Appiano, Le guerre civili 2.110.459, 2.111.462: “Egli, deluso, o stanco lasciando perdere ormai questo tentativo ed evitando l’accusa, o per staccarsi dalla città per via di certi nemici, o per curare una sua malattia, cioè l’epilessia e le improvvise convulsioni che lo coglievano soprattutto nei periodi di inattività, decise di fare una lunga spedizione contro Geti e Parti. [...] Quattro giorni prima che partisse, i nemici lo uccisero in Senato perché invidiosi della sua buona sorte e del suo potere, divenuto veramente eccessivo o, come dicevano loro, per nostalgia della costituzione dei padri, affinché egli (giacché lo conoscevano bene), una volta sottomesse anche queste genti, non diventasse senza alcuna opposizione re.”
Gelosie, invidie, rancori, paura di ulteriori concentrazioni di potere, onori e gloria, misero in moto una spietata macchina che in due tempi stritolò Cesare. Prima, con la demolizione dell’uomo condotta sul piano morale, privato e pubblico: sodomita, sessualmente irrefrenabile verso le donne, superbo e ambizioso oltremisura, un autentico campione di hybris, soggiogato da una perfida regina straniera, Cleopatra, e aspirante al regnum. E dopo, una volta indebolita l’immagine e sparso il veleno sulla sua pericolosità, con la soppressione fisica: poiché Cesare voleva farsi re, o forse – sostenevano – lo era già in quanto dittatore a vita, bisognava eliminarlo. Con efficace slittamento semantico da dictator a tyrannus, si costruì una propaganda e una retorica contro Cesare culminante appunto nelle Idi di marzo del 44 a.C. La Tavola di Privernum oggi dimostra la totale infondatezza di questa rappresentazione. Cesare non fu dittatore a vita, accanto a lui vi era Lepido magister equitum anch’egli perpetuus, termine che esprimeva la deroga temporale alla durata massima della magistratura perché fondata sulla durata incerta della missione orientale.
Propaganda o, come va di moda oggi dire, fake news, un documento straordinario è il denarius del 43-42 a.C., tanto eloquente da renderne quasi superficiale un commento. Sul recto è effigiato il volto di Bruto (e non di Cassio) in quanto leader (e tra tutti il più nobile) della congiura, mentre il verso reca un pileus, tipico copricapo di matrice orientale/persiana divenuto in ambito romano il berretto donato dai padroni agli schiavi al momento della manomissione, dunque un simbolo di libertà, tra due pugnali con la sottostante legenda EID • MAR. Vi è soltanto da osservare, che proprio coloro che accusavano Cesare di avere tendenze autocratiche di marca orientale attingevano alla relativa simbologia, piuttosto che alla tradizione romana; una scelta persino umiliante, quella di paragonare se stessi e il popolo romano a dei liberti, e tuttavia assai efficace nel rappresentare un Cesare in vesti tiranniche secondo il cliché ellenistico.
Un vero paradosso. A dispetto dell’infondata accusa di adesione a concezioni e tratti dell’ellenismo orientale, quel sincero romano dietro una precisa opzione ideologica, per legittimare il crimine, fu fatto morire come un qualunque tiranno greco, abbattuto dai pugnali di aristocratici sedicenti difensori della libertà. Due secoli fa già Napoleone con assoluta acutezza aveva visto la reale sostanza politica della vicenda, tanto da scrivere così nei suoi Précis des guerres de César: “Bruto assimilò Cesare a quegli oscuri tiranni delle città del Peloponneso che, godendo del favore di alcuni intriganti, usurpavano l’autorità nelle loro città”. Fu propaganda, dunque; propaganda politica e null’altro, sapientemente elaborata, costruita sull’equazione dictator = tyrannus e condotta con ogni mezzo di comunicazione soprattutto pubblica e istituzionale, i cui opposti simboli erano il diadema del tiranno e il pileus dei liberatori/liberati. La figura del dictator romano non aveva niente in comune con il tyrannus greco e soltanto negli ultimi tempi la commistione di elementi differenti aveva portato a una confusione, una sorta di figura ibrida che permetteva, per esempio, a Dionigi di Alicarnasso di parlare della dittatura come di una tirannia elettiva (Dion. Hal. V, 73, 1-3). E questa confusione dall’antichità si è trasmessa integra sino ai nostri giorni, ma non vi è più alcuna ragione di perpetuarla ancora.
*Il denario di Bruto oggetto di questa nota è l’immagine che compare nella quarta di copertina di Orazio Licandro, Cesare deve morire. L'enigma delle Idi di marzo, Milano 2022.
English abstract
The new inscription of the Fasti of Privernum mentions both Caesar’s dictatura perpetua in 44 BC and Lepidus’s office of magister equitum perpetuus . The epigraph allows to reconsider the thesis according to which Caesar wanted a dictatorship for life, or a Hellenistic monarchy, since perpetuus may also mean ‘in power until the end of Parthian war’.
keywords | Julius Caesar; dictator perpetuus; tyrannus; adfectatio regni; res publica.
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(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: O. Licandro, Dictator o tyrannus?. Propaganda in figura, in un denario di Bruto, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 95-97 | PDF di questo articolo
To cite this article: O. Licandro, Dictator o tyrannus?. Propaganda in figura, in un denario di Bruto, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 95-97 | PDF of the article