Oscar Wilde, “Hardly a Christmas Present”, Always Present
Editoriale di Engramma n. 187
Elisa Bizzotto e Massimo Stella
English abstract
25 novembre 1897. Oscar Wilde sta scrivendo una lettera da Posillipo, dove risiede da un paio di mesi dopo avere trascorso del tempo in Francia e, soprattutto, dopo aver finito di scontare, a maggio, i due anni di carcere ai lavori forzati ai quali era stato condannato per “gross indecency”, atti osceni. Finalmente libero, Wilde ha deciso di abbandonare per sempre l’Inghilterra, dove gli sarebbe stato impossibile condurre un’esistenza anche solo in parte serena, e di trascorrere il tempo che gli rimane da vivere – più o meno tre anni – nel Continente. Dal soggiorno campano, nel quale è tornato a fargli compagnia l’amato Lord Alfred ‘Bosie’ Douglas, non trascura la propria carriera letteraria, non tanto per una compulsione a scrivere, piuttosto perché sta lottando contro problemi economici drammatici. Si preoccupa, dunque, delle sorti editoriali della sua ultima fatica, La ballata del carcere di Reading, composta appena fuori di prigione e in procinto di essere stampata. Con Leonard Smithers, l’editore più controverso della Londra tardo-vittoriana – l’unico che gli metta a disposizione i propri tipi, ma a patto che l’opera appaia anonima – sta trattando tempi e termini di edizione. In quella lettera del 25 novembre, Wilde riferisce di questi accordi all’amico più fedele, nonché suo futuro esecutore testamentario, Robert Ross. Con l’autoironia che non l’ha mai abbandonato, Wilde esprime a Ross le proprie considerazioni sul momento più conveniente per dare alle stampe la Ballata, in una battuta che – avulsa da ogni contesto, come quasi sempre accade per gli aforismi wildiani – è divenuta celebre: “Dear Robbie, […] I think after Christmas would be better for publication: I am hardly a Christmas present” (The Letters of Oscar Wilde, ed. by Rupert Hart-Davis, New York, 1962, 684).
Seguendo l’auspicio di una pubblicazione posticipata, dato che Wilde non si sentiva affatto un “regalo di Natale”, La ballata del carcere di Reading uscì addirittura il 13 febbraio 1898 quando lo scrittore, stanco degli scarsi stimoli intellettuali e – sorprendentemente – della vita licenziosa che l’Italia gli offriva, si apprestava a partire per Parigi, che sarà da lui eletta a residenza privilegiata fino alla morte. E propizia questa pubblicazione ritardata, da Natale a Carnevale, si sarebbe in effetti rivelata, dal momento che La ballata del carcere di Reading incontrò successo immediato e fu oggetto di diverse ristampe già nell’anno della pubblicazione, fino a che il nome dell’autore – oramai segreto a pochi – comparve nella settima edizione del testo, nel giugno 1899. La boutade di Wilde sul non percepirsi quale strenna natalizia e sull’opportunità di pubblicare la Ballata dopo Natale nasconde pertanto una felice intuizione sulla fortuna, anche commerciale, dell’opera che non è mai venuta meno in oltre un secolo. Ampiamente interpretata, tradotta, citata e recitata, la poesia più famosa di Wilde ha alimentato in anni recenti, insieme alla confessione in forma epistolare del De Profundis, le riflessioni intorno alla prison literature, quel genere letterario che include testi composti in condizioni di limitazione o privazione della libertà personale.
La lettura della prison literature è solo uno degli esempi della polifonia di approcci critici che ha caratterizzato, nel nuovo millennio, il dibattito su Wilde, ora in un momento di grande vitalità e che pare non conoscere battute d’arresto. Diversi di questi approcci sono esplorati nei saggi che compongono questo numero di Engramma. Delle tendenze critiche più attuali, il contributo di Gino Scatasta riprende l’attenzione per ambiti in precedenza trascurati della biografia dello scrittore, giungendo così a enucleare riferimenti nascosti al padre di Wilde nel Ritratto di Dorian Gray, ma aprendo anche a dialoghi inattesi con i romanzi di Dickens. A motivi biografici e alla loro rivalutazione alla luce dei celebrity studies si lega il processo di self-fashioning, della creazione di sé, che secondo Pierpaolo Martino fa di Wilde la prima icona pop della storia, incarnazione di istanze e strategie che saranno assunte, in pieno Novecento, da personaggi che guadagneranno fama a livello mondiale. Il saggio di Laura Giovannelli getta luce inaspettata su un’opera piuttosto nota, benché spesso in passato classificata come minore, Il fantasma di Canterville, segnalando il denso substrato metaforico che connota la figura del fantasma. Giovannelli mostra come Wilde rielabori nel racconto tendenze tardo-vittoriane, condivise anche dalla fin de siècle europea, come lo spiritismo, l’occultismo e l’interesse per i fenomeni paranormali.
Il saggio di Francesco Zucconi analizza il rimodellamento filmico ‘carmelobeniano’ della Salomé wildiana esponendolo all’attenzione dei lettori come caso notevole dell’episteme intermediale, mostrando come questa rigenerazione del capolavoro wildiano si fondi su alcuni specifici procedimenti come la presenza audiovisiva, lo smembramento dionisiaco, lo psichedelismo fonico. Il saggio di Massimo Stella esplora, nella prospettiva dei visual studies e in chiave semiologica, focalizzandosi specificamente sulla relazione parola-immagine, il tema-problema del portrait/picture di Dorian Gray, che, nel corso dell’analisi, si rivela essere transfert segnico di quel movimento dello psichico chiamato da Freud Jenseits des Lustprinzips.
Stefano Tomassini sviluppa il proprio contributo all’interno dei performance studies proponendo una lettura della scandalosa Vision of Salome (1904), atto unico della danzatrice Maud Allan, alla luce della categoria dell’immobilità che l’autore ritrova nel romanzo pornografico tardo-vittoriano Teleny (1893), esso stesso espressione di forme di sessualità non normative. Elisa Bizzotto scrive analogamente nell’ambito dei performance studies, illuminati però in chiave storico-filologica, rintracciando l’influenza del dramma popolare medievale – che conobbe un revival nella fine secolo europea e nel primo Novecento – in Salomé e nell’incompiuta tragedia La Sainte Courtisane (1893), nonché nel racconto Il ritratto di Mr. W. H. Gli studi sulla ricezione in culture non tradizionalmente associate a Wilde, come quella tedesca, nel saggio di Alessandro Fambrini, o quella ispano-americana, nel saggio di Alessandra Ghezzani, aprono più decisamente l’opera dello scrittore a sguardi internazionali: Fambrini esplorando l’influenza di Wilde sulla narrativa fantastica di Hanns Heinz Ewers, Ghezzani sul dialogo Wilde-Borges e le sue ricadute sulla definizione di simbolismo. Non sono, tuttavia, solo i saggi di Fambrini e Ghezzani a evidenziare la portata transculturale dell’opera di Wilde e del suo ruolo d’artista, poiché, a ben vedere, tutti i contributi qui raccolti risultano accomunati dalla visione del corpus wildiano come ideale esempio di world literature, creazione di una figura che si situa al crocevia di scambi culturali ed estetici e che ha alimentato, fin dagli esordi e senza mai disattendere tale funzione, dialoghi transnazionali.
Pur riconoscendo il ruolo di Wilde a livello globale, questo numero di Engramma si propone innanzitutto di fare il punto sugli studi wildiani in Italia che, ancorché non fertilissimi, stanno vivendo una indubbia fase di rinnovato interesse. Trascorsi gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta del secolo scorso, che testimoniarono di un certo fervore critico intorno a Wilde dovuto in prevalenza ai percorsi esegetici indicati dai gender studies, la fortuna italiana dello scrittore pareva essersi assestata su un successo stabile, tipico di un classico, senza fare intravedere afflati critici originali. Nell’ultimo decennio, al contrario, i Wilde studies italiani, sulla scorta del dibattito sempre più ampio intorno all’autore che ha investito la cultura angloamericana, alimentatosi senza dubbio anche grazie all’edizione dei Complete Works of Oscar Wilde pubblicati presso la Oxford University Press a partire dal 2000 e tutt’ora in corso di stampa sotto la supervisione di Russell Jackson e Ian Small, hanno prodotto nuove traduzioni, iniziative culturali, rappresentazioni teatrali, corsi accademici e, soprattutto, riflessioni teoriche che abbracciano approcci compositi.
Più che apparire in contrasto con studi precedenti, e in particolare con quelli biografici, o sulla ricezione o sulla performance, tali approcci li hanno più sovente reinterpretati secondo ottiche problematizzanti, ponendo un’attenzione speciale su aspetti marginalizzati dell’opera di Wilde e della sua persona, come è accaduto, ad esempio, per i vari contributi che hanno messo in luce il marcato retaggio irlandese nella produzione e nella vita dello scrittore e che, al momento attuale, hanno preso la direzione più radicale della loro decolonizzazione. Come suggerisce il titolo scelto per questo numero di Engramma, Oscar Wilde è dunque quanto mai presente nella cultura italiana, ma anche globale, per la sua persistenza negli studi letterari, nell’arte, nel pensiero. Lo è al punto da farsi prospettiva privilegiata e filtro attraverso cui gettare sguardi complessi e plurali sulla letteratura, la cultura e l’arte. Ma è anche un presente, poiché continua a tutt’oggi a fare dono della sua opera e del suo personaggio, ispirando con sempre nuove sollecitazioni gli studi umanistici, le intersezioni interdisciplinari, i pubblici non solo specialistici.
English abstract
This issue of “Engramma” overviews various critical approaches from today’s Wilde Studies in Italy and shows how the author still provides ample space for debate in current Italian culture. The nine contributions span the fields of biography, autobiography, and studies on the self, with special attention to the concepts of self-fashioning and celebrity and pop culture (Gino Scatasta’s “Nebbie londinesi e capziose dimenticanze. Wilde lettore di Dickens” and Pierpaolo Martino’s “Pop Wilde. Oscar Wilde nella popular culture”), semiology and visual studies (Massimo Stella’s “A labbra aperte: l’Immagine-Ferita di Dorian Gray. A Portrait… a Picture… a Thing?”), film studies (Francesco Zucconi’s “ ‘Rischiare la pellicola’. Nascita del montaggio e fine del cinema in Salomè (1972) di Carmelo Bene”), performance studies (Elisa Bizzotto’s “Oscar Wilde and the Rewriting of Medieval Drama” and Stefano Tommasini’s “ ‘Crazed by the rigid stillness’. Maud Allan danza Salomé”), comparative and reception theories (Alessandro Fambrini’s “ ‘La storia del mondo non è altro che un sogno’. Hanns Heinz Ewers e Oscar Wilde” and Alessandra Ghezzani’s “Una specie di simbolista. Borges legge Wilde”). Cultural studies, particularly in their spiritualistic approaches typical of the fin de siècle, also offer privileged critical takes on Wilde’s figure and work (as in Laura Giovannelli’s “The Ghost as Artist. Allusive Echoes in The Canterville Ghost”). What eventually emerges as a shared critical perspective in all these essays is Wilde’s cross-cultural and cross-temporal identity as world literature.
keywords | Oscar Wilde; Wilde Studies; Wilde and Italian culture.