architectural Journals.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Alberto Pireddu, Costellazioni eccentriche. L’universo Olivetti e la rivista “Zodiac”, “La Rivista di Engramma” n. 188, gennaio-febbraio 2022, pp. 121-136 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/.188.0018