"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

201 | aprile 2023

97888948401

Warburg: una ‘teologia senza nome’?

Monica Ferrando

English abstract

Adimanto, per ora io e te non siamo poeti, ma fondatori di una città;
e ai fondatori di una città spetta conoscere i modelli in base ai quali
i poeti devono comporre i loro miti e impedire che li trasgrediscano,
ma non devono inventare essi stessi dei miti.
“Giusto”, disse, “ma quali sarebbero i modelli da seguire in teologia?”
(Platone, Politeia 378d-379a)

Non mi mandar mesaggi, che son falsi;
non mi mandar mesaggi, che son rei.
Mesaggi sieno gli occhi, quando gli alzi,
mesaggi sieno gli occhi tuoi a’ miei
(Anonimo fiorentino, Canzone d’amore, sec. XIV)

Meravigliosi quadri di Böcklin, come un bagno
rinfrescante tra le onde del vento: Naiadi che giocano.
(Aby Warburg, 1888)

…ciò che era l’antitesi di Nietzsche, la misura
o la forma esaltata, una forma che fosse insieme vita e dominio della vita.
(Aby Warburg, Burchkardt e Nietzsche, 1927)

L’aquila come immagine del sole, Adone come cacciatore, i riti apotropaici,
i colori nel culto dei morti, i traumi, la nudità nel culto dei morti, gli incantesimi
per la pioggia, gli squilli nella danza, la danza nel culto dei morti ecc…
queste sono tutte cose la cui comparsa nella Bibbia rappresenta un tema
di grande interesse per una pubblicazione nella Biblioteca Warburg…
(Gertrud Bing a Paul Ruben, 1937)

In filosofia ci si deve calare nell’antico caos e sentircisi a proprio agio.
(Ludwig Wittgenstein)

Und trotzdem bete ich.
(Arnold Schönberg)

Sono trascorsi esattamente cento anni dalla conferenza di Aby Warburg semplicemente intitolata dal suo autore Bilder aus dem Gebiet der Pueblo-Indianer in Nord-Amerika (Immagini dal territorio degli indiani Pueblo in Nord America), comparsa nella sua prima ma parziale traduzione inglese come A Lecture on Serpent Ritual nel “Journal of the Warburg Institute” (Warburg [1923] 1939); e quarant’anni sono trascorsi dalla sua più completa traduzione italiana come Il rituale del serpente, ad opera di Gianni Carchia per il numero di “aut aut” 199-200 del gennaio/aprile 1984, interamente dedicato allo studioso di Amburgo. Sulla conferenza – rimasta a lungo il testo edito più famoso e diffuso tra i moltissimi composti da colui che è stato riconosciuto come “un singolare tipo di filosofo della cultura” (Syamken 1980; Dal Lago [1984] 2022, 114) – molto si è da allora riflettuto (cfr. Raulff [1988] 1998; Steinberg 1995; Freedberg 2004; Settis [2006] 2023; Bredekamp 2019; Gualtieri 2020; Ghelardi 2021; Forster [2018] 2022). Non da ultimo, per il luogo dove nel 1923 è stata tenuta dal suo autore, il più lontano che si potesse immaginare da una sede accademica, la clinica psichiatrica di Kreuzlingen diretta da Ludwig Binswanger.

Non è sull’ombra – o sul valore rivelativo – che tale circostanza può aver gettato su questo testo che si intende ora riflettere. Importa piuttosto muovere da un dato fino ad oggi trascurato, oppure non sufficientemente sottolineato, fatta salva la nota in calce a un passo della traduzione italiana del Rituale, relativa ad alcune pagine conservate al Warburg Institute Archive (WIA, III.93.5), raccolte sotto la dicitura “Le forze del destino riflesse nel simbolismo all’antica” e datate all’aprile del 1924; la nota in questione si legge in “aut aut”, nel numero monografico del 2004 intitolato La dialettica dell’immagine, che celebra il ventennale della prima indagine collettiva su Warburg, intitolata questa Storie di fantasmi per adulti:

Cfr. la conclusione della conferenza sul Rituale del serpente, di cui qui si ripristina l’ultima clausola, aggiunta a matita da Warburg e tradotta da Gianni Carchia nella versione preparata da questa rivista (“aut aut” 199-200, 1984, p. 39), ma poi cancellata dalla versione in volume (Adelphi, Milano, 1998) contro “espresso desiderio del traduttore”.

Sarà utile precisare che Adelphi non aveva utilizzato la traduzione Carchia, designando come nuovo traduttore del testo, dato in traduzione comunque già privo della clausola finale, Flavio Cuniberto. Solo una volta chiarito questo aspetto sarà possibile avanzare un’ipotesi sulla prospettiva che in esso si espone in modo così autorevole e pregnante.

Il dato è la conclusione della conferenza – che qui si riporta evidenziandone la frase finale – che le edizioni successive, tedesca in primis, e poi italiana e in altre lingue non contengono. L’accurata indagine filologica di Piermario Vescovo contenuta in questo stesso numero di “Engramma” indaga motivi e circostanze che hanno fatto sì che una parte tutt’altro che secondaria, ancorché aggiunta a matita dal suo autore, cioè l’epilogo (“falls nicht eine disciplinierte Humanität die Hemmung des Gewissens wieder einstellt”), sia stata omessa.

Il moderno Prometeo e il moderno Icaro, Franklin e i fratelli Wright, che hanno inventato l’aeroplano, sono i fatidici distruttori di quel senso di distanza, ciò che minaccia di riportare il globo nel caos. Il telegramma e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella lotta per spiritualizzare la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea dell’elettricità distrugge, a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le inibizioni della coscienza.

Quindici anni dopo la conferenza, nel 1938, comparve nel secondo numero del “Journal of the Warburg Institute”, per la traduzione di W.F. Mainland, la versione in inglese, fortemente voluta da Gertrud Bing e da lei messa a punto. La scelta di tradurre proprio questo testo warburghiano rispecchiava l’indirizzo storico-religioso impresso già dal primo numero del “Journal”, come testimoniano gli inviti a Elias Bickerman, Karl Kerényi e Paul Ruben (Biester 2001, 144-145); in tale occasione nessuno si sognò di tralasciare l’epilogo, che comparirà poi anche nella Intellectual Biography di Ernst Gombrich (edita a Londra nel 1970):

The modern Prometheus and the modern Icarus, Franklin and the Wright Brothers who invented the aeroplane, are those fateful destroyers of our sense of distance who threaten to lead the world back into chaos. Telegraph and telephone are destroying the cosmos. But myths and symbols, in attempting to establish spiritual bonds between man and the outside world, create space of devotion and scope for reason which are destroyed by the instantaneous electrical contact – unless a disciplined humanity re-introduce the impediment of conscience.

Forse in qualche modo presagendo che l’instabilità redazionale del testo warburgiano avrebbe dato adito a indebite modifiche, Carchia aveva avuto cura di precisare, in una nota immediatamente apposta al titolo, quanto segue:

Traduciamo con questo titolo la conferenza Bilder aus dem Gebiet der Pueblo-Indianer in Nord Amerika, tenuta il 25 aprile 1923 a Kreuzlingen. Il testo originale della conferenza è conservato in una cartella, relativa agli anni 1923-1924, presso l’archivio Warburg del Warburg Institute di Londra. Della conferenza esistono i seguenti materiali: 1) gli appunti dattiloscritti originali di Warburg per la conferenza (È noto che Warburg parlava utilizzando appunti e schemi come commento alle immagini mostrate durante l’esposizione); 2) il testo in duplice copia riscritto da Warburg dopo la conferenza (che deve essere considerato perciò il più completo ed è stato qui tradotto [corsivo mio]); 3) una versione abbreviata in inglese del testo precedentemente pubblicata con il titolo A Lecture on Serpent Ritual in “Journal of the Warburg Institute”, vol. II, 1939, pp. 277-292. Il materiale fotografico che correda la presente traduzione è tratto da tale versione inglese. Alcuni appunti preparatori sono tradotti in E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 1983, pp. 190-197 (Warburg [1923] 1984, 17).

Questa versione reca in esergo i versi, modificati, 7742-7743 del Faust II di Goethe (“Es ist ein altes Buch zu blättern / Athen-Oraibi, alles Vettern”), così come la successiva traduzione italiana (Warburg [1923] 1998), dove sono tradotti: “Come un vecchio libro insegna / Atene e Oraibi sono parenti” (Warburg [1923] 1939, 277-292). La preferenza, nelle edizioni e traduzioni successive, data alla versione edita in volume e corredata da immagini ha dunque significato una trascuratezza rispetto al testo, tradendo, in qualche modo e profondamente, anche le immagini.

L’ipotesi interpretativa che qui si presenta è che la lucidità con cui Warburg nomina il ruolo problematico assunto, con la modernità, dalla tecnica, a cui egli risponde con una visione inedita – tradizionale e insieme provocatoria e tutt’ora da comprendere ed esplorare – del regno dell’immagine, provenga da una prospettiva di pensiero teologica, ma indipendente dalle forme identitarie e confessionali proprie della famiglia di appartenenza dalle quali egli, come ricorda Monica Centanni (2022, 343), si era allontanato. L’equilibrio di una identità “politico-etnico-religiosa oltremodo complessa e fragile” – osserva Ulrich Raulff ([1988] 1998, 72) – che, da una parte, condivideva l’adesione alla Germania guglielmina propria degli Hamburger Kaiserjuden ma, dall’altra, la rifiutava in nome di un ebraismo indipendente dalla pratica religiosa era evidentemente in cerca di una sua logica. Non è escluso che si trattasse proprio di quella prospettiva ‘teologica’ sensu lato che sarà approfondita nei suoi aspetti epistemici già nei primi anni universitari di Bonn, grazie all’insegnamento di Hermann Usener al quale era stato indirizzato da Paul Ruben, l’amico giudaista e antichista già allievo del grande filologo. Se Usener aveva mostrato come l’origine del linguaggio nell’evento della nominazione fosse al contempo l’evento teologico per eccellenza, quale percezione attiva del divino da parte dell’umano allorché giunge a proferire il nome, aprendo in tal modo uno spazio vertiginoso agli studi di storia delle religioni nella loro intima unione non solo con linguistica e filologia, ma anche con la teologia; se insomma evento del nome ed evento del dio coincidono, intentate conseguenze potevano esserne tratte anche per la storia dell’arte. Era innegabile che la scoperta useneriana conferiva agli antichi culti precristiani uno statuto genetico, della cui progressiva eliminazione doveva, però, motivare l’esigenza; un’esigenza razionale in cui era nondimeno inevitabilmente sotteso un interesse confessionale-riformato. Il suo geniale allievo si avvierà a mostrare come anche l’origine dell’immagine, implicitamente collegata a quella del nome, abbia uno statuto teologico; e che la strategia per accostarla sia, come Robert Klein aveva osservato a proposito dello studio su Melencolia I di Dürer compiuto da Saxl e Panofsky, “una disciplina che all’opposto di tante altre esiste ma non ha un nome, e che si fonda essenzialmente sullo studio delle credenze scientifiche, parascientifiche e religiose considerate dal punto di vista della tradizione delle espressioni simboliche e artistiche che esse hanno avuto” (Klein [1970] 1975, 235); si tratta di quella che Giorgio Agamben avrebbe poi chiamato, tra il 1975 e il 1984, “scienza senza nome” (Agamben 1984, 51).

Forse, tale disciplina non può più essere semplicemente considerata una “scienza” ma, data l’esigenza che la contraddistingue di staccarsi dalle sponde della certezza per giungere a quelle dell’immaginazione, piuttosto una ‘teologia poetica’ che, come ‘teologia senza nome’ insediata nell’ambito delle arti, riporti alla riflessione, in tutta la sua inattuale ma incontestabile evidenza, l’inseparabilità storico-psichica di sfera delle immagini e sfera del divino. A definirne i tratti, affiora l’istanza ontologica propria dell’apparenza estetica che, pur nella sua autonomia, è presente nel simbolo, come già osservava Gianni Carchia (1984). Il suo statuto è la perenne, drammatica oscillazione, nonché la “pausa del respiro”, tra conoscenza e non-conoscenza; razionalità e magia; pensiero e mistero; significato e immagine; memoria e materia, storia e mito; caos e ordine; inconscio e coscienza; impulso mimetico e catarsi; univocità e polifonicità; formula e pathos; theios e phobos. Ora, se è proprio il suo carattere simbolico a rendere l’arte irriducibile alla scienza e al sapere, a meno di non ridurre il simbolico a funzione generale della politica e quindi della cultura, vi erano non due, ma tre possibilità dinnanzi a questo Herkules pronto a inaugurare la tensione dei ‘livelli intermedi’, secondo quanto scrive lo stesso Warburg nel 1918 parafrasando il Montano dei Wanderjahren goethiani: “non la verità, ma il problema sta nel mezzo, forse imperscrutabile, ma forse anche accessibile, se lo cerchi!” (Warburg 1932, 614). O la conoscenza s’industriava a bonificare l’arte sulla base di un superamento razionale del simbolo, sostituendolo, in nome dell’evoluzione storico-scientifica, con il simbolo matematico, lungo la via additata da Cassirer – e pure, in ambito warburghiano, significativamente disertata sia da Panofsky che da Wind, come ha ben mostrato Michele Dantini (2016); oppure la magia rivendicava il dominio sull’apparenza come unico ambito in grado di smagnetizzare l’assoluto della pretesa scientifica, ostaggio del paradigma evolutivo occidentale.

Ecco, però, una terza opzione: la possibilità, ancora intentata, di sostare pensosi allo Scheidewege, prendendo finalmente atto della irriducibile tensione tra esigenza di conoscere e sfera dell’inconoscibile che, lungi dal bloccarsi in sterile immobilità, doveva invece tenere aperto e liberare proprio quello spazio della distanza reso funzionale all’oscillazione tra i due poli della macchina sistemica e compensatoria dei due pretesi opposti, la razionalità e la magia. Solo la loro netta separazione ne avrebbe disinnescato la coappartenenza. Viene allora a ricostituirsi, a dispetto della sua negazione tramite la scintilla nichilistico-tecnologica, quello spazio che si tentava hegelianamente di negare e superare in nome del dominio integrale del sapere razionale e della sua maschera magica. Come osserva Wind, “Warburg è fondamentalmente convinto che ogni tentativo di separare l’immagine dal suo rapporto con religione e poesia, con atto cultuale e dramma, equivalga ad isolarne la linfa vitale” (Wind [1931] 1984, 125). Se l’immagine veniva riconosciuta come epifania divina, consegnata all’autonomia dell’apparenza simbolica, di una originaria percezione della natura e di quanto essa cela, a doversi motivare sarebbe stato il movente confessionale del suo bando, e non l’opposta, e ineluttabile, ‘rinascita’ di essa, chiamata appunto da Warburg non a caso un Nachleben, ‘un rivivere’. Si apriva in tal modo uno spazio vertiginoso allo studio dell’arte rinascimentale da cui la teologia, anche nei suoi aspetti cosmologici e antropologici, risulterà inseparabile. La scoperta dello statuto geneticamente divino dell’immagine artistica, lungi quindi dall’implicare una progressiva eliminazione delle immagini perché ritenute impure o spiritualmente insufficienti, ne sarà, al contrario, l’imprevedibile e controversa legittimazione spirituale. Si potrà infatti d’ora in poi ravvisare in ciascuna immagine, anche la più remota dall’antico, banale e frammentaria, le tracce di quell’insorgenza originaria in cui il divino, rivelandosi, ama ‘nascondersi’.

Sedimentata l’esperienza della cultura Hopi e scoperto in essa, con la ripresa degli Anasazi di Mesa Verde (Raulff [1988] 1998, 84), un ricorso analogo a quello avvenuto nel Rinascimento (Freedberg 2004; Settis [2006] 2023) – fenomeno che anche Gombrich non cesserà di riproporre all’attenzione (Gombrich 1966; Gombrich 2002) –, l’interrogativo che pare affiorare in Warburg sarà il ruolo della trasformazione tecnologica entro il decorso naturale, fatto di corsi e ricorsi, proprio di ogni cultura. È al fuoco di tale consapevolezza che l’aggiunta finale alla nozione di spazio come “zona di contemplazione e di ragionamento”, che “la connessione istantanea” prodotta dalla tecnica irreparabilmente distrugge, può farsi leggibile; ma solo a patto di comprendere la natura che a quello spazio Warburg assegna. Certo, se si tratta, in primis, della razionale riduzione dello spazio naturale e incommensurabile, tramite espansione isotropa, a quella rex extensa misurabile su cui Cassirer non aveva nulla da eccepire – perché tale distanza, come ha osservato Flavio Cuniberto nell’intervista rilasciata in questo numero di Engramma, fosse progressivamente abolita dalla tecnologia –, l’appello di Warburg può legittimamente risultare ambiguo. Esiste, però, una possibilità ulteriore, plausibilmente presente anch’essa nella mente di un pensatore aduso non solo a non abolire la polarità, ma a inserirvisi: cioè che Warburg alludesse, nel contempo, a un altro tipo di spazio, lo spazio dell’immaginazione, che solo una cultura che non abbia amputato l’introspezione mitico-religiosa è in grado di tenere aperto, laddove una civilizzazione integralmente tecnologica potrebbe invece chiuderlo per sempre. Lungi quindi dal suonare come un richiamo all’ordine, l’urgenza sarà quella di trasferire le “inibizioni della coscienza” oltre l’ambito di ogni moralismo psicologico, sociale, confessionale o politico, per ricollegarle a una nozione spirituale quanto desueta di cultura, intesa come unica istanza capace di tenere a freno le forze oscure che in essa affiorano appunto per prendervi forma. Vediamo d’un tratto comparire il paradigma del Fedro platonico, l’auriga alle prese con i due cavalli, il bianco e il nero? È certo possibile che il punto, per Warburg e per la cultura occidentale che intravede nel suo pensiero qualcosa di indispensabile, non sia tanto quello di occuparsi, per l’ennesima volta, di un’altra cultura che anche per l’ignoranza della lingua era destinata a restargli, com’era giusto, ignota, ma semmai di tornare umilmente risvegliati e con maggiore consapevolezza alla cultura propria.

Il dettato warburghiano – rispettato in parte dalle due edizioni in lingua originale, di Uwe Fleckner nel 2012 (Warburg GS Ausstellungen) e di Martin Treml nel 2018 (Warburg WEB), che però tacciono sulla sua complessità redazionale – corredata di una laconica nota la clausola finale. Si tratta dell’indicazione, parimenti a matita, di mano dello stesso Warburg o da lui suggerita a Saxl, “Kinder Keam’s Canyon”, come riferimento, in sede di conferenza, alla foto scattata dallo stesso Warburg nell’aprile del 1896 e con la quale si intendeva evidentemente prendere congedo dall’uditorio. Vi si vedono sei bambini, cinque Hopi e un’europea o americana in abito più chiaro, all’ingresso di una caverna (è la fig. 49 di Warburg, Antropologia, 162). Si tratta di un’immagine delicata, perché proprio con essa si chiude il testo della conferenza il cui titolo originario era, appunto, Bilder, ‘Immagini’. Insieme alle altre che la corredano, ma più di queste, è stata additata a segno ‘inequivocabile’ di ambiguità colonialista (come risulta dal lavoro dell’artista Salvatore Puglia su permanenza e documentazione fotografica di Warburg presso Keam’s Canyon, per cui vedi Puglia 2021). Tale ipotesi polemica non tiene nel dovuto conto il quadro di una probabile, implicita identificazione, da parte di Warburg, di identità ebraica e identità ‘primitiva’, entrambe alle prese con la logica binaria occidentale dell’aut aut imposto dall’assimilazione, indotta o forzata, dell’alterità. È forse lecito immaginare che anche questa volta Warburg sfugga invece alla mossa prevedibile suggerita da un messianismo culturale di cui conosceva a fondo le ragioni. Che la Hemmung, l’inibizione della coscienza, egli consigli di esercitarla non già nei confronti di bambini Hopi – che la cultura occidentale avrebbe il compito di portare una buona volta fuori dalla caverna del primitivismo naturale tipico di uno stadio ‘non ancora civilizzato’ di cui essi restano gli inquietanti testimoni – ma che rivolga piuttosto il suo consiglio a se stesso e alla cultura di cui egli funge suo malgrado da rappresentante – guardando questa, e non l’altra, da ‘antropologo’, secondo l’illuminante indicazione di Saxl: “Egli infatti doveva all’America la capacità di guardare alla storia europea con gli occhi di un antropologo” (Saxl [1957] 1984, 11) – appare plausibile. Come plausibile è l’ipotesi che si sia posto il problema della tecnica indiscriminata cui le immagini sarebbero dovute soggiacere a causa della riproduzione tecnica, di cui nondimeno egli era stato precoce cultore (è noto che aveva tenuto due conferenze sugli Hopi presso circoli di fotografia di Amburgo e Berlino). Warburg potrebbe quindi aver pensato all’immagine e al rischio idolatrico del suo uso che, secondo la perenne eloquenza del simbolo platonico della caverna, può essere tragicamente seduttivo e sostitutivo. Primo fra tutti, egli riscopre ciò di cui, dopo di lui, saranno Panofsky e Wind a fare tesoro: che nella cultura figurativa dell’Occidente, come in qualsiasi cultura degna di questo nome, tanto dei Fiorentini che degli Hopi, le immagini dell’arte giocano il doppio ruolo di seduzioni e inibizioni, e per questo si nascondono e ricompaiono ma, come gli dèi, non muoiono. Sono infatti indispensabili a un’umanità – o natura umana – che sia intenzionata a restare tale. Cioè a non rinunciare a rispecchiarsi in loro, tanto più se solo in loro balugina quel ‘divino’ con la nascita del quale essa non dovrà mai dimenticare – pena la perdita di Mnemosyne – di coincidere.

Scolare Hopi e occidentali al Keam’s Canyon, Arizona, maggio 1896. Da Photographs of the Frontier: Aby Warburg in America, 1895-1896, London 1998, 149.

1.

Se si pone mente agli esordi di Warburg come studioso della vita delle immagini e come inventore di un nuovo tipo – vivente - di biblioteca, è impossibile non ricordare l’episodio che lo vede, tredicenne, proporre al fratello secondogenito di barattare la primogenitura. Con che cosa? Non con il piatto di lenticchie, ma con il suo esatto contrario: con le condizioni per una vita di ricerca disinteressata, spirituale, per la quale erano certo necessari i libri, moltissimi libri e anche rari, preziosi, introvabili. La vertiginosa ma spontanea prossimità al nucleo generativo della teologia giudaico-cristiana è qui evidente: il colpo di genio dell’adolescente che riesce già a vedere così chiaramente in se stesso sarà infatti quello di muovere da un motivo teologico incontestabile e, a modo suo, di correggerlo ripristinando quella sorta di ‘diritto naturale’ stabilito dalla convenzione religiosa ma sovvertito dalla predilezione materna di Rebecca per Giacobbe, visto che qui sarà proprio il primogenito a conseguire quell’elezione – l’abbandono dell’interesse economico – che nel racconto biblico gli sarà invece tolta, spingendolo, per seguire semplicemente e incautamente un tratto della sua natura, ad autodegradarsi a secondogenito. Le abissali implicazioni teologiche dell’episodio biblico, che riguardano il rapporto insoluto tra Ebraismo e Cristianesimo, non possono non gettare una loro luce interlocutoria sulla biografia di uno studioso che ne fa, seppure con la più profonda leggerezza e ironia, il suo punto di partenza simbolico. Sarà quindi inevitabile considerare la teologia come una componente essenziale propria di una ricerca che non teme di addentrarsi, senza mantenersi catafratta in schemi di pensiero già collaudati, in territori della tradizione ancora oscuri e inesplorati.

In possesso di questa ‘elezione’ Warburg, al momento di lasciare la casa paterna di Amburgo per iscriversi all’università di Bonn, non avrà timore di dichiarare alla famiglia, di tradizioni ebraico-ortodosse, l’intenzione di professarsi perfettamente libero da vincoli confessionali e obblighi religiosi. Questo proprio mentre si accinge a frequentare i corsi dell’eminente filologo Hermann Usener il quale, come è noto, inaugura una metodologia la cui fecondità e ampiezza resterà incommensurabile proprio perché si propone di affiancare e intrecciare alla ricerca filologica quella storico-religiosa.

Conferma della fecondità estrema che l’impostazione useneriana acquista nel pensiero di Warburg è il significato cruciale che riveste la religione nella conferenza su Il rituale del serpente che lo studioso redige ed espone a riprova dell’avvenuta guarigione, e che si rifà a materiali che l’autore aveva raccolto, come è lui stesso a dichiarare nell’incipit, ventisette anni prima, nel corso di un viaggio presso gli indiani Pueblo del New Mexico e dell’Arizona. Il testo, che dai Frammenti autobiografici di Kreuzlingen sappiamo dovesse intitolarsi Bild und Zeichen (Immagine e segno) e avere come sottotitolo Auslese meiner Funktion des Bildesgedächtnisses (Selezione della mia funzione della memoria per immagini) (Warburg [1922] 2004, 11), deve infatti misurarsi con un’immagine, quella del serpente, gravida di simbolica causalità tanto nell’Occidente giudeo-cristiano, quanto nel mondo che a ragione può ben esser considerato ad esso opposto, e qualificato pertanto come ‘primitivo’. In mezzo a questi due mondi, ancora vivi e vegeti – benché del secondo si dica che “va comunque scomparendo con la sua cultura” (Warburg [1923] 1984, 17-18) –, ne balugina inquietante e interlocutorio un terzo, che vivo non è più o almeno non alla stregua degli altri due: il mondo antico, provvisto, naturalmente, di una sua religione considerata superata, delle cui immagini, però, non si può certo dire altrettanto. Il punto, radicato nel dubbio rapporto tra arte classica e arte romantica presente nell’Estetica di Hegel, dove il preteso superamento ‘spirituale’ dell’arte classica da parte dell’arte romantica non ne aveva però in alcun modo abolito la qualità, limitandosi a circoscriverla al suo alveo spirituale degradato a ‘pagano’, era stato in qualche modo già adombrato da alcuni critici di Hegel (Merker 1965, XXIV ss.) e messo in rilievo da Marx nel 1857, allorché obiettivamente osservava che “la difficoltà non sta nel capire che l’arte e l’epos dei Greci sono legati a certe forme di sviluppo sociale, ma piuttosto nel fatto che esse ci procurano ancora un piacere artistico e sotto un certo rispetto valgono ancora come norma e modello inarrivabili” (Marx [1857] 2010, 49). Pur ammettendo la loro distanza da ogni canonizzazione a “norma e modello inarrivabili”, Marx – che qui si denuncia comunque figlio di una Kultur che con Winckelmann aveva canonizzato l’arte classica a modello accademico della cultura estetica occidentale – coglie alla perfezione la contraddizione tra condizioni di ‘produzione’ e condizioni di ‘consumo’ che è la storia dello spirito a suscitare, chiedendo invano all’estetica, come sua neonata disciplina, di comporre tale contraddizione. Di fatto, l’arte classica o quella nata a Firenze e dalla classica ispirata – come ancora di recente ha mostrato Massimo Cacciari (2019) e come la prosa di Roberto Longhi a commento di molte immagini di quest’ultima testimonia – restano indubbiamente figlie e compagne di filologia e inseparabili, come tali, dalla lingua – o dalle lingue – in cui anche foneticamente e musicalmente abitano.

Nel testo di Warburg, il vocabolo che accomuna il retaggio di questa religione non più in vigore e la cultura religiosa dei Pueblo è quello di “pagano”, sia nella sua funzione aggettivale, la più frequente, che nominale. Nel testo esso ricorre ventitré volte. La cosa non può certo sorprendere se si pensa ai temi delle ricerche di Warburg rivolti alle immagini di un’arte, occidentale sì, ma di contenuto antico e anticheggiante, che infatti la pionieristica edizione italiana del 1966 curata dalla collaboratrice Gertrud Bing raccoglie in un volume dal titolo La rinascita del Paganesimo antico.

L’intenzione teorica di Warburg non poteva certo modellarsi sul Greifmensch, l’‘uomo prensile’, che insegue l’Altro solo per ghermirlo, depredarlo e ridurlo in suo potere, bensì sul tentativo di cercare in ogni modo di avere l’Altro di fronte, in primo luogo per incontrarlo nella distanza dello sguardo, secondo l’insegnamento – come ricorda Horst Bredekamp (2019, 99) – di Wilhelm Wundt e di August Schmarsow, condizione indispensabile non solo per riconoscerlo ma anche per farsi da lui conoscere; e quindi per com-prendere, begreifen, come si legge in una nota coeva (Warburg [1923] 2004a, 17). Cosa c’era di meglio, per cogliere il senso delle immagini della religione antica, che provare a trovarsele di fronte come potevano averle avute gli antichi stessi, andando a incontrarle in quel mondo che sembrava aver conservato ancora caratteristiche tramontate ormai per sempre nell’Occidente razionalizzato? Questo atteggiamento mentale doveva essere del tutto congeniale a chi aveva profondamente riflettuto sull’immagine dell’Occasione, simbolo che si contrapponeva decisamente a quello della Fortuna ai cui rovesci ci si deve passivamente adattare, per indicare invece, dinnanzi al fato, un atteggiamento consapevole e attivo. Era quanto consigliava, traducendo Ausonio, Machiavelli nei noti versi dedicati a Filippo de’ Nerli, dove si cerca di strappare il suo segreto a un’impenitente e irridente Occasione, facendole dire: “Li sparsi miei capei dinanti io tengo: / Con essi mi ricuopro il petto e’l volto / Perch’un non mi conosca quando io vengo. / Drieto dal capo ogni capel m’è tolto, / Onde invan s’affatica un se gli avviene / Ch’i’ l’abbi trapassato o s’i’ mi volto”. Per coglierla infatti non la si doveva rincorrere senza alcuna possibilità reale di afferrarla, ma tentare la strategia opposta, cercando di trovarsela dinnanzi; a patto, certo, poi, di riconoscerla. Cosa che Warburg sembra pienamente in grado di fare, se può scrivere, nel Rituale: “Questa coesistenza di logica civile e di causalità magico-immaginativa rivela la vera e propria condizione di mescolanza e di transizione nella quale si trovano questi indiani Pueblo. Essi non sono più predatori davvero primitivi per i quali non esiste un’attività riferita a un ulteriore futuro, ma non sono neppure Europei padroni di tecniche che si attendono gli eventi futuri regolati da leggi organiche o meccaniche. Essi si trovano a metà fra magia e logos e lo strumento col quale si orientano è il simbolo. Fra gli uomini predatori e gli uomini razionali si colloca l’uomo che opera connessioni simboliche” (Warburg [1923] 1984, 24). In una lettera del 31 marzo 1923 indirizzata da Warburg all’amico degli anni fiorentini “Alfresco”, Alfred Doren (Warburg [1923] 2004b, 14; cfr. WIA, GC, 12740), egli scrive che “fino a Machiavelli questa Occasio è la più decisa concorrente della Fortuna con la ruota e con la vela. Max mi ha scritto che tu hai isolato in Machiavelli proprio la Fortuna con le molte ruote. Ma come supplemento non puoi fare a meno di includere la sua poesia sull’Occasio”. La Tavola 48 del Bilderatlas Mnemosyne – che ha ricevuto il commento del numero 92 di “Engramma” – sarà interamente dedicata all’iconografia di meditazione sul rapporto istituito dall’uomo occidentale tra libertà e caso, tra divino e natura, tra successo mondano e virtù.

Evidentemente, l’Altro che Warburg cerca di incontrare dall’altra parte del mondo è proprio quel ‘Paganesimo’ che nel suo mondo, nella sua stessa cultura, è il fantasma che non fa che sfuggirgli. Esso non è – come poteva ancora essere per Burchkardt e per gli storici dell’arte che gli erano succeduti fino a Carl Justi (il teologo riformato, nonché esperto di Winckelmann, cui Warburg a Bonn si era rivolto invano per proporgli la tesi) – un concetto di storia dell’arte, bensì un concetto religioso. Come tale poteva essere compreso solo entro la storia delle religioni, ma indubbiamente solo nel contesto in cui la teologia cristiana l’aveva posto e configurato.

Se, come suggerisce Gertrud Bing nella sua Introduzione, sono “le funzioni della creazione figurativa nella vita della civiltà” e “il rapporto variabile che esiste tra creazione figurativa e linguaggio parlato” a rappresentare il quadro inedito della ricerca warburghiana (Bing 1966, XIV), esso sarà reso altamente problematico dalla pretesa di separare in maniera netta e definitiva lo spazio della razionalità da quello dell’irrazionale. La scoperta che l’antico si dà, nell’arte italiana, sempre entro i limiti formali della formula retorica, del topos, invitava a guardare anche al suo potenziale figurativo in modo completamente nuovo. Certo, si trattava di allontanarsi alquanto dalla prospettiva di Burchkardt, dalla via larga sulla quale si erano avviati con pionieristico entusiasmo tanti studiosi, sia di ispirazione neoclassica che romantica, guidati dall’immagine della virilità imperiale dell’Apollo del Belvedere come da quella dell’androginia conturbante del Fauno di marmo. Per ottenere una tale riduzione a immagine estetica dell’antico, su cui l’anima istruita dalla Riforma non poteva non avvertire il peso inquietante dell’ombra idolatrica, Burchkardt aveva dovuto trascurare il rapporto vitale, coessenziale, che l’arte fiorentina intrattiene con la parola. Una parola che a Firenze, all’epoca, significava in primo luogo filologia, grazie alla quale poesia, filosofia e teologia – già da Dante, Petrarca e Boccaccio indissolubilmente intrecciate, come ha recentemente mostrato Françoise Graziani in una esemplare lettura teologico-politica della Genealogia deorum gentilium, dove Boccaccio torna a eseguire, sulle orme di Platone e da teologo poeta, la grandiosa partitura di una chorografia divina degli dei e delle gentes (Graziani 2018) – provavano a fare il loro ingresso in quelle antiche dimore da sempre vagheggiate e solo da lontano intraviste.

Aver individuato il potenziale figurativo dell’antico, che da un certo punto in poi, e nonostante un gusto in qualche modo ad esso opposto come il realismo fiammingo, si va imponendo a Firenze, come una ‘formula del pathos’, una Pathosformel, significava invece scoprire un percorso deliberatamente negato e, tuttavia, decidere di imboccarlo. Si trattava infatti di comprendere l’inseparabilità della creazione figurativa dalla sfera teologica e poetica, dall’uso del linguaggio, che la convenzione, cui inevitabilmente ma virtuosamente essa approdava, non privava affatto della sua energia comunicativa e della sua potenza emozionale. Essa, al contrario, riusciva a contenere, in modo del tutto naturale, senza forzature, con la disinvolta grazia della sprezzatura, quell’esuberanza formale visivamente e intenzionalmente conturbante mantenendola, però, entro limiti metrici precisi. Erano limiti immanenti alla forma, stilistici, dettati dalla civiltà linguistica in cui quelle immagini venivano prodotte e sentite, intrinseche al suo mondo, che era un mondo poetico diffuso, vivente tanto del suo ‘parlato’ vernacolare e municipale che del suo volgare illustre e del suo latino curiale. Se dunque l’ordine libero del discorso, di cui l’Umanesimo non solo fiorentino, ma anche napoletano, veneziano o padovano mostrerà vertici poetici e filosofici, mantiene nella distanza estetica che gli compete il pathos che esso, tramite l’ardore nello studio degli autori antichi, ha contribuito a suscitare, il dàimon non diventerà mai demonio. Sarà, però, solo grazie all’uso vigile e poetico del linguaggio, luogo eletto di un indispensabile theios phobos, o deisidaimonia, che le immagini, proprio quali ‘formule’, non cesseranno di essere forme, pure apparenze di una sostanza altrimenti invisibile. È in questo senso soltanto che avranno accesso e onore entro ambienti culturali, come per esempio le corti di città come Ferrara, indubbiamente forgiati dalla religione cristiana, senza suscitare scandalo o scalpore. Warburg l’avrebbe intuito e poi ampiamente compreso occupandosi del mondo interiore di Francesco Sassetti (Warburg [1907] 1966) dispiegato con grazia e senza contraddizioni nella sua committenza a Ghirlandaio per la propria cappella funeraria in Santa Trinita. È sul significato superiore dell’ornamento come spazio per l’immaginazione e la riflessione (cfr. l’approfondita riflessione in proposito, con la disamina di esempi rinascimentali, di Lapraik Guest 2015) – dove kosmos, proprio attraversando l’arte della parola, la retorica, ritorna al suo significato originario e le immagini vivono di quella gratuità che le rende di fatto indispensabili alla vita mentale – che Warburg avrebbe potuto incontrare quell’idea di pensosità esitante – Bedenchklichkeit – in cui Blumemberg riassume il senso del rapporto indistruttibile tra pensiero e civiltà. “La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienza della libertà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Già nelle sue manifestazioni più primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d’uso, è contenuto il gesto dell’acquisto della libertà dallo scopo, della sospensione dell’economia” (Blumenberg [1980] 1981, sul quale aveva giustamente richiato l’attenzione Dal Lago [1984] 2022, 131). È quando si spezza il legame linguistico-musaico-teologico per essere sostituito da quello utilitaristico-economico – quando cioè le immagini si autonomizzano, o vengono autonomizzate sfuggendo, come mero formalismo à la Wölfflin, al sostrato teologico-poetico che le sostiene – che le immagini si trasformeranno inevitabilmente e tragicamente in dèmoni inferi della possessione folle o in modelli olimpici, più o meno stravolti e decontestualizzati, della forza muscolare. In questo caso, però, rese afasiche o loquaci dall’incantesimo tragico di una Babele da contrappasso, le immagini parleranno lingue straniere e ad esse stesse incomprensibili, pronte per essere trasformate – come ha mostrato Flavio Cuniberto, leggendone correttamente l’effetto nella storia successiva cui Warburg non ha dovuto per sua fortuna assistere, in entità parodiche, accattivanti, schiaccianti e funeste (Cuniberto 2010, 108-126).

Incontrando le immagini dei Pueblo del Nuovo Messico, Warburg dovrà constatare una condizione di equilibrio tra lo spazio di pensiero poietico che le immagini custodivano e la loro presenza attiva nella vita quotidiana. Quel vincolo utilitaristico attribuito alle immagini astrologiche – che lo studio sull’oroscopo di Lutero (Warburg [1920] 2019) mostrava a colui che aveva avuto per primo il coraggio di sollevare il velo dinanzi la pretesa razionalità della Riforma – si apprestava già a distruggere ogni spazio poetico di sospensione dallo scopo. Imputabili di pagana irrazionalità non erano le immagini e il loro supposto contenuto demonico, dalla cui innocente superiorità ci si era difesi con l’ambiguo disprezzo esercitato dalla soluzione finale iconoclasta, ma l’uso che di esse veniva fatto. Un uso che tradiva un atteggiamento fatalmente idolatrico, cioè l’incontestabile fede in una loro forza operativa, parallela se non superiore a quella divina. Sul carattere ‘magico’ delle immagini già gli antichi avevano a lungo e instancabilmente riflettuto; lo avevano fatto nella filosofia, da Platone in poi, e nella poesia, mostrando come il vincolo della parola fosse la sola garanzia e custodia possibile di quel loro connaturato ma precario carattere di apparenza, unico antidoto in grado di tener aperto e vivo lo spazio del pensiero e dell’immaginazione, scongiurandone al contempo ogni strumentale autonomizzazione ad uso magico. Sottile era il filo tra la partecipazione estetica all’immagine – dipinta o scolpita, realizzato per il tramite di un dialogo ininterrotto col divino nella consuetudine devozionale – e il ripudio di ogni attitudine devozionale che riguardasse le immagini in nome di una razionalità emancipata che non temeva poi di abbandonarsi, di nascosto, a pratiche magiche di ogni tipo (che l’uso di immagini svilite e rinnegate rendeva particolarmente sinistro, ipocrita e contraddittorio). Che la categoria storicistica di moderno, o di progresso, fosse stata edificata su queste basi non poteva non porre, a un’intelligenza sana e illesa, decisivi problemi interpretativi sul proprio tempo e sul carattere ‘missionario’ che la sua cultura pareva aver assunto. Come scrive Gertrud Bing:

questa corazza di fede nel progresso si spezzò quando il Warburg cominciò a occuparsi della marea di pronostici astrologici che erano stati adoperati nella lotta per e contro la Riforma della Chiesa. Aveva scoperto che la falsificazione dell’oroscopo di Lutero, compiuta dai suoi amici, era stata accettata dai suoi seguaci; e l’uno e l’altro dei partiti era fermamente convinto che la testimonianza delle stelle fosse in suo favore. Questa ambiguità è la essenza stessa delle immagini astrologiche, le quali possiedono una parte di obiettività perché sono i resti, per quanto deformati, della concezione greca di un universo razionale” (Bing 1966, XXX).

Certo, più che imputare alle immagini astrologiche un’essenza residuale, e riconoscere, di contro, alla cultura greca quell’universo razionale, tutto da dimostrare se si pensa alla costante critica platonica alla goeteia sofistica, da cui esse sarebbero giunte in modo casuale e clandestino, la scoperta warburghiana invita a riflettere su un nuovo, ma in realtà antico e salutare, statuto dell’immagine. Non aveva forse Warburg stesso posto a epigrafe del Rituale quei versi tratti dal Faust II (vv. 7742-3) dove Mefistofele deve dirsi stupito dinnanzi alla coesistenza di alta cultura e provinciale arretratezza? Ecco i versi “Hier dacht’ ich lauter Unbekannte / Und finde leider Nahverwandte (qui pensavo di trovare sconosciuti e invece trovo parenti stretti), che seguitano così, in quel modo ancor più allusivo che non può non aver motivato la loro scelta, i versi “Es ist ein altes Buch zu blättern: / Vom Harz bis Hellas imer Vettern! (è un vecchio libro da sfogliare, dallo Harz all’Ellade tutti cugini). Si trattava di prendere semplicemente per buona una verità scomoda evitando accuratamente di prendere per buona la maschera demoniaca dietro la quale Goethe l’aveva cautamente celata.

2.

Dopo aver dedicato il secondo volume della Filosofia delle forme simboliche – composta tra il 1923 e il 1929, cioè proprio negli anni di più intensa frequentazione con Warbug, tanto è vero che sarà questi ad assumersi l’onere della compilazione degli indici, come risulta da una lettera all’autore del 14 agosto 1929 (Warburg, Cassirer Mondo di ieri, 101) – alla ricognizione delle forme del pensiero mitico come fase imprescindibile, “non riducibile alle leggi del conoscere” ma non per questo “senza legge”, Ernst Cassirer procede verso l’apice della storia del pensiero nella sua ricognizione. Prova l’importanza per Warburg di questa lettura una sua lettera a Cassirer da Kreuzlingen del 2 febbraio 1923; mentre Cassirer scrive a Saxl, in una lettera del 24 marzo dello stesso anno, del rapporto della propria ricerca con quella di Warburg in termini di “armonia prestabilita” (cfr. Ghelardi 2008, 157-158). Il gradus della mente a quello che viene fissato quale suo autentico obiettivo è infatti la costruzione, nella rappresentazione, dell’ordine oggettivo della natura, la scienza. In questo contesto, che costituisce il terzo volume, dedicato alla fenomenologia della conoscenza, nonché alla patologia della coscienza simbolica, nel capitolo sul “fenomeno espressivo come elemento fondamentale della coscienza percettiva”, troviamo un interrogativo che conviene riportare per intero.

Con quale diritto – si domanderà – la presente trattazione, il cui scopo deve essere la comprensione della struttura del mondo teoretico, si ferma ancora in generale alle formazioni della coscienza mitica? Ogni visione teoretica del mondo, in quanto può pretendere in genere di avere questo nome, non deve necessariamente cominciare con l’eliminare queste formazioni e col rinunciare senza riserve ad esse una volta per sempre? Noi non possiamo raggiungere l’accesso al regno della conoscenza, se non liberandoci del groviglio di sogni in cui il mito ci irretisce, se non riconoscendo il suo mondo immaginativo come semplice mondo illusorio. E una volta che è stato raggiunto faticosamente questo accesso, una volta che il regno della verità ci si è aperto come tale, che senso ha ancora volgere da esso lo sguardo indietro verso la regione dell’apparenza? In rapporto a tale questione, il linguaggio non va affatto considerato alla stessa stregua del mito. È evidente che esso continua, in una maniera particolare e indipendente, ad avere parte nel configurarsi e nell’articolarsi del mondo teoretico. Anche la scienza non può fare a meno del suo ausilio, anch’essa si deve ricollegare sempre alla fase preparatoria dei concetti del linguaggio, per sciogliersi gradualmente da essi e pervenire alla forma di puri concetti del pensiero. In rapporto al mito, però, il taglio si presenta molto più netto e inesorabile. Questo taglio conduce a un’insopprimibile separazione, a una vera e definitiva crisi che la coscienza subisce in se stessa. La visione del mondo propria del mito e quella propria della conoscenza teoretica non possono coesistere e stare l’una accanto all’altra nello stesso campo del pensiero. Esse piuttosto si escludono rigorosamente fra loro. L’inizio dell’una va alla pari con la fine dell’altra. Come, secondo il mito greco, un morso nella melagrana di Proserpina lega per sempre le anime al regno delle ombre e preclude loro il ritorno alla luce del giorno, così per converso il sorgere del giorno, il sorgere della chiara coscienza teoretica e della percezione teoretica sembrano non consentire più il ritorno al mondo oscuro delle immagini mitiche. Infatti che cosa potrebbe significare questo ritorno, se non una semplice ricaduta, una degradazione in uno stadio primitivo e superato dello spirito? (Cassirer [1923-1929] 1966, vol. 3, 103-104).

Colpisce, in questa sequenza di domande retoriche, e oltre le delicate questioni epistemologiche che sorgono dinnanzi a un’istanza che prevede come necessaria e irrevocabile la drastica riduzione del linguaggio all’operazione integralmente formalizzata del segno, onde eliminarne ogni residuale opacità espressiva, la petizione di principio che invita ad affrontare e assumere come inevitabile una “crisi della coscienza” prodotta dall’esigenza di separare in maniera definitiva il mito dalla conoscenza. Non è però lo stesso Cassirer, proprio piegando il riferimento eleusino all’espressione del suo irreversibile orientamento verso la coscienza rischiarata, a far baluginare quello sfondo immaginativo a cui pare non voler, o non poter rinunciare? È infatti possibile che un’intera, immensa dimensione del linguaggio, quella che è stata, ed è, l’elaborazione del mito da parte della poesia e dell’arte – anche solo dell’espressione linguistica nell’infinito potenziale di una “metafora assoluta” di cui, ammesso che questo sia davvero auspicabile, siamo lungi dall’essere venuti a capo (cfr. l’articolazione di questo concetto nei suoi nessi col pensiero analogico e con l’immagine, compiuta, come è noto, da Blumenberg [1960] 1969) – venga distaccata per sempre dal compito umano per eccellenza, che ora è irrevocabilmente individuato in un unico tipo di conoscenza, quella oggettivamente, matematicamente, verificabile, cioè l’unica depositaria di quella verità che essa, secondo i suoi esclusivi criteri, ha definito? Nel quadro evolutivo che il pensiero sistematico di Cassirer prevede, anche l’immagine inevitabilmente assume un ruolo funzionale, e quindi prevedibile, svincolata ormai da ogni legame poetico alla lingua con la quale, nel mito, essa coincideva. Parimenti, nella sua lettura del problema dell’immagine in Platone, Cassirer inscrive l’istanza visiva nel quadro epistemico dell’eidos, separandone in maniera netta e irrevocabile ogni carattere di apparenza. Se si fosse trattato non altro che di liquidare lo statuto dell’apparenza come illusione ingannatrice, sul quale – come “nel torbido regno della possibilità che mescola le forme” dell’Epimeteo goethiano addotto da Cassirer (Cassirer [1924] 2003, 158) – speculano artisti dediti senza scrupoli alla mimesi, non si capirebbe l’enorme peso teoretico che, al di là della nota condanna dell’arte nel X Libro della Repubblica, assumono in Platone eidolon, eikon e phantasma. Il filosofo infatti, alla fine del suo saggio, se non potrà non ammettere il ruolo che riveste l’immagine “fin dentro l’ambito della conoscenza pura” (Cassirer [1924] 2003, 163), lo farà pur sempre portando a riprova quel “taglio metodico”, il “τμῆμα” che lo stesso Platone avrebbe invocato tra sensibile e intelligibile, che separerebbe (anche dentro “il regno del pensiero puro”) pensiero matematico – capace di cogliere puri rapporti senza l’ausilio di immagini – da pensiero dialettico – che si vale dell’immagine come somiglianza. La forza dell’immagine è tale che anche la deduzione logica più rigorosa non può in realtà farne a meno, e anzi il filosofo dialettico da essa sempre “si sente catturato” (Cassirer [1924] 2003, 164). È quanto del resto pare tranquillamente affermato da Platone nella VII Lettera, dove dopo onoma e logos viene eidolon, che precede episteme (VII 342b) in vista però di una conoscenza squisitamente sorgiva, improvvisa, potenziale di un ‘quinto’ stato – episteme tou pemptou – a cui si accede solo per partecipazione – metochos estai (342e) – ma da cui “nome e immagine sono ugualmente lontani” (Cassirer [1924] 2003, 165). Cassirer non teme di qualificare “tragica” questa ricerca dell’incondizionato che avviene solo ed esclusivamente attraverso l’espressione mediata e condizionata dell’immagine, ammettendo infine che “questa tragicità interessa dunque tanto il dialettico quanto l’artista” (Cassirer [1924] 2003, 165). Come la “comprensione razionale” sarà il frutto dell’estrema autolimitazione del vecchio Platone, che nella Lettera VII (344b) “non disdegna più il medium dell’immagine perché esso è l’espressione specificamente umana che possiamo dare a ciò che è spiritualmente supremo” (Cassirer [1924] 2003, 165), così finalmente l’arte, sulla scorta del discorso finale che Diotima dedica alla irresistibile e poietica demonicità di Eros (Simp. 206b), sarà riconosciuta nei termini di quella generatività nel bello, da cui la contemplazione noetica del divino non solo non è bandita ma, come avrebbe peraltro dimostrato ancora quel Rinascimento cui anche Cassirer finisce per richiamarsi, è direttamente partecipe.

Certo, il punto è drammatico e non deve necessariamente comporsi in una soluzione conciliatoria; e forse sta proprio qui il segreto della sua energia insopprimibile. Warburg, dopo la lettura di Eidos und Eidolon, scrive a Cassirer, richiamandosi allo scritto di Franz Böll Vita contemplativa (Böll [1920] 1950), perché qui il conflitto interiore tra “il rendere sacro o delimitare uno spazio” è l’accettazione della forma come finzione – appunto l’eidolon, “che si libera molto faticosamente della sua corporeità contingente, anzi dal suo ideale. E questo è in realtà il vero tema delle mie ricerche a partire dalla Primavera di Botticelli”; Warburg prosegue citando l’“ingresso dello stile anticheggiante” affrontato nello studio sul ciclo cosmologico-astrologico di Palazzo Schifanoia a Ferrara, per concludere osservando che “la lotta tra l’eidolon mostruoso e l’idea degli dèi la si potrà senza dubbio afferrare e documentare attraverso le favolose lotte per la trasformazione. Difatti le divinità astrali combattono se stesse sotto le false vesti di demoni” (lettera da Kreuzlingen del 22 febbraio del ’24, in Warburg, Cassirer Mondo di ieri, 50-51). In una lettera successiva, spedita da Roma il 3 dicembre 1928, questa conseguente alla lettura di Individuum und Kosmos (uscito nel 1926) che a Warburg l’autore aveva dedicato, i demoni dell’immagine sembrano finalmente ricondurre al loro alveo di pensiero: “non avrei mai immaginato in quale misura l’elaborazione del materiale illustrativo mi avrebbe obbligato ad occuparmi a fondo della filosofia dell’alto Rinascimento. Il personaggio la cui importanza mi si sta rivelando proprio adesso è Giordano Bruno. La sua critica alla conoscenza, che si cela dietro il simbolo di una campagna militare degli dèi contro i demoni celesti, è in realtà una critica della mera irragionevolezza, che posso ricondurre al contesto storico grazie al mio materiale figurativo di tipo psicologico (Armonia delle sfere 1589)” (Warburg, Cassirer Mondo di ieri, 87-88). Eloquente sarà la risposta immediata sull’argomento (del 29 dicembre) di Cassirer:

Con particolare gioia ho saputo che Lei si occupa adesso di Giordano Bruno. Come nessun altro Lei è predestinato ad aprirci la strada per farci capire quest’uomo singolare. La storia della filosofia in senso stretto è sempre stata fino ad oggi assai perplessa nei confronti di questo pensatore, e ha oscillato tra una venerazione superficiale e un rifiuto ipercritico che ha finito per giudicare Bruno attraverso parametri del tutto fuorvianti. Che si debba iniziare da un’altra parte, che Giordano Bruno non possa essere compreso, né interpretato limitandosi strettamente alla disciplina filosofica, sono cose che ho cercato di dimostrare nella mia ricerca sulla filosofia del Rinascimento. Personalmente mi sono limitato a cogliere il nodo problematico che sarà Lei a sciogliere. Lo Spaccio della bestia trionfante richiede un commento che la filosofia in senso stretto non potrà fornire da sola, ma assieme alla storia delle immagini e alla storia dell’astrologia. Il fatto che ci incontriamo su questa strada mi dà una gioia particolare e dimostra ancora una volta in quale misura i veri problemi si prendono gioco di tutti i tradizionali e convenzionali specialismi. Purtroppo ancora oggi continuiamo a soffrire di tali delimitazioni” (nella lettera da Amburgo del 29 dicembre 1928, in Warburg, Cassirer Mondo di ieri, 92).

Che la filosofia non possa venire a capo di un pensiero in cui l’immagine ha un ruolo imprescindibile e decisamente attivo – come è Warburg stesso con singolare sympatheia ad affermare, in una lettera successiva a Toni Cassirer: “se possibile vorrei innanzitutto cercar di caratterizzare Giordano Bruno come un uomo che pensa per immagini” (lettera da Roma del 6 marzo 1929, in Warburg, Cassirer Mondo di ieri, 96) – pone problemi che non possono essere affrontati in questa sede. Certo, nel caso di Cassirer e Warburg si toccano, ma da ‘orientamenti’ diversi, due pensieri attratti dai medesimi poli: la conoscenza scientifica da un lato, che pretende un’avvenuta emancipazione del pensiero dall’illusione magica dell’immagine; e la comprensione simbolica dell’altro, che prova come quell’emancipazione non si sia mai veramente conclusa perché già sempre in fieri nella forma inesauribile del linguaggio e dell’immaginazione. Che la storia delle immagini e l’astrologia invocate da Cassirer acquistino il loro senso solo sullo sfondo abissale di una ‘teologia senza nome’ – di cui Bruno poteva essersi annunciato a Warburg proprio come l’esempio più difficile ma anche più importante da comprendere – potrebbe essere la prova estrema della presenza, sulla sua via, di quella stella da cui non si distoglie chi ad essa è da sempre orientato.

Lo statuto dell’immagine inaugurato da Warburg si situerebbe dunque proprio in questa connessione tra visione e generazione individuata dal Simposio platonico, come è infine anche Cassirer nel finale di Eidos und Eidolon a convenire. Se in Warburg essa avviene su di un piano che vorremmo chiamare ‘teologico’, a teologia si eviterà di dare qualsiasi connotazione che non sia quella propria di colui che questo termine ha inventato e che nella Repubblica (379a) usa in senso aperto e interlocutorio. Esso – come si mostrerà a proposito del rapporto di Warburg con Usener, e cioè con la riflessione sull’avvento del linguaggio quale per molti versi analoga a quella sull’avvento dell’immagine – è l’evento del simbolo nella sua unitaria e sorgiva duplicità, sottolineata con forza dallo stesso Cassirer, secondo il quale è il linguaggio, proprio in quanto “rivitalizzazione e determinazione, personificazione e obiettivazione”, la “connessione tra simbolo mitico e concetto astratto” (lettera di Cassirer a Saxl, cit. in Ghelardi 2008, 158). Come rivelano d’altra parte gli appunti su Bruno rubricati sotto il titolo di ‘psicologia’, questa energia generativa è chiaramente riconosciuta entro uno statuto dell’immagine che si riflette nel linguaggio perché ha qui il suo luogo, la sua chora, si potrebbe dire, in una fecondazione reciproca e infinita, e quindi non priva di ambiguità, quale potenza propulsiva e generativa del pensiero pari a quella che ne consente riflessione e conservazione. Il nodo erotico di stasi e contemplazione, di vita activa e vita contemplativa, già individuato genialmente da Warburg nella polarità compensativa delle immagini della ninfa e del dio fluviale in un appunto coevo (Warburg GS Tagebuch, 288), balugina come la chiave possibile per sciogliere il nodo problematico del pensiero del Nolano.

L’atto della dedizione eroico-erotica al caos e alla hyle / dell’atto creatore originario dello spazio del pensiero che crea la riflessione prudente [Besonnenheit]”; “Napoli / la funzione polare / dell’antico nel mondo delle idee del microcosmo [aggiunto a matita; prima: “sistema del mondo”, Weltsystem] / di Giordano Bruno [...]; liberazione del cosmo dai / confini protettivi [Schalengrenzen] / e dal mostruoso / personale di sorveglianza dei confini [Grenzwächterpersonal] che però ritrova sulla terra / un civile sostegno [Civilversorgung]; cosa reca Bruno in più / di Cusano? / La fede [sotto è aggiunto: “mondo delle idee”, Ideenwelt] alla / desiderabile conformità [Zwechmässigkeit] di / un pensiero rapito nell’estasi [hingerissenen Denkens] (Warburg [1929] 2008, 49-50)?

E poi, rubricato sotto “Spaccio della Bestia”:

Protesta contro l’/ idolatria demonizzante / degli elementi figurativi [bildhaften Elements] incoerenti, senza nessi [unzusammenhängend]: / visione dell’astratta semplicità / culto della socialmente utile / fonte di energia [Energetik]” (Warburg [1929] 2008, 51).

Se è vero che la bussola per orientarsi in Bruno, e per uscirne, era stata individuata da Warburg nel riconoscimento della funzione logica dell’‘energetica’, e il suo carattere era anche indubbiamente estetico (Ghelardi 2008, 170), esso lasciava aperto il grande interrogativo sulla natura erotico-demonica dell’immagine; sull’inscindibile unione, nel simbolo, di natura sensibile e spirituale, polimorfa e polifonica, psichica e psicologica. Se per Cassirer il regno anarchico dell’immagine era stato infine ricondotto da Warburg a “un unico e solo linguaggio” e reso dunque finalmente “leggibile” – “So wurde alle bildende Gestaltung, wo immer sie sich regte, ihm lesbar als eine einzige Sprache, in deren Struktur er mehr und mehr einzudringen und deren Gesetze er sich zu enträtseln suchte” (cit. ivi, 170-171) –, il filosofo, o teologo della cultura quale era Warburg, al pari di ogni artista, sembrava non escludere il movimento opposto, contemplandone la scaturigine, come da fonte inesauribile, nell’immaginazione e nella teologia poetica della lingua.

3.

L’invito di Giorgio Pasquali a fare dell’atlante warburghiano “una pietra di paragone dei propri pensieri” è forse da leggere come l’incentivo a proseguire l’uso poetico che egli consiglia di fare delle immagini, evitando di trattarle come documenti inerti e probatori per considerarne invece l’aspetto attivo e protettivo, attento a non spegnerne, con la comprensione che la giustapposizione comparativa sollecita, l’intrinseca potenza. Se tanto giustamente si è ora riconosciuta al pensiero di Warburg, con Monica Centanni, la qualità di “vivente” (WPV 2022, 321-413), riferito, come è naturale, alle immagini, non sarà fuori luogo riconoscervi un’attenzione che molto ha in comune con quella che si potrebbe definire, ritrovando un’antica parola, “devozione” Andacht. Essa, in ogni caso, compare nella versione originale della prima parte dell’ultimo periodo del Rituale:

Das mythische und das symbolische Denken schaffen im Kampf um die vergeistigte Verknüpfung zwischen Mensch und Umwelt den Raum als Andachtsraum oder Denkraum, den die elektrische Augenblicksverbindung raubt, falls nicht eine disciplinierte Humanität die Hemmung des Gewissens wieder einstellt.

La prima versione italiana di Gianni Carchia rinuncia alla connotazione religiosa per piegarla a un senso filosofico che si prolunga nel termine successivo, Denkraum, tradotto con “ragionamento”:

Il pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella loro lotta per spiritualizzare la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea dell’elettricità distrugge (Warburg [1923] 1984, 39).

La seconda versione italiana, di Flavio Cuniberto, invece, ripristina il significato letterale, distinguendo i due ambiti concettuali della preghiera e del pensiero:

Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide.

Anche la versione inglese di W.F. Mainland aveva del resto preferito la traduzione letterale del termine Andachtsraum, sciogliendo, come farà poi Cuniberto, l’oder originale nella tensione, qui ancor più accentuata, tra devozione e ragionamento:

Telegraph and telephone are destroying the cosmos. But myths and symbols, in attempting to establish spiritual bonds between man and the outside world, create space for devotion and scope for reason, which are destroyed by the instantaneous electrical contact.

In questo senso diviene ancora più comprensibile, da parte di Warburg, la scelta del termine Andacht – devozione – in cui affiora senza reticenza una sensibilità intellettuale non dimentica di quello theios phobos che sarà proprio Edgar Wind, nel testo del 1932 che porta questo titolo e dedicato alla filosofia dell’arte di Platone (Wind [1932] 1992), a raccogliere.

Devozione e Denkraum sono dunque le condizioni che la mente ha creato per la sopravvivenza della propria integrità, altrimenti minacciata se non distrutta dalla pratica e pragmatica scorciatoia tecnologica. Ammesso, come peraltro dovrebbe essere abbastanza ovvio, che la tecnologia, o la macchina necessitino da parte di chi ad esse è tenuto, invitato o costretto a rivolgersi di alcuna particolare Machinenglaube – professione di fede, lo spazio che le immagini dispiegano e moltiplicano, cui essa fornisce un contributo decisivo e virtualmente incontrollabile –, resta aperto il problema del tipo di rapporto che esse consentono, sollecitano o impongono. Il nodo teologico con cui esse legano il sensibile all’intelligibile non può, pertanto, essere ignorato; e non lo è stato mai, prima della modernità, proprio grazie alla virtù poetica di cui esse sono in primis portatrici. Non sarà allora proprio questa virtù poetica, in cui riposa una ‘teologia dell’immagine’, il solo spazio possibile in cui può generarsi quella che Warburg chiama con un termine in cui risuona inevitabilmente l’aspetto inconscio, Hemmung (inibizione), paradossale se associato alla coscienza, ma di cui solo la coscienza può servirsi proprio grazie alla sua poieticità, ‘ripristinando’ quello spazio spirituale dell’immagine che corrisponde, tradizionalmente, a ‘cultura’? Un’umanità che pretenda di farne a meno non fa che esimersi dal compito che è naturaliter suum.

Warburg ha dunque potuto formulare la necessità etica del pensiero poetico come spazio teologico neutro e sorgivo in cui devozione e pensiero sono inseparabili. È quindi indubbio che egli rappresenti, anche malgrado le premesse hegeliane che sente comunque il bisogno di ribadire, uno spazio problematico ma di sosta salutare all’interno dell’accelerazione progressiva del moderno.

Tali premesse saranno filtrate dall’amicizia con Paul Ruben, filologo giudaista vicino a Franz Rosenzweig, se egli potrà scrivere in una lettera alla moglie Mary del 2 novembre 1928: “Non si comprende assolutamente la funzione della nostra biblioteca senza Hegel, e io sono essenzialmente uno che viene da Hegel, visto che da quando avevo 14-15 anni mi sono occupato di Hegel nelle serate devote trascorse a passeggiare con Paul Ruben, che è un vero conoscitore di Hegel” (cit. in Biester 2001, 11). La biografia storica di Biester dedicata a Paul Ruben, che ricostruisce la vita intellettuale di Amburgo attraverso una accurata considerazione di quei delicati aspetti teologici imprescindibili nella Germania fin-de-siècle e entre-deux-guerres, rappresenta di fatto il primo encomiabile tentativo di far luce su di una figura di libero studioso consulente della Biblioteca Warburg, la cui profondità di competenze e originalità di metodo avrebbero trovato, dopo la morte di Warburg, un riconoscimento immediato, soprattutto per gli aspetti della ricerca rivolti alle immagini simboliche e ai rituali, in Gertrude Bing (Biester 2001, 135-151). Il carattere innovativo di questa ricerca, rimasto in larga parte incompreso nella giudaistica ad essa contemporanea, non sarebbe bastato a dissipare, fino ad oggi, quell’oblio del suo autore forse già decretato dal rifiuto, che egli aveva condiviso con Rosenzweig, di ogni inserimento accademico. Che questo spazio di sosta – pur nella temperie di un pensiero il cui rapporto con Hegel è certo criticamente filtrato da Rosenzweig – sia un’interrogazione teologica dell’immagine – del tutto analoga a quella con cui Hermann Usener aveva interrogato il potenziale teologico del linguaggio – è quanto si intende un po’ più distesamente ora mostrare.

Nella prefazione all’edizione italiana di Mnemosyne. L’atlante delle immagini, del 2002, Nicolas Mann sottolinea l’apporto che alla metodologia di ricerca di Warburg avevano dato due studiosi, il linguista Hermann Osthoff e l’etnologo Adolf Bastian. Se il secondo aveva confermato l’avvertita necessità, per individuare i mutamenti di pensiero dei popoli, di rifarsi alla ricerca empirica, cioè alla sfera individuale e irripetibile del documento, era stato grazie al primo che il rapporto dell’immagine con il linguaggio trovava nel sistema suppletivo delle lingue indogermaniche, da questi scoperto, un preciso rimando. Si poteva cioè individuare, per aver ragione del caos con cui le immagini interagiscono e si combinano, un sistema analogo a quello con cui, nella lingua, si formano comparativi o superlativi che non hanno rapporto alcuno con la radice della parola di partenza al suo grado positivo. In questo modo, come osserva Mann riportando un appunto del 6 marzo 1905 – “non intendo sopravvalutare le formulazioni che ho trovato per spiegare lo sviluppo dell’espressione gestuale delle emozioni, ma esse si trovano certamente nell’ambito delle arti visive come risulta dalle ricerche linguistiche di Osthoff a proposito del sistema suppletivo e dello scambio e della sostituzione delle forme superlative” –, il rapporto enigmatico tra realismo fiammingo e arte fiorentina avrebbe trovato una sua spiegazione. Proprio il carattere suppletivo dell’antico nei confronti della mimesi realistica spiegava quella sua impertinenza nei contesti dell’autorappresentazione borghese tipica della Firenze umanistica e rinascimentale, figurando come il grado aumentato ma ‘estraneo’ rispetto a un positivo da cui mai avrebbe potuto generarsi. Illustrando anche, però, la necessità di un’esuberanza poetica niente affatto esornativa, ma radicata nelle esigenze stesse dell’espressione poetica in senso lato:

Soprattutto la poesia sarà chiamata a ricostruire ciò che la prosa e la logica minacciano di annullare nella loro sobrietà e nella loro conformità al numero. Fino a quando questa figlia del cielo non scomparirà completamente dall’esistenza dell’uomo, noi possiamo aspettarci da lei che sappia introdurre una reazione contro il degenerare della lingua verso ciò che è troppo razionale, e che essa, la poesia, possa trovare particolarità, mezzi e vie per cogliere e descrivere linguisticamente in modo occasionalmente sempre nuovo le cose della realtà nella forma più individuale, là dove l’uso linguistico quotidiano da lungo tempo si è abituato a coordinare in modo stabile un elemento all’altro e subordinare entrambi assieme a un più alto concetto (Osthoff [1899] 2004, 159).

Dinnanzi a una soluzione che è lo stesso Warburg a offrire, occorre, però, porsi alcuni interrogativi. Perché, proprio nelle città italiane, a un certo punto della loro storia, si è sentito il bisogno di declinare l’autorappresentazione mimetica della vita borghese secondo l’attrazione di un superlativo individuato nella tradizione dell’arte antica? Perché non si è avvertito, contemporaneamente – dati gli intensi rapporti di scambio commerciale e culturale dell’epoca –, nell’autorappresentazione della vita borghese della pittura fiamminga un movimento analogo di attivazione di superlativi grazie all’apporto dell’antico? Se rispondere all’ultimo quesito significherebbe indubbiamente autorizzarsi a dare una semplicistica spiegazione storico-geografica, la risposta al primo è assai ardua e non si pretende certo qui di affrontarla né tanto meno di tentarla. Basterà allora cercare di individuare un’istanza nascosta sotto e dentro l’immagine che la tradizione occidentale, notoriamente attraversata da un problema di amore e odio nei suoi confronti, non può permettersi di ignorare. C’è a questo proposito un autore molto caro a Warburg, presso il quale egli aveva studiato, maestro di Osthoff e altresì antesignano delle ricerche storico-religiose, Hermann Usener, la cui importanza decisiva è stata quella di mettere finalmente allo scoperto i nessi tra teologia e filologia.

A segnalare a Warburg, nel semestre 1885-1886, l’insegnamento di Usener era stato, come si è già ricordato, il coetaneo amburghese e poi compagno di università a Bonn Paul Ruben. Questi, rimasto per tutta la vita studioso indipendente, di formazione giudaico-ortodossa alla scuola talmudica di Amburgo – proseguita poi negli studi sulle fonti dei testi profetici della Bibbia ebraica e sui possibili influssi in essa della filosofia indiana –, sarebbe divenuto allievo del grande filologo classico. Falliti, nonostante l’assistenza di Gertrud Bing, i tentativi di trasferimento in Danimarca nonché di prosecuzione della sua vita di studioso indipendente ad Amburgo, costretto quindi a nascondersi fino al ritiro in un ospizio per poveri israeliti, Paul Ruben ne sarebbe stato deportato nel 1943 alla volta di Theresienstadt se non fossero state le condizioni di salute a decretarne la morte per cause naturali (Biester 2001, 11-13).

A quella che è stata definita una “umbratile esistenza” (Schattendasein: Biester 2001, 10) cui si fa risalire la causa della sua quasi totale assenza all’interno della pur così nutrita bibliografia warburghiana, occorre riconoscere il ruolo inedito, come intimo della famiglia Warburg, di suo “consulente religioso” (Biester 2001, 18), al quale veniva per esempio chiesto se accendere la luce elettrica di sabato rientrasse per caso in una delle mitzvòt (Biester 2001, 18). È a lui che Warburg non esiterà a rivolgersi anche nell’ultimo anno di vita per chiedergli, come all’unico in grado di farlo, il resoconto della conferenza di Reitzenstein sull’azione sacra, dal titolo ‘useneriano’ – lo studioso era amico e collaboratore di Usener – Heilige Handlung, tenuta all’Istituto nel semestre invernale 1928-1929 (come risulta anche da una lettera di Fritz Saxl a Warburg del 2 gennaio 1929; mentre la lettera di Warburg su Richard Reitzestein è del 3 gennaio 1929 da Roma, cfr. Biester 2001, 223). Sempre a Ruben, nell’ultimo giorno di vita, Warburg chiederà, come all’unico in grado di saperlo, notizie sul cabbalista messianico del XVII secolo Sabbatai Zevi (Biester 2001, 224).

Se era l’irriducibile ancorché sottaciuta presenza del problema religioso ad animare, pur all’interno dell’impostazione scientifica che caratterizzava la critica filologica del Cristianesimo, la filologia comparata di Usener, diverrà più comprensibile il fascino che essa poteva esercitare tanto sulla ricerca giudaistica di Ruben che su quella artistico-teologica di Warburg. Il problema di quell’intramontabile ‘Paganesimo’ che contraddistingueva Umanesimo e Rinascimento, dai quali, a partire dalla lettura storico-estetica di Burckhardt, era stato espunto l’elemento religioso-devozionale, poteva essere finalmente affrontato sul terreno della filologia, in cui a dover essere messo sotto esame non era solo il Cristianesimo delle origini nei suoi molteplici legami con la gnosi, ma anche il Cristianesimo successivo e il Cattolicesimo, intrisi di un ‘Paganesimo’ le cui forme erano passate indisturbate in un’arte che pure continuava a volersi ‘cristiana’. Questo aspetto, se all’interno della cultura umanistica mediterranea delle rinascenze non era mai stato fonte di contraddizione, ma era al contrario – pur nelle controversie religiose attivate dal normale confronto che ogni istituzione deve scontare con la fondativa purezza delle sue origini – una compensazione feconda, una volta divenuto freddo dato filologico e storiografico, non poteva non rappresentare un fattore di debolezza di cui la cultura umanistica e rinascimentale (che si diceva ‘cristiana’) era chiamata a rispondere. Se la purificazione neoclassica dell’Antico ad opera di Winckelmann aveva risolto la pagana demonicità elevando quello a razionale modello accademico, lo studio filologico delle fonti antiche metteva ora a nudo una differenza teologica che, pur ritenuta superata come tale, era comunque rea di aver prodotto, e forse di poter ancora produrre, un ideale estetico ancor sempre valido. Per il tribunale della scienza storico-filologica di ispirazione riformata appariva una colpa quel che per l’ambito devozionale dell’arte e della poesia umanistiche era invece un merito. Si trattava allora di accertare da un lato, se l’interesse scientifico rendesse quel tribunale completamente indenne da ogni pregiudizio religioso o confessionale; dall’altro se le immagini dell’arte erano davvero tramiti di perniciosa irrazionalità da riportare entro i confini sistematici della ragione. In questa prospettiva il caso Usener risulta altamente significativo.

Götternamen: è l’opera che Hermann Usener – successore di Friedrich Ritschl, maestro di Friedfrich Nietzsche –, alla guida del seminario di filologia classica di Bonn, consacra alla formazione del linguaggio. L’idea è che esso prenda origine dall’espressione di concetti religiosi il cui nucleo germinale è l’avvento del nome del dio, la cui apparizione fonetica nelle lingue indoeuropee istituisce una relazione di asintotica contiguità tra natura e convenzione, tra physis e nomos, tutt’ora inspiegabile e nondimeno alla base della differenza umana. Si trattava di una prospettiva squisitamente teologica, che diverrà drammatica per “il grande filologo a suo modo teologo” – come Giorgio Agamben definisce Usener, del quale discute il contributo decisivo per la riflessione sul linguaggio (Agamben 2008, 61) – quando la sua stessa scoperta lo obbligherà a sconfessare la base dogmatica della propria fede. Usener era stato infatti insignito nel 1901 del titolo di Doktor Theologiae dalla Facoltà Teologica di Bonn (Mette 1980, 96).

Egli dovrà infatti constatare che quel monoteismo, ritenuto fino ad ora originario e universale dalla religione e dalla cultura dominanti in Occidente, non lo era sul piano storico e linguistico, risultando non altro che il prodotto di un’evoluzione di concetti religiosi molteplici per non dire infiniti, come infinite sono le possibili risposte della sensibilità linguistica al contatto con il mondo esterno. Poteva una tale acquisizione della filologia esimersi dall’essere teologica? Non restava, allora, per conservare comunque al monoteismo il suo primato, che affidarsi a un principio razionalistico-evoluzionistico che, però, avrebbe dovuto sacrificare sull’altare della storia dell’Occidente razionalizzante la tormentosa e fascinosa ambiguità della sua cultura precedente. A questa cultura appartenevano, in primis, le immagini dell’arte.

Che sia il loro enigma teologico a spingere la ricerca di Warburg oltre i confini della sua cultura, presso gli indiani Pueblo, per scoprire non solo la chiave delle contraddizioni della propria ma, soprattutto, quell’originale o universale potenza figurativa con cui l’avvento dell’immagine accoglie e mantiene l’idea del divino, al di qua di ogni distinzione dottrinale o confessionale, è quanto emerge da un passaggio sulla paradossale polivalenza teologica dell’immagine del serpente. C’è un punto nel Rituale, infatti, dove la consapevolezza che le immagini si muovano e significhino secondo una loro sovrana autonomia deve misurarsi con la costanza e rigidità del contenuto dottrinale che esse sono chiamate via via a veicolare, e che forse solo la nozione di simbolo naturale (Carchia 1980) – da Warburg non invocata ma tuttavia implicitamente presente nel quadro epistemico del problema – avrebbe potuto comporre. Vale la pena di leggerlo per intero:

Nel corso di una escursione nella Vierlande trovai in una chiesa protestante di Lüdingworth delle illustrazioni bibliche sulla parete divisoria fra il coro e la navata centrale, le quali, palesemente copiate da una Bibbia italiana illustrata, erano finite là ad opera di un pittore girovago. E qui all’improvviso vidi un Laocoonte coi suoi due figli alla mercé dei serpenti. Come aveva fatto ad arrivare nella chiesa? Qui il Laocoonte veniva liberato. Infatti dinnanzi a lui si levava il bastone di Asclepio con un serpente salvifico, in corrispondenza di ciò che leggiamo nel IV libro di Mosè, e cioè che Mosè aveva comandato agli Israeliti nel deserto come rimedio contro il morso dei serpenti di erigere per venerazione un serpente di bronzo. Qui siamo davanti a un pezzo di idolatria sopravvissuta nell’Antico Testamento. Certo sappiamo che questo può essere solo un passo interpolato per spiegare a ritroso in forma immaginosa l’esistenza di un tale idolo a Gerusalemme. Poiché il fatto principale resta che l’idolo di un serpente di bronzo venne distrutto dal re Ezechia sotto l’influenza del profeta Isaia. L’idolatria che commette sacrifici umani e venera gli animali fu anzi la potenza ostile contro la quale lottarono nei modi più aspri i profeti. E questa battaglia costituisce il punto cruciale della riforma orientale e di quella cristiana, fino all’epoca più recente. È evidente che la costruzione del serpente si trova in nettissima contraddizione con i Dieci Comandamenti, nonché nel più aperto contrasto con quel rifiuto delle immagini che costituisce l’essenza della riforma dei profeti. Ma anche per un altro motivo non si può pensare un simbolo ostile più provocatorio del serpente nei riguardi di ogni conoscitore della Bibbia. Infatti il serpente sull’albero del Paradiso determina il decorso dell’ordinamento biblico del mondo come causa del male e del peccato. Il serpente sull’albero del Paradiso e, tanto nell’Antico che nel Nuovo Testamento, la potenza satanica che ha suscitato l’intera tragedia dell’uomo peccatore che spera nella redenzione. Nella sua lotta contro l’idolatria pagana, il primo Cristianesimo tenne un atteggiamento senza compromessi nei confronti del culto del serpente. Agli occhi dei Pagani, Paolo apparve come un messaggero sacro allorché seppe scaraventare nel fuoco la vipera che l’aveva morso, senza morire per il morso del serpente. La vipera velenosa è destinata al fuoco. E l’impressione dell’inviolabilità di Paolo nei confronti delle vipere a Malta sopravvisse con tale forza che fino al Cinquecento si trovavano nelle feste e nei mercati giocolieri, circondati da serpenti, che si proclamavano uomini del casato di san Paolo e vendevano terra di Malta come antidoto nei confronti del morso dei serpenti. Qui l’immunità di chi ha salda la fede sfocia di nuovo nella pratica superstiziosa della magia. Nella teologia medievale noi vediamo sorprendentemente mantenersi il miracolo del serpente di bronzo in certo modo come venerazione cultuale legittima. Difficilmente qualcosa potrà mostrare l’indistruttibilità del culto per l’animale meglio di questa usanza, nella quale il miracolo del serpente di bronzo trasmigra nella concezione del mondo cristiano-medievale. Infatti la teologia medievale ha trattenuto nel ricordo questo culto del serpente in quanto oggetto da superare a tal punto che, sulla base di questo passo per altro del tutto isolato ed in contrasto col senso e con la teologia dell’Antico Testamento, essa trasferisce l’immagine della venerazione del serpente nella figurazione tipologica, fino alla stessa crocifissione. La costruzione dell’immagine dell’animale e la folla inginocchiata in adorazione davanti a questo bastone di Asclepio vengono trattate e considerate come uno stadio preliminare, sia pure destinato a venir superato, della ricerca di salvezza da parte dell’umanità. Come uno stadio anche più antecedente viene posto in rapporto alla crocifissione l’impedimento del sacrificio di Isacco, nel contesto di un’evoluzione a tre stadi del tempo che comprende l’epoca della natura, quella della legge e quella della grazia. Questa tripartizione è presente ancora nelle rappresentazioni plastiche delle quali è adorno il duomo di Salem. Così anche nella chiesa di Kreuzlingen quest’idea dell’evoluzione ha condotto ad una stupefacente messa in parallelo, il cui significato è facile sfugga a chi non sia teologicamente iniziato. Infatti qui sulla volta della celebre cappella del Monte degli ulivi, proprio sopra la crocifissione, si trova l’adorazione di questo, che è il più pagano fra gli idoli, con un pathos che non ha nulla da invidiare a quello del gruppo di Laocoonte. Qui Mosè, del quale la Bibbia racconta che abbia spezzato le tavole della Legge a causa dell’adorazione del Vitello d’oro, viene addirittura adoperato come sostegno del serpente a sonagli, proprio rinviando a quelle tavole della Legge (Warburg [1923] 1984, 34-36).

Nello sconcerto di queste obiettive osservazioni entro l’iconografia giudaico-cristiana, avviandosi alla conclusione della conferenza, Warburg non può che proseguire ricapitolando la funzione dell’immagine del serpente. Da una parte, i Pueblo la eleggono a causa simbolica della soggezione alla natura e, attraverso l’‘azione sacra’ del rituale, riescono ad assumerla fino all’identificazione liberatoria; dall’altra, la teologia occidentale, dal Giudaismo al Cristianesimo, la utilizza con uno scopo apparentemente analogo, ma in realtà isolandola a causa di un pericolo esclusivamente morale – il serpente simbolo dell’invidia per Dio –, trovando altre vie per le cause di un pericolo fisico. Se là (presso i Pueblo) la mente non separava il pensiero razionale dall’immaginazione, qui (presso Ebrei e Cristiani) la separazione è netta: da una parte il problema morale che diviene male metafisico, dall’altra il problema naturale che diviene bene fisico. Gli uni (i Pueblo) pensano anche grazie all’immaginazione mitopoietica; gli altri (Cristiani ed Ebrei) pensano tramite la sua progressiva abolizione. Gli uni sanno che non diventeranno mai il dio che, nell’azione mitica, incarnano ritualmente e mimeticamente; gli altri, avendola abolita, non lo sanno più, l’hanno dimenticato, e quindi tenderanno, avendo rimosso la memoria delle immagini, a ricadere nella tentazione da cui l’iconografia teologica li preservava. Warburg naturalmente non giunge a questa ammissione, ma essa si può tranquillamente dedurre dalla sua impostazione del problema. Gli indiani, mimandone il significato causale, conservano, nel sacrificio cultuale, la potenza dell’immagine; i fedeli d’Occidente, trasferendo il concetto di causa al piano degli effetti immediatamente verificabili – il parafulmine –, non hanno esitato a sacrificare la potenza dell’immagine. Dinnanzi al guadagno in termini di sicurezza e di controllo del reale, la perdita sembra irrisoria, ma tale valutazione ottimistica non rispecchia che una tacita adesione al paradigma evolutivo che pone il pensiero scientifico all’apice di un progresso umano preteso universale, ma recante in bella evidenza il marchio di provenienza di una sua parte, la più forte. Poco dopo il lungo excerptum proposto, osserva infatti Warburg:

Il governo americano, con uno sforzo davvero ammirevole, ha introdotto fra gli Indiani – come un tempo la Chiesa cattolica – delle scuole di istruzione. Ed il suo ottimismo intellettuale ha all’apparenza realizzato che i bambini indiani vadano a scuola graziosamente abbigliati e coi grembiulini, senza credere più nei demoni pagani. Ciò vale per la maggior parte dei soggetti da educare. Certo questo sarà anche un progresso. Ma non credo proprio che ciò possa rendere giustizia all’anima degli Indiani, che pensano per immagini, in maniera poetico-mitologica (Warburg [1923] 1984, 38).

La simbologia dell’altezza e della solarità, a cui l’umanità appare destinata e di cui l’immagine ‘infera’ del serpente costituirebbe il polo opposto, solo apparentemente si compie in quell’“epurazione e sostituzione” operata dalla cultura moderna nei confronti della “condizione originaria”. La fulminea ricognizione di quel che la cultura moderna mette al posto del ‘Paganesimo’ non consente di cantare vittoria: “civiltà delle macchine” e “scienza scaturita dal mito” hanno seguito traiettorie diverse e solo quest’ultima procede verso quella meta veramente umana e quindi sempre ancora da raggiungere che Warburg chiama “sfera della contemplazione che crea spazio al pensiero” (Warburg [1923] 1984, 39).

Come Usener, pur nella comune adesione a un monoteismo metodologico, doveva a un certo punto, seguendo l’esempio di Schleiermacher (Ferrando 2008, 28-29), prendere le distanze dall’infrangibile ottimismo hegeliano, prendendo quindi anche atto della distinzione tra scienza e religione, per Warburg si trattava parimenti di cogliere il carattere indispensabile di quel che, in nome di una verità parziale, era stato impunemente sacrificato. In Mythologie, testo che può esser considerato un testamento metodologico, Usener è chiarissimo in proposito: “il pensiero, che come un lampo erompe dallo spirito, è il frutto di un atto creativo, al pari della concezione del poeta, ed entrambi si compiono, come la rappresentazione mitologica, grazie alle medesime forze spirituali” (Usener [1904] 1914, 63-64). Per questo l’immagine del serpente, in una delle sue versioni più estreme, la vipera, può trovare l’originaria, naturale composizione della propria ambiguità teologica solo come simbolo di un pensiero nel quale atto poetico e noetico siano inseparabili; il risveglio di tale pensiero non poteva che essere dolorosissimo, e ben doveva saperlo Alcibiade, come Platone gli fa ammettere (Simposio 215e) nel suo elogio a Socrate (Susanetti 2017, 125). Misurarsi con questa salutare condiscendenza al dolore, accogliere il pharmakon nella sua totalità simbolica, non separare – seguendo la mossa del sofista – Prometeo da Epimeteo, significa guardarsi dal diventare la malattia di cui si pretende di essere la cura. Di questo, Warburg sembra straordinariamente consapevole proprio quando invoca, nel finale espunto, quelle “inibizioni della coscienza” su cui la civiltà tecnica, dopo averle declassate a residuo di fasi trascorse, crede di avere finalmente trionfato. È quanto testimonierà Heidegger nell’immediato secondo dopoguerra, concludendo la celebre conferenza su Il problema della tecnica. A dispetto di ogni pretesa soluzione scientifico-tecnologica approntata per mettere il cuore in pace a una natura umana soddisfatta e paga di sé al punto da permettersi di smettere di pensare, essa invoca come unica salvifica incombenza la domanda che non può trovare altra risposta che nel suo incessante, ma vivente, e devoto, riproporsi:

Più ci avviciniamo al pericolo, più chiare incominciano a farsi le vie che portano a ciò che può salvarci, e più prendiamo a interrogarci. Infatti l’interrogarsi è la devozione del pensare.

Je mehr wir uns der Gefahr nähern, um so heller beginnen die Wege ins Rettende zu leuchten, um so fragender werden wir. Denn das Fragen ist die Frömmigkeit des Denkens (Heidegger [1953] 1956, 71).

Pure, queste “vie” pare non esistessero già più nemmeno per il vecchio Tolstoj, le considerazioni del quale – raccolte dalla figlia Alexandra e tradotte in tedesco per i tipi di Bruno Cassirer nel 1925, ma forse già note per altre fonti – rivelano una impressionante somiglianza con le considerazioni di Warburg:

La teologia medievale o la corruzione morale dei Romani avvelenarono soltanto alcuni popoli, e quindi una piccola parte dell’umanità; oggi l’elettricità, le ferrovie e i telegrafi corrompono tutto il mondo. Tutti si impadroniscono di queste cose, non possono fare a meno di appropriarsene, e tutti soffrono nello stesso modo, sono egualmente costretti a mutare il loro modo di vita. Tutti si trovano nella necessità di tradire ciò che per la loro vita è la cosa più importante: la comprensione della vita stessa, la religione. – Macchine, per produrre che cosa? Telegrafi, per trasmettere che cosa? Scuole, università, accademie, per insegnare che cosa? Libri, giornali per diffondere quali notizie? Ferrovie, per viaggiare verso chi e verso quale meta? Milioni di uomini insieme ammassati e sottomessi a un’autorità superiore, per compiere che cosa? Ospedali, medici, farmacie, per prolungare la vita – a quale scopo? [...] Con quanta facilità singoli individui ed interi popoli si impadroniscono di ciò che si chiama civiltà! Frequentare l’università, curarsi le unghie, servirsi del sarto e del barbiere, viaggiare all’estero – ecco l’uomo altamente civilizzato. E per quanto riguarda i popoli: la maggior quantità possibile di ferrovie, accademie, fabbriche, corazzate, fortificazioni, giornali, libri, partiti, parlamenti – ed ecco il popolo più civile. Così individui e popoli possono venire guadagnati alla civiltà, non però alla vera illuminazione: la prima è facile, non richiede alcuno sforzo ed ha successo; la seconda, invece, esige uno sforzo continuo e perciò presso la grande maggioranza non soltanto non ha successo ma incontra soltanto disprezzo ed odio, perché rivela le menzogne della civiltà (Tolstoj [1923, 1925] 2008, 103).

È questa la ragione che ci spinge a cercare di intendere il significato dell’espressione usata da Warburg, “inibizione della coscienza” (Hemmung des Gewissen), da cui le condizioni per pensare dipendono. Una scossa fortissima viene impressa a quel progresso scientifico-tecnologico di cui un’umanità giunta a tale stadio sempre più si compiace, inevitabilmente mostrando, nonostante il tribunale del diritto eretto a legittimazione del suo dominio sul mondo, una carente coscienza di sé. Essa si manifesta nell’impossibilità di accedere all’inconscio altrimenti che in modalità indisciplinata, forzata e compulsiva. Certo, il Rituale pare tacitamente assestato sul paragrafo 357 della Gaia scienza dove Nietzsche pone mente all’“intuizione incomparabile di Leibniz, per la quale egli ebbe ragione non solo contro Cartesio, ma anche su tutti coloro che sino a lui avevano filosofato, quando cioè riconobbe che l’essere cosciente non è che accidens della rappresentazione, e non il suo attributo necessario ed essenziale, e che ciò dunque, che da noi è chiamato coscienza, non costituisce che un particolare stato del nostro mondo intellettuale e spirituale, ma è lungi dal costituire quel mondo”. È che nessuno meglio di Warburg poteva parlare a favore dello statuto contingente e al tempo stesso indispensabile della coscienza. Il Rituale non aveva appena mostrato che le culture tradizionali sapevano accedervi in modo “disciplinato”? Non sono state le arti dell’immagine, da sempre, le vie maestre di questo accesso? È vero che in esse il dominio sulla natura non è nei fatti, ma nell’immaginazione; a venir disciplinata è, per l’appunto, la natura umana. Lungi dall’essere allora quella “splendida superfluità” (Wind [1960] 1968, 30) che il progresso scientifico-tecnologico è disposto a tollerare solo come entertainment, le immagini plasmate dalle arti, nella devozione che suscitano e nel pensiero a cui si uniscono, incarnano per Warburg l’unum necessarium di cui non si può fare a meno.

Nicolas Poussin, Inverno o Il diluvio universale (dettaglio), ca. 1660-1664, olio su tela, 118x160 cm, Paris, Musée du Louvre.

Eppure l’Occidente si apprestava a farne trionfalmente a meno, a meno di non trasformarle in paradossali, concreti, perturbanti e indispensabili fantasmi. Se il cosidetto ‘Paganesimo’, di cui la grande arte assicurava una paradossale sopravvivenza in una civiltà che non poteva non definirsi giudaico-cristiana, costituiva un problema insolubile perché indissolubilmente univa piano teologico e piano estetico, solo una disciplina in grado di resistere alla sirena alessandrina dell’estetismo idolatrico avrebbe potuto venire a capo – con i mezzi ateniesi forniti da filosofia, filologia e teologia, ovvero con l’ausilio di una sobria ricerca razionale – della terribile contraddizione. È tuttavia inevitabile osservare che la contraddizione era tale solo nell’occhio di chi la pativa. La luce che si cercava di proiettare sull’Altro illuminava invece spietatamente una cultura, quella occidentale, che, amputatasi delle risorse simboliche fornite dalla vertiginosa ampiezza di una tradizione ben più antica dei suoi ultimi duemila anni, giungeva alla consapevolezza del prezzo di tale amputazione. Essa tentava in tutti i modi di legittimarlo: ora vantando come prova di superiorità spirituale le acquisizioni del progresso tecnico; ora provando la sua superiorità spirituale proprio riuscendo ad ammettere la colpa inevitabile del progresso tecnico. Che si trattasse di una consapevolezza che non può definirsi che ‘abissale’, in quanto intrappolata nel doppio complesso di onnipotenza e di colpa, e che si fosse cristallizzata nella maniera più limpida proprio nella mente di Warburg fino ad abbagliarla e schiantarla del suo fulmine, è quanto risulta dalla documentazione legata non solo alla preparazione e all’esito della conferenza di Kreuzlingen, ma anche alla scelta tematica caduta, in tale delicato frangente biografico, su di essa. Le inevitabili contraddizioni di Warburg nel suo accostarsi alla cultura Hopi – guidato da esigenze interne alla sua propria cultura giudaico-cristiana (Freedberg 2004, 584) e quindi inevitabilmente lontano dal mondo in cui paradossalmente e invano cercava quella soluzione, che nel mondo suo proprio era stata cancellata – non sono sfuggite a molti lettori recenti, (appunto) da Freedberg (Freedberg 2004, 580-584) a Gualtieri (2020).

Saranno le inesauribili, abissali immagini mitologiche, còlte e trattenute in sapienti limiti teologici non alieni da devozione; trasmesse dalla pittura antica e rinascimentale; attinte dal pensiero vivente di Bruno; sillabate da Poussin al pari delle “vingt-quatre lettres de l’alphabet” che “servent à former nos paroles et exprimer nos pensées” e rendere in tal modo tacitamente comprensibili “le diverses passions de l’ame pour faire paraitre au dehors ce que l’on a dans l’esprit” (Félibien [1685] 1994, 215; cfr. Ferrando [2013] 2015, 78); saranno tali immagini le vie della memoria, ancor sempre da percorrere, per “ripristinare” le indispensabili “inibizioni della coscienza”, altrimenti inaccessibili?

 
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English abstract

The essay highlights the role of the theological horizon within Warburg’s repositioning of the problem of the image. The passage of the artistic image from a devotional term to an aesthetic object left its anthropological and theological-philosophical status unexplored by art historians. Warburg’s adventure in these research fields could only lead to a state of prophetic unease. The newly discovered full ending of the Ritual lecture shows his lucid awareness of the theological context as a possible antidote. A detached vision of the whole status of Western civilization functions in fact as an indispensable condition for finally looking at its artistic canon with the eyes of that otherness which it systematically oppresses both inside and outside of itself.

keywords | Aby Warburg; Anthropology; Ernst Cassirer; daimonOccasio; Paul Ruben; Symbol; Theology; Hermann Usener.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Ferrando, Warburg: una ‘teologia senza nome’?, “La Rivista di Engramma” n. 201, aprile 2023, pp. 97-129 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.201.0005