Massimo Fusillo
Attualizzare/Universalizzare. Medea sullo schermo*
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Medea ha avuto sullo schermo un successo notevole, che rientra in una consonanza generale fra questo mito e la cultura contemporanea. È sin troppo facile individuarne i motivi: se l’età barocca ha privilegiato, sulla scia della versione di Seneca, l’aspetto demonico e magico, e se il melodramma ha ovviamente esaltato la potenza dell’eros, il Novecento ha invece puntato tutto sulla componente etnica: sulla condizione di barbara, emarginata, e vittima del potere maschile. Eros, magia e barbarie sono tre forme di alterità, inevitabilmente intrecciate fra di loro nella struttura stessa del mito, ma ciò non toglie che, a partire dalla bella trilogia di Grillparzer, la ricezione di Medea si sia focalizzata sempre più sul suo statuto di straniera; il suo mito è diventato così quello antropologico per eccellenza, e si è incontrato più volte, inevitabilmente, con svariate correnti della contemporaneità, come la cultura postcoloniale e il pensiero femminista.
Ci sono comunque molti modi per identificarsi con Medea e per diventare barbari. Fra le varie versioni filmiche possiamo distinguere innanzitutto due modelli di base: nel primo la barbarie viene attualizzata, e quindi direttamente riportata alle dinamiche del presente; nel secondo viene invece rivissuta come schema antropologico di ampio respiro, e quindi tendenzialmente universalizzata, fino a essere quasi assolutizzata, e trasformata in un simbolo. Nel primo modello è sempre insito il rischio di una lettura eccessivamente didascalica: di una banalizzazione del mito; mentre il secondo raggiunge più facilmente una maggiore potenza espressiva. Non si può comunque generalizzare troppo, sia perché ogni riscrittura ha le sue innegabili peculiarità, sia perché fra i due modelli ci sono varie soluzioni intermedie.
Attualizzare il mito è una prassi assai diffusa tanto nelle riscritture letterarie, quanto nelle messinscene teatrali: la grande summa delle pratiche intertestuali, Palinsesti di Genette, la classifica come "trasformazione eterodiegetica", il che significa cambiamento della cornice spazio-temporale in cui è ambientato il testo originario, nel nostro caso quindi dal mito antico al mondo contemporaneo. Come si accennava prima, è un’operazione delicata, che rischia di ridurre la densità simbolica del mito a un caso di cronaca nera (campo che comunque attrae spesso gli scrittori per una sua potenza arcaica). È proprio il marcato effetto di realtà del cinema, il suo enorme potere di visualizzazione, che spinge le versioni cinematografiche della tragedia greca verso due estremi: da un lato la ricostruzione archeologica dell’antico, che suona spesso poco credibile e inevitabilmente kitsch; dall’altro appunto la modernizzazione, che anche nel teatro di regia degli ultimi decenni è diventata una convenzione facile. Fortunatamente la maggior parte dei film mitici evitano questa alternativa drastica, spesso tematizzando direttamente il contrappunto e il conflitto fra mito e realtà.
Nel caso di Medea i motivi che spingono verso l’attualizzazione sono indubbiamente notevoli: la figura dello straniero è sempre più parte del nostro universo quotidiano e della sua conflittualità, mentre i casi di infanticidio ricorrono spesso nella cronaca, e offrono alla psicanalisi materia di riflessione sulle ambivalenze della maternità. Proprio su quest’ultimo versante è giocato un film di Jules Dassin, che, sempre assieme alla moglie Melina Mercouri (e a un topico Anthony Perkins, giovane tormentato e morbosamente dipendente da figure materne), aveva già diretto una versione attualizzata di un altro famoso mito euripideo, Fedra (Phaedra, Austria 1962).
A Dream of Passion (USA 1978) punta tutto su un meccanismo estetico e psicologico fondamentale, l’identificazione, suggellato anche dalla citazione del capolavoro di Bergman su questo tema, Persona. È infatti la storia di una famosa attrice greca (Mercouri) che – dovendo impersonare Medea sulla scena, all’aperto nel teatro greco di Atene (è la nota regia di Mikos Volonakis, che firma anche la traduzione) – decide di andare a trovare in carcere una donna americana, Brenda, che, abbandonata dal marito, ha ucciso per vendetta i loro tre figli; una straniera quindi, ossessionata dalla Bibbia e chiusa nel suo mondo (non ha mai imparato il greco), splendidamente interpretata da Ellen Burstyn, soprattutto nei lunghi primi piani attraverso il vetro o le sbarre.
Da un primo incontro fallito, nato solo dal desiderio di pubblicità, scaturisce un intenso rapporto di solidarietà, rafforzato dalle forme di alterità della donna e dell’artista, che si sente sempre inevitabilmente straniera. È quindi anche un film sulla vita quotidiana degli attori e sugli intrecci fra finzione e vissuto (come sarà Teatro di guerra di Martone, incentrato sul rapporto fra tragedia greca e storia politica, e sulla critica delle istituzioni teatrali), fino alla confessione catartica della protagonista davanti alla macchina da presa di un regista americano che sta girando un documentario sulla messinscena (il film è ricco di elementi metalinguistici).
Al racconto dell’attrice sulla propria vicenda di tradimenti che culmina in un aborto segue la confessione di Brenda, vero momento culminante del film, visualizzato in una sequenza dai tratti onirici, in cui la ricostruzione dell’infanticidio è intervallata da intensi inserti del coro che recita Euripide, e in cui compare inoltre l’attrice che spia l’azione, prendendo anche per un attimo il posto della donna; notevole la lenta carrellata sulle immagini sacre e sul Cristo nella stanza dei bambini, mentre l’atto abnorme viene prevedibilmente sostituito dalla metonimia del coltello insanguinato (come già in Pasolini). L’identificazione terapeutica dà presto i suoi frutti: nel finale l’attrice ha superato la crisi creativa acquisendo una recitazione più dolente e interiorizzata; il film si conclude con un passaggio brusco dall’inquadratura dell’urlo del coro a quella di Brenda inginocchiata a pregare che lancia un urlo assai simile (non a caso il titolo alternativo francese è Cri des femmes): così, tramite la natura metonimica del linguaggio cinematografico, viene visualizzata la compenetrazione fra mito e vissuto, tragedia e realtà, antico e moderno, mentre al racconto performativo è affidato ogni potere catartico (una catarsi invece negata in Summer of Medea di Babis Plaitakis, film del 1987 su un’attrice francese e un regista greco in crisi creativa).
Se nel film di Dassin il contrappunto fra mito e realtà investiva il piano della recitazione teatrale, nella versione di Ula Stöckl (Der Schlaf der Vernunft, Germania 1984) si realizza invece tramite l’esperienza interiore del sogno.
Allieva e amica di Edgard Reitz (il regista delle celebri serie Heimat, straordinario romanzo di formazione della Germania contemporanea), per cui ha sceneggiato una trasposizione filmica del poema di Apollonio Rodio e della saga argonautica (Das goldene Ding, Germania 1971), fra le prime donne registe in Germania che ha affrontato temi cruciali del movimento femminista, Ula Stöckl sceglie come titolo del suo film il famoso motto di Goya sul sonno della ragione che genera mostri. La sua Medea è un’immigrata italiana (impersonata da Ida Di Benedetto), ginecologa impegnata in una battaglia politica contro la casa farmaceutica per cui lavora il marito, che la tradisce e l’abbandona per la figlia del direttore (nonché assistente della protagonista).
Fin qui siamo a una trascrizione diretta del plot mitico in un ambiente contemporaneo: la barbarie di Medea sta nella sua condizione di straniera, ma anche di donna che rifiuta la dipendenza e la subordinazione femminile. Lo scioglimento del mito, e quindi l’eliminazione della rivale e l’infanticidio (la protagonista ha due figlie con cui ha un rapporto conflittuale) non avvengono però nella realtà, ma in una lunga sequenza onirica: sono i mostri provocati dal sonno della ragione. Già Pasolini aveva costruito, quindici anni prima, la sua Medea sull’equazione fra sogno e mito: in entrambi i film la lunghezza della sequenza crea disorientamento nello spettatore, e produce un forte effetto di realtà (è proprio il carattere intrinsecamente onirico del cinema a rendere difficile la distinzione netta dei livelli). In Der Schlaf der Vernunft l’intreccio fra i due piani è molto stretto: già nei titoli di testa un’inquadratura felice della coppia sull’altalena sfocia in un’immagine cupa, in una serie di macchie di sangue, svelandosi come esperienza onirica della protagonista, Dea, inquadrata appena sveglia e inquieta. Il film si sviluppa poi per lungo tratto nella raffigurazione della quotidianità della famiglia: la mamma napoletana, che non parla tedesco e suona Puccini al pianoforte, e le due figlie pienamente integrate invece nel mondo paterno, che irridono la gelosia e il melodramma. È una parte direttamente scaturita dalla fascinazione che la regista ha provato per il mondo di Ida Di Benedetto in un topico viaggio al Sud che, come accadeva per i romantici tedeschi, è stato anche un risveglio del mito (le figlie e la madre sono realmente quelle dell’attrice).
Dopo che il tradimento del marito viene svelato direttamente dalla rivale, parte, segnalato dalla musica, il sogno, che supera la mezz’ora di durata (in un film di 82’): all’inizio il carattere onirico è evidente soprattutto nell’inquadratura simbolica di due uomini nudi che lottano (a visualizzare il famoso conflitto interiore di Medea) e in quella del padre di Dea che le promette sostegno (come in Pasolini), augurandole di dormire bene; predomina poi per un po’ il senso di realtà, soprattutto nel lungo dialogo fra marito e moglie, intervallato da inserti allucinatori, ma si torna ancora al piano onirico nel dialogo con la figlia seduta su un cavallo di vetro su cui viene uccisa (un episodio dai tratti surrealisti), e soprattutto nella splendida inquadratura della protagonista con accanto i cadaveri delle due figlie e la madre, in uno sfondo astratto e spettrale di terra desertica (un po’ simile al finale di Teorema), mentre pronuncia la battuta simbolica: "Io le restituisco". Potrebbe essere una conclusione metafisica, che proietta l’azione nell’atemporalità del mito, ma si torna invece un’ultima volta all’universo quotidiano e contemporaneo, con la vecchia madre che commenta: "A tutto c’è rimedio". Il vero finale è quindi sospeso, antitragico, ed è stato suggerito sul set da Ida Di Benedetto. Come sostiene la regista, la differenza fra sogno e realtà perde in fondo senso: aver immaginato la vendetta equivale ad averla compiuta, è un mezzo per liberarsi di un ambiente oppressivo e recuperare una propria identità, per quanto instabile e conflittuale. Tramite il sogno la dimensione del mito e dell’antico emerge con prepotenza e con una chiara funzione catartica.
Sempre restando nell’ambito delle attualizzazioni, e passando agli anni Novanta, ritroviamo ancora la soluzione già pasoliniana della fantasia allucinatoria nella versione del messicano Arturo Ripstein, che presenta però una violenza tragica molto più accentuata dei due esempi visti sinora, a riprova di come gli stessi procedimenti di riscrittura possano generare opere assai diverse.
Asì es la vida (2001) riambienta il mito nei sobborghi poveri di Città del Messico: Giasone è innamorato della figlia del boss locale, Medea pratica malefici e aborti clandestini, mentre la nutrice è una vecchia folle e misantropa. Anche in questo caso il rischio del naturalismo e del didascalismo è evitato grazie a uno stile essenziale, a una recitazione intensa e a uno straniamento di fondo, molto evidente nella ripresa di un elemento strutturale del teatro antico arduo da riproporre nella modernità (e soprattutto sullo schermo), il coro, impersonato da un vecchio televisore in cui, oltre a vari reportage di cronaca, compare anche il canto di un gruppo di Mariachi, che commenta la storia della protagonista. Stranianti sono anche l’uso insistito di specchi e superfici riflettenti, e la sottolineatura continua della macchina da presa, che perlustra i labirinti degradati di questa ambientazione antieroica dai colori cupi, e fa sentire lo spettatore quasi un intruso.
Se la vendetta sulla rivale viene resa, come già in Pasolini e Stöckl, tramite una fantasia allucinatoria, mediata da una sorta di reportage televisivo (una "fiction mentale", secondo la definizione di Roberto Danese), l’infanticidio viene effettivamente compiuto, e realizzato con una soluzione di grande impatto visivo, esplicitamente ispirata dalla Medea di Seneca. La protagonista Julia pugnala il primo figlio nel bagno, ma noi spettatori non vediamo direttamente la scena: percepiamo solo la figlia che aspetta fuori di fronte a uno specchio, ed entriamo poi nello spazio, con movimenti incerti, solo dopo il compimento dell’atto. Julia porta allora il cadavere del primo figlio fuori dalla casa, e lo mostra dall’alto di uno scalone al marito che accorre, compiendo il secondo infanticidio sotto i suoi occhi; anche in questo caso noi spettatori non vediamo direttamente la scena, dato che la prospettiva è coperta dal corpo dell’uomo, ma ne sentiamo la terribilità. A differenza che nella tragedia di Euripide, in cui, come sempre nel teatro greco, l’atto violento avviene fuori scena, nella tragedia di Seneca la dinamica è la stessa che torna nel film: Medea compie il secondo infanticidio di fronte a Giasone con accanto il cadavere del primo figlio. La ripresa compiuta da Ripstein rientra in una tendenza del teatro novecentesco a riproporre l’estremismo tragico di Seneca: la sua macabra efferatezza barocca diventa un antidoto all’apatia emotiva della società di massa, come in Sarah Kane. Ma anche qui l’immediatezza veristica e la violenza tragica sono distanziate, valorizzando tutte le strategie di sguardo che la macchina da presa consente.
L’infanticidio è così ancor più la rivalsa e la liberazione da un’emarginazione subita; anche perché il film dà uno spazio consistente all’identificazione soggettiva con Medea e con la sua vita interiore: basta ricordare l’incipit in cui la protagonista si macera in totale solitudine e parla a lungo con se stessa; da Euripide ad Apollonio Rodio, da Corneille a Heiner Müller, il monologo caratterizza infatti da sempre questo personaggio, in quanto mezzo più adatto a formalizzare il suo tragico solipsismo.
Fra le attualizzazioni va infine brevemente ricordata la mini serie TV Medea (2005, postuma) di Theo van Gogh, ultima sua opera prima di cadere vittima dell’estremismo islamico; ambientata nel mondo della finanza e della politica olandese, con un Giasone fascinoso e arrivista, la serie risulta fortemente patinata e di facile effetto, e alquanto banalizzante; del mito di Medea manca proprio la componente etnica che più ci si sarebbe aspettati da van Gogh, mentre spicca comunque nel finale la vendetta della protagonista: l’eliminazione della rivale attraverso una collana avvelenata, e soprattutto l’infanticidio tramite un biberon al veleno con cui poi si suicida.
Il film più famoso tra quelli dedicati al mito di Medea, che lo ha associato a un’icona assoluta della passionalità melodrammatica e della recitazione espressionistica, Maria Callas, rientra chiaramente nel secondo modello delineato prima. Pier Paolo Pasolini trasforma l’identificazione con la barbarie di Medea in metafora di un modello antropologico di lunga durata, la civiltà contadina, fagocitato dal razionalismo borghese e neocapitalista (sul rapporto di Pasolini con il mito vedi in "Engramma" il contributo di S. Rimini Pasolini e la "voce addolorata" della tragedia, e il documentario Gassman, Pasolini e i filologi a cura di M. Centanni e M. Rubino).
Tutto costruito in forma bipolare, fin dall’incipit che raffigura un sacrificio umano officiato da Medea in un silenzio sacrale in contrasto con l’educazione di Giasone, il film esalta il mondo arcaico in quanto dotato di una sua diversa temporalità, di un suo pensiero peculiare; un mondo che viene violato dall'aggressione colonialista di Giasone, dettata da un cinico pragmatismo.
Per opera di un violento eros fisico, Medea perde così il legame profondo con il suo ambiente magico: come in Teorema, il sesso è il sostituto della sacralità. A differenza che nell’Edipo re (1967), in cui il mito era incastonato in una cornice contemporanea, in Medea Pasolini opta per un’ambientazione esclusivamente atemporale, radicalizzando la sua poetica della barbarie ("la parola al mondo che amo di più"). Grazie agli splendidi costumi di Pietro Tosi, e alle riprese in Siria e nei luoghi del cristianesimo primitivo della Cappadocia, si ottiene una contaminazione eclettica di culture arcaiche, che mira appunto a universalizzare il mito di Medea e a farne un simbolo di una civiltà transnazionale.
Ciò non toglie che non vi sia nel film una dialettica fra mito e storia, anche solo dal punto di vista dell’ambientazione: la Piazza dei Miracoli di Pisa, che rappresenta la reggia di Creonte, visualizza infatti la civiltà borghese ai suoi albori, e crea un’intenzionale dissonanza con gli scenari arcaici. La caratteristica più eclatante e sconcertante del film, la lunga ripetizione quasi letterale della vendetta di Medea, contrappone (anche dal punto di vista dello stile di ripresa) una versione magica degli eventi – che, grazie alle sovrimpressioni, prima o poi decodifichiamo come fantasia onirica della protagonista – e una versione reale, in cui la rivale si suicida e non viene eliminata tramite il veleno. Anche in questo caso, che pure è totalmente ambientato in un passato assoluto, il mito si configura dunque come un sogno che spezza la logica dominante degli eventi, e introduce una visione diversa e dirompente (una scelta che, come abbiamo visto, verrà ripresa da Stöckl e Ripstein).
Del tutto in controtendenza rispetto alle Medee novecentesche, in quanto non valorizza la componente etnica, la Medea di Lars von Trier (tratta dalla sceneggiatura non realizzata di Dreyer, che aveva già pensato a Maria Callas come protagonista) è la versione più radicale del nostro secondo modello. La barbarie di Medea viene qui del tutto assolutizzata (sul film di Von Trier v. in questo numero di "Engramma" i contributi di Stefania Rimini e di Andrea Rodighiero).
Si tratta di un film per la Tv del 1991, quindi comparso prima che von Trier raggiungesse la notorietà internazionale con la vittoria a Cannes de Le onde del destino, ma è già a tutti gli effetti un suo film, girato con stile onirico e manierista, la macchina da presa spesso mossa a mano (ma non mancano lunghi carrelli dall’alto) e una fotografia sgranata, color seppia (le regole del famoso Dogma 95 non erano state ancora formalizzate); dreyeriana è comunque la recitazione scarna, spesso sussurrata, e la preferenza per i primi piani di volti espressivi, inquadrati obliquamente dal basso: quasi a citare le tecniche del muto.
Dreyer avrebbe voluto fare le riprese in Grecia; il film ha invece un’ambientazione nordica e spettrale, in una serie di pianure desertiche, paludi e acquitrini, ripresi in frequenti campi totali e in panoramiche dall’alto. Si ritrova quella fascinazione per un paesaggio indistinto e infinito, quel gusto per spazi come isole e deserti che caratterizza tanto cinema di ricerca (soprattutto Antonioni).
L’elemento acquatico, che nel mito è associato da sempre a Giasone e al suo ruolo di conquistatore (Pasolini ha costruito la sua rilettura sull’antitesi acqua/fuoco legata ai due protagonisti) è presente in modo ossessivo in tutto il film, anche a proposito di Medea: come nelle due scene in cui incontra Creonte e Giasone all’aperto, vicino a un telaio, in un acquitrino nebbioso. Von Trier vuole ricreare così una dimensione primordiale e ancestrale, in cui dominano la natura selvaggia e l’animalità: una delle trovate più riuscite riguarda per l’appunto un animale sempre associato a Giasone, il cavallo, che viene colpito dalla corona avvelenata destinata da Medea come dono nuziale alla rivale. Sfruttando tutte le potenzialità espressive del montaggio alternato, ampiamente usato anche da Dreyer in Giovanna d’Arco e in Dies Irae, von Trier racconta il primo atto della vendetta di Medea tramite uno spostamento figurale e prolettico, raggiungendo una singolare concitazione emotiva: si alternano infatti le inquadrature del cavallo imbizzarrito che corre a morire verso il mare, quelle di Glauce che si aggiusta la corona, ancora ignara della prossima fine, e infine quelle assai inquietanti di stormi di uccelli.
Lo scarto più vistoso riguarda il nucleo portante del mito, l’infanticidio: invece della scena dolce e materna immaginata da Dreyer, troviamo una delle realizzazioni più conturbanti nella storia della ricezione moderna di questa tragedia. La sequenza inizia con un’inquadratura spettrale, di grande forza drammatica: Medea trasporta su un carro i due figli, come se stesse arando la terra, come se questo fosse l’ultimo giogo da sopportare per ottenere una liberazione. In sovrimpressione si vedono poi flash della morte di Creonte, e nella colonna sonora si odono i suoi rantoli violenti, emessi in una caverna dal colore rosso cupo. La tecnica era stata usata da Pasolini nelle sue valenze magiche per sottolineare il carattere allucinatorio della visione con cui Medea immagina la propria vendetta. Von Trier la reimpiega in una forma più radicalmente visionaria e antinaturalista, che può ricordare la pittura di Füssli: è una sequenza quasi di horror, genere che il regista danese riscriverà liberamente nel serial The Kingdom.
Medea raggiunge alla fine un albero isolato al centro di uno sconfinato campo di grano, su cui splende una luna sinistra (è fra l’altro il logo del film). Ai due lunghi rami impiccherà i due bambini con la collaborazione attiva e suicida del primo, che ha capito e sembra approvare il gesto terribile della madre, in una scena dominata dal silenzio, dai dettagli e dai primissimi piani sul tormentato volto di Medea. Anche in questo caso la soluzione di von Trier va in controtendenza rispetto alle Medee novecentesche, che attenuano o eliminano l’infanticidio per ottenere una maggiore positività del personaggio, a scapito però talvolta (come in Christa Wolf), della tensione tragica, che qui diventa invece estrema.
Von Trier radicalizza la scarnificazione del progetto dreyeriano, calandolo in contesto primitivo, anzi atemporale. La barbarie di Medea diventa così una dimensione assoluta: quasi una metafora della natura e della terra.
Un senso sintetizzato molto bene dalla prima inquadratura del film, che mostra Medea distesa con gambe e braccia aperte a croce sulla riva del mare, in parte coperta dalle onde e con le mani violentemente conficcate nella sabbia.
Vorrei concludere con il più recente film ispirato dal mito di Medea, ormai oltre il Novecento, Medée Miracle (2008) di Tonino de Bernardi, figura importante dell’underground italiano (ambiente da cui era nata anche la Medea di Pia Epremian del 1969) già approdato alla riscrittura del mito con un’Elettra. Si tratta di un caso in fondo intermedio fra i due modelli di cui abbiamo trattato sinora: l’ambientazione è chiaramente contemporanea, e ricca di attualizzazioni.
Medea è una straniera, un’immigrata in Francia (anche se, significativamente, lei stessa non dichiara di quale provenienza, sottolineando che non ha importanza), che si guadagna da vivere cantando in un night club (una splendida canzone di Nick Cave e Marianne Faithful, Crazy love): in un tribunale deserto e spettrale, un Creonte molto anziano ripete luoghi comuni della mentalità colonialista, riuscendo a farle negare l’affidamento dei figli. È dunque un film politico, come dimostrano anche le numerose inquadrature dei roghi nelle strade, che evocano i noti conflitti nelle banlieue parigine, e al tempo stesso trasformano il fuoco in un motivo simbolico che, come in Pasolini, connota l’universo arcaico di Medea. Siamo infatti assai lontani da ogni forma di didascalismo: lo stile è allusivo, ellittico, elegiaco, e sfrutta sistematicamente diverse tecniche di straniamento, come la divisione in episodi numerati (molto amata dalla nouvelle vague), lo stacco in nero fra due momenti di un dialogo, il passaggio improvviso al bianco e nero.
Il nucleo portante del film è, ancora una volta (ma con modalità tutte specifiche), l’identificazione con Medea: soprattutto grazie a una sua stravolta flanêrie attraverso le strade della metropoli, mentre monologa sola o accompagnata dalla nutrice. Isabelle Huppert, che aveva interpretato il ruolo già più volte a teatro, incarna perfettamente questo sguardo dilaniato: una Medea che reagisce al tradimento di un Giasone insolitamente sofferto e simpatetico (Tommaso Ragno) con i riti della promiscuità sessuale, ma che non trova la forza di compiere alcuna vendetta (con la rivale, la figlia del sindaco, dopo una prima aggressività si stabilisce una solidarietà che è un tratto comune a molte riscritture moderne a partire dalla Norma). Anche questa Medea, come quelle di Christa Wolf (che per prima ha recuperato la tradizione pre-euripidea dell’uccisione dei figli per mano della folla di Corinto, e non della madre), Reinhaldo Montero (poeta cubano che ha compiuto un’operazione simile per via indipendente), Darko Lukic, Irina Possamai e Oskar Strasnoy, non è infanticida: l’uccisione dei figli è solo una tentazione, che emerge in un momento di scarto onirico dall’universo reale segnato da una musica percepita solo dalla protagonista, e diventa poi una fantasia allucinatoria e ossessivamente ripetuta di se stessa con le mani insanguinate, come un Leitmotiv che spezza la linearità del racconto. Ancora una volta il mito è solo sognato: è una traccia mnestica. Il finale del film cerca infatti di superare il nichilismo tragico, immaginando una sorta di miracolo laico, e di conversione di Medea verso la condivisione della propria esperienza di emarginata.
Colpisce la varietà di soluzioni espressive e narrative che assume questo mito sullo schermo, segno della sua vitalità potente; ma colpiscono anche alcune costanti, come l’identificazione piena nella soggettività di Medea, la valorizzazione della barbarie di volta in volta come esplorazione antropologica dell’altro, contestazione politica, o dimensione metafisica; e infine l’uso del sogno per visualizzare tanto la distanza fra mito e storia, quanto il loro intreccio profondo: presupposto fondamentale per riproporre la tragedia greca oggi sullo schermo.
* Una versione leggermente diversa di questo lavoro apparirà negli atti del convegno Metamorfosi del mito classico nel cinema, tenutosi nell’ottobre 2008 a Venezia, presso l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Vorrei ringraziare Ida Di Benedetto per avermi procurato una copia del film di Ula Stöckl e per avermi concesso un’intervista telefonica.