Figli di Marte 2022. Immagini in guerra
Una galleria
a cura del Seminario Mnemosyne, coordinato da Monica Centanni con: Damiano Acciarino, Asia Benedetti, Maria Bergamo, Giorgiomaria Cornelio, Ilaria Grippa, Marco Lanzerotti, Peppe Nanni, Filippo Perfetti, Massimo Stella, Christian Toson, Chiara Velicogna, Giulia Zanon
English abstract
Ancora non è finita la guerra,
e già essa viene convertita
in carta stampata in centomila copie,
già viene presentata come nuovissimo stimolante
al palato dei bramosi di storia.
Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita
Non possiamo prevenire; solo le immagini possono soccorrerci;
solo le immagini offrono providentia, protezione, prevenzione.
James Hillman, Figure del mito
Figli di Marte 2022. Un filo, in questo labirinto:
I. Arruolare le icone
II. Romanticismo pornografico
III. La crociata dei fanciulli
IV. Still dead
V. In hoc signo
VI. Immagini malgrado tutto
Figli di Marte 2022. Un filo, in questo labirinto
Europa 2022: ancora una volta è tempo di guerra. Secondo la teoria antica e poi rinascimentale, “figli di Marte” sono quanti tra gli esseri viventi, sia per la prevalenza dell’umore sanguigno, sia per l’influsso del pianeta nel cielo della loro nascita, sono particolarmente sensibili alle irradiazioni che emanano da Marte, in speciale sintonia con le sue energie. Abbiamo scelto come primo compagno e guida di questa ricognizione James Hillman, un “figlio di Marte” come si definisce egli stesso per la natura e il carattere del suo pensiero e della sua scrittura, ma soprattutto un filosofo, un filosofo delle immagini e del mito, psico-storico prima che psicologo. Con Hillman, abbiamo arruolato altri maestri di pensiero – Giordano Bruno, e poi Aby Warburg, Ernst Jünger, Bertolt Brecht (a loro è dedicato un numero di Engramma intitolato “Figli di Marte”) – per una campagna militare il cui obiettivo è espugnare i demoni invisibili che sempre aizzano alle guerre materiali, tanto più dolorosamente sanguinarie quanto meno sono lasciate aperte vie d’uscita all’immaginazione, lungo percorsi non ancora tracciati. Ma a James Hillman, e alle sue pagine sul “terribile amore della guerra”, abbiamo affidato il ruolo di Arianna, per avere un filo da seguire in questo nostro labirinto contemporaneo abitato da mostri e minotauri, pieno di punti ciechi, di spiragli ingannevoli e di false vie di fuga – e poi di specchi, troppi specchi che, come nel racconto meravigliosamente feroce di Friedrich Dürrenmatt, riflettono ossessivamente sempre la stessa, macabra e grottesca, psicomachia.
Contro la neutralità
Chi non si era accorto che la guerra non ci ha mai abbandonato si ritrova smarrito, e pur di trovare comode certezze, sceglie sbrigativamente, a casaccio una bandiera per la quale schierarsi. Tutto iscritto, tutto già dato, tra le opzioni della paccottiglia ideologica a buon mercato che Ares, il “cambiavalute disonesto” propone nella macabra esposizione della sua bancarella “piantata sul campo di battaglia” (così Eschilo).
È merce sempre uguale, confezionata con i colori degli opposti contendenti, e spacciata ai mercatini del Romanticismo pornografico (v. infra) di questa guerra che, se è uguale a tutte le altre guerre dagli inizi della nostra storia, è la più esposta sul piano della oscenità mediatica (v. infra Still dead). Ma rifiutare di comprare quella merce non significa rifugiarsi in una passiva neutralità. Nessun atteggiamento di ponderata equidistanza ha la forza necessaria a rovesciare i banchetti del Tempio della morte. Bucare l’immagine fissa dello spettacolo corrente: sia del bellicismo unanimista “o di qua o con il nemico”, sia del complementare pacifismo, politicamente irrilevante perché culturalmente disarmato. Bisogna fare i conti con Ares, non negare la sua presenza. Scrive James Hillman:
Se non entriamo dentro questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo. Se non spingiamo l’immaginazione dentro lo stato marziale dell’anima, non potremo comprenderne la forza di attrazione. In altre parole occorre “andare alla guerra” [...] e non andremo alla guerra “in nome della pace”, come tanto spesso una retorica ipocrita proclama, ci andremo in nome della guerra: per comprendere la follia del suo amore (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 11).
Siamo di fronte a un film: sbaglia chi isola una fotografia o fermando il fotogramma di un episodio storico della serie di ieri, il passaggio armato di un confine (che non c’è e rappresenta un concetto ottocentesco di nazione) o chi guarda il fotogramma precedente (golpe di Maidan; guerra civile dal 2014; o, risalendo all’indietro: 1989; allargamento della Nato; Conferenza di Monaco; Trattato di Versailles; Guerra di Crimea…). Indagare il continuum storico è indispensabile e illuminante, ma non risolutivo ai fini del decidere. Dobbiamo, con Hillman, adottare un’altra strumentazione estetica:
La guerra esige un salto immaginativo non meno straordinario e formidabile del fenomeno stesso. Le nostre consuete categorie non sono abbastanza capienti, perché riducono il significato della guerra alla spegazione delle sue cause (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 18).
La cultura come arma impropria
Stare sul fronte dell’intelligenza del presente è – dovrebbe essere – il mestiere dell’intellettuale. La cultura – insegna Hillman – altro non è che
[...] un’arte marziale, che richiede impegno infaticabile, la punta affilata della lancia nelle budella della grettezza ignorante e il coraggio di resistere alla tentazione della mistificazione (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 237).
Ma, dicono, in tempi di guerra bisogna pensare alle cose serie e gli investimenti non possono essere sperperati nel lusso della cultura. In questi giorni (marzo 2022) il governo italiano in una situazione economica che pesa in modo gravissimo sulla vita dei cittadini, ha trovato improvvisamente, dall’oggi all’indomani, risorse consistenti per aumentare la spesa militare di ulteriori 13 miliardi di euro annui (dichiarati: il conteggio complessive delle spese militari italiane è totalmente opaco e inaccessibile), con l’obiettivo di arrivare al 2% del Pil nazionale. Era scritto. Lo aveva, per altro, già scritto Hillman e proprio a proposito dell’“amore per la guerra”, stigmatizzando la scelta che pare sempre obbligata e a senso unico a favore degli investimenti militari e contro gli investimenti culturali:
La tesi che la cultura pone un freno alla guerra è capovolta. Il governo, mentre promuove il militarismo guerrafondaio, taglia i fondi alle arti; e accompagna quest’opera di impoverimento svilendo la lingua, trascurando l’istruzione che non sia puro addestramento professionale (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 213).
Quel che sfugge ai governi guerrafondai è che l’investimento culturale è un investimento strategico, ma in un’altra guerra, su un fronte – quello dell’impegno intellettuale – che è la battaglia per la ricerca e per il sapere, anch’essa ispirata allo stile di Ares:
Il processo del fare artistico chiama metafore marziali: darci dentro e tenere duro; tagliare, rompere, stracciare, cancellare; soffrire ferite e sconfitte; rabbia incontrollabile davanti agli ostacoli. Notti insonni. Immagini, forme, frasi che balenano nel buio come davanti ai picchetti di guardia la notte. Sull’orlo della follia. La perdità di sé nell’avventurarsi nella terra di nessuno. L’intensità estetica offre un equivalente della guerra (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 257-258).
Ares può essere anche il nome divino di un altro tipo di battaglia. In un’altra declinazione della potenza marziale, la cultura è l’arma impropria di cui l’umanità può dotarsi. Stiamo cercando frammenti di visioni capaci di incantare il mondo, anziché annientarlo nella semplificazione, capaci di tenere insieme un pluriverso terribile e splendido.
Un impianto necessariamente tragico
Risalire, semmai, ai precorsi dell’Iliade per confermare l’ambiguità di fronte alla guerra (Achille, prima di incarnare Ares si nasconde a Sciro per non combattere); tornare ai Sette a Tebe: guerra che è sempre guerra civile, politica come recinzione produttiva del conflitto, uso delle immagini energetiche sugli scudi come primo esempio di propaganda bellica e di arruolamento delle icone. L’impianto tragico che traduce il mito in dramma in cui si affrontano due ragioni, due polarità, si incentra sul conflitto, perché senza l’attrito del conflitto non si libera energia per costruire la città, per fare mondo:
“L’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra” (Levinas). [...] La guerra genera la struttura dell’esistenza e del nostro pensiero su di essa: le nostre idee di universo, di religione, di etica; il tipo di pensiero alla base della logica aristotelica degli opposti, delle antinomie kantiane, della selezione naturale di Darwin, della lotta di classe marxiana e perfino della freudiana rimozione dell’Es da parte dell’Io e Super-Io. Noi pensiamo secondo le categorie della guerra (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 12).
In questa piega non si può fare a meno di Ares. Sono ingredienti elementari: il gioco consiste nella combinazione, nello scarto, nell’immaginazione che deve scomporre i fronti, riconoscendo ragioni, timori, sguardi storici sedimentati non per fare salomonicamente a metà, ma per polemizzare con entrambi al fine di sradicare l’ossessione identitaria e la sua carica distruttiva, offrendo ponti suggestivi verso altri paesaggi civili. In netta opposizione alla lettura tragica, il primo corollario dello stato (e dello Stato) di guerra è la cristallizzazione dell’opinione pubblica in una posizione unanimistica contro il nemico di turno, che deve essere spogliato dei connotati minimi dell’umano e progressivamente ‘mostrificato’ dalla propaganda, secondo una scansione che segue sempre lo stesso schema.
L’emozione che unifica una società è la “unanimità nella violenza” e il suo atto fondante è l’uccisione collettiva di una vittima sacrificale, il capro espiatorio (René Girard), un nemico contro il quale volgersi tutti insieme, senza eccezioni né dissenso, per eliminarlo. [...] Ma, attenzione: non è detto che il nemico esista davvero! Stiamo parlando dell’idea di nemico, di un nemico fantasma. Indispensabile per la guerra, causa della guerra, non è il nemico bensì l’immaginazione. È l’immaginazione la forza propulsiva, specie se è stata precondizionata dai media, dalla scuola, dalla religione, e alimentata con progradanda aggressiva e patetismi bigotti per il bisogno di nemici che lo Stato ha. Il fantasma immaginato si gonfia e oscura l’orizzonte, blocca la vista. L’idea archetipica ha ora una faccia. Una volta che abbiamo evocato l’immagine del nemico, siamo già in stato di guerra (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 39-40).
Additare una figura per facilitare l’esecrazione generale contro un volto demonico, un personaggio che sarà ovviamente afflitto da tare psichiche: anche questa è una declinazione della pornografia mediatica, che scopre dettagli lombrosiani nella cadenza del passo del leader nemico, enfatizza i suoi “occhi gonfi” dovuti immancabilmente all’uso di psicofarmaci, tenta di jellarlo indovinando improbabili malattie mortali che sarebbero all’origine delle sue decisioni politiche. Rimane da decidere, per stare al caso concreto, se stiamo parlando di Putin. Oppure di Biden.
L’idea del nemico si articola in molte immagini: le donne senza nome da stuprare, la fortezza da radere al suolo, i palazzi opulenti da saccheggiare, il mostro predatore, l’orco, o l’impero del male da sconfiggere. Un elemento di fantasia crea la razionalità della guerra [...]. Le ragioni si sfaldano e si coagulano in percezioni paranoidi che “inventano” il nemico, falsando le informazioni con voci e congetture e fornendo giustificazioni per i metodi violenti usati in guerra e, in patria, per le gravi misure di spersonalizzazione in nome della sicurezza (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 40).
Non resta, arrivati a questo punto, che attribuire a questa immagine caricaturale la volontà di compiere qualsiasi nefandezza e di usare qualsiasi arma, senza curarsi delle conseguenze.
Dopo di che, i politici inventeranno volgari bugie, dando tutte le colpe alla nazione da attaccare, e ognuno sarà grato di queste falsità che gli mettono in pace la coscienza, e le studierà diligentemente, mentre rifiuterà di prendere in considerazione qualsiasi argomentazione contraria; e in questo modo di lì a poco si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce (Mark Twain, The Mysterious Stranger [1916], cit. in Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 250).
Per ripristinare senso critico e politeismo dei valori, dialettica polemica e discussione informata (“conoscere per deliberare”, diceva Pietro Calamandrei), bisogna farla finita con la criminalizzazione dell’altro: la riduzione dello scontro a campagna poliziesca degrada chi la subisce quanto chi la mette in opera perché, diceva Carl Schmitt, “il nemico è una forma del mio stesso problema”. Se l’altro è un criminale, io sono al massimo una guardia carceraria. È una concezione degradante che fa subito una vittima: la politica. E a seguire tutto il resto che ci sta a cuore.
Anziché seguire il ritmo conoscitivo dell’impianto tragico e il tentativo di piegare l’energia di conflitto verso un esito benefico per la città – commutare le Erinni in Eumenidi – avremo allora mobilitato la società per una crociata per il bene contro il male assoluto e, sotto la furia invasata di Ares distruttore, i deboli distinguo dei refrattari allo scontro non troveranno alcun dio che li sostenga.
L’agone delle immagini
Occorre trovare immagini forti per contrastare gli opposti unanimismi (la maledetta reductio ad unum di ascendenza platonica), usare una propaganda per smontare l’altra e quindi, nel caso concreto, analizzare anche le fonti russe oggi precluse al pubblico, trattato dall’apparato mediatico occidentale come un minus habens incapace di esercitare la critica del giudizio.
“Non si può capire, non si può immaginare” (Susan Sontag); [...] “è inaccettabile”. Troppo semplice: è ammettere la sconfitta prima ancora di incominciare” (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 15).
Da rimediare è “il difetto di immaginazione”:
Valutare correttamente il nemico non è semplicemente misurare le forze con satelliti spia, decifrare codici e unire puntini su una mappa. Immaginare il nemico significa lasciare che l’altro ti entri dentro e occupi zone intere della tua anima (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 214).
Vince chi contiene all’interno del proprio perimetro anche il desiderio immaginativo del nemico. Tutto si gioca nella lotta a includere l’immaginazione dell’altro, le sue prospettive, i suoi desideri: gara e vittoria si giocano tra reciproche immaginazioni. E l’esito mai scontato del conflitto può sfociare in situazioni inedite, contaminazioni impreviste. Perché – suggerirebbe Gilles Deleuze – non posso disarmare l’ossessione dell’altro (le sue fobie, la sua violenza), se non disarmo, prima, la mia; mettendosi tutti in divenire. Occorrono architetti delle immagini per articolare la complessità di una costruzione e per declinare il rigore di un metodo chiamati a innervarsi i lungo un percorso di situazioni puntuali da espungere una a una. Atteggiamento marziale, quindi con ritmo e cadenza che non ammette viltà argomentativa, perché deve affrontare non una ma tutte le rancorose identità incrostate degli opposti contendenti e sedurre verso nuove e più ampie immagini una sufficiente massa critica. La prima mossa risiede nell’atto di sradicare se stessi da una postura rannicchiata e appiattita sulla chiacchiera corrente, dalla voglia di schierarsi istintivamente e a casaccio. Non è facile, già scrivendo o leggendo queste righe stiamo combattendo contro i demoni che ci strattonano a buttarci nella mischia su fronti preconfezionati dalla retorica prêt-à-porter. Ma è l’unica strada per persuadere gli altri. E, soprattutto, per convincere alla pace Ares, che ama – e genera – solo le armonie di più difficile taglio e per questo più belle.
Zeus e i Titani
“Per comprendere la guerra” – insegna Hillman – “dobbiamo arrivare ai suoi miti, riconoscere che essa è un accadimento mitico”:
I miti sono la normazione dell’irragionevole [...]. Per comprendere la guerra dobbiamo arrivare ai suoi miti, riconoscere che essa è un accadimento mitico, che coloro che vi sono immersi sono proiettati in uno stato d’essere mitico, che il loro ritorno da quello stato sembra inesplicabile razionalmente, e che l’amore per la guerra dice di un amore per gli dei, per gli dei della guerra; e che nessun’altra interpretazione (politica, storica, sociologica, psicoanalitica) può penetrare – ed ecco perché la guerra rimane “non immaginabile”e “non comprensibile” – fino agli abissi disumani della crudeltà dell’orrore e della tragedia e fino alle altezze transumane della sublimità mistica (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 21).
È necessario “attrarre gli dei” nel discorso della guerra, e non già per salvare la guerra dalla sua, irredimibile, irrazionalità, ma per trovare immagini e modi di dire le sue varie e diverse epifanie. Se è vero che ogni divinità è un modo di dire il mondo, anche la guerra ha tante facies e tanti nomi divini. Qualcuno potrebbe dire che Ares non basta più per dire la guerra contemporanea. Ma non c’è solo il nome di Ares per dire la guerra; ci sono anche Hermes, Apollo, Atena:
Al posto di Ares/Marte, le strategie e l’indottrinamento politico di Atena: guerra di parole e di volantini, vincere i cuori e le menti [...]. Al posto di Marte, Hermes: comunicazione invisibile e instantanea su internet, infiltrati travestiti, decriptazione, jamming, ricognizione notturna con visori a raggi infrarossi, intercettazione ambientale, mazzette, regalie, ricompense, riciclaggio del denaro sporco. Ancora più minacciosa è l’immaginazione di Apollo, “lungisaettante” [...], colui che colpisce da lontano con le sue frecce che solcano il cielo: l’immaginazione del distanziamento. Le armi lontano dal fronte, il fronte stesso dissolto, mentre la guerra si trasferisce in cielo, sui satelliti, nello spazio, trasformata dall’immaginazione apollinea in visioni nucleari splendenti più di mille soli (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 115).
Se la guerra nel segno di Marte è guerra in campo aperto e oppone esercito a esercito sui campi di battaglia fuori dalle mura della città, la guerra nel segno di Hermes o Apollo è portata dentro al cuore della città. Questa è la facies della guerra che porta a compimento quella che Ernst Jünger ha chiamato la “guerra dei materiali”, dove a prevalere è la fredda esecuzione tecnica a distanza. Non più e non solo il corpo a corpo tra i soldati, ma l’innesco di dispositivi tecnologici distruttivi eseguito da personale tecnico (non necessariamente militare), situato in remote centrali operative. Dalle grandi guerre del Novecento, il timbro di Marte potrebbe sembrare superato, ora che la distanza, il distacco, il prevalere di un set operativo virtuale ha reso via via più incerta la coscienza e la responsabilità di operare concretissime e immense distruzioni. Ma proprio l’ineludibile conseguenza che gli effetti della guerra si verificano sul pesante suolo della terra, rende preziosa la perdurante presenza di Marte:
La passione impetuosa di Marte fa sì che la guerra avvenga nella carne viva della storia. Se essa fosse lasciata al solo Apollo, Hermes o Atena, basterebbero le simulazioni, i piani strategici e le manovre mentali (Quel terribile amore della guerra [2004] 2015, 117).
In quella pericolosa leggerezza, in quella asettica e rarefatta atmosfera l’irresponsabilità regnerebbe sovrana. Solo Marte ci costringe a riconoscere che in guerra sono in gioco vite e corpi, e che la guerra non è che l’ultima istanza, la risorsa estrema. Per questo il nome di Ares, il distruttore, è anche un nome salvifico. Per questo è irrinunciabile il nome di Ares.
Ma c’è anche un’altra storia mitica, indispensabile per uscire dal letteralismo assassino che conduce alle stragi. La vittoria di Zeus sui Titani segnala che la mossa vincente consiste nel prendere sul serio il desiderio immaginativo dell’altro, dell’avversario, del nemico, senza purtuttavia prenderlo alla lettera, ma curvandolo in una declinazione che ne consenta non solo la sconfitta ma anche la neutralizzazione e l’assorbimento: con-vincere il nemico.
Perché toccò a Zeus salvare il mondo dai Titani? Non per la sua forza, secondo me, per i suoi fulmini, per la sua intelligenza scaltra né per la sua funzione di legge e ordine, bensì piuttosto per la sua capiente immaginazione. […] La gamma della sua fantasia era inclusiva, ampia, generosa e differenziata. Zeus era davvero un dio del cielo; copriva tutto con l’ampiezza della sua facoltà immaginativa, era pari, nella sua grandiosità articolata, alla enormità titanica. La smisuratezza titanica può essere abbracciata e contenuta soltanto da una capacità altrettanto vasta di creare immagini. [...] La coscienza improntata a Zeus è attiva; terragna, aperta, presente. Zeus genera attivismo e militanza, il che ci insegna qualcosa su come far fronte al titanismo: non con il ritiro, la meditazione, la psicoanalisi, né con la speranza nel Regno a venire (J. Hillman, Figure del mito [2007] 2014, 134).
Una capienza immaginativa maggiore: è questa la virtù per cui Zeus prevale sui Titani e riesce a contenere la loro enorme prepotenza e ad assorbirne l’energia, costruendo così, con una mossa di egemonia tutta politica, la sua fortuna.
I. Arruolare le icone
Immagini potenti, palladia, invocate e poste a protezione della città. Immagini hopla in battaglia, arruolate, portate in prima linea da imperatori e generali fin dall’Antichità. Atena Parthenos / Vergine Theotokos; Atena Promachos / Maria Symmachos. La Saint Javeline, l’immagine scelta come copertina di questo numero di Engramma, replicata di modo estenuante in questi giorni, come merchandising per la campagna di fundraising a favore della resistenza ucraina, ha una ferocia particolare. Attingendo all’iconografia tradizionale ortodossa, vuole rovesciare l’archetipo della protezione e della cura. Nella guerra in corso, come nella storia significativa è l’incongruenza semantica e la violenta pretesa, da entrambe le parti, di garantirsi l’intercessione di Dio e della Madonna.>>>
II. Romanticismo pornografico
Questa sezione mette insieme una galleria di immagini che conoscono una grande diffusione nei media, e che abbiamo raccolto sotto la definizione di “romanticismo pornografico”. La definizione è data dalla combinazione di due termini, “romantico”, qui inteso come “tinta” languida del racconto, e “pornografico”, nel senso di inutilmente esplicito, o falsamente trasparente. Culto dell’orrorifico, della morte come spettacolo patinato, tollerabile solo perché recintato dallo schermo, oppure definitivamente trascorso: fascino per la rovina. Tutte forme, queste, di reclutamento patetico che ottunde i sensi, obbliga all’eccitata partecipazione, eliminando il necessario spazio di distanza tra l’osservatore e l’immagine. >>>
III. La crociata dei fanciulli
Il bambino è il meccanismo perfetto della macchina ideologica, adulterato “dal nostro bisogno di avere qualcuno che si faccia portatore di un regno immaginale” (così James Hillman). Il suo reclutamento trova declinazione nel contemporaneo senza il conforto del miracoloso, come accadde invece nel XIII secolo. L’addestramento bellico passa anche dalla scuola e diviene, per i neofiti di Marte, pretesto per condurre uno stile di vita sano, natura e esercizio ginnico. Dalla messa al bando del giocattolo armato al suo sbandieramento nelle cronache, con l’immagine della bambina dai capelli legati da un nastro giallo-blu e un lecca lecca in bocca, nuovo esemplare di Lolita armata (come scrive Daniela Ranieri, La Lolita mitra e lecca-lecca), improvvisamente non più il “bambino soldato” la cui innocenza va salvata, ma eroina di un ideale: santa in quanto innocente, morbosamente seducente e perciò asservita a una battaglia in cui il valore patetico dell’immagine è una delle armi più potenti. >>>
IV. Still dead
L’immagine, e specialmente l’immagine fotografica, sa farsi magia capace di dare una memoria viva della morte e del morto; diventare da “still life” – che corrisponde all’italiano “natura morta” – a quella che qui, rovesciando la locuzione inglese e incrociandola in modo dialettico con la locuzione italiana, chiamiamo “still dead”. Non si tratta di oggetti naturali ma anche, soprattutto, di corpi. La rappresentazione fotografica della morte avviene attraverso il genere “still life”/ “still dead” che racchiude in sé in maniera evidente l’antinomia che nello stesso medium fotografico è sempre latente tra vita e morte: la fotografia, infatti, è capace di ridare presenza e “vita” a un corpo “appena morto”, ma anche, immobilizzando, fermando, la vita in uno scatto, di sottrarre la sua carica energetica. In questa galleria ne diamo un campionario proveniente da esempi tratti dalla più stretta attualità del conflitto ora in corso ad esempi provenienti dal passato, dagli albori della fotografia sperimentati in contesti bellici e dalle arti figurative. La selezione, nella sua varietà, declina il genere “still dead” in alcune delle sue possibili applicazioni. >>>
V. In hoc signo
In questa galleria si riflette sui segni e su come sono usati in questa guerra. Nella furiosa tempesta semiotica che ci investe nella propaganda di guerra, si consuma una danza che permette al segno di stare equidistante fra l’inequivocabile e l’incomprensibile: il sogno che si fa signum, il segno che diventa realtà. >>>
VI. Immagini malgrado tutto
Ci sono volte in cui le immagini sorgono all’incrocio tra la scomparsa del testimone e l’irrappresentabilità della realtà. La loro potenza sta nella sopravvivenza in quanto tracce parziali di un’esistenza, la loro forza esplosiva ci punge e ci spinge a riconsiderare la nostra posizione di testimoni. Le immagini fotografiche come occhi sopravvissuti della storia e nell’occhio della storia, si trasmettono e giungono fino a noi, resistenti lacerazioni della totalità del reale, malgrado tutto. Ci ricordano l’importanza di assumere uno sguardo sempre pronto a smontare le apparenze, ma mai disperante, attento e mai anestetizzato, incantato ma mai spettacolarizzante. Uno sguardo da fotografo. >>>
English abstract
In the Gallery we present a selection of the rich choice of images selected by the Seminar Mnemosyne in preparation for this extraordinay publication. These images are presented as materials to build a Warburgian panel and are divided into specific thematic areas.
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Per citare questo articolo: Seminario Mnemosyne, Figli di Marte 2022. Immagini in guerra: una galleria ”La rivista di Engramma” n.190, marzo 2022, pp.33-50 | PDF dell’articolo
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