"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

190 | marzo 2022

97888948401

“Sanzioni culturali contro Mosca. No a una scelta inaudita”*

Salvatore Settis

English abstract

La spirale di violenza verbale innescata dall’invasione dell’Ucraina ha qualcosa di veramente nuovo: non solo accompagna il fragore delle armi come nella storia sempre è stato, ma nei Paesi non belligeranti sembra quasi voler prendere il posto di un intervento militare diretto, traducendo l’ostilità verso Putin in un crescendo di parole, ma senza scendere in guerra. E mentre il terribile calvario ucraino con i suoi costi in vite umane e città martoriate si sparge in tutta Europa attraverso l’informazione e l’esodo in massa di civili, l’escalation della violenza verbale anti-Russia prende l’aspetto di una risposta necessaria, a metà fra la minaccia e il deterrente. C’è chi è convinto che questa muraglia di slogan eviti di impegnarsi nella guerra guerreggiata e possa anzi trascinare al tavolo delle trattative un Putin altrimenti riluttante, o provocarne il rovesciamento con una qualche congiura di palazzo.

A questo inasprimento del duello verbale con un nemico sempre meno lontano ci stiamo abituando, giorno dopo giorno: ma non dobbiamo dimenticare che esso si spiega solo con il rischio incombente di una guerra atomica globale. È per questo che la durezza delle accuse tende a diventare, per i paesi Nato come l’Italia, il sostituto (temporaneo?) di un intervento diretto nella guerra, così come l’invio di armi all’Ucraina appare un male minore rispetto all’invio di truppe. Sul fronte opposto, la Russia di Putin può spacciare la rinuncia (temporanea?) all’uso di armi nucleari come sinonimo di una pace che non c’è, e intanto alzare il tono delle minacce e dei ricatti verbali. Camminiamo, sui due versanti di una frontiera che credevamo abbattuta, su una lama di coltello; e intanto ci vien detto di quando in quando di “prepararci a tutto” (così Manuel Valls il 22 marzo), senza dare a questo “tutto” il suo vero nome: il rischio di essere coinvolti in una guerra nucleare.

La guerra culturale fa parte di questo gioco al (reciproco) massacro. Ne è documento un appello per le “sanzioni culturali contro la Federazione Russa” che nella stampa italiana ha circolato ben poco. Lo si può leggere, in ucraino e in 22 traduzioni fra cui l’italiano (ma non il russo) sul sito Вимога культурних санкцій щодо Російської Федерації / Petition: Impose cultural sanctions on the Russian Federation. Primo firmatario è Oleksandr Tkachenko, Ministro ucraino della cultura e dell’informazione, seguito da funzionari dello Stato e da attori, musicisti, galleristi. È un breve testo che non lascia nulla all’immaginazione: chiede “al mondo intero, ai Paesi che sostengono l’Ucraina, l’umanismo, la pace e l’ordine nel mondo”, di annullare ogni progetto culturale in cui sia coinvolta la Russia, chiudere i centri culturali russi all’estero, espellere i cittadini russi da qualsiasi consiglio scientifico, vietare la partecipazione di artisti russi a eventi internazionali (vengono citati in particolare la Biennale e la mostra del cinema di Venezia, l’Arena di Verona, Art Basel, i festival di Avignone e Salisburgo, il salone del libro di Francoforte), “impedire la copertura della cultura russa nei media”. “La cultura russa oggi è tossica! Non essere complici!” conclude l’appello. Ad esso si è conformata la cancellazione di Dostojevskij dai programmi di un’università italiana, per fortuna subito coperta dal ridicolo.

Come è ovvio, l’inaudita richiesta (cancellare la presenza di una delle culture costitutive dell’Europa) è una reazione all’invasione russa, e come tale non mancherà chi la trovi spiegabile anche se smodata. Tanto più che, trattando l’Ucraina come una provincia ribelle da ricondurre all’obbedienza e non come un’entità statale, la Russia di Putin sta provocando il crescere del nazionalismo ucraino. Ma una riflessione sull’idea stessa di “sanzioni culturali” s’impone. Possiamo mai immaginare uno scontro di armi e di idee più duro di quello che devastò l’Europa nella Seconda guerra mondiale? Eppure allora non risulta che qualcuno provasse a cancellare Dante in Inghilterra o Shakespeare in Italia, considerandoli portatori di una cultura in sé “tossica” e al servizio della propaganda bellica. A Londra anzi accadde il contrario: in piena guerra, nel 1941, il Warburg Institute allestì una mostra fotografica, “English Art and the Mediterranean”, dove “Mediterraneo” significava primariamente l’Italia, un Paese con cui il Regno Unito era in guerra. L’iniziativa fu di Fritz Saxl, lo studioso austriaco che dirigeva l’Istituto Warburg, e che in quanto ebreo aveva dovuto fuggire dalla Germania nazista, trapiantando a Londra l’intera biblioteca Warburg. Ben consapevole delle infami leggi razziali che avevano scacciato gli ebrei anche dall’Italia, Saxl ebbe la forza di riconoscere nella cultura italiana una componente essenziale dell’Europa; così come oggi dovremmo sapere che non c’è Europa senza cultura russa (e, certo, senza cultura ucraina). Con quella mostra nel buio momento di una guerra terribile, Saxl sognava la pace, anzi la preparava (il primo numero del “Journal of the Warburg Institute” dopo la guerra fu interamente dedicato ad autori italiani come Bianchi Bandinelli, Argan, Calogero, Momigliano, Campana). Sia dunque lecita una domanda: che cosa sogna in cuor suo, che cosa si propone chi predica oggi un bando inesorabile alla cultura russa?

Compito dell’arte e della cultura è creare o conservare ponti, non abbatterli. Favorire il dialogo, cercarne le parole, affrettarne il momento, e non renderlo più impervio e più lontano. È quel che ha fatto il Papa consacrando in un sol giorno alla Madonna l’Ucraina e la Russia. E vale la pena di leggere quel che ha scritto pochi giorni fa il direttore dell’Hermitage, Mikhail Piotrovsky, in una lettera ai direttori dei principali musei del mondo resa nota in Italia da Maurizio Cecconi: “Sono contrario a risolvere i problemi con la forza, con odio, guerre e rivoluzioni. Ma la mia professione richiede di pensare al destino della cultura e al suo ruolo di guarigione nella società. Abbiamo iniziato il 2022 con una mostra profetica su Dürer, incentrata sull’Apocalisse: e i suoi cavalieri sono già con noi: peste, guerra, carestia”.

A cosa servono i ponti. Protesta a Mosca. Gli attivisti hanno appeso una bandiera ucraina sul ponte di Crimea. La scritta recita “Libertà Verità Pace”. L’autore è l’architetto, pubblicitario e artista russo Sergei Sitar.

English abstract

Salvatore Settis wanted to share his contribution published on 03.29.22 in “La Stampa” to underline the new forms of violence in this war: verbal violence accompanied by weapons, hostility towards Putin, the fury of mediated information and the mass exodus of civilians, the destruction of cities and human lives up to the threat of a possible nuclear war. The ongoing cultural war is also part of this massacre, witnessed by an appeal for “cultural sanctions against the Russian Federation” which in the Italian press did not circulate much and can be read in Ukrainian and in 22 translations including Italian except in Russian. Culture must foster dialogue and the possibility of creating or maintaining bridges, not breaking them down; hasten the moment and not make it more and more distant.

keywords | Salvatore Settis; Violence; War; Words; Culture; Dialogue; Art.

 *Questo contributo è stato pubblicato su “La Stampa” del 29.3.2022 e viene qui riprodotto con il consenso dell’autore.  

Per citare questo articolo: S.Settis, ”Sanzioni culturali contro Mosca. No a una scelta inaudita” (pubblicato su “La Stampa” del 29.03.2022) “La rivista di Engramma” n.190, marzo 2022, pp. 165-169 | PDF dell’articolo

To cite this article: S.Settis, ”Sanzioni culturali contro Mosca. No a una scelta inaudita” (pubblicato su “La Stampa” del 29.03.2022) “La rivista di Engramma” n.190, marzo 2022, pp. 165-169 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.190.0016