Una lettura iconologica e antropologica degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina
Presentazione di: Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Macerata 2020
a cura di Filippo Perfetti
English abstract
Questo numero di Engramma dedicato al rapporto tra testo e figura ospita la presentazione del volume di Giovanni Careri Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina. Di scuola francese l’autore, anche il libro si forma in Francia oramai una decina di anni fa, per poi arrivare al pubblico italiano nel 2020 per i tipi dell’editore maceratese Quodlibet che l’ha pubblicato nella traduzione di Giuseppe Lucchesini.
Nell’introduzione l’autore ci pone davanti a un scoglio da dover superare prima di entrare in questo intenso e ampio saggio sulla Cappella Sistina. In effetti sulla cappella papale, e in particolare sugli affreschi di Michelangelo Buonarroti, si è scritto molto (e forse fin troppo), ma d’altra parte la Cappella Sistina ha permesso una così ampia serie di descrizioni e interpretazione poiché è uno dei migliori esempi – scrive l’autore – di quanto Hubert Damisch definisce come “oggetti teorici”. Sulla Cappella come “oggetto teorico” insiste questo libro che dimostra, nel valore del suo contenuto, la validità dell’applicazione della formulazione di Damisch.
Giovanni Careri ci dà una prima prova di quale sia il punto di vista e il modo in cui utilizza questo oggetto teorico, a partire proprio dall’assunzione stessa della teoria di Damisch: uno degli approcci utilizzati è infatti quello dello strutturalismo applicato alla storia dell’arte di cui Damisch è tra i più importanti esponenti. Un secondo approccio per il libro viene dall’iconologia warburghiana e infine, il terzo, è l’applicazione della lettura antropologica all’immagine. In questo combinato teorico prende forma uno studio che nella sua precisa divisione in capitoli (vedi, infra, il sommario del volume) mantiene alcune costanti come coordinate utili per leggere e interpretare il ciclo michelangiolesco: la dimensione temporale e la centralità della corporeità. Così, nell’affresco del Giudizio universale vige il paradigma della conformazione e incorporazione al corpo di Cristo e in questa prospettiva è “come un’immagine/corpo che funziona per inclusione [somiglianza e conformazione] e per esclusione [dissomiglianza o conformazione negativa]”.
Il corpo risulta centrale anche per mostrare il particolare e stretto rapporto tra la figura del papa e gli ebrei, nello specifico quelli della città di Roma. Sempre rispetto agli ebrei da osservare è la rappresentazione che gli artisti cristiani danno della posa dei loro corpi, a evidenzare un segno di diversità, ma anche – a seconda del periodo e del contesto – della continuità genealogica che pone gli Ebrei come antenati di Cristo in quanto uomo e dei cristiani in quanto detentori, gli ebrei, della prima Legge. Una corporeità esibita a tratti al limite dell’animalità, oppure stigmatizzata se considerata nella sua dimensione mortale. Il lavoro di Careri ci induce a vedere le diverse sensibilità che hanno attraversato la rappresentazione del corpo, e in particolare del corpo degli ebrei nell’arte cristiana – espressioni che trovano una loro particolare formalizzazione proprio negli affreschi di Michelangelo per la Sistina: perciò quest’opera si propone come un punto di vista privilegiato per analizzare, attraverso questa lente teorica, l’immagine dal punto di vista antropologico.
Come insegna Hans Belting, infatti, l’analisi antropologica “deve insistere sulla trasformazione dell’immagine del corpo e dell’immagine dell’uomo, nelle quali si rappresenta in senso biologico, sociale e psicologico l’irrisolvibile questione della persona” (H. Belting, Antropologia delle immagini [Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Paderborn 2002], trad. it. di S. Incardona, Roma 2011, 171). Ecco che in questa chiave il Giudizio e le rappresentazioni che dà del corpo sono “come incunabolo della soggettività moderna” (così Careri), in cui vediamo formarsi il particolare statuto di soggetto secondo la lettura proposta da Foucault: un soggetto che è tale in quanto assoggettato ma anche in soggettivazione. In questa relazione con l’attualità nell’affresco di Michelangelo si rende evidente il secondo fil rouge del libro di Careri, la questione del tempo. Il tempo all’interno degli affreschi, il tempo nel rapporto fra i cicli degli affreschi – nel corpus degli affreschi di Michelangelo che rispetto a quelli quattrocenteschi, il rapporto con il tempo escatologico, il tempo del Giudizio. Ma anche il tempo che intercorre tra il passato precristiano, quello degli antenati, e quello dopo Cristo, in una continuità che è essenzialmente genealogica (quindi carnale), eppure anche segnata da un rapporto di alterità, di distanza.
Ecco che il tempo non si riduce a una componente che agisce all’interno degli affreschi nel loro montaggio (al quale è dedicato in modo particolare il secondo capitolo del libro di Careri): si tratta anche del tempo proprio e storico in cui quegli stessi affreschi furono realizzati; ed è l’osservazione degli affreschi nell’oggi per quello che ancora possono dirci, per la leggibilità che ora hanno raggiunto che questo libro ci propone. Da qui la scelta del brano del saggio che andiamo a proporre: non solo un passaggio in cui leggiamo del rapporto di influenza delle fonti testuali su Michelangelo (Dante e sant’Agostino attraverso la lettura di Petrarca) e della prossimità fra le Rime dello stesso artista con le sue opere nella Sistina; bensì un passaggio che nel mostrarci il processo di soggettivazione-assoggettamento, di riconoscimento e di alterità, di conformazione e differenza, ci riversa nell’attualità di questi affreschi. Davanti all’opera di Michelangelo si può sostare nello stupore dell’osservazione e della contemplazione, ma grazie all’analisi che Careri conduce in questo volume, incrociando i metodi dell’iconologia e dell’antropologia dell’immagine, si rivela ancor più contemporanea a noi.
La vita secondo la carne
da Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, pp. 238-249
Giovanni Careri
La trasposizione del conflitto tra cristiani ed ebrei nel cuore stesso del campo cristiano si è intensificata a partire dal secondo decennio del xvi secolo, nel momento in cui la Riforma e la “purificazione spirituale” della Chiesa sembravano essere a portata di mano, come abbiamo visto leggendo il Beneficio di Cristo. Negli anni 1508-1512, il contesto culturale era differente; Giulio ii, il papa guerriero, incarna il compimento e l’inizio del declino della Roma rinascimentale, avida d’antichità e di cerimonie degne dell’impero. Arrivando in questa città nel 1496, mentre vi regnava Alessandro Borgia, Michelangelo esprime una reazione di rifiuto degna di Savonarola, se si vuol prestare fede a una delle sue poesie:
Qua si fa elmi di calici e spade
e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,
e croce e spine son lance e rotelle,
e pur da Cristo pazïenzia cade.
Ma non ci arrivi più ’n queste contrade,
ché n’andre’ ’l sangue suo ’nsin alle stelle,
poscia c’a Roma gli vendon la pelle,
e ècci d’ogni ben chiuso le strade.
S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro,
per ciò che qua opra da me è partita,
può quel nel manto che Medusa in Mauro;
ma se alto in cielo è povertà gradita,
qual fia di nostro stato il gran restauro,
s’un altro segno ammorza l’altra vita?
Finis. Vostro Michelangiolo in Turchia[1].
Non sorprende constatare come, una volta divenuto l’artista dei papi, Michelangelo abbia abbandonato questo genere di denunce. Tuttavia le sue Rime, come l’insieme della sua opera, mostrano che ha sempre cercato di seguire “l’altra vita”: quella di una spiritualità elevata, sebbene, come vedremo, attraversata da dubbi. Molto è stato scritto a proposito del suo rapporto con Savonarola, per il quale, secondo Condivi, “egli ha sempre avuta grande affettione, restandogli ancor nella mente la memoria della sua viva voce”[2]. Condivi riferisce che l’artista aveva nella sua biblioteca le opere del ferrarese, che dopo la sua morte circolavano, a dispetto della condanna della Chiesa. Una frase analoga si può leggere nella Vita di Michelangelo di Vasari: “ebbe in gran venerazione le opere scritte da Fra Girolamo Savonarola, per avere udito la voce di quel frate in pergamo”[3]. Ci si è spesso riferiti a Savonarola per dare conto delle posizioni repubblicane antimedicee di Michelangelo[4]. Si è poi tentato di stabilire un legame fra la dimensione profetica delle prediche del frate ferrarese e la struttura profetica della volta della Sistina. Edgar Wind ha proposto di riconoscere in Sante Pagnini, un monaco agostiniano del convento di San Marco, il personaggio che avrebbe trasmesso a Michelangelo non soltanto le traduzioni italiane dei nomi ebraici degli Antenati, ma anche il loro significato allegorico di vizi e virtù[5]. Pagnini era considerato il “successore di Savonarola” da alcuni fra i suoi contemporanei ed era, secondo Wind, il “teologo preferito dal papa”[6]. Frederick Hartt ha contestato quest’interpretazione in due occasioni, denunciandone il carattere speculativo, dal momento in cui non soltanto non esistono prove di un contatto fra Pagnini e Michelangelo, ma gli “oscur” libri del monaco agostiniano restarono inediti fino alla sua morte, avvenuta nel 1536[7]. Hartt ha anche sostenuto che il ruolo del teologo alla corte di Giulio II è stato sovrastimato da Wind, ma non ha potuto smentire né le simpatie savonaroliane del papa prima della sua elezione (e forse anche dopo), né l’influenza esercitata da Savonarola ben oltre il momento della sua morte, in un arco di tempo che va fino alla metà del XVI secolo; influenza del resto dimostrata da Lorenzo Polizzotto[8] . Gli storici dell’arte hanno tuttavia trascurato un importante aspetto di questo rapporto, che lega la predicazione di Savonarola agli Antenati michelangioleschi: a partire dal 1490, egli cominciò, infatti, a rivolgersi ai fiorentini come al “popolo eletto”, sottintendendo che lo si dovesse considerare come un “novello Noè” o come un “novello Mosè”[9]. Donald Weinstein riassume così il senso di questa trasposizione:
I fiorentini – diceva – potevano essere un seme, come gli Israeliti d’un tempo, se solo avessero avuto “una vivida fede riscaldata dal calore dell’amore”. Dio aveva stretto un patto con il Suo popolo; se essi si fossero riformati, Egli avrebbe concesso loro ricchezza e gloria; avrebbe sostenuto il loro nuovo Stato e il loro nuovo governo; e gli altri popoli sarebbero venuti a Firenze per accoglierne la luce[10].
A partire dal 1494, Savonarola “dimostra che il processo di renovatio ch’egli aveva annunciato poteva essere efficacemente confrontato con il cammino nel deserto del popolo ebraico”[11]. Nelle sue prediche sull’Esodo del 1498, diceva: “e però potete intendere se questo libro, dove è descritta la tribulazione e perfezione del popolo di Dio, è a proposito nostro, e de’ tempi nostri”[12]. Alcune vele e lunette e l’illustrazione dell’Esodo della Bibbia Malermi acquista una portata più ampia se si suppone che i migranti in riposo nei loro ripari rappresentati ai margini della volta della Cappella Sistina possano ritenersi altrettante figure del popolo fiorentino (figg. 145 e 146).
Questa connessione non intende identificare nelle prediche di Savonarola la fonte testuale di cui gli Antenati sarebbero l’illustrazione, ma mira a far emergere un’ulteriore componente del modello che governa il disegno di tutto l’insieme; come nelle prediche del frate ferrarese, i tratti ebraici sarebbero stati scelti per descrivere le caratteristiche di una posizione di inerzia spirituale che è propria dell’umanità intera e, particolarmente, degli uomini “de’ tempi nostri”. Nonostante l’elezione con la quale Dio li aveva scelti, i fiorentini erano, in effetti, attaccati alle loro abitudini carnali secondo Savonarola, che li accusava di essere lenti e “tepidi”, un “popolo di dura cervice”, espressione che rimanda al popolo ribelle e dubbioso dell’Antico Testamento, ma anche alla tradizione antiebraica degli ebrei negatori dell’Incarnazione[13]. Michelangelo non era a Firenze nel 1498 e non poté dunque ascoltare la predica sull’Esodo, ma il motivo della tepidezza dei fiorentini e del loro attaccamento alla “vita secondo la carne” è una costante fin dall’inizio della vita pubblica del frate. Inoltre, è possibile che l’artista abbia sentito parlare della predica sull’Esodo dai suoi amici fiorentini antimedicei, ad esempio proprio da Sante Pagnini[14]. L’assimilazione dei fiorentini negligenti e tiepidi agli ebrei dell’Antico Testamento e a coloro che rifiutano la conversione è un’operazione comparabile a quella che fa delle figure degli Antenati immagini del cristiano sub speciem Iudaei. Il contrasto fra l’ispirato vigore dei profeti e delle sibille e l’inerzia degli Antenati si carica dunque di un significato paragonabile a quello che contrappone il furore profetico del frate ferrarese alla resistenza “carnale” dei negligenti fiorentini, fra i quali Michelangelo doveva certo annoverarsi, a voler prendere sul serio le frequenti confessioni di tepidezza che costituiscono uno dei motivi ricorrenti della sua poesia[15]. Quest’aspetto penitenziale e confessionale affonda le sue radici nella poesia di Petrarca, ma la figura del “tepido” è soprattutto un tipo dantesco, quello del liutaio Belacqua, che Dante e Virgilio incontrano fuori dalla porta del Purgatorio[16]:
O dolce segnor mio – diss’io – adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se Pigrizia fosse sua serocchia!
Interrogato sulle ragioni che gli impediscono di entrare nel Purgatorio, Belacqua risponde:
Prima convien che tanto il ciel m’agiri
di fuor da essa quanto fece in vita,
perch’io indugiai al fine i buon’ sospiri [...].
Belacqua si presenta come chi ha per sorella la pigrizia: prima di citarne il nome, Dante sorride degli “atti suoi pigri” [Purg. IV, 121]. Il liutaio è l’uomo del ritardo e del rinvio, colui che aspetta fino all’ultimo minuto: la legge del contrappasso lo condanna dunque a restare fuori dalle porte del Purgatorio per un tempo uguale a quello che aveva perduto esitando a volgersi verso Dio. In uno dei suoi disegni, Sandro Botticelli lo rappresenta circondato da altri negligenti seduti a terra e ripiegati su sé stessi.
Belacqua si rivolge al poeta senza alzarsi, portando al petto una mano penitente, ma senza abbandonare la sua posizione raggomitolata. Con il suo gesto vigoroso, Virgilio sembra invitare il poeta a proseguire il cammino e a non perder più tempo con un uomo la cui caratteristica è proprio di aver perso tempo. L’invenzione di Botticelli è sottile, poiché affianca all’inerzia dei pigri l’esitazione di Dante; la composizione di un corpo negligente mediante una serie di figure tra loro associate si presenta come una figura unica che progressivamente si chiude su sé stessa fino a fissarsi nell’immobilità autistica di colui che abbraccia “le ginocchia, tenendo ’l viso giù tra esse basso”, secondo la descrizione di Dante:
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
come l’uom per neghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia
tenendo ’l viso giù tra esse basso[17].
Michelangelo, come abbiamo già detto, conosceva la Commedia a memoria, ed era indubbiamente a conoscenza di alcuni elementi della sua esegesi[18]. Aveva forse visto questi disegni, realizzati intorno al 1490 per Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici, nei quali la messa in forma del torpore è formalmente e concettualmente prossima a quella dei suoi Antenati[19]. Nei versi di Dante, l’aspetto dell’inerzia, così ben colto da Botticelli, viene descritto attraverso la nozione di “negligenza”, negghienza, pregna di valore teologico. Belacqua è negligente: non ha saputo decidersi, come indica l’etimologia latina del termine, nec eligere, “non scegliere”. La negligenza, ci ricorda Vittorio Russo, è un concetto al quale san Tommaso ha dedicato una questione della sua Summa Theologica (II-II q. 54). Questo vizio “provenit ex quadam remissione voluntatis”: ha la sua origine in un certo ritardo della volontà[20]. “Negligentia importat defectum debitae sollicitudinis”, comporta una mancanza della dovuta sollecitudine; peggio, si contrappone direttamente alla sollecitudine, “directe opponitur sollicitudini”. La si può assimilare alla pigritia e al torpor; la pigrizia implica “tarditatem ad exequendum” (lentezza d’esecuzione) e il torpore “remissionem quandam in ipsa executione” (un certo rinvio dell’esecuzione), ed è appunto tale ritardo a esser illustrato dai gesti inefficaci di alcuni Antenati. Esiste uno stretto legame fra “torpore” e “accidia”; il torpore, in effetti, “ex acedia nascitur, […] quia acedia est tristitia aggravans, idest impediens animum ab operando”. Il torpore nasce dall’accidia, poiché l’accidia è un’aggravante della tristezza che trattiene l’animo dall’agire. Il torpore – scrive sempre san Tommaso – è una sorta di tristezza che rende l’uomo lento (tardus) al lavoro spirituale e materiale. È un peccato mortale se giunge a trattenere la volontà a proposito delle cose che sono di Dio, al punto da determinare una carenza assoluta di carità verso Dio[21].
Troviamo ripresi in queste definizioni tomiste, tratte dalla bella sintesi che ne propone Vittorio Russo, alcuni termini prossimi a quelli che si utilizzavano per descrivere la “resistenza ottusa” degli ebrei rispetto al cristianesimo: san Tommaso, tuttavia, non li attribuisce agli ebrei ma ai cristiani negligenti, cosicché la possibilità e la verosimiglianza di una condensazione di queste due condizioni in una sola figura sincretica del torpore trovano conferma sul piano teologico. Un’altra conferma decisiva, inattesa e situata sul piano materiale e concreto del visibile, potrebbe consistere nella verifica dell’ipotesi secondo la quale vi sarebbe tra gli Antenati un autoritratto di Michelangelo in veste di “cristiano negligente”.
Dato il complesso lavoro di condensazione che consiste nell’attribuire un aspetto “ebraico” al cristiano che resiste ai doni della grazia, ciò potrebbe indurre a identificare una straordinaria immagine dell’artista “nelle vesti di ebreo” o, più esattamente, “di san Giuseppe”, se si riconosce nel padre adottivo di Gesù la figura che esprime la prima esitazione nei riguardi dell’Incarnazione e, conseguentemente, l’immagine del dubbio e della lentezza.
La presenza di un eventuale autoritratto di Michelangelo fra gli Antenati, nella lunetta che reca i nomi di “Azor” e “Sadoch”, è stata suggerita da Fabrizio Mancinelli, nel suo raffronto con il presunto ritratto di Michelangelo nelle vesti di Eraclito inserito da Raffaello nella Scuola di Atene tra il 1509 e il 1511[22].
Sul piano – sempre scivoloso – delle somiglianze fisiognomiche, l’ipotesi di Mancinelli potrebbe trovare qualche conferma nel confronto con il ritratto scolpito da Daniele Volterra, realizzato fra il 1564 e il 1566, o con l’autoritratto tardivo nelle vesti di Nicodemo[23]. A un altro livello, il semplice fatto che si sia potuto riconoscere Michelangelo sotto le spoglie di Eraclito (come si fa sulla scorta di Redig de Campos), di san Paolo (come ho fatto aderendo alla tesi di Steinberg), o persino di Marsia, autorizza a riconoscerlo sotto le vesti dell’antenato, a patto di andare al di là della mera constatazione di somiglianza per cogliere piuttosto il senso del travestimento[24]. Nel suo libro Michelangelo’s Nose, Paul Barolsky ha proposto un sorprendente percorso attraverso tutte le figure assunte dall’artista: da quella di Sileno fino a quelle di Dante e di san Paolo[25], lo studioso propone una decostruzione del mito che Michelangelo stesso ha costruito tramite i suoi biografi. Non contesto che almeno una parte di tutte queste proiezioni possa considerarsi come una brillante manovra di autolegittimazione. Tuttavia, una cosa è costruire sapientemente la propria immagine suggerendo a Vasari e a Condivi aneddoti pieni d’arguzia, come pure versioni manipolate di alcuni eventi della sua vita, un’altra mettersi nella “pelle di un altro” attraverso l’arte dello scolpire o del dipingere. In questo caso, la dimensione propria della mitizzazione autobiografica cede il posto a una sperimentazione sull’identità, il cui equivalente più prossimo si trova forse nella scrittura autobiografica di Michel de Montaigne[26]. Come per il grande filosofo della soggettività moderna, l’identità è per Michelangelo una condizione d’instabilità permanente: un’operazione senza fine e sempre in corso, più che uno stato, un’operazione, che richiede di moltiplicare le figure di sé piuttosto che fissare la propria immagine in una soltanto. Bisognerebbe confrontare questa scelta con il disprezzo ostentato dall’artista nei confronti del ritratto e con la sua dichiarata volontà di non realizzarne mai uno. Per il momento mi limiterò a tentare di tessere un legame fra l’autoritratto “in veste di antenato” e l’autoritratto “in veste di Marsia” della Sistina, partendo dall’ipotesi, vicina a quella di Steinberg, che per l’artista non sia tanto questione di “firmare” le sue opere, quanto piuttosto di investire la propria soggettività nella costruzione ideologica e storica della cappella e, conseguentemente, nella storia dell’umanità. Il modello che rende possibile la connessione fra la condizione esistenziale di un individuo particolare e quella storica dell’insieme degli uomini si trova nell’opera di sant’Agostino, e precisamente nel nesso, già segnalato, fra la sua autobiografia – le Confessioni – e la sua costruzione storica, la Città di Dio. In quest’opera, sant’Agostino non si limita a definire la periodizzazione della storia dell’umanità secondo le età dell’uomo, ma fa anche ricorso a un modello energetico che vede Dio trasmettere la sua grazia e gli uomini sprecarla; così egli descrive la resistenza degli uomini a questo dono, dapprima da parte del popolo ebraico e poi da parte dell’umanità intera, come una forma d’adesione all’abitudine: concetto centrale nelle Confessioni, dove viene applicata al percorso individuale dell’autore, particolarmente in tutta la fase di esitazione fra grazia e “assenza di grazia” che precede la conversione al cristianesimo. Abitudine (consuetudo) è uno dei nomi della forza d’inerzia che opera al livello della storia del mondo determinando le cadute e le distruzioni che hanno provocato la fine di ciascuna delle cinque ere che hanno preceduto l’Incarnazione, ma è anche il nome della forza che, dopo l’avvento di Cristo sulla terra, continua a distrarre gli uomini dalla loro vita spirituale. Sant’Agostino trae da san Paolo questo modo di concepire il conflitto tra la “vita secondo la carne” e quella secondo lo spirito. Da san Paolo trae anche il modello sul quale ha costruito la propria autobiografia, incentrata sulla conversione; ma sua è la costruzione della relazione tra l’abitudine che affronta la grazia nel percorso storico destinato a condurre gli uomini alla città di Dio (o a quella del demonio) e l’abitudine che determina la vita di ciascuno, imponendogli un conflitto interiore che lo definisce in quanto soggetto. Michelangelo non poteva conoscere il testo integrale delle Confessioni, la cui prima traduzione italiana data al 1564, sebbene non si possa escludere l’esistenza di traduzioni parziali. L’accesso dell’artista al “conflitto agostiniano” – sostiene Thomas Mussio – passa per la poesia di Petrarca, la cui influenza su Michelangelo poeta è sempre stata riconosciuta, ma soprattutto sul piano delle scelte formali e lessicali. Il valore identitario costitutivo dell’eredità agostiniana, trasmesso a Michelangelo attraverso il Canzoniere, è stato però ben evidenziato da Mussio in un articolo decisivo ai fini della nostra argomentazione:
Un attento lettore delle Confessioni e delle Rime di Michelangelo coglierà certo in entrambe le opere l’importanza del concetto di abitudine come un fattore di complicazione nelle loro rappresentazioni del desiderio e della volontà. In entrambe, c’è un’esplorazione dello stato intermedio tra grazia e “non-grazia” [...]. Il conflitto spirituale è esacerbato da un sentimento d’incertezza, a volte molto accentuato, a proposito della presenza di Dio nel mondo.
Commentando il sonetto 87, che abbiamo già citato alla fine della prima parte di questo libro e che comincia con l’espressione paradossale “Vorrei voler Signor quel ch’io non voglio”, Mussio introduce un passo del libro viii delle Confessioni e, in particolare, una frase in cui l’autore afferma che, a dispetto della sua volontà, egli finisce per desiderare ciò che non desidera: “sed tamen consuetudo adversus me pugnacior ex me facta erat, quoniam quo nollem perveneram” (“ma tale abitudine era diventata più aggressiva per colpa mia, perché ero giunto deliberatamente là dove non avrei voluto”)[27]. La somiglianza con il sonetto 87 è sorprendente, tanto sul piano lessicale che a livello della concezione conflittuale del soggetto. Questa condizione di stasi, propria di una volontà scissa la ritroviamo espressa nel sonetto 168 del Canzoniere di Petrarca, dove si legge:
Io, che talor menzogna et talor vero
ho ritrovato le parole sue,
non so s’i’ ’l creda, e vivomi intra due,
né sí né no nel cor mi sona intero[28].
Uscire da questa condizione non è possibile e la forza che lo impedisce è identificata da Michelangelo nell’attaccamento all’abitudine. Il “vecchio uso” (madrigale 143), il “tristo uso e folle” (sonetto 297), la “triste usanza” (sestina 33) allontanano il poeta dalla grazia che, tuttavia, “’l ciel piove in ogni loco” (ibid.), sicché è già sempre troppo tardi per convertirsi[29].
Il pessimismo in merito alla forza del suo vincolo con l’abitudine ricorda l’intenso interesse che Agostino dimostra per questo concetto nelle Confessioni e, in particolare, un passaggio – in prossimità del climax di quest’opera – che in definitiva potrebbe esser considerato il riferimento chiave [the controlling text] per la trattazione poetica michelangiolesca del tema della consuetudine: “Poiché dal traviamento della volontà nasce la libidine; quando si diventa schiavi di questa, nasce l’abitudine; non resistendo all’abitudine, nasce la necessità. [...] La nuova volontà sbocciata in me di consacrarmi a Te per puro amore, di cercare le mie gioie in Te, o Dio, unica fonte sicura di essa, non era ancora tanto robusta da vincere l’altra consolidata dal tempo”[30].
Anche in questo caso, l’accesso di Michelangelo al testo agostiniano passa per la poesia di Petrarca e, in particolare, tramite il madrigale 131, nel quale – come fa notare Mussio – si trova una frase molto simile a quella già citata, poiché l’autore scrive: “c’un’or non vince l’uso di molt’anni”. La contrazione dell’anima nel proprio desiderio provoca il ritardo della conversione, che caratterizza tanto il testo di sant’Agostino quanto la poesia di Michelangelo. Sant’Agostino scrive: “Gli anni passavano ed io indugiavo a convertirmi al Signore, rimandando di giorno in giorno il mio vivere in Te e non rimandando la mia morte quotidiana in me stesso”[31]; analogamente, nel sonetto 294, Michelangelo riconosce il suo “soperchio indugio”.
Abbiamo già incontrato il sostantivo indugio nell’episodio di Belacqua e, nella nostra analisi degli Antenati, se ne sono individuate la trasposizione pittorica e le ragioni concettuali. In alcune delle sue poesie Michelangelo, come sant’Agostino, sembra voler sottoporre la sua fiacca volontà a un’azione violenta da parte di Dio. Ho colto questo momento di passività nella posizione d’attesa della figura di “Marsia” del Giudizio universale. Nei due autoritratti – quello sotto le vesti di Marsia e quello sotto le vesti di Giuseppe – abbiamo a che fare con un’immagine penitenziale di sé: quello della volta denuncia la “tiepidezza” e il dubbio di un soggetto in preda al “conflitto agostiniano”; quello del Giudizio universale l’assenza assoluta di una volontà propria e la speranza di esser fatto “uscire di sé” dalla violenza dell’azione immeritata del Cristo, come accadde a san Paolo. Più che autoritratti, queste due straordinarie figure di sé si devono comprendere come esercizi d’alterazione dell’identità: quello del Giudizio giunge fino all’informe di una pelle svuotata e d’un volto quasi irriconoscibile, quello della volta fino all’identificazione con quell’“altro” per antonomasia che è l’“ebreo” per il cristiano.
Queste poesie sono più tarde della volta e, talora, anche posteriori al Giudizio universale. Tuttavia, sottovalutarne la portata significherebbe presupporre un cambiamento radicale della posizione di Michelangelo, un cambiamento di cui non abbiamo traccia alcuna. La mia analisi degli affreschi mostra invece la coerenza di un percorso caratterizzato da un pessimismo prima “savonaroliano” e poi “spirituale”. Rispetto a quello che si può comprendere dalla lettura delle Rime – cioè di una raccolta di liriche caratterizzate dalla dimensione dell’espressione del sé –, l’esercizio d’autorappresentazione svolto nei due affreschi ha uno statuto differente e una dimensione che definirei “storica” – nel senso agostiniano – collocabile precisamente al punto d’intersezione fra la condizione di un soggetto particolare e quella dell’umanità nella storia. Nella volta, Michelangelo associa la sua immagine a quella di coloro che vivono una “vita secondo la carne”, mentre nel Giudizio universale la colloca nella posizione che non accorda alcuna capacità d’elevazione alla volontà degli uomini[32]. In queste due scelte, c’è un comune tratto di demistificazione che si potrebbe definire “realista”, se si decidesse di attribuire a tale termine “reale” il compito di esprimere ciò che resiste al desiderio di un mondo “ideale”.
Inquadrato nella prospettiva che abbiamo appena proposto, l’autoritratto di Michelangelo in veste di antenato acquista una verosimiglianza che va ben di là della somiglianza con altri ritratti. Dal punto di vista della “vita delle immagini”, la figura che gli è più vicina è quella di Giuseppe nelle Natività italiane, in quella di Giotto ad Assisi, per esempio.
L’autoritratto condivide d’altronde un’“aria di famiglia” con il Giuseppe della lunetta eponima; come lui, è coperto da una lunga tunica gialla che lo avvolge, impedendogli o ritardando l’esecuzione di un’eventuale azione (remissio in executione, secondo le parole di san Tommaso)[33]. Il “gesto inefficace” della donna che le sta accanto è un modo per sottolineare il ritardo proprio a Giuseppe e, per estensione, al cristiano “tiepido”. Nonostante sia sempre pericoloso fidarsi della simbologia dei colori, l’associazione del ritratto a Giuseppe autorizza in questo caso ad interpretare il giallo come un segno di appartenenza all’era della Legge e, per estensione, alla condizione degli ebrei. Giuseppe, in effetti, è quasi sempre vestito di giallo; spesso appare imprigionato dalla sua tunica per segnalare l’effetto paralizzante del suo desiderio di continuare ad osservare la Legge. Ciò conferma, attraverso l’analisi del lavoro proprio delle immagini, ciò che ci ha fatto comprendere l’analisi svolta da Mussio sulle Rime, ovvero l’importanza attribuita da Michelangelo al concetto di abitudine (“vecchio uso”, “tristo uso e folle”, “triste usanza”) per descrivere la sua condizione, espressa nell’“autoritratto” per analogia con l’attaccamento di Giuseppe alla Legge, che ritarda la sua conversione. Quest’ipotesi è confermata da un disegno attribuito a Baccio Bandinelli.
Si tratta di una copia della parte destra della lunetta che reca i nomi di “Ioseph” e di “Iacob”, ove – secondo Redig de Campos – sotto i tratti di Giuseppe si riconosce un “ritratto satirico di Michelangelo”[34]. Se si accetta la mia interpretazione della posizione degli Antenati negli affreschi della Sistina e la mia lettura della posizione della figura dell’artista in questo complesso, il disegno di Bandinelli si rivela, più che una satira, come la concisa espressione di una lucida comprensione delle sfide dell’esperienza di alterazione di sé sotto le spoglie di Giuseppe compiuta da Michelangelo. In altre parole, questo disegno suggerisce che l’autore aveva compreso almeno una parte delle ragioni per le quali l’artista, associandosi a Giuseppe, aveva condiviso con l’insieme degli Antenati la sua condizione di cristiano negligente.
[1] Componimento n. 10, M. Buonarroti, Rime, di E.N. Girardi, Laterza, Bari 1960, p. 6. Il “manto” è da intendersi come il papa. Gli specialisti dibattono sulla datazione del componimento, 1512 per Girardi e 1496 per Bardeschi Ciulic.
[2] A. Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, a cura di G. Nencioni, spes, Firenze 1998, p. 62.
[3] Un panorama degli studi sui rapporti tra Michelangelo e Savonarola si trova in P. Barocchi, Commento a G. Vasari, La vita di Michelangelo, vol 4. pp. 2024-2038.
[4] G. Spini, Michelangelo politico e altri studi sul Rinascimento fiorentino, Unicopli, Milano 1999.
[5] E. Wind, Sante Pagnini and Michelangelo. A Study for the Succession of Savonarola, “Gazette des Beaux-Arts”, 1944, t. II, pp. 10-13.
[6] Ivi, p. 4.
[7] F. Hartt, Pagnini, Vigerio and the Sistine Ceiling: a Reply, “The Art Bulletin”, 33 (1995), pp. 262-273.
[8] L. Polizzotto, The Elect Nation: The Savonarola Movement in Florence 1494-1545, Oxford University Press, Oxford 1994.
[9] D. Weinstein, Savonarola et Florence. Prophétie et patriotisme à la Renaissance, Calmann-Lévy, Paris 1973, p. 190.
[10 ]Ibid. L’autore rinvia a G. Savonarola, Prediche italiane ai Fiorentini, a cura di R. Palmarocchi, La Nuova Italia, Firenze 1933, vol. III, p. 196.
[11] P. Venturelli, Savonarola ovvero Mosè, in T. Casadei (a cura di), Esodo, Fara Edizioni, Sant’Arcangelo di Romagna 1999, p. 196.
[12] G. Savonarola, Prediche sopra l’Esodo, a cura di P.G. Ricci, Edizione nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, Belardetti, Roma 1955, predica IV, p. 112.
[13] G.C. Garfagnini, “Questa è la terra tua”. Savonarola e Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2000, pp. 191-204.
[14] E. Wind, Sante Pagnini and Michelangelo. A Study for the Succession of Savonarola cit.
[15] Questo rimpianto è un carattere condiviso tra la poesia di Michelangelo e quella dei poeti piagnoni, si veda G. Ponsiglione, La lirica di Michelangelo e i poeti savonaroliani, “Critica del testo”, VI, 2, 2003, pp. 855-881; Id., La poesia ai tempi della “tribulazione”. Giovanni Nesi e i savonaroliani, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2012, pp. 94-169. Ringrazio Giorgio Fichera di avermi segnalato questi testi.
[16] Purgatorio, IV, vv. 109 e sgg. Si veda G. Petrocchi, L’attesa di Belacqua, in Id., Itinerari danteschi, FrancoAngeli, Milano 1994, pp. 263-278.
[17] Purgatorio, IV, vv. 103-108.
[18] Una bibliografia aggiornata sul rapporto tra Michelangelo e Dante si trova nel catalogo dell’esposizione Michelangelo e Dante, a cura di C. Gizzi, Electa, Milano 1995; si veda anche B. Barnes, Metaphorical Painting: Michelangelo, Dante and the Last Judgement, “The Art Bulletin”, 77, 1995, pp. 64-81.
[19] P. Dreyer, Presentazione e commenti ai disegni di Botticelli, in La Divina Commedia. Illustrazioni di Sandro Botticelli, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 27-40.
[20] V. Russo, Belacqua e il suo tipo, «Modern Language Notes LMN», 102, 1, gennaio 1987, pp. 14-31.
[21] Ivi, p. 14; traggo le citazioni di san Tommaso dal citato articolo di V. Russo.
[22] Si veda F. Mancinelli, Michelangelo at Work: The Painting of the Ceiling, in A. Chastel, C. Pietrangeli, The Sistine Chapel: Michelangelo Rediscovered, Muller Blond & White, London 1986, p. 236; D. Redig de Campos, Il pensieroso della Segnatura, in Michelangelo Buonarroti nel IV centenario del “Giudizio universale” (1541-1941). Studi e Saggi, Sansoni, Firenze 1942, pp. 205-219, riedito in Id., Raffaello e Michelangelo. Studi di Storia dell’Arte, Bardi, Roma 1966, pp. 83-98.
[23] Si veda P. Ragionieri (a cura di), Il volto di Michelangelo, Mandragora, Firenze 2008.
[24] L. Steinberg, Michelangelo Last Judgement as Merciful Heresy, “Art in America”, novembre-dicembre 1975, p. 39.
[25] P. Barolsky, Michelangelo’s Nose: A Myth and his Maker, The Pennsylvania State University Press, University Park-London 1990.
[26] L. Marin, “C’est moi que je peins...”, De la figurabilité du moi chez Montaigne, in L’écriture de soi. Ignace de Loyola, Montaigne, Stendhal, Roland Barthes, a cura di P.A. Fabre et al., puf, Paris 1999, pp. 113-126.
[27] T. Mussio, The Augustinian Conflict in the Lyrics of Michelangelo: Michelangelo Reading Petrarch, “Italica”, 74, 3, 1997, p. 341. Il brano citato (Confessiones, VIII, 5) si è riportato nella traduzione italiana di Carlo Vitali: Sant’Agostino, Le Confessioni, Rizzoli, Milano 1989, p. 215.
[28] Sonetto 168, vv. 4-8 (F. Petrarca, Canzoniere, a cura di S. Stroppa, Einaudi, Torino 2011, p. 298).
[29] T. Mussio, The Augustinian Conflict in the Lyrics of Michelangelo: Michelangelo Reading Petrarch, cit., p. 345.
[30] Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 5, p. 161, passaggio citato in T. Mussio, The Augustinian Conflict in the Lyrics of Michelangelo: Michelangelo Reading Petrarch cit., p. 345; trad. it. cit., p. 215.
[31] Sant’Agostino, Confessioni, VI, 9, p. 123; trad. it. cit., p. 171.
[32] G. Lettieri, L’altro Agostino, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 15 e sgg., arriva alle stesse conclusioni.
[33] In questo personaggio Ettore Camesasca ha riconosciuto un ritratto più mentale che fisico dell’artista: si veda R. Salvini, La Cappella Sistina in Vaticano, Rizzoli, Milano 1974, p. 30, nota 10 e, nello stesso volume le Appendici di Camesasca, p. 221.
[34] D. Redig de Campos, Un ritratto satirico di Michelangelo attribuito al Bandinelli, “Rendiconti della pontificia Accademia romana di archeologia”, XIX, 1942-1943, pp. 397-405, riedito in Id., Raffaello e Michelangelo…, cit., pp. 149-157. Il disegno fa parte della collezione di Oscar Zanetti (24,8 × 15,8 cm).
Sommario del volume
Nota all’edizione italiana e ringraziamenti
Introduzione
I. Fabbrica del corpo glorioso: il Giudizio universale
II. Il montaggio della storia nella Cappella Sistina
III. La vita secondo la carne
Epilogo. Aspettando Godot nella Cappella Sistina
English abstract
This article discusses an excerpt from the book Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina by Giovanni Careri. Careri highlights the relationship between the Sistine frescoes and the literary sources which had influenced Michelangelo. An introductory Note to Careri’s excerptlays emphasis on his approach based on the anthropology of images, iconology, and structuralism. The focus is on two main aspects of the book: the issue of flesh and body and that of time.
keywords | Cappella Sistina; Iconology; Michelangelo Buonarroti.
Per citare questo articolo/To cite this article: G. Careri, F. Perfetti, Una lettura iconologica e antropologica degli affreschi di Michelangelo. Presentazione di: Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Macerata 2020, a cura di F. Perfetti, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 135-154 | PDF