Παῖδας ἐγὼ λόγους ἐγεννησάμην. Libri come figli
Produzione culturale fra testo e figura in Teodoro Metochita e Sinesio di Cirene
Francesco Monticini
English abstract
1. Preludio. Nella mente di Funes
Lo ricordo (io non ho il diritto di pronunciare questo verbo sacro, solo un uomo sulla terra ne ebbe il diritto e quell’uomo è morto) con un’oscura passiflora in mano, mentre la vede come nessuno l’ha vista, anche se l’avesse guardata dal crepuscolo del giorno fino a quello della notte, per tutta un’intera vita. Lo ricordo, la faccia taciturna e dai tratti indigeni e singolarmente remota, dietro alla sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate da intrecciatore. Ricordo accanto a quelle mani un mate, con le insegne dell’Uruguay; ricordo alla finestra della casa una stuoia gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce lenta, aspra e nasale dell’antico abitante dei sobborghi, senza le sibilanti italiane di adesso. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887…
Cittadina uruguaiana di Fray Bentos: Ireneo Funes era un diciannovenne dalla memoria prodigiosa, sviluppata dopo un incidente a cavallo, lo stesso che gli aveva provocato una paralisi irreversibile. Funes
era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli costava comprendere che il simbolo generico cane abbracciasse tanti individui differenti di diversa grandezza e forma diversa; gli dava fastidio che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). La sua stessa faccia nello specchio, le sue stesse mani lo sorprendevano ogni volta. Racconta Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento della lancetta dei minuti; Funes discerneva continuamente l’avanzata tranquilla della corruzione, delle carie, della stanchezza. Notava il progredire della morte, dell’umidità. […] Aveva imparato senza sforzo l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Pensare significa dimenticare differenze, significa generalizzare, astrarre. Nel mondo stipato di Funes, non c’erano altro che dettagli, quasi immediati.
La memoria di questo straordinario personaggio di un racconto di Jorge Luis Borges (per i passi citati: Borges 2003, 95, 102-103) altro non era che un enorme serbatoio di immagini. Secondo la filosofia aristotelica, la mente umana non sarebbe in grado di elaborare pensieri (noein), intesi come forme astratte (eide), senza fare ricorso a delle immagini, ovvero a delle visioni interiori (phantasmata). Come si legge nel settimo capitolo del De anima (431a-b; Hett 1936, 176, ll. 5-6, 23-24; tutte le traduzioni dei passi greci citati sono nostre):
[…] οὐδέποτε νοεῖ ἄνευ φαντάσματος ἡ ψυχή. […] Τὰ μὲν οὖν εἴδη τὸ νοητικὸν ἐν τοῖς φαντάσμασι νοεῖ.
L’anima non pensa mai senza ricorrere a un’immagine. […] La facoltà intellettiva pensa le forme nelle immagini.
E, di nuovo, al principio del De memoria et reminiscentia (449b-450a; Hett 1936, 290, ll. 16-22):
Ἐπεὶ δὲ περὶ φαντασίας εἴρηται πρότερον ἐν τοῖς περὶ ψυχῆς, καὶ νοεῖν οὐκ ἔστιν ἄνευ φαντάσματος· συμβαίνει γὰρ τὸ αὐτὸ πάθος ἐν τῷ νοεῖν ὅπερ καὶ ἐν τῷ διαγράφειν· ἐκεῖ τε γὰρ οὐθὲν προσχρώμενοι τῷ τὸ ποσὸν ὡρισμένον εἶναι τὸ τριγώνου, ὅμως γράφομεν ὡρισμένον κατὰ τὸ ποσόν […].
Dell’immaginazione si è già trattato in precedenza, nei libri del De anima, sostenendo che non è possibile pensare senza ricorrere a un’immagine. Nel pensare, infatti, avviene lo stesso fenomeno che si ha nel disegnare una figura: anche in quel caso, pur non avendo necessità che un triangolo abbia una determinata grandezza, ugualmente lo raffiguriamo di una determinata grandezza […].
Secondo lo Stagirita – stando a quanto si legge ancora in quest’ultima opera (Arist. Mem. 450b-451a) – a partire dai dati sensibili forniti dall’esperienza, l’immaginazione umana elaborerebbe due diverse categorie di immagini persistenti: da un lato, delle riproduzioni mnemoniche di elementi individuali (eikones e mnemoneumata); dall’altro, delle rappresentazioni di pura forma (theoremata o phantasmata), come ad esempio l’immagine generale di uomo (Linguiti 2004/2005, 70-71). Adottando questa chiave di lettura, il povero Funes sarebbe stato condannato ad accumulare uno spropositato numero di mnemoneumata, ma sarebbe stato del tutto incapace di elaborare phantasmata. La drammaticità del racconto di Borges, in effetti, si sostanzia integralmente nel disperato stato di solitudine del suo protagonista: privato di qualunque accesso all’universale – ovvero a un terreno comune ad altri su cui stabilire una dialettica – il giovane Funes non rileva che continue immagini individuali, che, in quanto uniche e irripetibili, non gli consentono di pensare davvero, di elevarsi sino al concetto (Arist. Mem. 450b; Hett 1936, 296, ll. 6-8):
Ὥστε καὶ ὅταν ἐνεργῇ ἡ κίνησις αὐτοῦ, ἂν μέν, ᾗ καθ’ αὑτό ἐστι, ταύτῃ αἴσθηται ἡ ψυχὴ αὐτοῦ, οἷον νόημά τι ἢ φάντασμα φαίνεται ἐπελθεῖν.
Quando il movimento dell’immagine interiore è in atto, qualora questa sussista in quanto tale [e non come rimando a un ente individuale esterno], così l’anima la percepirà, ovvero apparirà all’anima un concetto o una rappresentazione di pura forma.
Molti secoli dopo Aristotele, Plotino, sebbene in un contesto filosofico platonico, riafferma il principio che non possa esservi pensiero – quantomeno pensiero consapevole (Linguiti 2004/2005, 74-78) – senza immagine. Solo per mezzo di rappresentazioni mentali di tipo visivo, secondo il filosofo di Licopoli, l’uomo può prendere coscienza, in questo mondo materiale, dell’ininterrotta attività noetica dell’anima superiore (Plot. Enn. IV, 3, 30). Nella Damasco altomedievale dei califfi omayyadi, uno dei più importanti Padri della Chiesa d’Oriente, Giovanni Damasceno, in tre suoi discorsi prende le difese delle immagini sacre, colpite, in territorio bizantino, dalla politica iconoclasta di alcuni basileis (Besançon [1994] 2009, 151-153). Nel corso della sua argomentazione, Giovanni sostanzialmente assimila nel concetto di icona la scrittura all’immagine, in quanto entrambe mezzo necessario all’uomo per approcciarsi a ciò che, in sé, non risulta visibile poichè privo di figura (Io. Dam. Or. im. I, 11; Kotter 1975, 84-85, ll. 22-25, 5-11):
Εἶτα πάλιν εἰκόνες εἰσὶ τῶν ἀοράτων καὶ ἀτυπώτων, σωματικῶς τυπουμένων πρὸς ἀμυδρὰν κατανόησιν. Καὶ γὰρ ἡ θεία γραφὴ τύπους θεῷ καὶ ἀγγέλοις περιτίθησι […]. Εἰ τοίνυν τῆς ἡμῶν προνοῶν ἀναλογίας ὁ θεῖος λόγος πάντοθεν τὸ ἀνατατικὸν ἡμῖν ποριζόμενος καὶ τοῖς ἁπλοῖς καὶ ἀτυπώτοις τύπους τινὰς περιτίθησι, πῶς μὴ εἰκονίσει τὰ σχήμασι μεμορφωμένα κατὰ τὴν οἰκείαν φύσιν καὶ ποθούμενα μέν, διὰ δὲ τὸ μὴ παρεῖναι ὁρᾶσθαι μὴ δυνάμενα;
Vi sono poi immagini di enti invisibili e privi di figura, che sono però rappresentati in forma corporea per permettere una contemplazione indiretta. In effetti, la divina Scrittura assegna delle forme a Dio e agli angeli […]. Se, dunque, la parola divina, provvedendo alla nostra capacità analogica, ci procura da ogni luogo degli spunti per elevarci e riveste di forme esseri puri e privi di figura, come non si potranno rappresentare entità cui è stato assegnato un aspetto conforme alla loro natura e che sono oggetto d’amore, ma che non possono essere viste poiché non ci sono prossime?
E ancora (Io. Dam. Or. im. I, 13; Kotter 1975, 86, ll. 12-17):
Διπλῆ δὲ αὕτη διά τε λόγου ταῖς βίβλοις ἐγγραφομένου, ὡς ὁ θεὸς τὸν νόμον ταῖς πλαξὶν ἐνεκόλαψε καὶ τοὺς τῶν θεοφιλῶν ἀνδρῶν βίους ἀναγράπτους γενέσθαι προσέταξε, καὶ διὰ θεωρίας αἰσθητῆς, ὡς τὴν στάμνον καὶ τὴν ῥάβδον ἐν τῇ κιβωτῷ τεθῆναι προσέταξεν εἰς μνημόσυνον.
Questo tipo di immagine è duplice. Da un lato, si manifesta attraverso la parola scritta nei libri, come Dio incise la legge sulle tavole e comandò che fossero messe per iscritto le vite degli uomini a lui cari; dall’altro, si manifesta attraverso una visione sensibile, come Dio comandò che l’urna e la verga fossero poste nell’arca a perenne memoria.
ʻIconaʼ, insomma, è tanto il segno grafico della Scrittura quanto la raffigurazione sacra (Ronchey 2017, 196; si veda anche Belting [1990] 2001, 195-196). In questa prospettiva, il testo scritto e la rappresentazione artistica possono intrinsecamente convergere, giocando il medesimo ruolo di phainomenon, ovvero di ente sensibile capace di rinviare a una realtà ulteriore. In questo senso, le icone non hanno mai uno statuto propriamente figurativo, poichè i loro autori non si prefiggono – non possono prefiggersi – il compito di ritrarre realisticamente il loro autentico soggetto. Piuttosto, la riflessione teologica che ammette il ricorso all’icona anticipa la moderna arte astratta: l’avanguardia russa di inizio Novecento, in effetti, proprio da simili riflessioni prende le sue mosse (Besançon [1994] 2009, 361-423; Foletti 2013, 230-239; Ronchey 2017, 193-200).
2. I mosaici di Chora e il poema di Metochita
All’analisi del possibile rapporto fra un testo scritto (un poema redatto da uno degli uomini più potenti e colti della tarda Bisanzio, Teodoro Metochita) e due immagini (una composizione musiva e una miniatura) è dedicato il presente contributo. Negli anni dieci del XIV secolo, l’allora logoteta Metochita venne invitato dall’imperatore Andronico II Paleologo a finanziare i lavori di restauro di un antico monastero costantinopolitano (Ševčenko 1975, 29). Si trattava di San Salvatore in Chora: il complesso, fondato in età tardoantica, si trovava nei pressi del palazzo imperiale delle Blacherne e, benchè fosse stato più volte ristrutturato in età comnena, versava in pessime condizioni per varie concause quali, probabilmente, l’occupazione latina della città, il terremoto del 1296 e la rivolta dei Catalani del 1302 (Underwood 1966, 3 ss.; Ousterhout 1987, 12-36; Monticini 2020, 188-194). Metochita si fece carico del costo dei lavori, promuovendo una vera e propria opera di rifondazione del monastero: a esso furono trasferite proprietà fondiarie poste nei pressi della Polis e in zone più distanti; questo permise alla comunità di possedere un suo ospedale pubblico, una mensa popolare, una vera e propria amministrazione per la gestione dei beni (Ševčenko 1975, 32). In più, nella sua veste di ktetor, Metochita commissionò vari cicli di affreschi e mosaici nel katholikon del monastero. Celeberrimo è quello in cui un personaggio, in cui è stato riconosciuto lo stesso Metochita, è ritratto nell’atto di porgere la chiesa al Cristo pantokrator (fig. 2).
A seguito della conquista turca di Costantinopoli, agli inizi del XVI secolo, la chiesa di San Salvatore in Chora fu convertita in moschea – con il nome di Kariye Camii – da Atik Ali Paşa, gran visir del sultano Beyazid II. Gli affreschi e i mosaici furono integralmente scialbati, scomparendo alla vista fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando, riscoperti, poterono essere ammirati dal fondatore della bizantinistica accademica tedesca, Karl Krumbacher (Ronchey, Braccini 2010, 701-702). Nel 1958 la moschea fu convertita in un complesso museale, per poi essere nuovamente adibita al culto islamico nell’agosto del 2020: per questo, da allora, le decorazioni bizantine sono state nuovamente coperte, ricorrendo all’uso di pannelli.
Fra le opere musive riconducibili all’intervento di Metochita spicca il ciclo dedicato all’episodio evangelico della strage degli innocenti, suddiviso in quattro atti all’interno dell’esonartece. Come noto, la Scrittura fornisce una descrizione estremamente sintetica del tragico evento (NT, Mt 2, 16-18); versioni apocrife o rielaborazioni omiletiche successive hanno, d’altronde, aggiunto numerosi particolari (come nel caso, ad esempio, del De infantibus di Basilio di Seleucia: Semoglou 2010, 46). Il ciclo presente a San Salvatore in Chora, si diceva, si articola in quattro atti, disposti su altrettante lunette. La prima scena, collocata sulla parete ovest dell’esonartece, ritrae il re Erode nell’atto di impartire lo sciagurato ordine ai propri soldati (fig. 1); le altre tre scene si trovano invece tutte sulla parete sud della struttura e rappresentano, rispettivamente, l’attuazione della strage, le madri piangenti, il miracoloso scampo – trovato in una grotta – del piccolo Giovanni Battista, protetto dalla madre Elisabetta (Semoglou 2010, 48).
In un articolo pubblicato nel 2010, Athanassios Semoglou ha proposto di mettere in relazione questo ciclo di mosaici con un poema scritto da Metochita (il quarto del suo corpus in versi), intitolato Εἰς τὸν σοφὸν Νικηφόρον τὸν Γρηγορᾶν ὑποθῆκαι καὶ περὶ τῶν οἰκείων συνταγμάτων (per un primo testo critico e per una traduzione inglese: Ševčenko, Featherstone 1981, 28-45; per la più recente edizione critica: Polemis 2015, 85-97 [tutti i passi citati nel prosieguo sono tratti da questa edizione]; per una diversa traduzione inglese: Polemis 2017, 123-135). Come si evince, l’opera, composta di trecentosessantuno esametri e redatta in dialetto epico, si rivolge all’allievo prediletto di Metochita, Niceforo Gregora, e ha come oggetto principale la produzione letteraria del suo autore. Prima di commentare e valutare l’ipotesi avanzata da Semoglou, si veda adesso in sintesi il contenuto del poema.
Metochita esordisce ricorrendo ad alcune espressioni parenetiche (Polemis 2017, 123, n. b; vedi anche Polemis 2015, LXXXIX) e determinando esplicitamente il poema come suo testamento intellettuale (1-12). Si rivolge appunto a Gregora, designato come l’unico in grado di raccogliere il lascito sapienziale del maestro, in mancanza di un erede naturale altrettanto capace (13-18; sia detto per inciso, Gregora fu precettore per alcuni anni di due dei figli di Metochita, Niceforo e Irene). L’allievo prediletto è descritto da Metochita come una eikon, un’immagine, una copia, della sua stessa sapienza (σε γ’ ἐμῆς σοφίης εἰκώ: 20, Polemis 2015, 85). Nei passaggi successivi, Metochita mette per iscritto alcuni precetti paideutici che – già evidentemente fatti propri e trasmessi a Gregora – sente in questa sede il bisogno di ribadire. Il primo passo di un’eccellente formazione consiste, a suo avviso, nel modellare lo stile letterario su quello degli autori del passato, in maniera continua e costante (24-82); dopodichè, ci si deve dedicare allo studio della natura, attraverso la lettura e l’analisi del patrimonio sapienziale antico (83-164), dedicando particolare attenzione alle opere di Aristotele, definito il massimo filosofo in materia di fisica e di logica (150-155). Il passo successivo è lo studio del cosiddetto quadrivium (τεττάρων/ βιβλίων μαθηματικῶν εὐμαθίαν: 165-166, Polemis 2015, 90), il cui punto apicale è rappresentato dall’astronomia, che, dopo una fase di oblio, è tornata una scienza centrale nella formazione bizantina proprio grazie a Metochita, che l’ha trasmessa con profitto anche a Gregora (165-203).
In effetti, come noto – seppure in un contesto di recupero delle nozioni astronomiche più ampio (Tihon 1981, 612-619; Monticini 2019, con l’ulteriore bibliografia ivi citata) – Metochita fu il massimo restauratore dell’astronomia tolemaica nella Bisanzio dei Paleologi. Dopo averla appresa da Manuele Briennio, Metochita aveva pubblicato nel 1316 la sua Stoicheiosis astronomike (Bydén 2003; Paschos, Simelidis 2017), nella quale aveva cercato di presentare ed esplicare ai contemporanei e alla posterità, con evidente intento didattico, i capisaldi del pensiero di Tolomeo e del suo commentatore Teone. A questo punto del poema, Metochita esplicita in che cosa consista effettivamente il suo lascito intellettuale. Si tratta, in primis, delle opere che ha concepito e redatto; il suo desiderio è che queste possano conservarsi illese nel tempo, a beneficio delle generazioni future (204-232; di seguito i versi 209-221, Polemis 2015, 92):
[…] καί σοι παρτίθεμ’ αὐτὸς ἃ συντέταχ’ ἄλλυδις ἄλλα,
βιβλί’ ἅπερ γ’ οἶσθ’ ἡμέτερ’ ἅ μοι φίλτατα πάντων,
ἅττ’ ἔραμ’ ἄσυλά μοι μενέειν ἀνὰ πάντα αἰῶ,
τάων δὴ πολύ γ’ ἀμφιμέμηλα, φίλων ἅτε τέκνων,
ἅττα μογοστόκοισ’ ὠδῖσι γένοντ’ ἂρ ἔμοιγε,
ἄφθιτα τ’ εἴραμαι βιόειν ἀζήμια τ’ αἰέν,
μήποτ’ ἐρωῇσι χρόνοιο παραρρύαντα
ἠύτε πάνθ’ ἅμαδις χρόνος ἅ τ’ ἐσθλά, ἅ τ’ ἄρα μή,
ῥείων ἄσχετα παρασύρητ’ ἀν βένθεσι λήθης.
Ἀλλ’ ἄρ’ ἐγώ σε μέγαν πολυωρὸν ἀν’ ἡμετέροισι
τοῖσδε τέκεσσ’ ἐπιτέλλομ’ ὑστατίοισιν ἔτεσσιν
ἔμμεν’ ἐπιμελέα φρουντιστήν, ὥς κε σαώσεις
ἦ μάλ’ ἀτειρέα τιμήεντ’ ἐσουμένοισι.
Ti affido dunque quanto per me esiste di più prezioso, i miei libri, composti in varie circostanze e a te ben noti, poichè il mio desiderio è che rimangano per sempre al sicuro. Mi stanno molto a cuore questi libri – cari come figli partoriti a seguito di dolorose doglie – e voglio che si conservino immortali, per sempre indenni, e non siano trascinati via dalle correnti del tempo (quel tempo che, nel suo irresistibile corso, tutto travolge, indistintamente – ciò che è positivo come ciò che non lo è – trascinandolo nei recessi dell’oblio). Ti intimo di essere per questi miei figli un guardiano assai zelante e attento fino alla fine dei tuoi giorni, così da poterli preservare illesi, degni di essere onorati da coloro che verranno.
Metochita afferma di avere scritto opere dedicate a tutte le branche del sapere (233-243; Τῷ γ’ ἄρα κἀμὲ θυμὸς νύ τ’ ἄνωγε δι’ εἴδεα πάντα/ σουφίας ἀμφαδίην πουνάματα εἰνέγκασθαι: 242-243, Polemis 2015, 93), dimostrando il proprio stile nei testi retorici; occupandosi, con prosa più disadorna, di filosofia, ad esempio nel caso della spiegazione della logica aristotelica; affrontando infine i temi scientifici e anzitutto quelli astronomici (244-255). Che la sua illustrazione di Tolomeo è chiara e ben fatta è dimostrato in primis, a suo dire, dal fatto che proprio Gregora ha perfettamente appreso quelle nozioni, non attingendo direttamente ai testi dell’antico astronomo, ma alle esposizioni del maestro (256-279). Gregora, dunque, è la persona più adatta a custodire quel bagaglio di sapere, non potendo peraltro rifiutare poichè si trova in debito nei confronti di Metochita (296-297; è questo un tema topico della letteratura testamentaria bizantina: Polemis 2017, 133, n. g). Nella chiusa, il gran logoteta riprende la similitudine dei libri-figli (327-331; τέκεα φίλτατα: 330, Polemis 2015, 96), affidando definitivamente all’allievo prediletto non solo tutte le opere redatte di suo pugno, sulle quali si è profuso sin qui, ma anche le altre che, in una vita, ha raccolto nella biblioteca del monastero di San Salvatore in Chora (340-361, Polemis 2015, 97):
Τῷ γ’ ἄρα κἀνθάδε τόνδ’ ἔρον ἀπόπλησον ἐμεῖο,
χώρα τέ μοι γένε’ ἄσυλος ἀμφὶ τεκέεσσ’ ἁμεδαποῖς,
ὥς κ’ ἐν ἂρ ἀσφαλέι μενέειν τἀμὰ φίλτατ’ ἐσαεί,
Χώραν ἐμὴν περικαλλέα τάνδε σὺ ναίων μουνὰν,
ἣν ἄρ’ ἐγώ σοι αἴσιον ἱδρυσάμην κατάπαυμα,
εὐδιόον τ’ ἀπὸ πάντα χείματα, πάντα δὲ λυγρὰ
σεῖ’ ἀπερύκουσαν ἀνὰ βίοτον αἰεὶ τόνδε,
ᾗ σύ γ’ ἀπότροπον ἀπ’ ἄρα πάντων ὄχλων ζωὴν
ἀμβιόεις, ἅμ’ ἀτειρέ’ ἄσχολον ἀμφὶ σοφίῃ.
Τοὔνεκα καὶ σὺ τάδ’ ἐκτόκια σοφίης ἁμεδαπῆς
δέχνοιο, ἠύτε χώρ’ εὐλίμενος, ἀν’ ἄρα πάντα
ἑξείης ἀπειρέσιον γ’ αἰῶν’ ἐρύκουσα
φθοῦρον ἀεικέα τῶνδ’ ἐπιγιγνόμενον φθονόεντα,
ὅσσα τε πόλλ’ ἕτερα βιβλί’ ἀγήοχα τῇδε,
ἠμὲν ἱρὰ ἠδ’ αὖ σοφίης τῆς Ἑλληνίδος,
τοῦτο μὲν ἀμφὶ ῥητορικῆς ἀεθλεύματα,
τοῦτο δ’ ἂρ ἀμφὶ φιλουσοφίας θεάματα σεμνά,
τοῦτο δ’ ἂρ ἀμφί γε ποιήσιος ἱμερτὰ πολλὸν
ἀραρότα μέτροισιν ἑκάστοισι πονάματα,
πάντ’ ἄρα μοι καὶ τάδ’ ἀμφίεπε τῇ μονᾷ σῶα,
πρόφρονι νῷ, χάριν ἐμάν, ἠδέ θ’ ὅσοι γ’ ἑξείης
εἰρασταὶ σοφίης ἐρίῃρος ἔσονται βρουτοί.
Quindi, adempi questo mio desiderio a tal proposito e fatti inviolabile contenitore (chora) dei miei figli, così che questi miei carissimi rimangano per sempre al sicuro, mentre tu risiedi nel monastero, mia splendida custodia (chora), che ho costruito perchè ti risultasse un propizio e pacifico luogo di riposo, in grado di tenerti al riparo da ogni tempesta e dolore nel corso della vita; qui, tu, lontano da ogni fastidio, conduci la tua esistenza, illeso e sempre devoto alla conoscenza. Perciò, accogli questi prodotti della mia sapienza come una regione (chora) dotata di porti sicuri, proteggendoli per tutte le innumerevoli età a venire dalla indegna e invidiosa rovina che li colpirà, così come tutti gli altri libri che ho raccolto in questo luogo, appartenenti e alla sapienza sacra e a quella degli Elleni. Alcuni contengono degli agoni retorici, altri le sacre visioni della filosofia, altri delle godibilissime composizioni poetiche, ovvero delle opere composte in ogni tipo di versificazione. Con mente ben disposta, custodisci questi libri nel monastero, nell’interesse mio e di quegli amanti del sapere – fidato compagno – che devono ancora nascere.
È doveroso ricordare che la biblioteca del monastero di Chora – che ancora negli ultimi anni del XIII secolo versava in condizioni non buone, come si può desumere dalla testimonianza di Massimo Planude (Mergiali 1996, 36; Fryde 2000, 227; Bianconi 2005a) – era in effetti, a seguito della rifondazione del complesso a opera di Metochita, una delle più ricche e fornite di Costantinopoli. È opportuno menzionare anche il fatto che la volontà del gran logoteta può dirsi oggi esaudita, poichè tutte le sue opere si sono conservate con la sola eccezione delle lettere, perdute a causa dell’incendio della biblioteca del monastero di San Lorenzo dell’Escorial nel 1671 (Förstel 2011, 241).
3. Una connessione fra testo e figura?
Si accennava prima a un’ipotesi avanzata da Semoglou, stando alla quale il ciclo dei mosaici dedicato alla strage degli innocenti sarebbe da mettere in relazione con il poema di Metochita che si è appena analizzato. Secondo questa interpretazione, il nuovo ktetor di San Salvatore in Chora, preoccupato per la sorte della propria produzione letteraria – e, più in generale, di tutto il patrimonio librario che aveva raccolto in quel monastero – avrebbe espresso la sua inquietudine sia commissionando un’opera musiva, sia redigendo un poema in esametri. Due diverse forme artistiche, insomma, per comunicare un medesimo concetto. Il fil rouge di tutta l’operazione, naturalmente, sarebbe proprio la similitudine tra libri e figli. Secondo Semoglou, Metochita avrebbe quindi, da un lato, insistito sull’episodio biblico della strage degli innocenti, da intendersi come monito nei confronti della persecuzione delle lettere da lui tanto temuta – insensata, irrazionale e violenta al pari di quella rivolta contro bambini in carne e ossa; dall’altro lato, avrebbe cercato di scongiurarla affidando il proprio patrimonio librario, come in un lascito testamentario vero e proprio, all’allievo prediletto Gregora. Nell’elaborazione della sua teoria, Semoglou si spinge addirittura oltre, immaginando che il ciclo musivo posto nell’esonartece di San Salvatore in Chora suggerisse anche il luogo in cui la biblioteca era effettivamente ubicata, a noi oggi ignoto (Semoglou 2010, 59-62).
L’ipotesi avanzata da Semoglou è indubbiamente suggestiva, soprattutto perchè connette fra di loro un testo e un’immagine, come se, in accordo con le riflessioni di Giovanni Damasceno riportate in apertura, entrambe queste espressioni si equivalessero nel rimando a un principio astratto superiore, da riconoscersi, nel caso specifico, nel rischio di distruzione e censura corso da qualunque produzione e attività culturale. Metochita avrebbe dunque espresso questo concetto in maniera duplice; dimostrando, peraltro, anche una certa lucidità nelle proprie valutazioni, se, come ritiene Semoglou, sia l’opera musiva dell’esonartece che il poema dedicato a Gregora furono cronologicamente anteriori al colpo di stato di Andronico III Paleologo (1328), a seguito del quale Metochita subì una rovinosa caduta in disgrazia, perdendo tutti i propri beni e venendo costretto all’esilio a Didimotico. Il suo fastoso palazzo privato di Costantinopoli, allora, fu depredato e parzialmente distrutto. Solo la collocazione fra le mura sicure del monastero di San Salvatore in Chora garantì in effetti, in quel frangente, l’incolumità alla sua biblioteca (Ševčenko 1975, 33-37; Fryde 2000, 322-323; Angelov 2004, 16-17).
Il principale punto di debolezza della teoria proposta da Semoglou è, d’altra parte, proprio la cronologia. Siamo certi che l’opera di rifondazione di San Salvatore in Chora si concluse nel 1321, come ci è testimoniato da Niceforo Gregora (Hist. byz. VIII, 5). Per quanto riguarda il poema, viceversa, la datazione è tutt’altro che sicura (Polemis 2015, XVI; Polemis 2017, 9-10). Semoglou male intepreta quanto asserito dai primi editori dell’opera, Ihor Ševčenko e Michael Featherstone, scrivendo che “ont proposé que le poème pourrait être composé vers la moitié de 1320 ou un ou deux ans plus tard” (Semoglou 2010, 58, n. 41), laddove i due avevano piuttosto affermato che probabilmente i poemi da loro editati, compreso quello di nostro interesse, “were written in the mid-1320’s, perhaps a year or two later” (Ševčenko, Featherstone 1981, 13). La proposta di ricondurre la redazione del poema al 1320, dunque, benchè perfettamente in accordo con l’ipotesi di Semoglou, è il frutto di una lettura sbagliata e non è avallata da Ševčenko e Featherstone, che suggeriscono piuttosto la metà degli anni venti del XIV secolo, sulla scorta di vari elementi, che adesso si dovranno analizzare.
È indubbio, anzitutto, che nei suoi versi Metochita si riferisca alla propria Semeiosis astronomike come a un’opera compiuta (fu in effetti terminata, come si è già detto, nel 1316). Ma l’autore fa pure riferimento al profitto che ne avrebbe tratto il suo allievo, la cui prima applicazione degna di nota in campo astronomico è databile al 1324 (si tratta della proposta di riforma del calendario, basata sulla considerazione del fenomeno della precessione degli equinozi, presentata all’imperatore Andronico II Paleologo: Nic. Gr. Hist. byz. VIII, 13). Il fatto che Metochita faccia riferimento nel poema alla propria morte non è considerato un elemento dirimente, poichè questo avviene anche nel suo decimo discorso, risalente a molto tempo prima, ovvero all’anno 1305. Al contrario, si dà assoluto risalto a quanto l’autore esprime nei versi 291-293 (vd. infra), da cui, a parere degli editori, si dovrebbe ricavare che egli rivestiva ancora una posizione sociale eminente al momento della redazione del poema. Infine, Ševčenko e Featherstone notano come Metochita non faccia alcun riferimento nel testo alla propria caduta in disgrazia (nè a quella, conseguente, di Gregora).
Eppure, neanche questa proposta di datazione risulta essere priva di ambiguità. In un articolo pubblicato alcuni anni prima, lo stesso Ševčenko (Ševčenko 1975, 35, n. 131) aveva piuttosto affermato che il poema di Metochita era senz’altro da ascrivere al periodo dell’esilio (ovvero al biennio1328-1330), sulla base di un passo dell’opera storica di Gregora (Hist. byz. VIII, 5; Schopen, Bekker 1829, 309, ll. 8-11):
[…] διάδοχον τῆς αὐτοῦ σοφίας ἐπεποιήκει με. δείκνυσι δὲ τοῦτο σαφέστερον ἔν τε ταῖς πρὸς ἐμὲ τούτου ἐπιστολαῖς ἔν τε τοῖς ἔπεσιν, ἃ πεποίηκεν ὕστερον ἐν τῇ ἐξορίᾳ αὐτοῦ.
Metochita mi ha reso erede della sua sapienza. Lo ha esplicitato sia nelle sue lettere a me indirizzate sia in un suo poema, che ha composto più tardi, durante il suo esilio.
In seguito Ševčenko, pur avendo mutato parere e ritenendo più probabile una redazione del testo anteriore alla caduta in disgrazia del gran logoteta, dimostrò comunque di non avere dimenticato quanto aveva scritto nell’articolo del 1975, se nel lavoro a quattro mani con Featherstone si legge in nota (Ševčenko, Featherstone 1981, 13, n. 36):
We are aware of the fact that our present dating appears to be in conflict with the statement of Gregoras, History (309, 8-11 Bonn): Metochites appointed Gregoras as his spiritual heir; this he did both in his letters, and in poems (ἔπεσιν) which he wrote “later, in his exile”.
Riprendendo in esame l’intero dossier, pure in mancanza di una prova inconfutabile, riteniamo che l’ipotesi più verosimile sia che Metochita abbia redatto il suo poema indirizzato a Gregora dopo il 1328, nei due anni di esilio a Didimotico. Proprio allora – e per ovvie ragioni – Metochita dimostra di avere provato una certa apprensione per la sorte del complesso monastico, come si ricava anche dalla lettera da lui vergata alla morte del categumeno Luca, uomo di sua massima fiducia proveniente dall’Asia Minore. In quelle righe, il gran logoteta decaduto si rivolge alla comunità monastica di Chora (in seno alla quale avrebbe peraltro trascorso i suoi ultimi due anni di vita, a seguito dell’esilio), affinchè questa, pur di recente costituzione, non si sfaldasse e mantenesse la politica di Luca (Ševčenko 1975, 34-35; il testo della lettera, fornito di una traduzione inglese, è pubblicato in appendice allo stesso contributo, 57-84). In più, se è vero che la proposta di riforma del calendario presentata da Gregora ad Andronico II risale al 1324, è doveroso ricordare che la prima predizione di un’eclissi di sole da parte dell’autore è documentata al 23 settembre 1329, mentre la prima previsione di un’eclissi lunare data al 5 gennaio 1330 (Ševčenko, Featherstone 1981, 13). Per quanto riguarda il riferimento di Metochita, nel poema, a una sua posizione sociale ancora eminente, ci pare che esso sia il frutto, in realtà, di una traduzione imperfetta compiuta da Ševčenko e Featherstone (Ševčenko, Featherstone 1981, 41). Si riporta di seguito, a questo proposito, il testo originale (291-293, Polemis 2015, 95), assieme alla versione inglese dei due autori e a una nostra traduzione, allineata piuttosto a quella approntata da Ioannis Polemis (Polemis 2017, 133):
[…] ἔασι δέ γε συχνοί,
οἵ τἀμὰ τίμια τ’ ἐμφανέα τ’ ἐπιεικῶς νυνὶ
πρήγμασι πᾶσι λόγοισί τε παντοίοισι γνόντες […].
Many there are at present who have come to know my honored and exalted position
Sono numerosi coloro i quali, adesso, mostrano esplicitamente e benevolmente, con ogni loro azione e parola, di reputare le mie opere degne di stima.
Soprattutto, ci pare che il dato centrale per risolvere la questione resti la testimonianza di Gregora, difficilmente equivocabile. In quel passo (come notato anche da Polemis 2017, 123, n. c, e Förstel 2011) l’autore utilizza gli stessi termini che si riscontrano nell’incipit del poema di Metochita (2-3, Polemis 2015, 85: ἐμᾶς σοφίης […] διάδοχον; Gregora: διάδοχον τῆς αὐτοῦ σοφίας). In definitiva, poichè entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem e poichè non si ravvisano, a nostro parere, elementi sufficienti a far dubitare della testimonianza di Gregora, ci sembra che l’ipotesi di gran lunga più probabile sia che il poema sia stato redatto da Metochita nei due anni compresi fra il 1328 e il 1330.
Per tutte queste ragioni – e considerando comunque il fatto che molto difficilmente la datazione dell’opera può essere alzata oltre la metà degli anni venti del XIV secolo, come si è visto – riteniamo che la teoria di Semoglou perda di verosimiglianza (nonostante il fatto che, molto probabilmente, si debba riscontrare una connessione fra l’autobiografia di Metochita e la pianificazione delle decorazioni a Chora, come sostenuto anche dal recentissimo Zarras 2021, che tratta del ciclo dedicato al ministero di Gesù). Se risulta poco credibile che Metochita temesse una qualche minaccia nei confronti del proprio patrimonio librario al tempo della rifondazione di San Salvatore in Chora (è piuttosto dal 1321 che il neo gran logoteta inizia ad avere presagi inquietanti, causati dallo scoppio della rivolta di Andronico III: de Vries-van der Velden 1987, 98-99), è ancora meno verosimile immaginare un recupero della stessa similitudine dei libri-figli a distanza di anni, magari al tempo dell’esilio, quando la situazione era completamente cambiata e l’apprensione per la sorte dei volumi era certo molto più motivata.
Si deve quindi probabilmente rinunciare alla suggestiva connessione fra gli esametri dedicati da Metochita a Gregora e il ciclo musivo della strage degli innocenti posto nell’esonartece del katholikon di Chora. Rimane certo, tuttavia, che il gran logoteta fece ricorso alla similitudine dei libri-figli nel proprio poema: il percorso da compiere nel tentativo di determinare le fonti di questa scelta ci porta a incontrare un’altra immagine.
4. Il profilo di Sinesio
L’idea di paragonare le opere redatte a dei figli affonda le sue radici nella classicità, in particolare nei dialoghi platonici (Pl. Smp. 210a; Phdr. 278a; Tht. 149a-151d). Nell’antichità greca (senza considerare quella latina, che annovera esempi da Ovidio ad Agostino) la similitudine ricorre in numerosi autori, da Aristotele a Libanio e Temistio, passando per Eliano o Ateneo di Naucrati (Garzya, Roques 2000, 81-82, n. 3). Eppure, colui che più di ogni altro pare essere stato il modello di tale geistige Vaterschaft per il millennio bizantino è Sinesio di Cirene (Garzya, Roques 2000, 82, n. 3; vedi anche Hunger 1978, 226, n. 101). La ragione di tale ruolo, giocato in seno alla tradizione letteraria greca medievale, è probabilmente da riconoscere nel grande successo di cui il corpus epistolare dell’autore godette fino alla fine dell’esperienza storica della basileia. Se, infatti, la similitudine ricorre in vari loci della produzione innografica e trattatistica di Sinesio (H. IX 50-51, Di. 13, Insomn. 20), è soprattutto in alcune lettere che essa assume una valenza particolarmente pregnante (Ep. 141). L’esempio senz’altro più notevole è proprio l’incipit della prima epistola dell’intero corpus (Garzya, Roques 2000, 1, ll. 1-5), spedita al letterato Nicandro, conosciuto dall’autore a Costantinopoli nel corso del suo soggiorno nella città:
Παῖδας ἐγὼ λόγους ἐγεννησάμην, τοὺς μὲν ἀπὸ τῆς σεμνοτάτης φιλοσοφίας καὶ τῆς συννάου ταύτῃ ποιητικῆς, τοὺς δὲ ἀπὸ τῆς πανδήμου ῥητορικῆς. ἀλλ’ ἐπιγνοίη τις ἂν ὅτι πατρός εἰσιν ἑνὸς ἅπαντες, νῦν μὲν εἰς σπουδήν, νῦν δὲ εἰς ἡδονὴν ἀποκλίναντος.
Ho generato i miei discorsi come dei figli; alcuni li ho avuti dalla venerabile filosofia e dalla poesia che condivide il suo tempio, altri dalla retorica che si offre a chiunque. Eppure, si avverte che tutti provengono da un unico padre, che talvolta è stato più incline alla scrittura seria, talvolta più a quella dilettevole.
In realtà, a prescindere dal ruolo di modello giocato da Sinesio per questa similitudine rispetto all’intera tradizione bizantina, è molto probabile che proprio il testo del vescovo di Tolemaide sia stato la fonte di Metochita. Il gran logoteta nutrì una considerevole stima per Sinesio, come si evince da un capitolo delle sue Semeioseis gnomikai precipuamente dedicato all’autore tardoantico. A questo proposito, si consideri anche che Gregora probabilmente attribuì a Metochita, allo scopo di compiacerlo, dei pregi che lo stesso riconosceva a Sinesio (Bydén 2014, 167-168).
Questo percorso, come si anticipava, porta a considerare un’immagine. L’incipit della prima epistola di Sinesio, in effetti, è strettamente correlato a una miniatura che ritrae l’autore nell’atto di vergarne proprio le parole iniziali: παῖδας ἐγὼ λόγους ἐγεννησάμην, τοὺς μέν. Sinesio è raffigurato come un anziano profeta barbuto, assiso su una cattedra vicino a uno scrittoio, bardato di paramenti episcopali quali lo sticharion e l’omophorion, con i piedi poggiati su uno sgabello; dietro di lui si erge, stilizzata, un’architettura ecclesiastica (Garzya, Roques 2000, LXXXIV).
La miniatura ci è trasmessa, con minime differenze (ad esempio, le parole vergate da Sinesio sono spezzate in modo leggermente diverso) da due manoscritti: Athos, Μονή Βατοπεδίου, 685, f. 4v (fig. 3), e Paris, Bibliothèque nationale de France, Suppl. gr. 660, f. 26v (fig. 4). La prima versione è riprodotta in Garzya 1989, fra le pagine 96-97, e in Kadas 2008, tavola 41a, mentre la seconda compare nel frontespizio di Lacombrade 1951 e in Rhoby, Stefec 2018, 609. In entrambi i codici la miniatura è preceduta da un epigramma composto da quattro dodecasillabi. Questi presentano Sinesio come modello di stile (1-3) e introducono la rappresentazione sottostante (4); notiamo che le regole prosodiche sono sempre rispettate, a eccezione della lunghezza dell’epsilon in Συνεσίου al verso 1 (Rhoby, Stefec 2018, 147; accogliamo la correzione proposta dagli studiosi di ἐξαιρέτως, leggibile nei manoscritti, in ἐξαιρέτων):
Συνεσίου νοῦν καὶ σθένος περὶ λόγους
ἐπιστολῶν τε τὴν χάριν ἐξαιρέτων
αὐτοὶ διδασκέτωσαν οἱ τούτου λόγοι·
ὁρᾶν δέ σοι πάρεστι καὶ μορφῆς τύπον.
Dell’intelletto e del vigore espressivo di Sinesio
e della grazia delle straordinarie epistole
diano prova le sue stesse opere;
qui ti è possibile vedere una rappresentazione della sua figura.
Soltanto nel codice athonita, invece, si trova una didascalia posta appena alla sinistra della testa di Sinesio (Lamoureux, Aujoulat 2004, XXVII, n. 21): Ὁ σοφώτατος Συνέσιος ἐπίσκοπος Κυρήνης. Uno studio comparato dei due testimoni ci porta a concludere senza alcun dubbio che la versione del codice parigino è una copia di quella contenuta nel manoscritto athonita. Se infatti anche il Suppl. gr. 660 risale all’epoca bizantina e più precisamente al XIV secolo (Omont 1888, 292; Rhoby, Stefec 2018, 146; Gioffreda 2019, 199-200), la mano che ha disegnato la miniatura e copiato i versi dell’epigramma è moderna, probabilmente ottocentesca (Terzaghi 1944, XXIV; Stefec 2014, 139; Rhoby, Stefec 2018, 146-147). Del resto, il manoscritto è entrato nella sezione più recente della collezione dei codici greci della Bibliothèque nationale de France (il Supplément grec, appunto) proprio nel XIX secolo, avendo fatto parte di quel carico di testi portati in Francia dalla Santa Montagna dal celebre falsario e cleptomane Minoide Mynas (Canfora 2010), a seguito di una delle sue missioni in Oriente (Omont 1916, 417).
La miniatura più antica fra le due note è dunque senz’altro quella conservata nel Vatop. 685. Se la menzionata correzione al testo dell’epigramma fosse corretta, tuttavia, si dovrebbe concludere che anche la raffigurazione di Sinesio non è originale, ma copia di un modello a noi ignoto. Anche in quel caso, d’altronde, è su questo manoscritto che ci si dovrebbe concentrare, poichè esso andrebbe comunque verosimilmente inteso come copia più o meno fedele di un ʻtutto Sinesioʼ che altrettanto doveva presentare la miniatura e l’epigramma in apertura.
Posto all’attenzione della comunità scientifica soltanto nella seconda metà del Novecento, il codice athonita è stato inizialmente datato all’inizio del XIII secolo (anche sulla scorta di quanto indicato nel catalogo di Sophronios Eustratiadis e Arcadios Vatopedinos: Eustratiadis, Arcadios 1924, 136), se non addirittura alla fine del XII (Pignani 1970, 1; Criscuolo 1972/1973, 322; Garzya 1974, n° XXI, 5; Lacombrade 1978, 29; Lamoureux, Aujoulat 2004, XXVI). In tempi più recenti, tuttavia, la datazione è stata abbassata di circa un secolo e il codice è stato ascritto alla prima età paleologa (Baldi 2012, 14; Stefec 2014, 137-138).
Ora, se a quest’ultimo elemento si aggiunge il fatto che il manoscritto athonita – contenente l’intera produzione letteraria di Sinesio, sia in prosa sia in versi, e null’altro – risulta essere una vera e propria editio delle opere del vescovo di Tolemaide, basata su un confronto con i codici più autorevoli della tradizione eppure da essi indipendente (Criscuolo 1972/1973, 322, il quale si concentra soprattutto sulla tradizione del Dione), si finisce per farsi tentare dall’idea che esso possa essere il frutto di un lavorio filologico da ricondurre alla scuola di Metochita e Gregora, che sappiamo avere dedicato tante energie a Sinesio (Gregora, probabilmente su commissione del maestro, redasse anche un commento al suo Trattato sui sogni; Monticini 2021, 120-125; parte di quest’opera esegetica si ritrova anche nel manoscritto athonita: Lamoureux, Aujoulat 2004, XXVII). Se così fosse, proprio all’ambiente erudito che gravitava attorno al gran logoteta sarebbe da attribuire anche la miniatura che apre il codice, in cui il vescovo di Tolemaide è ripreso nell’atto di vergare l’incipit della sua prima epistola.
Eppure, indubbiamente, elementi concreti che supportino una tale possibilità non ve ne sono. È noto che Sinesio fu un autore ampiamente letto e studiato nella Bisanzio di età paleologa, anche in circoli eruditi diversi da quello di Metochita e del suo allievo. Il fatto che il Vatop. 685 riporti parzialmente il commento di Gregora non può essere considerato un elemento rilevante, data la diffusione dell’opera e la scarsa fortuna dell’altro tentativo esegetico compiuto dall’erudito Eudaimonoioannes (Monticini 2021, 125-131), che, peraltro, non fu necessariamente svincolato dal milieu erudito in cui si muoveva Gregora. Anche il fatto che il codice athonita non riporti l’epistolario di Sinesio secondo quell’ordine particolare da far risalire a Manuele Moscopulo (Garzya 1974, n° XXV, 56-61) e fornito di quel commentario prodotto in seno alla scuola di Planude e Moscopulo (Garzya 1974, n° XXIII, XXVII) non basta ad accostarlo all’ambiente di Metochita. Lo stesso, non è un elemento dirimente il fatto che il Vatop. 685 non sia fra i testimoni di quella revisione del testo del Trattato sui sogni risalente alla prima età paleologa e di autore ignoto presente in vari codici (Lamoureux, Aujoulat 2004, LXIII-LXVI), anche perchè non è affatto certo che essa non possa essere ascritta proprio a Niceforo Gregora.
Neanche dal punto di vista paleografico si hanno per il momento evidenze che permettano di accostare il Vatop. 685 al circolo erudito riunitosi attorno alla figura del gran logoteta. Il codice contiene almeno quattro diverse mani – benchè la maggior parte degli studiosi non abbia segnalato che una sola mano principale (fino a Baldi 2012, 14-15; fanno parzialmente eccezione Lamoureux, Aujoulat 2004, XXVI, n. 20) – ma nessuna di queste pare, allo stato attuale delle ricerche, potersi ricondurre all’ambiente di Metochita e di Gregora. Non avendo potuto visionare autopticamente il manoscritto, le nostre valutazioni si basano sullo studio condotto da Rudolf Stefec (Stefec 2014, 137-140). Secondo quanto si legge in questo contributo, il codice conterrebbe una prima mano (A: 1r-2r), seguita dalla Haupthand (B: 3v, 4v, 5r-217v, l. 11, 218r-240r), intervallata da un breve intervento di diverso pugno (C: 217v, ll. 11-25). Al foglio 240r la mano B si interromperebbe senza un apparente motivo (ma verosimilmente a causa di una mutilazione dell’antigrafo: Baldi 2012, 15), per essere integrata in seguito da una quarta e ultima mano (D: 240v-248v). L’unica di queste grafie a essere stata vagamente ricondotta all’opera di un copista noto è la mano C, che lo stesso Stefec definisce “ähnlich Ioannes Katrares (RGK III 105, Nr. 279)” (Stefec 2014, 138; vedi anche Bianconi 2015, 69). Giovanni Catrario fu un copista e letterato attivo a Tessalonica nel primo quarto del XIV secolo (Bianconi 2005b, 141-156, 250; Bianconi 2006, 70). Tuttavia, per quanto riguarda la mano di nostro principale interesse – la B, autrice dell’epigramma, della didascalia e forse della miniatura che ritrae Sinesio al foglio 4v – non abbiamo informazioni specifiche; Stefec si limita a dire che “die Haupthand (archaisierende Minuskel der frühen Paläologenzeit) kann ins ausgehende 13. oder frühe 14. Jh. datiert werden” (Stefec 2014, 137-138), aggiungendo che il merito di avere per la prima volta correttamente datato questa mano spetta a Erich Lamberz (Lamberz 1996, 574).
In chiusa, ci limitiamo a segnalare, sulla scorta di Jacques Lamoureux (Lamoureux, Aujoulat 2004, XXVII), che due note marginali alla Catastasi maior di Sinesio nel Vatop. 685 (ff. 238v, 239v) confluiscono, condensandosi in una sola, nel codice London, British Library, Harley 5566, f. 86r. Data questa connessione, benchè non necessariamente diretta, fra i due manoscritti, non è escluso che ulteriori studi di natura paleografica apportino nuovi dati al panorama attuale (Brigitte Mondrain individua la mano di un copista che adotta lo stile τῶν Ὁδηγῶν nel codice londinese, ma in una sezione diversa rispetto a quella contenente la Catastasi maior, ovvero ai ff. 234r-248v: Mondrain 2007, 188-196).
5. Conclusione. Il sommo fine di una vita
In definitiva, è a nostro avviso piuttosto inverosimile che Metochita abbia inteso ʻtradurreʼ in versi ciò che molto tempo prima avrebbe espresso per il tramite di immagini musive nel monastero di Chora. Per quanto riguarda la miniatura raffigurante Sinesio riprodotta in apertura al Vatop. 685, solo ulteriori studi paleografici potranno forse fornire alcuni indizi in grado di suggerire, o di escludere, un’elaborazione compiuta in un ambiente prossimo a quello del gran logoteta.
Ciò che è certo, in conclusione, è che chi disegnò quella miniatura creò, più o meno consapevolmente, un’autentica icona. La rappresentazione del vescovo di Tolemaide, infatti, è stereotipata e tutt’altro che ispirata a un qualsiasi dato di realtà: Sinesio morì poco più che quarantenne e, come si evince chiaramente dalla sua produzione letteraria, fu più un uomo di azione che di pura contemplazione, essendosi impegnato per tutta la sua breve vita a respingere invasioni, a contrastare politici corrotti, a sanare faide ecclesiastiche. Chi lo ritrasse nel codice athonita, dunque, non intese consegnare ai fruitori del codice una raffigurazione, anche giocoforza approssimata, del Sinesio storico (uno dei tanti mnemoneumata che avrebbe affollato la mente di Funes); intese piuttosto rappresentare, con le sue sembianze (vero e proprio typon morphes), quel concetto in virtù del quale quell’autore era ritenuto degno di essere ricordato – lo stesso per il quale Metochita agognava l’immortalità, come ci confessa a più riprese nel suo poema: la consacrazione di un’intera esistenza alla produzione di cultura.
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I. Ševčenko, Theodore Metochites, the Chora, and the Intellectual Trends of His Time, in P. A. Underwood (ed.), The Kariye Djami (vol. IV), London, Princeton 1975, 19-91 (l’articolo compare anche in versione francese, sebbene priva di note e appendici: I. Ševčenko, Théodore Métochitès, Chora et les courants intellectuels de l’époque, in Art et société à Byzance sous les Paléologues. Actes du colloque organisé par l’Association Internationale des Études Byzantines, Venise, septembre 1968, Venezia 1971, 15-39. Questa versione è stata poi pubblicata in ristampa in I. Ševčenko, Ideology, Letters and Culture in the Byzantine World, London 1982, n° VIII). - Ševčenko, Featherstone 1981
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P.A. Underwood (ed.), The Kariye Djami (vol. I), London, Princeton 1966. - Zarras 2021
N. Zarras, Illness and Healing: The Ministry Cycle in the Chora Monastery and the Literary Oeuvre of Theodore Metochites, “Dumbarton Oaks Papers” 75 (2021), 85-120.
English abstract
This article discusses the relationship between Theodore Metochites’ Poem 4 and two images: the mosaic cycle of the Massacre of the Innocents, located in the outer narthex of Chora Church, and an illumination portraying Synesius of Cyrene found in two fourteenth-century manuscripts, i.e. Vatop. 685 and Suppl. gr. 660. On the basis of chronological data, the author rejects a relationship with the first document, while proposing further palaeographic research in order to have a better understanding of the theme.
keywords | Theodore Metochites; Chora; Synesius of Cyrene; Mosaics; Illumination; Icon.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: F. Monticini, Παῖδας ἐγὼ λόγους ἐγεννησάμην. Libri come figli. Produzione culturale fra testo e figura in Teodoro Metochita e Sinesio di Cirene, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 103-128 | PDF di questo articolo
To cite this article: F. Monticini, Παῖδας ἐγὼ λόγους ἐγεννησάμην. Libri come figli. Produzione culturale fra testo e figura in Teodoro Metochita e Sinesio di Cirene, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 103-128 | PDF of the article