Giocasta, Clitemnestra, la Corifea
Interviste a Maddalena Crippa, Laura Marinoni, Gaia Aprea. Con un intervento di Peter Stein (Siracusa 2022)
a cura di Gaia Gallitto e Mariarita Barresi
English abstract
L’ethos dei personaggi è, secondo Aristotele nella Poetica, il secondo dei sei elementi costitutivi di una tragedia greca, dopo il mythos:
È dunque necessario che di tutta la tragedia ci siano sei parti, grazie a cui la tragedia ha una propria qualità; esse sono racconto, caratteri, linguaggio, pensiero, vista e musica […]. La tragedia è infatti imitazione non di uomini ma di azioni e di modi di vita; non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri a motivo delle azioni; pertanto, i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte. Inoltre, senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri può esserci; le tragedie della maggior parte dei moderni sono in effetti prive di caratteri, e in generale, sono molti i poeti di questo genere, come anche tra i pittori Zeusi si trova così in rapporto a Polignoto: Polignoto è un buon pittore di caratteri, mentre la pittura di Zeusi non ne presenta alcuno [traduzione di Diego Lanza, Aristotele. Poetica, Milano 2017, 136-139].
Stando al passo citato, il racconto è la parte più importante nella costituzione di uno spettacolo tragico in quanto è imitazione delle azioni, la cui somma crea la struttura portante di tutta la messinscena. Aristotele definisce ‘carattere’ la qualificazione di coloro che agiscono, aggiungendo che “senza l’azione non ci sarebbe la tragedia mentre senza i caratteri ci potrebbe essere” in quanto il carattere di un personaggio si determina attraverso il susseguirsi di quelle azioni, guidate da una scelta, che muovono i fili della trama drammaturgica. Il mythos in ordine cronologico (nel processo di scrittura drammaturgica) e di importanza precede inevitabilmente lo sviluppo dell’ethos, e tuttavia il prodotto finale sarà l’esito della sintesi armonica di tutte le componenti. Evidente è inoltre che, in base alla prospettiva che ognuno di noi adotta in relazione al testo, di volta in volta uno degli elementi può emergere rispetto agli altri, singolarmente o insieme. E così sul piano della lettura acquisirà maggiore rilevanza l’aspetto formale del testo, dato dall’unione di trama e lexis. Invece dal punto di vista della regia e della messinscena diventano fondamentali tutti gli aspetti che rendono vivo il testo: non solo il mythos, considerato l’anima della tragedia da Aristotele, ma anche e soprattutto lo spessore del personaggio, ossia il suo ethos – senza tralasciare gli altri elementi quali il pensiero (dianoia), lo stile (lexis), la componente musicale (melopoiia), lo spettacolo (opsis).
L’interesse e il piacere che ancora si prova assistendo a spettacoli composti più di 2500 anni fa dipende dal fatto che in scena vediamo vivere davanti ai nostri occhi quei personaggi a noi noti, che fanno parte del nostro background culturale, mentre mettono a nudo il loro ethos. Ed è soprattutto in quei caratteri che ognuno di noi trova degli aspetti in cui immedesimarsi o da respingere con repulsione. Anche se parossistiche o addirittura estreme, le storie dei grandi eroi tragici del mito toccano l’animo di tutti noi e si fanno portavoce di gioie, ansie, preoccupazioni, dubbi che trascendono l’epoca di composizione. I drammi greci antichi, in questo, hanno la capacità di attrarre il pubblico proprio attraverso l’ethos dei loro grandi protagonisti, e così sono capaci di suscitare ancora emozioni autentiche.
Dalla nostra prospettiva di studentesse di Filologia classica, abbiamo raccolto le preziose testimonianze di tre interpreti d’eccellenza, che qui presentiamo nella successione in cui sono state realizzate le interviste: Gaia Aprea (intervistata il 30 maggio 2022), Maddalena Crippa (intervistata il 17 giugno 2022), Laura Marinoni (intervistata il 24 agosto del 2022), le quali nella stagione teatrale 2022 del Teatro greco di Siracusa si sono distinte rispettivamente nel ruolo di Corifea nell’Agamennone con regia di Davide Livermore, Giocasta nell’Edipo re con regia di Robert Carsen, Clitemnestra nell’Agamennone con regia di Livermore.
Intervista a Gaia Aprea, Corifea in Agamennone (Siracusa 2022)
Il Corifeo è un ruolo centrale e complesso nella drammaturgia antica, da lei interpretato nel 2011 nell’Andromaca dove la ricordiamo anche nei panni di Teti; ancora nel 2012 nelle Baccanti di Antonio Calenda ha dato forma allo spirito delle menadi e negli ultimi due anni nell’Orestea diretta da Davide Livermore. Rispetto a quanto abbiamo studiato sul ruolo del Coro nel dramma antico, qual è il significato da attribuire oggi a questo personaggio/non personaggio? E qual è la tecnica interpretativa da lei adottata nel presentare in scena un ruolo che rappresenta la voce corale, molteplice, il ‘filtro estetico’ tra scena e pubblico?
Inizio a rispondere dalla seconda domanda, cioè su come io personalmente ho portato in scena queste Corifee. Essendo il personaggio più ambiguo, ovvero meno delineato all’interno della tragedia, perché non ha la connotazione di un personaggio principale, né una sua personalità specifica è, in genere, il personaggio sul quale la regia interviene maggiormente ed espone, spesso, la sua tesi propositiva rispetto al testo. Non a caso, infatti, mi è capitato di fare le cose più disparate in questi anni. Quindi interpretando particolarmente Corifee e Corifei in quei casi io non sono dovuta intervenire decidendo che strada dare al personaggio, mentre se interpreti Clitemnestra, interpreti Cassandra, hai un margine di approccio al ruolo maggiore, come accade normalmente nel teatro che non sia tragedia classica. Non a caso, nel 2011 nell’Andromaca io ero la Corifea ma al contempo ero una dea, Teti, che nel testo di Euripide compare alla fine concludendo con un grande monologo, mentre nella messinscena dall’esterno seguiva l’andamento di tutta la vicenda, sin dall’ingresso del coro. Ho fatto poi la Corifea nelle Baccanti con la Martha Graham Dance Company in cui lo spirito dionisiaco era portato avanti dalla furia molto forte e connotata di questo corpo di ballo così importante, per cui c’era bisogno di un contrappeso vocale molto presente, che mi era affidato non per contrastare ma per supportare questa fisicità così eccelsa.
In questo caso, Livermore ha ribaltato il coro dell’Agamennone, solitamente costituito dai vecchi argivi, poiché voleva – e qua interviene la tesi di regia – dimostrare che siamo all’interno di un regime totalitario instaurato da Clitemnestra alla partenza di Agamennone, intento che verrà chiarito definitivamente con l’uccisione del marito. Siamo all’interno di un regime totalitario in cui nessuno può parlare, in cui vige una finta democrazia e un finto quieto vivere. Così i vecchi argivi sono affidati a tre signori in sedia rotelle, vecchi reduci di guerra ai quali non è concesso parlare perché loro sono i detentori della verità e direbbero come sono andate veramente le cose: rivelerebbero, per esempio, che la regina stava usurpando il potere del marito e che la regina è l’amante di Egisto. Ma questo non è possibile, la regina e il regime totalitario non lo permettono. E quindi Livermore ha creato una sorta di esercito di crocerossine-infermiere-schiave che hanno il compito di tenere a bada questo ordine costituito. In questo caso io sono la ‘capa’ di questo corpo di spedizione punitiva, il che non vuol dire però – e in ciò risiede il punto commovente di questo coro e anche quello che a me più piace – che a sua volta questa sorta di piccola Kapò subisca il potere, e che è d’accordo con esso, anzi ella stessa, in dei piccoli stralci interpretativi, evidenzia quanto sia difficile vivere entro un ordine costituito senza poter dire la verità, tanto più quando sei quella che deve detenere l’ordine, quella che deve far sì che l’ordine non venga sovvertito.
In questo senso torniamo all’inizio della domanda: qual è il senso del coro e il significato che possiamo dare oggi a questo ruolo. Io direi assolutamente quello che si poteva dare all’epoca. Il coro rappresenta il filtro, il punto di vista di un ipotetico pubblico, più prossimo alla vicenda che con sguardo oggettivo la guarda, la commenta, o la subisce. Mi sembra anche molto importante oggi, in particolare, in un mondo in cui l’approccio al teatro è cambiato – parlo in genere per le nuove generazioni e per la stragrande maggioranza del pubblico – avere uno sguardo esterno che ti riporta alla realtà dei fatti [Fig. 1].
Come è stato detto, nel caso della rappresentazione curata da Livermore il coro appare più variegato rispetto a quello eschileo, composto da soli anziani argivi, e a dominare è proprio la Corifea, secondo l’interpretazione registica. Laddove è riuscita a ritagliare per sé un margine di libertà interpretativo, si è ispirata a una figura o a un modello in particolare?
La proposta del personaggio, e la creazione di una Corifea che non esiste nel testo eschileo, è nata interamente dal regista. Come sempre avviene in queste cose però – e questo è anche il bello del teatro – il regista arriva con una proposta che poi plasma e crea in relazione alla creta o al marmo che si trova sottomano, quindi poi sta anche al regista assecondare una venatura piuttosto che un’altra. Andando avanti nella creazione di questo personaggio così duro e spietato, ci siamo insieme resi conto, quasi senza dircelo, in maniera impercettibile, che in alcuni momenti potevamo far vedere in filigrana la vita di questa donna che probabilmente ha dedicato la sua esistenza al servizio del potere, forse lasciando da parte aspetti più intimi della sua vita privata. Ci siamo accorti che alcune parti, pronunciate dai vecchi argivi nel testo originale, potevano essere cucite sul mio personaggio che finisce per inglobare in sé una sorta di rammarico o rimpianto per un passato che non sappiamo se lei ha vissuto o non ha vissuto, ma del quale le hanno parlato. C’è una battuta in particolare, che esemplifica, secondo me, ciò che sto cercando di dire. A un certo punto il Coro racconta come è iniziata la guerra. Il regista, in questa scena, mi ha suggerito di avvicinarmi a uno dei vecchi argivi che all’orecchio mi dice: “Tutto questo l’abbiamo fatto per una donna”. Ma, all’interno del regime autoritario, questo non può essere detto perché non si può dire che la guerra in realtà l’hanno fatta solo per una donna, bisogna dire che l’hanno fatta per motivi di conquista. Allora il regista ha pensato di farmi ripetere la vera battuta “Tutto per una donna a cui un solo marito non è bastato”. Ciò fa emergere il rammarico della Corifea che invece probabilmente non ha avuto neanche un marito, che si è sacrificata per il potere, che vede intorno a sé la distruzione di tutti per una donna che ha portato a questo sfacelo, perché un solo uomo non le è bastato. Il pubblico probabilmente non potrà mai capire cosa sto facendo in quel momento, ma lo recepisce in maniera indiretta.
Da qui si creano micro-libertà all’interno del testo. Un altro esempio è quando si parla della bella Artemide che ama tutti i cuccioli appena nati dal passo malfermo; anche in questo caso per tirare fuori l’umanità della donna – quando io parlo dell’umanità di una Corifea, è sempre un’umanità non personale, ma oggettivata, io sto parlando di tutte quelle donne che si sono asservite al potere, che si sono trovate all’interno di una società in una situazione più grande di loro che le ha inglobate, io sono sempre nella mia specificità portatrice di un messaggio – che probabilmente non ha avuto figli o anche se li ha avuti è sempre stata una donna in carriera, quando parla della bella Artemide per un attimo rivede questi bambini, la commuovono, insieme al fatto che non ha mai potuto essere una madre dolce. Ma è solo un istante, poi ritorna subito in sé, perché non può far vedere che si sta commuovendo.
Inoltre, il regista si era convinto che io assomiglio a Polly della serie tv Peaky Blinders. Livermore, per la fisicità del personaggio e l’aspetto fenomenologico, mi ha parlato di Polly per ricreare questo tipo di donna, di femminilità dura, cinica, ma in realtà molto umana, e tuttavia capace anche di andare oltre la femminilità pur di raggiungere i suoi scopi. Dopodiché io ho preso in esame anche altri due personaggi, sempre cinematografici: Emma Thompson, in Quel che resta del giorno, per quel tipo di discrezione fatta di piccoli gesti silenziosi, perché la sua vita dedita al lavoro e la sua femminilità è sacrificata a questo scopo, e per quel tipo di compostezza ed eleganza. Ho visto anche qualche film sui lager nazisti perché l’immagine che mi è venuta in mente è quella tipica dei Kapò. Ovviamente quando ti trovi in una situazione del genere molto spesso sei costretta a diventare violenta per salvaguardare te e chi ti sta intorno. Ecco, io avrei voluto esprimere qualcosa di simile sulla scena [Figg. 2-3].
Una delle capacità richieste al Corifeo, oltre alla recitazione, è il saper cantare e danzare per dar corpo alle sezioni corali della tragedia. Ci chiediamo in che modo si è preparata a essere la Corifea di Orestea 2021-2022? E in che misura le conoscenze musicali di Davide Livermore hanno influito nella resa complessiva del dramma messo in scena?
Per quanto riguarda la domanda personale su come ci si deve preparare, certo è che uno non arriva e dice: “Ora mi preparo per fare la Corifea”. È un po’ un bagaglio tecnico che ci si porta dietro da attori e che si costruisce negli anni. Avere la libertà di poter utilizzare la voce fa parte dei doveri di un attore, come un cantante che deve studiare canto, l’attore deve studiare per saper utilizzare la voce. C’è una serie di strumenti tecnici dei quali bisogna essere in possesso, non fosse altro che per non perdere la voce. L’attore deve sapere come urlare, deve sapere come fare un pianissimo, sapendo che in realtà sta timbrando per cinquemila persone. Se sei più giovane aiuta fare esperienza. Quando mi esibì ad Epidauro con Terzopoulos avevo 23 anni e, ovviamente, avere a che fare in giovane età con uno spazio così grande ti dà la dimensione di dove dovrai arrivare per portare la voce. Però una volta che arrivi a una certa età, un certo bagaglio tecnico te lo porti dietro.
Per quanto riguarda Livermore, il suo approccio al testo è completamente musicale. In questo io sono molto affascinata perché ho un amore, vengo da una famiglia di musicisti, mio padre è direttore di orchestra, mio nonno era pianista, quindi l’approccio musicale mi piace. Livermore, sia l’anno scorso che quest’anno, ha cercato di ricreare il ‘madrigalismo’ cioè, quando a un certo punto, nel 1500, uomini colti e intellettuali si riunirono a Firenze e istituirono la Camerata de’ Bardi, volendo ripristinare, secondo loro, la tragedia greca, in realtà inventarono il melodramma. Questo perché loro, non avendo elementi oggettivi dai quali partire, ma solo brandelli di testo, ipotizzavano che gran parte della tragedia fosse musicata con movimenti ritmici e percussioni, cioè che il testo fosse fortemente connesso all’andamento musicale. Partendo da questo si è iniziato a creare un andamento della frase che seguisse l’andamento musicale, o meglio che un andamento musicale seguisse il senso della parola. Vi faccio un esempio: “Il cielo è su, la terra è giù”, o “Vado dalle stelle alle stalle” – io devo assecondare con l’intonazione della voce l’altezza del cielo o delle stelle e la bassezza delle stalle o della terra. Questa è una scelta molto affascinante e ti dischiude sensi nascosti delle parole molto semplici. Quando poi tu ascolti Monteverdi – Livermore ci ha fatto fare ascolti di Monteverdi o di opere coeve – senti come ci sia una connessione fortissima fra la parola e l’andamento musicale: l’andamento musicale fatto parola e la parola fatta andamento musicale diventano teatro. Improvvisamente la parola connessa alla musica nel suo senso stretto diventa rappresentabile. È una stupidaggine ma, per esempio, nella frase “E ora arriva il re” noi possiamo pronunciare il tutto sulla stessa altezza e ritmo, come urlandolo. Ma se invece riportiamo la parola alla realtà ‘ora’ significa ora, in questo preciso momento, ed è meglio fare una pausa espressiva dopo “E ora”, mentre “arriva il re” si pronuncia dopo, tutto d’un fiato, con un ritmo più sostenuto e con una tonalità più bassa e profonda. Così succede qualcosa, c’è una concretezza e adesione tra parola e senso trasportata in una dimensione musicale.
Altra frase è “E così Agamennone accettò di farsi carnefice della figlia, onde far ripartire le navi e ricominciare la guerra”. Livermore mi faceva notare che le navi a quell’epoca andavano col vento; invece, la guerra è una cosa tremenda che fa rumore. Quindi diceva di dire “onde far ripartire le navi” come se si sentisse il vento, con un ritmo più lento mentre “e ricominciare la guerra” espresso con più forza e profondità. Rievoco con la parola l’immagine di quello che voglio rappresentare in quanto noi siamo detentori di immagini in parola. Cioè noi abbiamo il dovere di ricreare in maniera subliminale nella mente dello spettatore l’immagine con il nostro strumento, che è il corpo, noi attori ci dobbiamo rifare a un’onomatopea della musicalità che riporti al senso. In questo Livermore è stato molto attento. Poi, siccome lui è un uomo estremamente colto e complesso, da questo è partito con interventi musicali che andassero in assonanza o dissonanza rispetto all’andamento della recitazione. Quindi abbiamo usato per esempio un canone dodecafonico (nella dodecafonia invece delle 7 note si contemplano tutte e 12, toni e semitoni) che destrutturasse. Questo è destabilizzante per l’orecchio umano anche se in realtà esiste in natura, non è rassicurante. Allora nei momenti in cui si voleva dimostrare la scomposizione dell’ordine mentale, il caos, soprattutto quando interviene Cassandra, cioè una sorta di alieno che viene fra noi e che percepisce cose che noi umani non percepiamo, lì è stata usata la dodecafonia [Fig. 4].
Abbiamo utilizzato Bach per il tema di Ifigenia poi distorto e rimodellato, fino ad arrivare alla chitarra elettrica, presente in altri momenti. L’intero spettacolo è una sorta di architettura musicale che ha colonne portanti, capitelli, volte, volute, anti-bui, luci, il pubblico non lo potrà capire ma noi all’interno sappiamo che il regista, oltre ad aver costruito un apparato scenico visivo, ne ha costruito anche uno sonoro, il che può essere accettato o meno, a seconda del proprio gusto personale, però c’è comunque un monumento sonoro che non è minimamente lasciato al caso. Tutto parte dalla voce dell’attore e dal senso che si vuole ridare. È un dialogo con la musica, un approccio musicale che, se fatto bene, rivela anche l’aspetto psicologico.
La lettura e la recitazione sulla scena di queste parole e di questi miti che ha interpretato nel corso degli anni al Teatro greco di Siracusa, hanno lasciato qualcosa in lei? E in cosa ritiene che possano essere insegnamenti ancora validi per l’attore e più in generale per l’uomo di oggi?
Siracusa, fatemelo dire, è un luogo unico al mondo, abbiamo un gradissimo patrimonio, è uno dei luoghi in cui la tragedia viene vissuta. Ed è merito dell’INDA l’aver riportato a teatro decine di centinaia di giovani, l’aver riunito il teatro alla gente in maniera così diretta e semplice. Anche il fatto che le rappresentazioni inizino di giorno e poi piano piano scende la sera, permette di entrare nella storia, è un modo straordinario di fruire il teatro. Non c’è quel concetto del “mettiamoci fichi e andiamo a teatro”, è come se il teatro facesse ancora parte della vita sociale della polis e questo avviene solo qui al mondo. È vero, esiste Epidauro, ma lì il teatro è fuori dalla città, qui invece si respira teatro anche camminando in Ortigia, c’è una cultura teatrale strepitosa. A parte Siracusa, che io ringrazio come attrice e cittadina italiana, ho avuto la fortuna di avere molto a che fare con la tragedia greca. Al mio debutto a 23 anni feci Edipo a Colono di Glauco Mauri, nel ruolo di Antigone, e la Corifea nell’Edipo re. Poi con Terzopoulos feci prima Ismene nell’Antigone e l’anno dopo ero la protagonista nell’Antigone di Sofocle con la stessa regia. Poi feci un’altra Antigone con Terzopoulos, poi Andromaca, poi Baccanti, Prometeo, poi l’Orestea in cui facevo Cassandra e Atena. Di tragedia ne ho fatta parecchia, quindi non posso scindere il mio essere attrice dalla tragedia greca. Cosa mi porto dietro? Io potrei dire tutto, faccio prima a dire cosa non mi porto dietro. Secondo me in quello che hanno detto i Greci c’è tutto, tutte le tipologie di donne, e parlo specificamente di donne perché è incredibile che in una società come quella greca, nonostante le donne non recitassero (non sappiamo nemmeno se le donne potessero andare a teatro o meno), ci fosse un’attenzione tale al mondo femminile. Come facciamo a superare Antigone? Antigone è tutte le giovani Greta che esistono oggi, tutte le giovani che si sono ribellate all’ordine costituito, perché non volevano subire ingiustizie. Elettra, io non l’ho mai interpretata, ma è la ragazza che subisce per tutta la vita una madre accentratrice che ti schiaccia e non ti permette di vivere, di essere te stessa. C’è la donna che tradisce: Clitennestra. C’è la donna fedele tutta la vita, che aspetterà il marito con pazienza: Andromaca. C’è la nascita della giustizia, personificata da Atena. C’è Cassandra che vede quello che gli altri non vedono ed è trattata come una pazza. C’è Medea, la donna fuori di sé per gelosia che arriva a uccidere i figli. Chi va a teatro deve cercare di capire, deve spegnere il telefono e ascoltare e, anche se ci si distrae ogni tanto, qualcosa delle parole della tragedia rimane e passivamente si impara. Addirittura, nell’antica Grecia veniva dato un obolo a chi andava a teatro, non eri tu a pagare il biglietto ma era lo stato a pagarti. Poi, a Roma, ti pagava anche le terme così eri ripulito sia dentro che fuori. Insomma, una società meravigliosa!
Intervista a Maddalena Crippa, Giocasta in Edipo re (Siracusa 2022)
Nell’Edipo re di scena quest’anno a Siracusa lei dà corpo e voce al personaggio drammaturgicamente centrale, intorno a cui ruotano passioni e movimenti della tragedia. Ma già nel 2016 qui a Siracusa lei aveva dato voce e corpo a un’altra grande figura tragica, Clitemnestra, interpretando il personaggio dell’Elettra di Sofocle, con la regia di Gabriele Lavia [Fig. 5]. Nel suo scontro con la figlia Elettra, le scelte registiche hanno influenzato la sua interpretazione del carattere del personaggio ideato dal drammaturgo Sofocle?
Assolutamente sì, il regista ha un ruolo decisivo nell’interpretazione del personaggio, il lavoro di uno spettacolo è un insieme corale che viene diretto, articolato e tenuto insieme dal regista, dalla sua visione, dalla sua concezione della spazialità della messinscena. Giocasta e Clitemnestra sono due personaggi completamente diversi. Clitemnestra è un personaggio fortissimo, che ha vissuto il lutto di Ifigenia, della figlia sgozzata da Agamennone, che poi tradisce con Egisto; è come una tigre sulla scena, è una donna che prova l’odio, che medita la vendetta, che agisce; tutte passioni che i Greci hanno saputo esprimere e rappresentare, come anche il dolore di Ecuba delle Troiane.
Giocasta invece non sa che Edipo è suo figlio, lo ama profondamente, ha avuto dei figli da lui. Di solito in teatro io ho un temperamento molto forte e qui, invece, Carsen mi ha proposto questa versione molto interiore, come emerge soprattutto nel finale, recitato di spalle con un sibilo di voce strozzata, allorché Giocasta è investita dalla verità, al punto da togliersi la vita. Io inizialmente ero un po’ titubante per alcune scelte registiche, come quella dei cocktail, che mi sembravano un po' azzardate e che invece alla fine ho sposato completamente. Ecco, bisogna essere capaci di servire al meglio le proposte del regista. Forse avrei lottato di più se fosse stato in contraddizione con il testo; invece Carsen ha saputo dare il giusto peso alla parola [Fig. 6].
Quest’anno è protagonista nell’Edipo re, con la regia di Robert Carsen, nel ruolo di Giocasta. Nella prima parte della tragedia, quando la donna è ancora inconsapevole della realtà dei fatti, abbiamo scorto nella modalità e tonalità della sua recitazione l’intento di far emergere l’istinto materno verso Edipo e, quasi come contraltare, una certa freddezza verso il figlio abbandonato che crede morto. Abbiamo visto bene? Ha lavorato in questo senso?
Io non trovo che il comportamento di Giocasta verso Edipo sia così materno, al contrario è femminile, è una donna innamorata [Fig. 7]. L’aspetto materno è solo verso i quattro figli avuti da Edipo. Per il nuovo marito prova un amore passionale. I due si baciano, si toccano, anche se c’è una differenza di età molto forte. Ho lavorato secondo le coordinate richieste dal regista. Infatti, la potenzialità del teatro può essere amplificata da una regia che rispetta il testo o distrutta da una regia che gli va contro. Oggi va molto di moda usare il testo antico per esprimere il punto di vista del regista, che però spesso non ha alcuna aderenza all’originale. Cosa bisogna innovare se umanamente il racconto ci riguarda oggi come allora? Nella vita di ognuno, anche in quella più fortunata, possono arrivare dei fallimenti.
Recitare è il mestiere che amo; il teatro è forse uno degli ultimi luoghi dove puoi ancora ritrovare la connessione con la tua potenza umana quando assisti a uno spettacolo che ti tira dentro, che accende la tua immaginazione e ti coinvolge insieme ad altri in un presente assoluto. Il risveglio che ti procura il teatro è meglio dell’effetto di qualsiasi droga, uno si sente tirato dentro con il cuore e le viscere, sei portato a sviluppare emozioni, è l’esperienza migliore, quando funziona. Trovo che un merito di questo spettacolo sia la chiarezza dall’inizio alla fine, anche gli interventi della musica e del coro sono al servizio di ciò che veramente serve, ossia la parola, senza esagerazioni di sorta.
L’attore è uno strumento al servizio del ruolo che interpreta e, personalmente, trovo emozionante sparire dietro la vita di ogni singolo personaggio. Ciò non toglie che io ci metta il mio cervello e il mio cuore. Il personaggio sulla scena è l’esito di un lungo percorso di studio del ruolo. Infatti, la bellezza e la difficoltà della recitazione teatrale consistono nell’avere tutte le armi pronte al momento adatto. Io non ripeto mai nulla meccanicamente sulla scena, perché ogni volta è un’emozione nuova. Nei due momenti in cui parlo del figlio appena nato che Laio ha preso e mandato a morire, nello sviluppo delle repliche ho aggiunto una sofferenza che in Giocasta è ormai sopita perché lontana. Pertanto, trovo che, finché non si scopre che Edipo non è figlio di Polibo, Giocasta non sospetta nulla, neanche inconsciamente. Quando infine capisco, schianto per terra e poi vado via, travolta dall’atroce verità. È una storia thriller scritta benissimo, è un capolavoro assoluto.
Troiane 2019, con regia di Muriel Mayette-Holtz: lei era Ecuba [Fig. 8]. Cosa si prova e cosa ha significato per lei, da attrice, vivere sulla scena una sofferenza tanto autentica e intensa come il dolore di Ecuba?
La cosa straordinaria dei Greci è che loro hanno parole in grado di esprimere tutte le passioni, anche il dolore. Noi siamo immersi in tutta la nostra tecnologia e modernità – lo vedi che disastro è ormai la gente, talmente invasa e disavvezza ad esprimere e a comunicare gli stati d’animo, come sta male e per questo è un continuo di ammazzamenti e di violenza. Invece la cosa straordinaria dei Greci è che anche al dolore più indicibile, più insostenibile riescono a dare voce. Ecuba non è mai sola, è con le sue donne e anche se è tutto distrutto, anche se le portano via perfino il piccolo Astianatte, ha sempre tutto il suo gruppo di donne che la compatisce. Questo è l’insegnamento, non si è soli. La solitudine, infatti, è il male della nostra epoca, siamo illusi di essere connessi l’uno con l’altro ma non sempre è così. I Greci in maniera corale hanno sondato tutte le sensazioni ed emozioni dell’animo umano, l’amore, l’odio, la vendetta, la violenza e per questo il loro teatro di parola ha veramente tantissime sfumature, se sai coglierle.
La sua carriera l’ha portata a esibirsi in tanti importanti teatri italiani ed europei compresi Mosca, San Pietroburgo, New York. La sua prima esperienza a Siracusa è stata nel 2004, poi ripresa al Teatro di Epidauro, interpretando Medea con la regia di Peter Stein. Che emozioni si provano però a Siracusa, a scendere quelle scale [Fig. 9], ideate per la scena di Radu Boruzescu dell’Edipo re, prima e mentre si entra in scena, davanti a un teatro gremito di gente?
Recitare in questo spazio ti fa sentire come se fossi su una Ferrari, capisci che sei all’origine della tua professione. Lo spazio creato dai Greci risponde alla necessità pratica di rivolgersi a un’intera città. Tu non hai mai in teatro la possibilità di una massa del genere, 5000 persone e più, quando mai ti capita? Qua a Siracusa ti capita. E poi vedi ogni singolo spettatore perché lo spettacolo comincia quando c’è ancora la luce naturale. Capisci che sei nell’origine di quello che poi è diventato il teatro, che è cambiato, si è sviluppato all’interno, con delle spazialità diverse nel corso dei secoli. Ma quando porti in scena una tragedia greca, qui o a Epidauro, è un’emozione fortissima.
Nel teatro c’è qualcosa di sacro che noi abbiamo perduto perché è diventato commercio, vendita, ricerca del successo. Il terrore prima di entrare in scena non te lo risparmia nessuno, è una sensazione senza pari entrare in scena e trovarsi davanti a quel muro di gente. Nel cinema se sbagli puoi ripetere, in teatro no. Il teatro si fa insieme, non è monologo, il teatro è relazione tra gli esseri sociali che siamo, riflette, mette in scena, si interroga sulle regole che ci siamo dati come esseri sociali che ci tengono insieme. È interessante perché parla di comunità, della nostra comunità. Una volta riguardava tutta la città, adesso meno, ma i numeri a Siracusa sono importanti, mentre nelle città questa cosa si riduce, per cui incide di meno. Quando ho l’occasione di essere qua, ne vale sempre la pena.
Intervista a Laura Marinoni, Clitemnestra in Agamennone (Siracusa 2022)
La prima domanda verte sulle sue esperienze passate al Teatro greco di Siracusa, in cui lei è stata più volte protagonista. Per citarne alcune, nel 2011 nel ruolo di Andromaca e nel 2013 nei panni di Giocasta. Cosa pensa del carattere delle grandi donne che ha avuto la fortuna di portare sulla scena e in che modo ha lavorato sui personaggi?
Ancora prima di Andromaca, il mio debutto, che ricordo con grande emozione, è quello del Prometeo con regia di Luca Ronconi nel 2002. Fu un’esperienza bellissima sia perché era la prima volta che ero al Teatro greco sia perché il personaggio di Io mi ha portato particolarmente fortuna. Era una sfida perché Io è per metà umana e per metà un animale, quindi di tutte le grandi figure delle tragedie, che ho avuto l’onore di interpretare, era abbastanza inusuale e complicato dover rendere anche fisicamente questa immagine. Mi ricordo che Ronconi mi diede molto spazio per immaginare il costume, rendendomi partecipe alla costruzione dell’immagine del personaggio. C’era questo contrasto tra la Ninfa giovinetta, in qualche modo anche semidea, e la parte bestiale, quasi repellente del personaggio. Avevo addosso del lattice, ero come nuda, avevo questa testa di capelli mista a peli, le corna, peli sulla schiena. Forse è stata la prima volta che ho avuto la sensazione di una vera trasformazione fisica e, quindi, anche psichica. Io è per me il debutto assoluto a Siracusa, anche se nel ’91 avevo già interpretato Antigone a Segesta. La grande serie dei personaggi a Siracusa è iniziata esattamente venti anni fa.
Poi, ogni volta che si cominciano le prove il risultato dello spettacolo e anche dell’interpretazione è un’alchimia con il regista, con i colleghi, anche nei confronti di te stesso, perché ci sono dei momenti nella vita diversi e, anche se noi non lo pensiamo, se a un attore la sera prima è morto il gatto oppure si è innamorato, cambia totalmente la sua percezione, perché quello che noi portiamo in un personaggio siamo anche noi stessi, anzi, siamo noi stessi perché non possiamo attingere a nient’altro che non sia già dentro di noi. Quindi la grande sfida dell’attore è di essere il più aperto possibile, il più disponibile a indagare dentro sé stesso così da conoscere il buio, la luce e tutte le sfumature dell’essere umano. Ogni personaggio ha il suo colore particolare, e paradossalmente, non sempre si incontra un personaggio che ti assomiglia. Mi è successo di essere più ispirata da un personaggio molto lontano da me, un po' come quando si va dallo psicologo. L’attore posto davanti al suo personaggi si studia, si cerca di conoscere, e questo ti fornisce una capacità di sguardo paradossalmente molto più attento ai dettagli e ti fa anche sviluppare, insieme, l’istinto da psicologo. Per questo lavoro bisogna essere istintivi ma anche dei grandi studiosi e, nello stesso tempo, bisogna sviluppare delle doti di grande sensibilità di ascolto.
A Siracusa per me, senza togliere niente agli altri spettacoli, dopo Prometeo, la grande rivelazione è stata Elena perché era una tragicommedia ed è stata una scoperta, al di là del fatto che l’impressione di quando uno legge un testo è diversa poi da quando inizia a recitarlo, inizia a parlarlo e a sentire sul suo corpo le battute. Perché poi quando quelle parole le devi trasformare in agire, le devi mettere in un corpo, in una voce in relazione gli uni con gli altri, avvengono delle scoperte e durante Elena ce ne sono state tantissime. Non conoscevo il regista né lui conosceva me, quindi, era un grande punto di domanda. Non conoscevo bene il testo, non l’avevo mai studiato in modo approfondito e oltretutto c’era la sfida di portare in scena Elena vecchia ed Elena presente, in base a questa idea di regia di far incominciare il racconto da un’Elena vecchissima e quindi priva ormai della sua proverbiale bellezza e fascino, cosa che mi ha fatto molto divertire sulla scena. Dico infatti sempre ai miei allievi, quando insegno recitazione: “Ricordatevi che in teatro bisogna divertirsi sempre, anche quando fai la tragedia greca, anzi, forse di più”. Uno potrebbe pensare che nella tragedia greca tutte le cose siano pesanti, serie, invece per me è il contrario. Nell’Elena Euripide passa attraverso stili completamente diversi, da certe parti liriche del coro, che sono poesia pura, a scene che sembrano scritte da Shakespeare per sue commedie cavalleresche. Quindi per me Elena è uno spettacolo indimenticabile, perché mi sono permessa, con l’aiuto e il sostegno, ovviamente, del regista, di essere completamente me stessa e di superare quel blocco che, comunque, abbiamo un po' tutti quando siamo al Teatro greco. In quel caso il testo e la regia mi hanno consentito proprio un divertissement, non per forzare, ma, al contrario, per rendere molto più umano il personaggio che, oltretutto, è famoso per essere un personaggio negativo, in qualche modo, la famosa bella e dannata, la causa della guerra. Invece la bellezza del testo euripideo è che il drammaturgo ci sta dicendo: “Ma siete proprio sicuri che la guerra sia a causa di una donna, anche se intelligentissima e scaltra? E se lei non fosse stata lì? Se non fosse stata lei?”. Con questo escamotage racconta una favola per cui alla fine non è neanche importante sapere se è vero o no. Per esempio, nella regia di Livermore c’è questa scena veramente tragica in cui lei si ritrova in mezzo a un mare rosso di sangue e vede morire tutti, come se si prendesse sulle spalle la colpa di tutto e si sentisse responsabile.
Io penso che la bravura di un attore si riveli quando ponendosi davanti un personaggio negativo riesce a scoprirne l’umanità e quando, viceversa si trova di fronte un personaggio positivo, ne scopre le ombre, perché nessuno di noi è né bianco né nero e recitare vuol dire proprio riuscire a cavalcare tutte queste sfumature, che rendono credibile il teatro, anche il teatro greco. Non sto parlando di psicologismo ma di un’attitudine al gioco teatrale. Spesso, infatti, uno può maturare un’idea che poi però deve mettere in prova e costruire, e può succedere che magari si sta tre giorni su una scena che non viene o su qualcosa che non funziona e che alla fine si risolve perché capisci la soluzione da un altro punto dello spettacolo o da un’altra intuizione. Elena è già di per sé stessa una personalità doppia, Elena vera ed Elena finta, Elena vecchia ed Elena giovane. Quindi è il simbolo, secondo me, del teatro, della bellezza propria non solo all’essere umano ma dell’arte in generale.
E poi c’è stata la grande avventura dell’Orestea, che è stata strana perché abbiamo incominciato dalla fine, mettendo in scena prima Coefore-Eumenidi. È stato impegnativo incominciare a conoscere Clitemnestra senza averla vista agire e senza essersi messi addosso i passaggi dell’Agamennone. Nella seconda parte della trilogia lei entra in scena per essere uccisa, fondamentalmente, ma sapendo di non avere il sostegno del pubblico. Io penso sempre che quando recitiamo è importante raccontare una storia che deve stare in piedi, in quanto il nostro pubblico non è fatto solo di studiosi di teatro e ricercatori dell’antica Grecia. La storia potrà piacere o non piacere, dato che è comunque un intervento, un’interpretazione dell’interpretazione, così che ogni volta sarà una cosa diversa. Questa è la bellezza del teatro, il luogo dove tutto è trasformabile, pur trovando una coerenza interna. In ogni caso mi sono divertita anche lì tantissimo, già l’anno scorso con Livermore, fin dai primi giorni di lettura, è venuta fuori una figura ironica. Secondo me una come Clitemnestra non può che essere ironica perché è troppo intelligente per non esserlo. Dentro di lei c’è sempre una lucidità del suo obiettivo, un coraggio da leonessa a due gambe, come la descrive Eschilo, ma anche una grande verità. Mi piace di questo personaggio che è tutto tranne che una codarda. Lei crede veramente di dover compiere l’assassinio del marito per la Giustizia. Quest’anno, ripartendo dall’inizio, io non volevo giudicarla, ho provato a chiedermi se la sentivo colpevole ma non lo sapevo. Quando poi si comincia a studiare a memoria, le parole ti si incidono dentro. La ripetizione delle parole ad alta voce è un po’ come quando si ripete un mantra, a cui, a un certo punto ci credi, e diventi quello, non è come se riportassi un discorso altrui, no, lo dici tu e a un certo punto lo devi anche pensare, succede per forza, questo è inevitabile. E quindi, man mano che procedeva il lavoro, quest’anno, sapendo di dover poi arrivare a quello che avevamo costruito l’anno scorso, cioè a una specie di dark lady, anche un po' ‘moderna’, – infatti era tutto ambientato prima degli anni ’30 e ’40 – ispirandosi anche un po' a certe figure da film, però trovando una verità interna, all’inizio mi sentivo un po' costretta sapendo già come era la seconda parte dello spettacolo. Invece costruendola, partendo dall’inizio, ho capito cose che avevo intuito l’anno prima e nella seconda parte sono riuscita a portare qualcosa di diverso. Perché Clitemnestra nell’Agamennone è veramente colei che guida tutto quello che ha intorno, è una specie di imperatrice, quindi quando si arriva nella seconda parte, in cui entra Oreste e prende il suo posto (quest’anno ho capito quanto si assomigliano, praticamente sono proprio madre e figlio, sono proprio identici, anche nel tipo di monologhi, nel come difendono la propria parte), arrivando alle Coefore-Eumenidi con il sangue addosso, ovviamente metaforicamente, è stato impressionante, è stato veramente bello. Credo che l’Orestea sia un capolavoro assoluto, come del resto Edipo. Però ovviamente essere il portatore, il responsabile della linea dello spettacolo, in qualche modo, non solo è un fattore di enorme soddisfazione e nello stesso tempo di responsabilità, ma mi ha fatto capire che lo sguardo di Giocasta è sicuramente più laterale rispetto a quello di Clitemnestra [Figg. 10-11, fig. 12].
2021-2022, Orestea di Eschilo con regia di Davide Livermore. Nella sua interpretazione del personaggio di Clitemnestra, sorella anche se solo per parte di madre (Leda) di Elena, è possibile cogliere, come sua scelta attoriale o registica, il tentativo di rintracciare e, quindi, di mettere in scena dei tratti di somiglianza con la protagonista dell’Elena di Euripide, regia sempre di Davide Livermore nel 2019?
La prima cosa che le collega è la seduzione, l’intelligenza, l’astuzia; tra l’altro Clitemnestra significa “astuto consigliere” ed Elena è, almeno in quella di Euripide, in confronto a Menelao un genio assoluto. Euripide sottolinea molto questo fatto che gli uomini, al di là del loro essere eroi di guerra, per il resto siano dei sempliciotti. Per cui per me, almeno, sono questi gli aspetti in comune, che uno scopre mentre li porta sulla scena. Io sono un’appassionata lettrice, ho anche studiato per un po’ Lettere classiche per cui, quando incominciano le prove, vado a vedere il testo greco a fronte, anche perché mi piace vedere l’origine delle parole, confrontare le traduzioni: è un modo di studiare e fare proprio il testo, le parole, per cercare di capire veramente che cosa dicono. A me piace studiare prima e durante, anche se è importante non far interferire le sensazioni che ho, le immaginazioni, perché il teatro è fatto di immagini e, se tu attore non riesci ad avere un’immagine, il pubblico non ce l’avrà mai, perché le parole rimarranno vuote. La cosa fondamentale in teatro, paradossalmente, non sono tanto le parole ma è come ti immagini una scena, come ti immagini un carattere. Quindi, ripeto, non abbiamo cercato le similitudini con Elena, che è stata fatta prima di Clitemnestra [Fig. 13] e per forza savrebbe potuto essere il riferimento, ma io come attrice mi sono accorta che per tante cose sono gemelle. Poi l’una è la causa inconsapevole della guerra di Troia, l’altra agisce volontariamente; quindi, sicuramente il personaggio di Clitemnestra è stato scritto, come dice Eschilo, con “cuore maschio”.
Inoltre, la cosa che le distingue molto è che la caratteristica principale di Clitemnestra è la solitudine, mentre Elena [Fig. 14] non è sola perché è amata da tutti. Ho sempre sentito Clitemnestra invece come una specie di sacerdotessa che si sacrifica, che sacrifica la sua vita, dato che sa benissimo che uccidendo Agamennone sarà uccisa, ma questo non la ferma. Non è una vigliacca, non è un’assassina tout court, non dice, agisce. Clitemnestra, come Elena, è madre e, in particolare nell’Orestea, lei è madre prima di tutto anche se non c’è niente che la identifichi come tale. Paradossalmente sembra una madre terribile con Oreste ma anche questo parte dal tradimento e dall’uccisione di Ifigenia e prima ancora del suo primo marito e del suo primo figlio. Immaginiamo concretamente che cosa vuol dire se a me fosse capitato uno che arrivasse per violentarmi, che mi prendesse poi come moglie, dopo aver ucciso il mio primo marito e il figlio con lui avuto, e poi che con l’inganno mi uccidesse un’altra figlia, allontanandosi infine per dieci anni. Quindi la storia con Egisto per me è secondaria. Chi non avrebbe avuto un amante, dovendo reggere un intero paese, essendo totalmente da sola? Siamo umani, per cui ci si innamora e si ha bisogno di avere vicino qualcuno. La solitudine è quella di una donna a cui ammazzano i figli e che non ha un vero marito, dato che tra l’altro non hanno niente in comune, non hanno condiviso niente, né, tantomeno, prima c’è stato amore. Quando Agamennone torna, Clitemnestra non pensa ad altro che ad eliminarlo per farsi giustizia. Il grande salto di Eschilo nell’Orestea è il tribunale, ideato per porre fine alla legge del taglione, che, in fondo, c’è sempre anche nelle democrazie. Nel nostro finale, infatti, c’è un richiamo all’attualità, a tutte le stragi e gli omicidi non risolti, simbolo che anche questa giustizia, come la democrazia è totalmente imperfetta. Allora però l’unico modo per farsi giustizia era agire da soli, quindi, secondo me, per Clitemnestra è una questione di vita o di morte, perché prima o poi Oreste arriverà e se non è lui, qualcun altro dato che già la odiano da prima. In tutta l’Orestea non si fa altro che parlare di Clitemnestra anche quando lei non è in scena. Io credo che Eschilo invece, abbia fatto tutto questo, come Elena per Euripide, per far spostare lo sguardo. Siamo proprio sicuri che sia solo lei la colpevole? Perché in realtà nell’Orestea non ce n’è uno che non sia colpevole. È più grave che il figlio uccida la madre o che la madre uccida il marito? Grande questione che coinvolge anche Apollo e le Erinni. Il sangue per il sangue. Però se noi immaginiamo di vivere questo, i rapporti descritti da Eschilo sono delle leve esistenziali, si sta parlando della famiglia, un qualcosa che tutti abbiamo, anche se non terribili come quelle degli Atridi. I legami familiari hanno troppi segreti, troppe cose non dette che creano poi, ancora adesso, episodi orrendi come i femminicidi e tutto il resto, le famiglie sono i luoghi dell’amore e dell’odio per eccellenza.
Nel 2011 lei era protagonista dell’Andromaca, per la regia di Luca De Fusco, e Gaia Aprea rivestiva il ruolo di Corifea e di Teti. Ritroviamo la stessa coppia di attrici nei ruoli di protagonista e Corifea nell’Orestea del 2021-22 di Davide Livermore. È stato un caso o una scelta registica?
Assolutamente una casualità, anche perché i registi delle due opere erano diversi. Io conosco Gaia, credo, da quarant’anni. Abbiamo avuto lo stesso maestro di recitazione in accademia, Mario Ferrero, per cui l’ho vista ragazzina, quando era proprio all’inizio, mentre io recitavo già da qualche anno. Ovviamente una compagnia teatrale diventa in qualche modo una famiglia, una famiglia particolare perché ti ritrovi a conoscere delle persone in modo trasversale e profondo, e tuttavia senza essere costretto a parlare dei fatti tuoi. Stare in scena insieme vuol dire essere totalmente presenti l’uno all’altro, in ascolto, e quindi si conoscono tante cose dell’altro. Inoltre, noi attori stiamo insieme tante ore durante le prove e anche oltre, per esempio si mangia insieme quando le prove sono finite, per cui si forma una squadra. È proprio il caso dell’Orestea, che è stata in gran parte composta da attori dell’Elena e adesso iniziamo le prove di Maria Stuarda con gli stessi attori.
Quando ho iniziato a recitare, ho iniziato con una compagnia fantastica, composta da 27 persone, che era una sorta di carro in cui si avevano gli amici, il fidanzato, vi erano dei grandi attori di riferimento, insomma, era una festa. Quando gli attori si conoscono da un po’, si risparmia un sacco di tempo, è più facile entrare subito in sintonia e quando anche il regista ti conosce può suggerirti qualcosa o fartela capire anche solo con uno sguardo. Per me sono indimenticabili tanti compagni di lavoro.
La sua carriera oscilla tra il teatro contemporaneo e il teatro tragico antico. In che modo un’attrice come lei si prepara ad affrontare queste distinte tipologie teatrali? Possiamo pensare che queste due anime del teatro, quella antica e quella moderna, si incastrino e concorrano positivamente, l’una con l’altra, nella resa finale del personaggio? O crede che invece procedano separatamente?
Niente è separato nella vita. Per me sono sempre io che apro un testo e, come quando parto per un viaggio e ho delle suggestioni, scopro persone, relazioni e cose che prima non conoscevo. Io – e questa è una cosa di cui vado molto fiera – ho avuto la possibilità, non solo di passare dal teatro antico a quello contemporaneo, ma anche dal teatro drammatico a quello più leggero, e ne vado fiera perché penso che si debba sempre portare un sorriso nel dramma e una certa serietà nella commedia. L’attore deve essere duttile, non esiste l’attore solo drammatico e quello solo comico, anche se esistono attori che hanno avuto delle esperienze quasi tutte in un genere o in un altro. Nel mio caso, invece, a un certo punto, siccome ho iniziato con Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, con Čéchov, insomma con testi drammatici, era facile che arrivasse l’etichetta di attrice drammatica. A me questa cosa è sempre stata molto stretta, però poi è come un gatto che si morde la coda, perché se tu sei bravo a fare un genere, ti chiamano sempre a fare quella cosa lì. Quindi appena ho potuto mi sono buttata a fare altre cose. Per esempio, Luca Ronconi, quando doveva mettere in scena Lolita, mi chiese: “Vuoi interpretare Lolita o la madre di Lolita?”, e io, senza esitare, risposi che volevo interpretare il ruolo della madre, perché mi diverto, perché è una cosa nuova e ho voglia di cimentarmi in qualcosa di nuovo. Proprio per l’interpretazione di questo personaggio, che è una svampita con la voce da doppiatrice degli anni ’50, poi ho vinto il premio Ubu. Mi sono cercata delle occasioni diverse, non tanto per dire “Ecco, so fare anche questo”, ma perché ne avevo bisogno. Negli ultimi anni addirittura ho scritto io stessa delle cose, ho adattato dei testi, mi sono cimentata nel canto, e adesso sono in tournée e lo sarò anche in inverno con la Gilda di Testori, che è il personaggio più lontano possibile sia da Elena che da Clitemnestra – è una puttana col cuore gigantesco che parla in milanese, per intenderci. Questo perché in me c’è Gilda, c’è Clitemnestra e c’è tutto quello che mi capiterà di interpretare, bisogna solo andarlo a cercare. Il mio maestro Mario Ferrero, al primo anno di accademia, mi disse: “Bene, tu hai talento per i testi drammatici, adesso devi fare il comico” – è come una palestra. Purtroppo, però, questa cosa non la fa quasi nessuno, cioè quando ci si mette in testa che un allievo fa bene x gli si continuerà a proporre x; invece non è così, bisogna imparare a buttarsi senza paracadute, è l’unico modo per scoprire altre cose e andare avanti.
Una testimonianza di Peter Stein
A conferire vita al testo teatrale non è, però, unicamente la caratterizzazione del personaggio. Chi fa parte del mondo del teatro, sia egli regista, attore o semplice appassionato, sa bene che uno spettacolo può dirsi tale solo quando scaturisce da un meditato lavoro di progettazione e allestimento. Ciò non sfugge nemmeno ad Aristotele, che pure visse in un’epoca in cui le opere probabilmente non venivano più portate sulla scena, ma erano affidate alla lettura. L’autore della Poetica, infatti, inserisce, nell’elenco degli elementi indispensabili alla realizzazione di una tragedia, l’opsis, da intendersi come ciò che attiene alla vista, e dunque l’insieme degli attori, dei movimenti, degli oggetti di scena, della scenografia. Sta proprio qui, se vogliamo, la grande differenza tra il piano della lettura e quello della rappresentazione in teatro: il primo comporta l’impiego esclusivo dell’immaginazione, il secondo dà, invece, corpo all’immaginazione, la rende visibile. Nonostante Aristotele collochi al primo posto per importanza la composizione dei fatti, il mythos, non può tuttavia negare che “la vista infatti domina su ogni cosa: sul personaggio, sul racconto, sul linguaggio, sul canto e sul pensiero allo stesso modo” (Lanza 2017, 137; Arist. Po.1450a 14-15). L’opsis include inevitabilmente gli altri 5 elementi, deriva dalla sintesi armonica di questi, e, in ragione di ciò, possiede un ruolo determinante: deve essere capace di suscitare nello spettatore, non solo il piacere (che per lo più è di competenza dell’apparato musicale, secondo Aristotele), ma soprattutto compassione e terrore. Come si affretta a chiarire poco più avanti, è naturale che “procurare questo effetto per mezzo della vista è invece piuttosto estrinseco all’arte e legato alla messinscena” (Lanza 2017, 161; Arist. Po. 1453b 7-8). L’arte poetica dovrà essere in grado, attraverso la composizione dei fatti, di spingere a queste emozioni estreme il lettore anche senza il vedere, ma nel contesto teatrale, sarà l’opsis a garantire che suddette emozioni prorompano.
In merito al concetto di scenografia e spazialità riportiamo l’autorevole testimonianza di Peter Stein, tra i più importanti registi teatrali europei contemporanei, distintosi anche come attore teatrale e regista d’opera lirica, nonché come studioso e traduttore della tragedia greca, che ha esposto per noi delle riflessioni sul teatro antico, durante una intensa chiacchierata in Ortigia [Fig. 15]. Risulta, pertanto, pertinente riportare in questa sede il punto di vista di una personalità tale che ha vissuto il teatro a 360°, rinnovandolo dalle fondamenta.
Il dialogo con Peter Stein avvenuto il 17 giugno 2022 è stato illuminante per mettere ancora una volta in discussione il nostro approccio di studio con i testi teatrali antichi. Solo considerando ogni aspetto e angolazione del testo teatrale, pensato per le scene, possiamo cogliere il vero senso e la vera grandezza celata dietro quei caratteri greci, a volte così enigmatici. Eschilo, Sofocle ed Euripide non erano infatti solo gli scrittori dei testi ma anche i registi e i compositori e la tragedia, come dice Stein “non era così semplice come la vediamo noi ora, prima vi erano molti più elementi, anche innovativi”, vi erano macchine in grado di riprodurre effetti sonori, molti dei quali oggetto ancora oggi di studio filologico. Rimettere in scena una tragedia antica dovrebbe voler dire, pertanto, anche tenere conto di questi aspetti, per quanto complessa ne sia la ricostruzione. Un progetto simile si può realizzare attraverso un dialogo aperto fra le varie discipline e, magari, un approccio più pratico al testo, come suggerito da Stein. Solo, infatti, attraverso lo studio oculato che tenga conto dell’opsis complessiva, indiscutibilmente complesso e spesso opinabile, è possibile cercare di far rivivere le emozioni che i cittadini ateniesi provavano più di 2500 anni fa recandosi a teatro.
Mettere in scena la tragedia, in dialogo (critico) con Aristotele
Peter Stein
Il mio incontro con la tragedia greca ha inizio con l’Antikenproject, un progetto che intende sondare le origini del teatro occidentale a partire da quelle forme pre-teatrali conservatesi nei miti e nei riti che costituiscono il nucleo primordiale dello spettacolo tragico, fino a giungere a comprendere il meccanismo alla base dell’immedesimazione di un corpo in un altro corpo. È così che sei anni dopo, nel 1980, il mio progetto dell’Orestea vede la luce, dopo due anni di studi filologici condotti sui commenti dei più illustri grecisti tedeschi e internazionali, tra cui Mario Untersteiner. Si trattava di un lavoro che definirei speciale perché ha completamente cambiato l’approccio verso la tragedia, nel senso della rappresentazione. Una produzione speciale perché frutto di un lavoro collettivo e di confronto diretto con gli attori in fase di prove, al fine di verificare se la traduzione rispondesse adeguatamente alle necessità sceniche. Infatti uno dei limiti delle interpretazioni che scaturiscono dalle traduzioni degli altri studiosi consiste nel tralasciare il punto di vista pratico dell’attore. Il valore di una tragedia si comprende solo quando essa è portata sulla scena, suo habitat naturale. Il senso profondo dei drammi antichi non si può cogliere solo attraverso la lettura, ma, affinché emerga, è necessario che prenda corpo sulla scena. Proprio per questo non sono d’accordo con la lettura’ libresca’ che Aristotele propone della tragedia – una lettura che, se da un lato ha permesso che molti testi teatrali si preservassero, dall’altro ha provocato la deviazione della tragedia greca dal teatro alla filologia.
Importante è invece l’approccio filologico teatrale degli studi inglesi e americani moderni e, in particolare, quelli portati avanti da Oliver Taplin, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, all’incirca lo stesso periodo in cui iniziai a occuparmi di tragedia. In questo senso, l’Orestea può essere considerato il caso perfetto per comprendere appieno l’esperienza teatrale delle origini, dal momento che si tratta dell’unica trilogia che l’antichità ci ha consegnato per intero. In ragione di ciò, realizzai una messinscena della durata di nove ore continue, allo scopo di riproporre la tipica giornata di un uomo del V sec. a.C. che si recava a teatro.
Quanto alla tecnica adottata per la traduzione del testo, una buona traduzione è quella che si attiene quanto più fedelmente possibile al testo tràdito e che rispetta il pensiero del drammaturgo, senza aggiunte superflue. In ragione di ciò, anche la traduzione di un regista può essere accettata e approvata dai filologi, come è accaduto alla mia, considerata un’ottima traduzione in lingua tedesca. La qualità del lavoro di scrittura è determinata dalla versatilità di chi vanta una formazione non solo filologica ma anche registica e attoriale. Solo in questo caso il prodotto finale risulterà autentico e ben riuscito, così come accadeva nel V sec. a.C. con i drammaturghi dell’epoca o ancora, in età moderna, con Shakespeare.
Oltre alla quaestio propriamente filologico-testuale della traduzione, è importante soffermarsi anche sugli aspetti tecnici della resa scenica. Nell’Orestea in particolare ho applicato la mia concezione sperimentale di spazio scenico. Infatti, in Germania risultava pressoché impossibile la messinscena di uno spettacolo all’aperto come avveniva anticamente ad Atene, dato il clima per così dire “poco favorevole”. La prima sede ad accogliere la mia produzione fu la Schaubühne, una piccola sala conferenze di circa 850 posti, in Halleschen Ufer, a Berlino ovest, nei pressi del Muro [Fig. 16]. Qui lo spazio era completamente diverso a quello in cui la tragedia nacque, fatto di luoghi naturali ampi e aperti, ma ciò non mi impedì di cercare di ricreare l’atmosfera che si respirava nell’antica Grecia. Reinventai le funzioni dello spazio e del mobilio a disposizione. Il primo atto fu quello di rimuovere tutte le sedie dal corridoio centrale della sala in modo da ricreare lo spazio riservato alla skenè e all’orchestra e di utilizzare i gradoni laterali come cavea, ossia come spazio riservato al pubblico. La seconda difficoltà fu quella di organizzare le entrate e le uscite dei personaggi, dato che erano disponibili solo una piccola porta a sinistra e una alle spalle del pubblico: utilizzai quest’ultima per l’ingresso del Messaggero e del carro di Agamennone, in modo da fornire al pubblico il senso dello spazio esterno e di quello interno.
La prima opportunità di mettere in scena l’Orestea in uno spazio all’aperto fu offerta dal Teatro romano di Ostia antica nel 1984. In quel caso il problema fu quello di rivestire con teli di plastica i luoghi dell’orchestra onde evitare che il sangue rosso, previsto durante lo spettacolo, li rovinasse. La composizione dello spazio teatrale, dunque, influenza e spesso determina la qualità del prodotto drammatico nel suo complesso. I testi tragici nascono con il teatro e per il teatro, inteso non solo come genere letterario ma anche come struttura appositamente progettata e adibita a una rappresentazione. È vero, la lettura e lo studio di un’opera composta nel V sec. a.C. che sa parlare all’uomo di ogni tempo, procura un piacere indiscutibile e, in fondo, è quanto di più genuino ci resta di quel mondo così lontano. Ma è anche vero che ogni spettacolo ha una sua peculiare spazialità, che deve essere rispettata e che nel caso della tragedia greca, possiamo ricostruire, almeno in parte, dalle sequenze descrittive contenute nei testi stessi. Per esempio, la scenografia delle Eumenidi, stando al testo, prevedeva che ci fosse un muro frontale e poi una porta, che doveva avere lo scopo di nascondere qualcosa alla vista del pubblico. Successivamente la Profetessa apriva la porta del tempio e faceva per entrare, ma arretrando subito atterrita, la richiudeva, usciva, e descriveva tutto ciò che aveva visto dietro il muro, esseri orripilanti simili ad arpie. Il suo discorso preannuncia l’ingresso delle Erinni sulla scena. In questo emerge la genialità di Eschilo, ossia nel preparare il pubblico alla vista di esseri mostruosi attraverso la parola, capace di mitigare l’impressione violenta della visione delle Erinni, che addirittura poi entreranno dormendo. In questo modo si sancisce una delle regole basilari del teatro, inventato per la prima volta nella tragedia: la relazione tra la parola recitata e l’evidenza degli oggetti e dei corpi che vedi sul palco.
English abstract
This interview reports the points of view of three important Italian actress who were involved in the 2021 and 2022 seasons at the Greek theater in Syracuse. The actresses are Gaia Aprea and Laura Marinoni, who respectively played the roles of Chorifea and Clytemnestra in Aeschylus’ Agamemnon, directed by Davide Livermore, and Maddalena Crippa, who played the role of Jocasta in Sophocles’ Oedipus the King, directed by Robert Carsen. They told their experiences as the main characters in ancient drama. The interview also discusses Peter Stein’s thoughts on the origins of ancient theater and the concept of space in theatre. Our interest has particularly focused on his work as a translator and theatre director of Aeschylus’ Orestea, as part of the Antikenproject. All these contributions are included within a narrative frame reflecting on the concepts of ethos and opsis, two of the elements of Greek tragedy discussed by Aristotle in his Poetics. Finally, our work aims to reflect on the question: why are we still going to the Greek theatre today to see shows composed more than 2500 years ago?
keywords | Fondazione INDA Siracusa; INDA 2022; Greek theatre; Aristotle; ethos of characters.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Gallitto, M. Barresi (a cura di), Giocasta, Clitemnestra, la Corifea. Interviste a Maddalena Crippa, Laura Marinoni, Gaia Aprea. Con un intervento di Peter Stein (Siracusa 2022), “La Rivista di Engramma” n. 195, settembre/ottobre 2022, pp. 112-143 | PDF