"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

190 | marzo 2022

97888948401

Still dead

Materiali per una tavola warburghiana

a cura di Ilaria Grippa e Filippo Perfetti

English abstract

Allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciacio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda, nudi.
Antonella Anedda, Esilii, 2018 

L’immagine, e specialmente l’immagine fotografica, sa farsi magia capace di dare una memoria viva della morte e del morto; diventare da “still life” – che corrisponde all’italiano “natura morta” – a quella che qui, rovesciando la locuzione inglese e incrociandola in modo dialettico con la locuzione italiana, chiamiamo “still dead”. Non si tratta però, soltanto, di oggetti naturali ma anche, soprattutto, di corpi. La rappresentazione fotografica della morte avviene attraverso il genere “still life”/“still dead” che racchiude in sé in maniera evidente l’antinomia che nello stesso medium fotografico è sempre latente tra vita e morte: la fotografia, infatti, è capace di ridare presenza e “vita” a un corpo “appena morto”, ma anche, immobilizzando, fermando la vita in uno scatto, di sottrarre la sua carica energetica.

Il genere “still dead” può essere declinato in diversi modi. Può essere “still dead” di un paesaggio, che registra gli spolia della guerra: così accade nelle artefatte fotografie di Richard Fenton che, a metà del 1800, testimonia la guerra di Crimea attraverso scatti posati che raccontano una vita al fronte apparentemente pacifica. Il carro su cui viaggiava Fenton nella sua campagna fotografica in Crimea iniziata nel 1855 era un mezzo per spostarsi, ma anche per portare con sé l’ingombrante attrezzatura fotografica (simile a quelli delle carovane del West americano); il fotografo portava con sé una attrezzatura di avanguardia, che scontava però la necessità di avere lunghi tempi di esposizione: il che rendeva impossibile catturare l’azione del combattimento ma solo immagini di scene posate e di paesaggi – come in una tipica natura morta dipinta a cavalletto. Conseguenza di tutto ciò è il dubbio non fugabile sull’autenticità degli scatti di Fenton. L’atmosfera apparentemente tranquilla di questa serie è ad esempio profondamente diversa da come vediamo il paesaggio – tramite le sole macerie quasi fossilizzate – nel reportage dalle terre dell’Iraq di Sophie Ristelhueber realizzato tra il 2000 e il 2001, che mostra le macerie come i soli resti sopravvissuti all’ennesima guerra. Un succedersi di macerie lungo la storia e la ricerca delle tracce della guerra sono infine anche nelle immagini di Paul Seawright della serie Valley (2002), che con un gusto quasi feticista per la guerra e la storia della fotografia torna sui luoghi catturati un secolo e mezzo prima dall’obiettivo di Fenton.
 

Roger Fenton, La valle delle ombre della morte, guerra di Crimea 1853-1856. 
Roger Fenton, Piana di Sebastopoli, veduta del campo dell’esercito britannico e alleati, guerra di Crimea 1853-1856.
Paul Seawright, Valley, 2002.
Sophie Ristelhueber, Iraq, 2000-2001. 
EPA/Sergey Kozlov, Kharkiv, Ucraina, 3 marzo 2022.

La confusione fra “still life” e “still dead” che la fotografia induce e comporta è nel suo uso quasi illusionistico di rivificare il defunto ritratto nell’immagine fotografica. Espressiva di questa  capacità è la finzione di vita data dalle fotografie tipicamente vittoriane delle “hidden mothers”, le madri che, nascondendosi in quello che oggi appare un maldestro e terrificante camouflage, mettono in scena davanti all’obiettivo la finzione di un ricordo da vivo del proprio figlio morto (si veda, sull’immagine fotografica nell’Ottocento e il suo rapporto con la rappresentazione della morte, anche Pirazzoli 2008). Le madri sorreggono i bambini esamini proprio come la melanconica Madonna del Mantegna sostiene il suo Bambino che appare anch’egli esamine e avvolto in un lenzuolo bianco, premonizione del sudario in cui sarà avvolto dopo la crocefissione. Allo stesso ciclo della Madre che regge il figlio morto, possiamo ascrivere, per rovesciamento, l’immagine e la fine dell’illusione: un bambino al fianco alla propria madre morta in Russia negli strascichi del primo conflitto mondiale.

Andrea Mantegna, Madonna con Bambino addormentato, tempera su tela, 43x35 cm, 1490-1500 ca., Milano, Museo Poldi Pezzoli. 
Charles Milton Bell, “The Hidden Mother”, ferrotipi, dagherrotipi e stampe all’albume, fine XIX – inizi XX secolo, Stati Uniti. 
Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Oh! Uomo, 2004.

Innumerevoli sono i modi in cui ci si può rappresentare con un morto o la morte. Da un Compianto bolognese in terracotta quattrocentesco, si passa per la foto a Kabul di Luc Delahaye (2002), che dà a quella che è un’immagine di reportage il gusto di una foto posata, come erano le foto di Fenton. L’utilizzo di ottiche grandangolari, l’estetismo ricercato nel tentantivo di nobilitare artisticamente il fotoreportage, danno al ciclo Kabul sì l’aspetto da fotografia d’arte, ma mettono quasi in secondo piano l’evento drammatico che è il tema del racconto. E ancora: nell’immagine scattata da Georges Mérillon durante una veglia funebre per un manifestante ucciso dai soldati in Kosovo nel 1990 il fotografo restitruisce l’atmosfera della scena come se stesse dipingendo una tela: la fotografia alza il suo spessore estetico e politico e si eleva intenzionalmente a opera d’arte carica di pathos (Didi-Huberman 2007). 

Nicolò dell’Arca, Compianto su Cristo morto, terracotta, 1463-1490 ca., Bologna, Chiesa di Santa Maria della Vita.
Luc Delahaye, Kabul Road, 2002.
Georges Mérillon, Pietà del Kosovo, Kosovo, 1990. 

Diverso per strategia compositiva e per poetica è lo scatto raccolto nel suo lavoro da fotoreporter di cronaca nera di Weegee intitolato Unusual Crime (anni ’40), dove vera è la scena, ma finto il cadavere, un manichino. Una foto posata con un cadavere è poi quella del soldato americano a fianco al vietcong in Full Metal Jacket, che ha il suo rovescio nei cadaveri reali, The Act of Seeing with One’s Own Eyes di Stan Brakhage. Il film, del 1971, è costruito con immagini di autopsie, senza alcun tipo di intervento narrativo o di commento sonoro: resta così la visione privata di distanza del cadavere, il nudo guardare la spoglia anatomia di corpi senza più alcuna vita. Una ripresa dei cadaveri è anche in un’altra immagine, tratta da Pays barbare, del 2013, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, in cui si vedono i cadaveri a Piazzale Loreto ripresi da una seconda camera; fotogramma che introduce un’altra immagine degli stessi autori Gianikian e Ricci Lucchi, presa dal film Prigionieri della guerra, scelto non solo per il soggetto ma per il medium stesso: i film dei due registi, infatti, sono girati attraverso quella che loro chiamano “camera analitica”, una particolare camera da presa da loro costruita, fatta con un obiettivo con caratteristiche da microscopio – più fotografiche che cinematografiche – che va a rifilmare uno ad uno – a volte selezionandone una parte e ingrandendola fino alla grandezza dell’intero formato – i fotogrammi del filmato d’archivio originale: i loro film sono perciò una ripresa di una ripresa, uno “still dead” dello stesso medium. Un cinema che si fa testimonianza della scomparsa di sé: la fine di formati utilizzati per decenni nella storia del cinema – uno per tutti l’8mm – e utilizzati fino all’ultimo dalla coppia di filmmaker nei loro rifilmaggi di chilometri di materiali d’archivio, è il racconto non solo della vita catturata ma lontana e perduta nella storia del soggetto ripreso, ma anche di un formato e di un supporto che, seppure qui ancora in uso, è assimilabile in certo modo al suo ritratto da vivo posto sopra alla sua tomba. “still dead” del medium anche per via del particolare ritmo che Gianikian e Ricci Lucchi danno alle loro sequenze: spesso i singoli fotogrammi, che in un normale scorrimento della pellicola nel proiettore costituirebbero una frazione di un secondo di filmato, appaiono ripetuti e perciò risulta allungata la loro durata fino a quasi diventare still, fermo immagine. Come scrive Robert Lumley nella monografia dedicata alla loro opera: “L’angoscia per la morte e per la custodia della memoria dei morti si trasferisce così al medium stesso”. A chiudere la sequenza l’immagine di una fossa comune in Ucraina nel 2022.

Weegee, Unusual Crime, 1940 ca.
Stanley Kubrick, Full Metal Jacket, 1987. 
Stan Brakhage, The Act of Seeing with One’s Own Eyes, 1971. 
Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Pays barbare, 2013.
Yervant Gianikian, Angela Ricci Lucchi, Prigionieri della guerra, 1995.
Ucraina, fossa comune (marzo 2022). 

La ripresa “still dead” di un cadavere risponde alle stesse esigenze compositive tipiche del genere. Proprio come in una natura morta sono organizzati gli oggetti e sistemato il set: così è nel film a episodi Amore e rabbia del 1969, nel capitolo firmato da Pasolini La sequenza del fiore di carta, dove nel finale l’attore protagonista, Ninetto Davoli posa come il morto bambino mostrato nella sequenza immediatamente successiva del film. Una posa espressionista era già nel film sovietico del regista ucraino Aleksandr Dovženko, Arsenal (1929), dove l’atrocità del primo conflitto mondiale è esasperata nei piani ravvicinati che raccontano la morte dei soldati.

Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Carlo Lizzani, Amore e rabbia, Francia/Italia 1969. 
Pierpaolo Pasolini, La sequenza del fiore di carta, in Aa. Vv., Amore e Rabbia, 1969.
Aleksandr Dovženko, Arsenal, 1929.

Messa in posa di cadaveri in perfetta composizione platealmente maniacale e perversa è quella di Jack nel film di Lars von Trier The House That Jack Built, che usa come modelli-manichini e va a fotografare in sequenza le proprie vittime in molteplici pose; per poi collezionarle al fine di costruire una macabra casa dopo averle esposte come trofei di caccia. Una messa in posa che esaspera al grado superlativa la preparazione cosmetica riservata ai cadaveri da riporre ed esporre nelle bare prima della sepoltura.

Lars von Trier, The House That Jack Built, 2018.

Lars von Trier, The House That Jack Built, 2018.
Ucraina (marzo 2022). 

Infine, l’immagine di un uomo crocifisso in Donbass nel 2015 richiede di essere guardata alla stessa maniera in cui Bataille guardava alla fotografia dell’esecuzione dell’anonimo cinese, nel film Supplizio di Fou-Tchou-Li di Carpeaux del 1905 (Bataille 1961).

CyberBerkut (gruppo di hacker di origine russa), 25 aprile 2015. Nel video si vedono uomini che affermano di appartenere al battaglione Azov che hanno prima crocifisso un prigioniero e poi gli hanno dato fuoco. 
Louis Carpeaux, Supplizio di Fou-Tchou-Li, fotografia, 1905. Da Louis Carpeaux, Pékin qui s’en va, A. Maloine, Paris 1913. 

Sull’immagine, e sulla lettura di Bataille, è tornato Georges Didi-Huberman:

Se il suppliziato cinese fornisce a Bataille l’imago pietatis per eccellenza, è senza alcun dubbio in relazione al fatto che questo giovane cinese, sconosciuto e senza nome, muore senza padre, senza verbo e, soprattutto, senza alcuna possibilità di redenzione. Il suo sacrificio sarà, quindi, scevro di ogni soluzione d’al di là. Bataille stesso, del resto, ha collegato – per contrapporli – il Cristo in croce al cinese sottoposto al supplizio dei cento pezzi: questo per dire semplicemente che nel primo risiede quello da cui l’immagine aperta del secondo è per sempre liberata, ovvero il discorso, il Verbo. In altre pagine, Bataille definisce questa chiusura, questo appello al verbo, questa rinuncia davanti al peggio, propria secondo lui del cristianesimo, con l’espressione “sostanziare il sacro”, che consiste nell’inventare un al di là, una “sostanza trascendente”, scrive, che coagula, e rende astratto, dunque inautentico, il momento del sacro, da cui deriva tutto il reale del sacro: momento del punto d’estasi che il suppliziato cinese fissa, agonizzante, “i capelli diritti in testa, orrendo, stravolto, striato di sangue, bello come una vespa”. L’esercizio spirituale ignaziano, per esempio, in relazione a un momento simile, sarà violentemente criticato da Bataille come un abbozzo, una simulazione del sacro, una rappresentazione teatrale, infine, una menzogna sull’essere (Didi-Huberman [1986, 2007] 2008).

Le immagini della cronaca di allora e quelle più vicine all’oggi, nel loro essere scabre e nude imitazioni di un sacrificio, non mostrano alcun al di là oltre la violenza propria del vedere. Queste sarebbero, nella definizione di Didi-Huberman, “l’immagine aperta: una immagine sacrificio, senza la presenza di Dio a cui dedicare il sacrificio, senza un qualsivoglia Nome-del-Padre”.
 

Filmografia
  • Brakhage 1971
    S. Brakhage, The Act of Seeing with One's Own Eyes, 1971.
  • Dovženko 1929
    A. Dovženko, Arsenal, 1929.
  • Gianikian, Ricci Lucchi 1995
    Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Prigionieri della guerra, 1995.
  • Gianikian, Ricci Lucchi 2004
    Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Oh! Uomo, 2004.
  • Gianikian, Ricci Lucchi 2013
    Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Pays barbare, 2013.
  • Kubrick 1987
    S. Kubrick, Full Metal Jacket, 1987.
  • Pasolini 1969
    P.P. Pasolini, La sequenza del fiore di carta, in Aa. Vv., Amore e rabbia, 1969.
  • von Trier 2018
    L. von Trier, The House That Jack Built, 2018.
Riferimenti bibliografici
  • Bataille 1961
    G. Bataille, Les Larmes d’Éros, Paris 1961.
  • Cotton [2004, 2009] 2010
    C. Cotton, La fotografia come arte contemporanea [The Photograph as Contemporary Art, London 2004], trad. it. di M. Virdis, Torino 2010.
  • D’Autilia 2012
    G. D’Autilia, Storia della fotografia in Italia: dal 1839 a oggi, Torino 2012.
  • Didi-Huberman [1986, 2007] 2008
    G. Didi-Huberman, L’immagine aperta [L’image ouverte, Paris 1986, 2007], in L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, trad. it. di M. Grazioli, Milano 2008, 239-259.
  • Didi-Huberman 2007
    G. Didi-Huberman, Costruire la durata, in Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, F. Ferrari (a cura di), trad. it. di E. Borgese, Milano 2007, 21-52.
  • Fregni Nagler 2003-2016
    L. Fregni Nagler (a cura di), “The Hidden Mother”, cataloghi delle mostre Milano-Venezia, 2003-2016.
  • Lumley [2011] 2013
    R. Lumley, Dentro al fotogramma. Il cinema di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi [Entering the Frame. Cinema and History in the Films of Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi, Oxford 2011], trad. it. di F. Leoni, Milano 2013.
  • Mulligan, Wooters, Winward 2000
    T. Mulligan, D. Wooters, A. Winward (a cura di), Storia della fotografia dal 1839 ai giorni nostri, Colonia 2000.
  • Pirazzoli 2008
    E. Pirazzoli, Schneewittchenwerk. Appunti per una riflessione su Biancaneve e la cultura del XIX secolo, “La Rivista di Engramma” (luglio-agosto 2013), 194-208.
English abstract

The photographic image has the ability to magically manifest the memory and testimony of death. The game lies in the overturning of the meaning of still life, an English term translated as “immobile nature” and in Italian “still life”, to still dead.
This “genre” is declined in different ways: still dead of a landscape, which records the spoils of war such as, for example, the first photographs documenting the Crimean War (1853-1856) by Richard Fenton; the ambiguous photographs of the “hidden mothers” and the different possibilities of representation of a dead person and his specific scenographic context that continues to be repeated until today.

keywords | Still life; Still dead; Hidden mothers; Gianikian-Ricci Lucchi; Bataille; Roger Fenton; Landscape.

Per citare questo articolo: I. Grippa e F. Perfetti, Still dead. Materiali per una tavola warburghiana, ”La rivista di Engramma” n.196, marzo 2022, pp. 51-56 | PDF dell’articolo

To cite this article:  I. Grippa e F. Perfetti, Still dead. Materiali per una tavola warburghiana, ”La rivista di Engramma” n.196, marzo 2022, pp. 51-56 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.190.0010