1.
Due codici autografi – conservati rispettivamente presso la Biblioteca Estense di Modena (Lat. 466 = X.1.6) e la Biblioteca Marciana di Venezia (Lat. VIII, 26 = 3268) – trasmettono un trattatello astrologico di Pellegrino Prisciani, intitolato Orthopasca, e offrono insieme una doppia serie di immagini, entrambe di mano dell’autore, nella forma del disegno preparatorio e dell’illustrazione (Bastianello 2019). L’umanista e astrologo ferrarese (probabile responsabile, tra l’altro, del programma del ciclo dei mesi di Palazzo Schifanoia) sostiene in questo scritto la riforma del calendario giuliano, ovvero la correzione dell’errore secolare rispetto al calendario astronomico per la determinazione della Pasqua (da cui il titolo di “vera Pasqua”). Prisciani aveva dapprima pensato di dedicarlo a Giulio II, pontefice notoriamente sensibile alla questione, e quindi, sopraggiunta la sua morte, al successore Leone X, come testimonia la rasura del nome del primo e la sostituzione con quello del secondo. Se questa è dunque avvenuta dopo il 1513, la composizione del trattato e la prima dedica si situano invece senz’altro nel 1508, come una notazione di partenza, poi corretta, recitava: “ut currenti hoc anno gratia Legis nostrae millesimo quingentesimo octavo” (si sottolinei il rilievo del riferimento per l’espressione della data alla “nostra legge”, qui non semplicemente usuale). Nell’immagine di apertura, esplicata dal testo, Prisciani si è autoraffigurato nell’atto di porgere al papa il suo libro, mettendo la propria offerta in parallelo nientemeno che a quella di Dinocrate ad Alessandro Magno, con un gesto ben significativo delle sue ambizioni, che superano la questione in sé della riforma del calendario per una più ampia istanza di rinnovamento. Nulla ci è noto rispetto a un’avvenuta trasmissione, dopo la revisione, a Leone X, mentre sappiamo sicuramente il codice essere appartenuto in anni successivi a Tommaso Giannotti Rangoni, detto Ravennate o Filologo (1493-1577), dalla cui collezione veneziana, attraverso il passaggio al Convento del Redentore alla Giudecca, esso giunse poi alla Biblioteca Marciana che lo conserva. Peraltro agli interessi astrologici di Tommaso Ravennate, e alla sua produzione di vaticini, risulta strettamente pertinente proprio l’interesse per la riforma del calendario giuliano, che egli seguì su istanza del cardinale Domenico Grimani, mentre questi si trovava a Roma nel 1516, e dunque nel periodo del pontificato di Leone X (Bacchelli 2000).
Cosa rappresentino le immagini dell’Ortopascha è assolutamente certo, in relazione al testo che accompagnano e alle fonti in questo citate. Tre “antichi” ebrei – depositari del “vero sapere” astrologico a cui i cristiani dovrebbero attingere per riformare il loro fallace calendario – sono in due di esse rappresentati nell’atto di osservare le fasi lunari e nel riconoscere la luna che annuncia la Pasqua e l’anno nuovo, col carico ulteriore di pendenze sapienziali e simboliche di rinnovamento assegnato all’atto. Come ha scritto Giulio Busi, l’opera di Prisciani rappresenta nientemeno che il “primo caso noto di un tentativo di illustrazione di tradizioni ebraiche talmudiche da parte di un cristiano”. La dichiarazione polemica a proposito dell’arroganza degli ebrei appare in esso assolutamente strumentale e niente affatto connotata da istanze antigiudaiche, laddove è evidente che “l’erudito ferrarese si accosti ai testi ebraici secondo lo spirito della filologia umanistica e riconosca alla letteratura rabbinica lo statuto di fonte autonoma e legittima” (Busi 2007, 75-77).
Prisciani cita, infatti, in ebraico traslitterato in caratteri latini, Esodo 12,2 (“Mensis iste, vobis principium mensium: primus erit in mensibus anni”) e 13,4 (“Hodie vos egredimini mense novarum frugum”), ovvero i luoghi che si riferiscono al comando divino a Mosè e Aronne per la fondazione del calendario e l’individuazione dell’inizio dell’anno. Ma, soprattutto, si rifà al trattato Rosh Hashanah del Talmud (introducendo il cenno con l’affermazione “ut thalmutistae omnes testantur”) in rapporto al Rosh Chodesh, al mese lunare della tradizione ebraica. Questa, in breve sintesi, la scaletta degli argomenti del trattato: Dio ordinò a Mosè di far cominciare il calendario dall’equinozio primaverile; l’anno ebraico principia dal mese di Nisan (il riferimento “Mense primo cuius vocabulum est Nisan” viene dal luogo parallello di Esther 3,7), da identificarsi con Aprile. Dal Talmud è infatti ripreso il collegamento alla creazione del mondo in tale mese: “Dicebant et enim eorum aliqui, quos etiam secutus fuit Rabi Josue: BENYSAN:NIVRA:AOLAM: Mense primi creatus est mundus”; luogo già noto, due secoli prima, a Niccolò di Lira nella sua Postilla al Genesi e all’Esodo (Busi 2007, 73-74 e n. 11). Altre disquisizioni sull’etimo di prima veris completano il quadro, col ricorso ulteriore al repertorio poetico, per la stagione in cui la natura offre “virgulta, frondes ac flores arborum atque herbarum”. Il Virgilio delle Bucoliche è ovviamente l’Homerus noster cui il testo allude, come si evince dalla citazione “Nunc frondent silvae nunc formosissimus annus”, che rinvia alla III Ecloga (“Dicite, quandoquidem in molli consedimus herba: / et nunc omnis ager, nunc omnis parturit arbos, / nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus”).
Nella prima delle due illustrazioni che traggono spunto dal Talmud appaiono tre astrologi : due in piedi e uno seduto, intenti a osservare le fasi lunari, rappresentate in alto da tre lune, in sequenza [Fig. 1a]. Il raccordo al testo riguarda il passo che tratta dell’antica pratica dell’osservazione lunare “apud primos padres illos, et seniores hebreos”. Ma nel passaggio dal disegno all’illustrazione [Fig. 1b] uno dei tre astrologi viene differenziato come giovane, e i seniores si riducono dunque a due [Fig. 1b]. Nel disegno di partenza, infatti, i tre astrologi appaiono identici, tutti con barba e turbante, uniformemente connotati come antichi vecchi sapienti, mentre nell’illustrazione uno di loro, collocato al centro e privato di tali attributi, viene distinto come imberbe o più probabilmente con barba rada, a capo scoperto, con veste di foggia e colore diverso, intento a guardare alla luna centrale o, come sembra più plausibile dedurre, condotto dagli altri due a quell’osservazione. Ma non è tutto: nel disegno l’astrologo di destra siede su uno scranno, nell’illustrazione finale sopra un rialzamento naturale, o una montagnola del terreno, nel luogo aperto dove avviene l’osservazione lunare; infine, l’astrologo di mezzo, ringiovanito e posizionato al centro, regge con la sinistra i due lembi del suo diverso abito.
L’Orthopasca non offre un’equivalenza di parola dettagliata a quanto l’immagine mostra, e tantomeno alle variazioni rispetto all’impianto di partenza del disegno: dunque le “figure” estendono il loro compito e il loro significato oltre la lettera del testo e, in qualche modo, lo guadagnano. Nella modificazione del disegno originale si potrebbe ipotizzare una volontà di riflettere meglio in immagine, o svolgere, la ragione stessa del trattato, dove il personaggio non più vecchio, non più inturbantato, non più connotato da lunga barba, appare come l’astrologo nuovo, presumibilmente cristiano, che deve riconoscere e seguire, rifondando il calendario e il mondo, l’autorità degli antichi padri ebrei (ed, eventualmente, rappresentare i cristiani che prima dell’autore del trattato hanno visto o sostenuto tale relazione). L’illustrazione che a questa segue – più strettamente connessa al Talmud – presenta l’identica distinzione del giovane rispetto ai tre vecchi di partenza dall’uno all’altro manoscritto, nell’osservazione del novilunio [Figg. 2a, 2b]. Infatti, alle spalle dei tre personaggi, sopra un monte, in un luogo alto e tale da permettere una chiara visione, lontano dallo spazio cittadino (che ha i tratti di Ferrara), due “guardiani” segnalano la neomenia di cui parla il passo del Talmud citato nel testo. Una terza illustrazione, senza più la presenza degli astrologi scrutatori del cielo, rappresenta, infine, la Pasqua ebraica attraverso la macellazione rituale degli agnelli, a cui Dio assiste dall’alto, affacciandosi sopra le nuvole, anzi tra due lune [Figg. 3a, 3b].
2.
Un’immagine celeberrima viene alla mente a partire dai tre astrologi raffigurati nelle due illustrazioni di Prisciani, e in particolare in rapporto alla prima, per il numero, per la disposizione delle figure, per alcuni elementi particolari e, inoltre, per la prossimità o coincidenza cronologica (abbiamo visto che Prisciani stende originalmente il suo trattato nel 1508). Si tratta, ovviamente, de “la tela a oglio delli 3 phylosophi nel paese, dui ritti et uno sentado che contempla gli raggî solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco, et finita da Sabastiano Venitiano” [Fig. 4], secondo la descrizione di Marcantonio Michiel, in visita nel 1525 alla collezione di Taddeo Contarini, quindici anni dalla morte del pittore (seguo la trascrizione di Lauber, in Giorgione 2009, 191, con la specificazione che “a oglio” risulta aggiunto in sopralinea).
Si è ipotizzato che l’indicazione di soggetto offerta dall’appunto possa risalire al committente (si veda in particolare quanto al proposito osservato in Dal Pozzolo 2003, 262-263, e più ampiamente le pagine 252-265 dedicate al dipinto e alla storia delle sue interpretazioni e la ricchissima documentazione e discussione di Ballarin 2016, II, 1055-1405) o, con un’affermazione più prudente, al possessore del dipinto. L’indicazione risulta, in ogni caso, generica, posta la chiara connotazione quali astrologi posseduta da almeno due personaggi su tre, mentre precisissima appare l’informazione che segue, relativa alla “finitura” del dipinto da parte di Sebastiano Luciani. Contarini, che avrà accompagnato Michiel nella visita alla sua collezione, ne sarà con ogni probabilità la fonte. Quanto all’attenta registrazione relativa all’attitudine del “filosofo sentado” di osservare la luce del sole riflessa sul sasso, evidentemente più forte quando la tela non era stata ancora decurtata sul lato sinistro, essa potrebbe spettare a un’osservazione compiuta direttamente da Michiel.
“Terne” di “filosofi”, per collocare la prima indicazione, si ritrovano del resto nella tradizione coeva, in immagini, anche di servizio, e ciò potrebbe costituire un orizzonte di riferimento per la dichiarazione del soggetto. Un esempio assai ragguardevole, quanto pochissimo studiato, si offre nel ciclo (disponibile in una riproduzione completa solo in vecchie foto dell’archivio Zeri), presumibilmente di data assai prossima, formato da venticinque pezzi nello splendido soffitto a cassettoni un tempo appartenente a un palazzo veneziano, conservato presso il Musée Jacquemart-André di Parigi, attribuito a Girolamo da Santacroce o, soprattutto in anni più lontani, a Girolamo Mocetto [Figg. 5a, 5b, 5c]. Qui nella penultima fila (ognuna composta da cinque pezzi) – da sinistra a destra (con un collegamento di posizioni e sguardi) – si dà una terna ben paragonabile a quella di Giorgione, con tre figure, tutte in piedi, collocate davanti a un paesaggio che mostra sullo sfondo una città veneta murata. Un primo “filosofo” è intento a leggere da un libro aperto, un secondo, inturbantato, regge con la destra un astrolabio (mentre stringe con la sinistra la propria sciarpa e presenta una cintura con nodo centrale prossima a quella del “filosofo” di mezzo di Giorgione) e un terzo, con libro chiuso di grandi dimensioni posato a terra, tiene in mano un compasso. Per essi, ma certo sommariamente, si sono proposti i nomi di Aristotele, Tolomeo ed Euclide (per quest’ultimo spiccano però le dimensioni del libro, che meglio si presterebbero, eventualmente, al secondo perché più appropriate a carte geografiche o a mappe celesti). Si tratta di tre figure storiche, di tre rappresentanti di categorie o di tradizioni diverse? Difficile rispondere. L’unico dato evidente riguarda l’assenza di una scansione in tre età, essendo il terzetto formato da sapienti maturi e barbuti. I tre, ciò che forse più importa, risultano collocati in un sistema allegorico complesso, che comprende dèi pagani (Marte, Saturno, Diana, Mercurio), favole ovidiane (ratto di Europa, metamorfosi di Narciso e Adone), le quattro virtù cardinali più una quinta spaiata (forse la Fede, unica delle teologali), storie esemplari di virtù romana e veterotestamentaria (sacrificio di Lucrezia e di Muzio Scevola, giustizia di Traiano; Giuditta con la testa di Oloferne e David con quella di Golia, giudizio di Salomone) e quattro trionfi (dell’Amore, della Fama e due romani), in un collegamento tutto da studiare (e, come si vede, di forte relazione tematica al catalogo giorgionesco, praticamente non più considerato – se qualcosa non ci sfugge – dopo il breve cenno in Seznec 1981 [1939], 158).
Due dei “tre filosofi” di Giorgione – per cui, infatti, sono state proposte le terne di identificazione più disparate – tengono in mano un compasso: il primo e più giovane, seduto, sta misurando qualcosa che non possiamo vedere, e ha nell’altra mano un regolo (mi rifaccio a una puntuale descrizione relativa al fregio di Castelfranco, in cui la strumentazione astrologica occupa uno spazio considerevole: “il compasso […] utile a misurare in gradi e primi le distanze fra gli astri e i cosiddetti ‘regoli astronomici’ [che] permettevano di osservare empiricamente nel cielo, attraverso un ben calcolato sistema di fori e di tacche”: D’Amicone 2010, 27). Per altri si tratterebbe di un notturnale, o notturlabio, strumento astronomico usato per la misura del tempo mediante l’osservazione della stella polare e della posizione, rispetto a essa, di due brillanti stelle dell’Orsa Maggiore (ma con scarsa, mi pare, corrispondenza alla forma). Il terzo personaggio, il più vecchio, tiene pure nella destra un compasso, mentre con la sinistra esibisce un foglio con cifre e disegni.
In questo spicca nettamente lo schizzo di un’eclissi lunare, ben riconoscibile [Fig. 6], accompagnato da una didascalia esplicativa, letta come celum o simili, ma più plausibilmente sciolta come eclisi da Rosella Lauber, con una soluzione tanto più convincente per il tratto specifico della scempia, caratterizzante uno scrivente veneto (Lauber 2002, 106). Si tratta, dunque, di tre astrologi, anche se il secondo personaggio – definito dall’età di mezzo, in piedi e prossimo al vecchio, con cui sembra fare coppia – non esibisce strumenti perspicui a un’identificazione diretta, che sembra dunque da dedursi per contiguità. La sua mano destra appoggia col pollice, nascosto, al mezzo della cintura, in prossimità del nodo, e si trovava come rivelano le radiografie in una prima redazione alla stessa altezza ma libera: forse il dettaglio possiede una qualche attitudine simbolico-esplicativa, a ribadire la posizione mediana per età e sapienza, in una composizione da tricipitium, tra il vecchio che ha già calcolato e preso i suoi appunti e il giovane intento nell’operazione. Quanto alla mano sinistra e a quello che eventualmente può reggere, essa risulta coperta dalla figura del “filosofo vecchio”.
La proposta di ricondurre ai Re Magi i tre personaggi del dipinto giorgionesco muove da questo minimo (o forse non del tutto) denominatore comune, a partire da tale differenziazione nelle tre età, di portata tematica certamente assai più ampia ma comunque significativa. Se per l’identificazione con i Magi non si danno elementi probanti (in prima istanza, per il fatto che i tre “filosofi” non sono caratterizzati come tre re), resta il fatto che la tradizione iconografica tende a scandire le tre figure come un vecchio, un uomo di età mezzana e un giovane (al di qua della distinzione della loro provenienza dai tre continenti e dell’attribuzione a uno di essi della pelle nera).
Non vogliamo qui entrare nella fitta e varia discussione relativa ai pentimenti rilevati dalle radiografie a cui il dipinto giorgionesco è stato sottoposto e alle ipotesi sul loro significato. Ci limitiamo a osservare che mentre la figura di mezzo, quella dell’uomo maturo, rimane sostanzialmente immutata, notevoli e consistenti appaiono i rimaneggiamenti riservati alle altre due, che sembrano determinanti per la scansione tripartita. Il “filosofo giovane” aveva in una prima redazione il capo coperto da un berretto a tiara e presentava tratti fisiognomici diversi, presumibilmente meno giovanili (e per qualcuno degli interpreti diversamente inquietanti), mentre il “filosofo” di destra possedeva una barba assai meno lunga, oltre che un copricapo a raggiera, apparendo, per quanto si può ipotizzare, inizialmente meno vecchio. Non può, dunque, non colpire che oltre a un impianto esattamente sovrapponibile (con due astrologi in piedi e uno seduto in un paese) tanto nella messa a punto delle figure dell’Orthopasca, dal disegno preparatorio all’illustrazione, che nella stratigrafia pittorica dei Tre filosofi, la definizione dell’aspetto e della caratterizzazione delle figure risulti sottoposta a revisione, anche se nel percorso che guida Prisciani essa approda non a una tripartizione ma a una distinzione binaria.
Può questa notevole corrispondenza, di schema e di posizione delle figure giustificare l’ipotesi di una riconduzione anche tematica o di “soggetto” al dipinto di Giorgione del testo che contiene queste immagini, o quantomeno al suo panorama culturale di riferimento? Le vesti dei personaggi, come abbiamo detto, soprattutto per l’abito lungo e per l’assenza di barba lunga e turbante dell’astrologo giovane, sono assolutamente prossime a quelle dei “tre filosofi”. Essi potrebbero benissimo, dunque, con le loro vesti esotiche, pensarsi come tre antichi ebrei scrutatori del cielo, o una terna assortita che comprende un ebreo, secondo la variante che il passaggio dal disegno all’illustrazione ha condotto a ipotizzare. Sicuramente una tale identificazione è consentita dalla definizione generica in pittura in questo tempo delle fogge del popolo d’Israele, come mostra in particolare la barba e il turbante dei seniores hebreos delle immagini dell’Orthopasca e altri riscontri, per esempio col ciclo di Carpaccio per la Scuola veneziana di Santo Stefano, in cui, nel telero dedicato alla predicazione, conservato al Louvre, tra la folla appaiono vecchi ebrei con copricapi complicati. Un ebreo così connotato, da poter essere confuso con un arabo, appare per esempio nel pannello dedicato al Giudizio di Salomone nel ciclo poco sopra ricordato oggi al Musée Jacquemart-André o, per restare a Giorgione, nella tavoletta degli Uffizi con Mosè bambino sottoposto alla prova del fuoco.
3.
La cospicua letteratura critica dedicata ai cosiddetti Tre filosofi come tre astrologi, tra la tanta e varia (e spesso vana), risulta sostanzialmente bipartita tra proposte che suppongono i personaggi nell’atto di prevedere o calcolare eventi di rinnovamento del mondo o, al contrario, sconvolgimenti ciclici o catastrofi, del resto fittamente presenti nella pratica coeva dei vaticini, delle previsione astrologiche e delle profezie (per esempio, il possessore del manoscritto dell’Orthopasca, Tommaso Ravennate, medico e astrologo, si dedicò espressamente a questo genere: si vedano, tra gli altri, i suoi: Iuditio de lo anno MDXIIII; Iudicio suo del presente anno da lui pronosticato, dedicato al cardinale Achille de’ Grassi nel 1514, anche in parallela redazione latina; i Pronostici veneziani per gli anni 1518 e 1519, ricordati da Bacchelli, accanto al suo contrastato insegnamento di astrologia, dopo l’esperienza precedente del lettorato a Bologna, a Padova, e alle sue opere più famose, relative al pronostico relativo al grande diluvio previsto per il 1524). Ovviamente, l’una e l’altra polarità possono essere appaiate, posto che il disastro annunciato dalle stelle o la fine di un ciclo suppongono, necessariamente, una successiva rinascita. Ragionando sulle “figure” dell’Orthopasca, precisando questi riferimenti, si tratterebbe di pensare a una linea più specifica rispetto a un tale panorama generale di fondo e a un’elaborazione particolare in rapporto alla ricca serie di immagini che tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo vede astrologi solitari o composti in coppie o terzetti raffigurati nell’atto di osservare congiunzioni astrali, o genericamente collocati “nel paesaggio”, in un dialogo ideale tra il presente e il passato. Come, per esempio, mostra il frontespizio di una stampa veneziana del 1496 dell’Epitoma in Almagestum [Fig. 7], ove l’antico “principe” Tolomeo, immerso nella lettura del suo libro, è affiancato dal moderno Regiomontano, col libro invece chiuso in grembo, che lo addita e lo osserva, come si addice ai continuatori moderni.
Le ipotesi di “soggetto nascosto” (Settis) o di “soggetto rivisto” (Gentili) relative ai Tre filosofi hanno cercato traccia per una loro definizione sotto al dipinto, in relazione a particolari di una prima redazione a cui agganciare rinvii a fonti letterarie o visive. La supposizione relativa a un “moro” celato sotto al volto di uno dei “filosofi”, allo scopo di nascondere ai non iniziati un dato troppo marcato è stata però smentita da radiografie e riflettografie successive, che hanno riconosciuto qui semplicemente il fondo del pigmento per il contrasto di luce e ombra dell’unica fisionomia delle tre non sottoposta a rimaneggiamenti (e, d’altra parte, il Moro, Baldassarre, appare generalmente nella pittura coeva nel ruolo del più giovane dei tre magi, non di quello di mezzo). Gli elementi del vestiario e il volto forse più inquietante (se non si tratta solo di una definizione provvisoria) del “filosofo” giovane, hanno condotto Augusto Gentili a ipotizzarlo rappresentare l’Anticristo, pensando quindi non a pentimenti d’autore ma all’intervento postumo di Sebastiano, responsabile più che di una “finitura” di una revisione che allontana il dipinto dal significato originale. Da una parte, dunque, una redazione d’autore che renderebbe il soggetto meno facilmente decifrabile allo spettatore non iniziato, dall’altra un rifacimento edulcorato, o una vera e propria censura, che avrebbe trasformato per altra mano l’invenzione di partenza, rivelata dagli strumenti moderni come in un palinsesto. Una terza e più semplice spiegazione può limitarsi a pensare una rielaborazione in cui una più esplicita tripartizione si è definita in corso d’opera, tenendo peraltro fisso l’elemento, o l’età, centrale di una terna trasformata in tricipitium.
Possiamo, comunque, restando agli elementi sicuri, provare a offrire qualche altro ulteriore spunto e dettaglio. Una lettura più precisa di ciò che contiene il foglio del filosofo vecchio, nella rapida e forse approssimativa ma certo non casuale definizione del disegno dentro al quadro, sembra infatti permettere una qualche prosecuzione proprio al confronto intrapreso col trattato di Prisciani e col suo corredo iconografico. Sotto la figura in cui si riconosce un’eclissi lunare (come si è detto, con la didascalia eclisi che la accompagna) nella parte bassa del foglio – mi rifaccio alla descrizione di Gentili – si vede “un sole raggiante al tramonto, dove in parte si leggono e in parte si integrano le cifre da 1 a 7”. Osserverei che “al tramonto” sembra, più che dato obiettivo (anche se è obiettiva la riconduzione all’età del personaggio) un’anticipazione dell’ipotesi di soggetto proposta dallo studioso, che parte, come abbiamo ricordato, dalle tre figure quali rappresentanti delle tre religioni: ovvero di un “oroscopo delle religioni”, “ossia della teoria di un percorso ciclico attraverso sette età, collegate ai pianeti e alle grandi religioni, caratterizzato da un progressivo decadimento dell’universo e dell’umanità fino alla catastrofe conclusiva e alla rigenerazione in un ciclo rinnovato” (Gentili 2003, 23). Nella successione storica delle tre religioni monoteiste il “cristiano” non può però, evidentemente, per motivi di disposizione cronologica, occupare l’ultima posizione, dopo l’ebreo e il rappresentante dell’Islam, che dovrebbe essere dunque il più giovane. Da qui l’idea dell’annuncio o della previsione dell’incarnazione non del Cristo ma, appunto, dell’Anticristo, a partire dalle fattezze diverse e inquietanti della prima elaborazione della figura (che potrebbe, ovviamente, anche pensarsi, più semplicemente, solo provvisoriamente definita). Indubitabile, in ogni caso, il richiamo sul piano formale di Gentili alla prossimità del “filosofo” giovane al San Giovanni Battista di Sebastiano, nella pala della chiesa di San Giovanni Grisostomo a Venezia, che riporta agli anni 1510-1511, dopo la morte di Giorgione e prima della partenza per Roma di Sebastiano, che diverrà poi “del Piombo”. La mano sinistra dell’astrologo vecchio, che regge il compasso, copre in realtà (e qualche interprete si è anche chiesto perché) la parte inferiore del disegno della circonferenza raggiante, che è dunque possibile immaginare nella sua interezza. Da qui sarebbe dunque lecito pensare che la numerazione possa proseguire oltre il numero 7 nella parte coperta del disegno, che risulta poco meno della metà di quella visibile, quasi raddoppiando il numero esplicito.
Un’altra immagine nell’Orthopasca, che segue alle tre illustrazioni, riferite all’esperienza degli antichi ebrei (l’osservazione della luna, la proclamazione del novilunio, il rito della macellazione pasquale), ci offre, precisamente, un diagramma del cosmo nella forma di dodici cerchi concentrici [Fig. 8]. Il maggiore di questi appare, appunto, raggiante e all’esterno di esso è posto Dio padre, con aureola triangolare, insieme agli angeli, mentre osserva la sua creazione; all’interno, dopo la dodicesima e più piccola circonferenza, risulta collocata la terra. Le dodici circonferenze complessive rappresentano tre elementi (acqua, aria, fuoco) e le nove sfere (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, cielo stellato e stelle mobili). Bastianello ha confrontato puntualmente la figura dei dodici cerchi al trattato di Johannes de Sacro Bosco (che vedeva, peraltro, proprio a Ferrara, nel 1472, a cura dall’astronomo Pietro Buono Avogaro, coeva a una stampa veneziana, la sua prima edizione). A questa immagine ne segue nell’Orthopasca un’altra, dai dodici cerchi a una circonferenza simbolica, ovvero con la rappresentazione dell’Uroboro, il drago alato a due zampe, che forma una circonferenza, come dice il suo nome, mordendosi la coda [Fig. 9]. Immagine simbolica di grande diffusione, che amplia rispetto all’orizzonte strettamente ebraico – dall’Esodo al Talmud – il piano di significazione del trattato, alludendo all’eternità, all’unità e al rinnovamento del cosmo, che la riforma del calendario proposta da Prisciani suppone e sostiene.
Infine, il codice marciano contiene uno “strumento” che supera la dimensione dell’immagine verso quella tridimensionale da “libro animato” [Fig. 10]: una volvella, ovvero “un particolare meccanismo mobile, formato da tre dischi di pergamena sovrapposti e da un puntatore a lancetta, in grado di ruotare sui loro assi grazie a dei perni costituiti da piccoli pezzi di filo, annodati alle estremità, che attraversano le parti e le uniscono alla carta” (Bastianello 2019, 62; una corrispondenza alle volvelle lunari, per quanto riflesso dal disegno che l’astrologo vecchio esibisce, è stata peraltro indicata da Anderson 1996, 154). Chi tiene in mano il libro può dunque compiere, attraverso tale strumento, i propri calcoli, in una forma certo semplificata, ma che riprende le operazioni da condurre col compasso e col regolo. Sulla pagina del manoscritto preparatorio appare il disegno sommario di questo diagramma a tre dimensioni, così come nel “congegno” del manoscritto marciano, al centro dei cerchi concentrici, si legge la scritta Xa sphera (decima sfera). Nella realizzazione completa della bella copia, il maggiore dei cerchi si presenta come un anello diviso in dodici sezioni, contenente ciascuna il nome in latino e il simbolo del rispettivo segno dello zodiaco. Non posso qui intrattenermi su altre questioni e implicazioni che il trattatello di Prisciani apre nella lunga storia della tradizione: ne discuto altrove alcune in rapporto ai calcoli lunari della Commedia di Dante, tornando proprio a partire dall’Orthopasca da una parte al commento di Macrobio al Somnium Scipionis (su cui si veda la proposta di relazione a Giorgione per il ciclo di Casa Marta Pellizzari di Finocchi Ghersi 2012) e dall’altra alla Glossa ordinaria al Vecchio Testamento.
4.
Si permetta di collegare due notizie relative a Isabella d’Este Gonzaga, al solo scopo di introdurre sinteticamente altre relazioni. La prima è costituita dalla celeberrima attestazione relativa alla sua “caccia” a un dipinto di Giorgione, da poco morto di peste, che ella aveva avuto notizia doversi trovare nell’eredità di questi in data 25 ottobre 1510 (a tale proposito va ora aggiunto che la nota che accompagna un disegno nell’incunabolo dantesco di Sydney, da poco riemerso, ci offre, per la morte del pittore, se vogliamo darle credito, la data 17 settembre 1510, che collimerebbe perfettamente con i tempi della richiesta di Isabella al suo agente veneziano: Anderson 2019, Vescovo 2020). La seconda notizia riguarda un’altra delle molte “ricerche” della marchesana, e data al settembre di due anni dopo, quando nel 1512 è in traccia di un Libro dell’uso dei Salmi, scritto in ebraico e che vorrebbe far tradurre. Quel codice è oggi conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma e risulta copiato da un intellettuale ebreo di grande rilievo nella cultura ferrarese del tempo, ovvero il maestro Abraham Farissol, vale a dire proprio il probabile “consulente” di Pellegrino Prisciani per le citazioni in ebraico dell’Orthopasca (Busi 2007).
Nessuna pretesa da parte nostra di chiudere e forzare tale panorama culturale in immaginazione di programma specifico per il dipinto giorgionesco, ma solo un richiamo. Al netto di vecchie fantasie sulle origini ebraiche del pittore – smentite dalla ripresa di piste documentarie che negli ultimi anni lo hanno restituito a un padre notaio di nota famiglia di Castelfranco e, ora, a una madre, figlia di notaio, di Conegliano (Bortolanza 2021 e si veda ora l’importante conferma nel documento pubblicato nel presente numero di “Engramma”, che smentisce definitivamente le resistenze alle identificazioni documentarie fondatamente sostenute da Lionello Puppi) – il tema della cultura ebraica di Giorgione si pone, evidentemente, rispetto ad ambienti e personalità con i quali egli fu in rapporto, e ovviamente ai suoi committenti. Un percorso testimoniato fin dalle opere presumibilmente giovanili – come la già citata tavoletta della Galleria degli Uffizi col Mosé bambino alla prova del fuoco (in coppia con l’immensamente più praticato tema del Giudizio di Salomone) –, e in particolare dalla ricorrenza e dalla centralità nella sua produzione della figura di David, come abbiamo già ricordato, che giunge fino all’identificazione del pittore col personaggio, nel ritrarsi nei suoi panni, anzi nella sua armatura (un’armatura simbolica, quale rivestimento di virtù, che non possiede infatti alcun fondamento referenziale nella Sacra Scrittura: Vescovo 2011, 107-134). La medesima coppia di David e Giuditta dei ricordati affreschi del Duomo di Montagnana – a partire da un prezioso ritrovamento di testimonianza– riappare sulle ante di un armadio (forse destinato a contenere armi) di cui sopravvive solo quella, celeberrima, con Giuditta, dell’Ermitage ma che vedeva in parallelo un David (Lauber in Giorgione 2009, 199-202).
Una linea così specifica come quella additata nell’Ortopascha, addirittura con un retroterra di riconduzione talmudica, relativa alla rappresentazione della sapienza astrologica dei seniores hebreos (e, come abbiamo visto, probabilmente della sua continuità cristiana), può dunque meritare una qualche attenzione, offrendo possibili orizzonti di relazione “culturale”, sul piano del contenuto, alla sovrapponibilità iconografica delle immagini da cui queste riflessioni hanno preso il via.
L’ipotesi di un rapporto con la tradizione ebraica e il calcolo lunare, ma in ogni caso l’evidente riferimento astrologico, conduce a mio avviso a sospettare un committente originale del dipinto diverso dal ricco collezionista che lo possedeva nel 1525. La vicenda sarebbe, del resto, esattamente parallela a quella di altre tele, e in particolare del San Francesco in estasi di Giovanni Bellini, pure posseduto da Taddeo Contarini, per il quale Michiel riporta nel suo appunto direttamente il nome del committente originale. La storia di quest’opera è stata, a partire da questa notizia, ricostruita: commissionata da un pio patrizio, Giovanni Michiel, versato nell’esegesi francescana, quindi sicuramente acquistata dopo la sua morte dal ricchissimo mercante, che esibiva lo splendido dipinto nel salone del suo palazzo, tra i pezzi più rilevanti della sua collezione, accanto proprio ai Tre filosofi (Fleming 1982).
Qualche anno fa, inoltre, avevo osservato che un inventario, fatto stendere nel 1556, dopo la morte di Luca Contarini, figlio di Taddeo, testimonia la tela collocata nel portego grando del piano nobile del palazzo, non in una camera personale o in una stanza appartata, e dunque ben esposto alla vista dei visitatori. Rosella Lauber ha completato quell’osservazione verificando la scansione dei dipinti offerta dagli appunti di Michiel, ove i segni di divisione dei blocchi sembrano indicare il passaggio dall’una all’altra stanza del palazzo Contarini a San Marcilian durante la redazione di questi, confermando dunque la posizione del dipinto giorgionesco come originale (Lauber 2002, 105 e 115, note 102-103).
Da questa circostanza, dunque, provenivano e continuano a provenire i miei dubbi relativamente all’identificazione del possessore del dipinto come suo committente (anche se è sicura la notizia, di evidente peso, che Taddeo Contarini risulta commissionare a Giorgione un dipinto “in replica” nell’anno della morte del pittore: per un’ipotesi di identificazione si veda Vescovo 2011, 33-38). La complessiva fisionomia di Taddeo di Niccolò Contarini, più ampiamente, trasformato in mercante umanista, sembra, in generale, poco adatta all’idea di un “soggetto”, quale esso sia, certamente particolare e appartato. Niccolò, detto “el rico”, fu mercante di generi alimentari e il maggior importatore di carne a Venezia, controllore dell’intera corporazione dei “tagliatori” o beccai della città, detentore di un vero e proprio monopolio di mercato, come racconta il malevolo ma informatissimo Marin Sanudo, che descrive inoltre il patrizio come dedito al contrabbando, con tolleranza da parte dello Stato delle sue attivitò illecite, per la parentela col Doge Gritti e per il ruolo di Contarini quale informatore e prestatore di capitali allo Stato in momenti di necessità (la moglie del doge era imparentata con i Vendramin, e Taddeo aveva sposato la sorella di Gabriele Vendramin).
5.
Torniamo, in chiusura, al cardinale Domenico Grimani, in rapporto a un interrogativo che ha coinvolto molti interpreti dei Tre filosofi, fin dalla prima notizia in nostro possesso. Si tratta dell’oggetto di attenzione del “filosofo” giovane, distinto e appartato dai suoi due compagni, che – partendo appunto dalla nota di Michiel – “sentado contempla gli raggii solari cun quel saxo finto (“dipinto”) cusì mirabilmente”. Il vecchio e l’uomo di mezza età fanno coppia e guardano in direzione dello spettatore, mentre il giovane rivolge lo sguardo in altra direzione, dentro al dipinto, riservando appunto la sua attenzione al riflesso dei raggi solari o ad altro. Forse alla grotta, che occupava una cospicua porzione della tela originale (grandeta come la definisce un inventario), tagliata da un intervento successivo (come ci testimoniano riproduzioni sommarie del dipinto integro). Oppure egli rivolge il proprio sguardo oltre al “saxo”? (Condivisibile la precisazione di Anderson 1996, 154, sul fatto che “[il] n’a pas vraiment le régard tourné vers le soleil mais vers une zone lumineuse au-dessus de la grotte”). Difficile che egli calcoli qualocosa con regolo e compasso in rapporto a ciò che sta osservando, mentre sembra più plausibile che ciò che a cui ora guarda lo abbia distolto dai calcoli e pensieri in cui era immerso. Si tratta, appunto, di questioni che la critica si è posta varie volte, con le proposte più diverse e le supposizioni più varie: per esempio pensando non a una ma a due fonti di luce, immaginando il riflesso della cometa dell’annuncio della nascita di Cristo (futura, in quella stessa grotta) ai Magi rispetto a un sole all’alba o al tramonto sul paesaggio retrostante (Settis).
Il nome di Domenico Grimani (1461-1523), che abbiamo fatto poco sopra in relazione a Tommaso Rangoni, il possessore del codice dell’Orthopasca (quest’ultimo troppo giovane, ovviamente, per supporlo in relazione con Giorgione, nonostante i suoi rapporti diretti con artisti delle generazioni successive, si veda il suo ritratto nel Miracolo dello schiavo di Jacopo Tintoretto per la Scuola Grande di San Marco) ci riconduce al campo dei probabili committenti e dei sicuri facoltosi collezionisti di opere di Giorgione. Egli, infatti, nel 1516 accompagnò come medico a Roma il cardinale Domenico Grimani, conosciuto presumibilmente nei mesi precedenti a Bologna, e qui si dedicò, come abbiamo già ricordato, alla questione della riforma del calendario, dibattuta nelle ultime sessioni del concilio Lateranense, tenendo allo Studio di Roma, tra il 1516 e il 1517, una lezione di astronomia (Bacchelli 2000).
Lo stesso Marcantonio Michiel visita la collezione ereditata dal nipote di Domenico, Marino Grimani, anch’egli cardinale, nel 1528, registrando – tra preziosi quadri fiamminghi e il meraviglioso Breviario – due dipinti di Giorgione, di cui uno il celebre autoritratto in veste di David, ricordato anche da Giorgio Vasari. Un dipinto che Domenico potrebbe avere acquistato o addirittura commissionato, se si mettono in relazione alcuni dati: l’essere egli, da una parte e in generale, uno dei maggiori conoscitori della cultura ebraica nell’Italia di quest’epoca (oltre ai rapporti con Elia del Medigo, Abramo di Balmes e altre figure di grande rilievo, basti ricordare che egli acquistò la biblioteca di Pico della Mirandola), e, dall’altra e in particolare, per avere egli ricoperto tra le varie cariche quella di titolare del Duomo di Montagnana (gestendolo attraverso un vicario) negli anni tra il 1497 e il 1508, ed essere dunque con ogni probabilità il committente dei due affreschi con David e Giuditta presso questo, ragionevolemente attribuiti, soprattutto in anni recenti, a un giovane Giorgione (si ricordi per la relazione del pittore con Montagnana il celebre disegno, conservato a Rotterdam, che offre un’indubitabile veduta del luogo).
Non si può non pensare al cardinale Domenico Grimani, cogliendo una suggestione che, ancora una volta, rinvia a un panorama culturale più ampio, che non intendiamo chiudere in accoppiamenti eccessivamente giudiziosi, come troppo spesso accade alle interpretazioni giorgionesche. L’impresa del cardinale – che più che un motto presenta una doppia identificazione didascalica riferita alle due figure dell’immagine che accompagna, THEOLOGIA / PHILOSOPHIA – proviene dal verso della sua medaglia col suo ritratto [Fig. 11] (Dal Pozzolo 2009, 209-213, e si veda ancora, in particolare, il richiamo della medaglia proprio per l’attitudine riferita all’osservazione dei raggi solari sul sasso – secondo la descrizione di Michiel – al “filosofo sentado”). Una giovane donna, a capo scoperto, coi capelli raccolti e le vesti in movimento, tiene con la sua sinistra la mano di un’altra donna, seduta sotto a un albero, col capo chino e velato, con un libro aperto in grembo, e addita alle sue spalle un sole, che ella dunque non vede, di cui invece noi possiamo scorgere in alto alcuni raggi e una piccola porzione della circonferenza. Evidente il significato di questa immagine simbolica, che rappresenta l’orizzonte culturale e ideale del cardinale: la Teologia addita la luce del sole alla Filosofia. La Filosofia di quel sole può vedere, guardando al terreno, appena il riflesso.
Se la luna e il calcolo dei pianeti stanno nel foglio del “filosofo” vecchio, con un probabile sole raggiante al limite dei dodici cieli, in un calcolo forse condiviso col “filosofo” di mezzo, il vero sole (o il lume che sta alle spalle del “filosofo” giovane), riverberandosi sul sasso, potrebbe indicare un’attitudine e un significato ben confrontabili a quelli dell’impresa del cardinale. Non necessariamente per una connessione diretta (anche se essa non risulterebbe, tra le tante proposte, particolarmente spericolata), ma per una plausibile pertinenza di ambiente culturale.
Qui il versante allargato dei “filosofi” e il versante ristretto degli “astrologi” tornano a mostrare gli intrecci complessi delle due definizioni o “sfere”, ove la seconda si può comprendere nella prima e più generale. Così la nostra ipotesi di un rapporto possibile con le immagini di Pellegrino Prisciani, dei suoi tre, e alla fine due, veteres astrologi, con la loro distinzione in corso d’opera rispetto all’astrologo giovane, presumibilmente cristiano, acquista una qualche proponibilità. I percorsi dell’immaginazione figurativa che accompagnano il testo che vede nella Pasqua ebraica una rifondazione del calendario e del mondo, potrebbero relazionarsi, di qui, a un panorama più ampio (uso volutamente il condizionale) di riferimenti culturali espressi in immagine.
Riferimenti bibliografici
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J. Anderson, K. Wilson, N. Newbigin, J. Sommerfeldt, Giorgione in Sydney, “The Burlington Magazine”, CLXI [1392] (2019), 190-199. - Bastianello 2019
E Bastianello, Un manoscritto ferrarese a Venezia: la copia dell’Orthopasca di Pellegrino Prisciani alla Biblioteca Nazionale Marciana, in “Codices. Manuscripti & Impressi” 116-117 (luglio 2019), 49-64. - Bacchelli 2000
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A. Gentili, Tracce di Giorgione. La cultura ebraica e la scienza astrologica, in Giorgione. “Le maraviglie dell’arte”, catalogo della mostra (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 2003-2004), a cura di G. Nepi Scirè e S. Rossi, Venezia 2003,19-31. - Giorgione 2009
Giorgione, catalogo della mostra (Castelfranco Veneto, Museo Casa Giorgione 2009), a cura di E.M. Dal Pozzolo e L. Puppi, Milano 2009. - Settis 1978
S. Settis, La Tempesta interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Torino 1978. - Vescovo 2011
Vescovo, La virtù e il tempo. Giorgione: allegorie morali, allegorie civili, Venezia 2011. - Vescovo 2020
Vescovo, Tra Sydney e Castelfranco. Note giorgionesche, in “Arte Veneta” 76 (2020), 188-194.
English abstract
This contribution aims to consider the proximity of Giorgione’s famous painting The Three Philosophers with the images of two autograph codices in the treatise devoted to the reform of the Gregorian calendar, The Orthopasca, written by Pellegrino Prisciani between 1508 and 1513. The main goal of the article is not to propose a ‘new interpretation’ of the masterpiece, but to highlight the role played by astrological debate in those years. It purposes to provide a deeper understanding of Giorgione cultural environment strictly connected with Cardinal Domenico Grimani and his entourage.
keywords | Giorgione’s Three Philosophers; Pellegrino Prisciani; Reform of the Julian calendar; Christian and Jewish Easter; Domenico Grimani
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: P. Vescovo, Tre astrologi e la luna, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 13-34 | PDF di questo articolo
To cite this article: P. Vescovo, Tre astrologi e la luna, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 13-34 | PDF of the article