Marina Apollonio, Fusione circolare/Endings
Tra arte cinetica e testo musicale elettroacustico
Guglielmo Bottin
English abstract
Marina Apollonio e l’arte cinetica
Marina Apollonio nasce nel 1940 a Trieste. Il padre Umbro Apollonio (1911-1981) è critico d’arte e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università di Padova. Nel 1950, in seguito alla nomina del padre quale direttore dell’archivio della Biennale, la famiglia si trasferisce a Venezia. Lì Marina Apollonio intraprende studi pittorici all’Accademia di Belle Arti con Giuseppe Santomaso. Inizialmente ispirata dai pionieri della pittura astratta quali Malevič e Mondrian, fa in seguito propri alcuni temi della scuola Bauhaus, in particolare le teorie del colore, l’uso di materiali industriali e l’integrazione tra arte, architettura, estetica e funzione. Nel 1963 si reca a Parigi dove lavora per un anno come designer per uno studio di architettura. Rientrata in Italia, realizza Rilievi metallici a sequenze cromatiche e le prime Dinamiche circolari (dove non diversamente indicato, le fonti delle note biografiche e delle esposizioni sono Jungwirth, Skreiner, Dorfles 1973 e Menichini 2014, n.d.a.). I Rilievi sono composizioni strutturate di strisce piatte di metallo sovrapposte e anelli di alluminio, con finitura a specchio; opere che determinano da un lato una percezione stabile dovuta alla struttura metallica ma al tempo stesso un’esperienza, non ancora cinetica ma certamente dinamica, dovuta ai riflessi del metallo che variano insieme al movimento dell’osservatore (Popper 1968). Le Dinamiche circolari – filiazioni secondo alcuni (Rimanelli e Rich 2007, Dall’Asta 2016) dei rotorilievi (Rotoreliefs) stampati da Duchamp nel 1935 ma già ‘protagonisti’ di Anemic Cinema del 1926 – sono dei tondi progettati per ruotare intorno al loro asse centrale. Connotate da composizioni geometriche di linee bianche e nere, le Dinamiche sono strutturate per dare l’illusione che, al ruotare del tondo, la superficie si curvi o si pieghi su sé stessa (Rickey 1967). I tondi più piccoli vengono messi in movimento manualmente, mentre quelli più grandi sono dotati di un motore elettrico, dettaglio importante sul quale torneremo quando entreremo nel vivo dell’opera oggetto di questa analisi.
Nel 1964 Marina Apollonio incontra Getulio Alviani (1939-2018) il quale la convince a superare ogni timidezza nel proporsi come artista (Perna 2017), esitazione dovuta anche alla perplessità di Apollonio padre che inizialmente cercò di escludere la figlia dalle mostre (Apollonio 2019), preoccupato che fosse considerata nel mondo dell’arte solamente in quanto figlia di un importante critico:
[Mio padre] lavorando nel campo dell’arte praticamente ovunque, nei premi, nelle esposizioni, non voleva essere tacciato di nepotismo […] dove c’era lui io non potevo esserci […] in una commissione in cui c’era anche Gillo Dorfles, ci fu una battaglia tra lui e mio padre per escludermi o ammettermi. Naturalmente vinse mio padre e fui esclusa (Apollonio 2022).
Marina Apollonio gira comunque l’Italia e l’Europa: incontra Dadamaino (1930-2004), Grazia Varisco (1937-), Nanda Vigo (1936-2020), gli esponenti della corrente Azimuth, gravita intorno al Gruppo N (Padova) ed al Gruppo T (Milano), conosce il Groupe de Recherche d’Art Visuel di Parigi e il Gruppo Zero di Düsseldorf, tutti artisti rappresentativi di quella che Argan definisce “arte gestaltica”. Il critico infatti individuava nel connubio tra i caratteri della produzione industriale e di quella artistica il risultato di un processo che portava a qualcosa di più della somma delle singole azioni, un’arte che egli vedeva come interprete della collettività (Sylos Calò 2013). Gli artisti che gravitano intorno ai summenzionati gruppi condividono spesso una metodologia comune basata sul progetto (Argan 1967) e materiali ‘freddi’; producono opere inerenti alla psicologia della forma e della percezione, basate sul moto (reale o apparente) e, in alcuni casi, anche al suono creato dal movimento stesso (Lista 2005). Secondo Rickey (1964) tra i tratti distintivi di queste correnti artistiche vi sarebbero: una nuova idea di spazio, inteso come continuum bi- o tridimensionale, non più solo ‘contorno’ di una dicotomia figura-sfondo; l’uso di microelementi in numero tale da rendere arduo il loro conteggio, troppi minuti per essere visti come forme separate e troppo grandi per coagularsi in texture; la rappresentazione di geometrie non-euclidee; l’utilizzo di luce e movimento per dare adito a fenomeni ottico-percettivi; il tentativo di ‘oggettificare’ l’opera e renderla indipendente dalla soggettività dell’artista mediante processi matematici o stocastici e un coinvolgimento attivo dello spettatore che “da consumatore, diventa attore e produttore di qualcosa” (Sylos Calò 2018, 121). Alviani ha ricordato così l’approccio e l’atteggiamento artistico di quegli anni:
Lavoravamo con impegno e privi di ogni volontà di clamore su problemi ottici e di percezione, sulle immagini virtuali, sul dinamismo intrinseco dell’opera, sull’intervento del fruitore, sulla luce e sullo spazio, sulla serialità, sui nuovi materiali […] con alla base la matematica e le forme esatte (Alviani 2006)
Gli artisti volevano infatti contrastare anche l'idea romantica dell'artista come genio isolato – visione celebrata dalle correnti informali come l'action painting – e cercavano un’oggettività artistica derivante non tanto dal gesto quanto dal progetto. Si sviluppò quindi una reazione da più punti concertata contro due paradigmi allora dominanti, l'arte informale e il realismo socialista (Caplan 2018), cercando un'alternativa estetica e ideologica che confluì in opere orientate alla percezione “oggettiva”. Negli Stati Uniti, in seguito al grande successo della mostra The Responsive Eye del 1965, l’arte cinetica e programmata viene però ‘spettacolarizzata’ dai media americani e così derubricata da espressione di movimenti ideologico-artistici a divertimento pseudo-scientifico che produce fenomeni assimilati alla percezione alterata o all’allucinazione psichedelica (Nicolai 2011). Tale popolarità superficiale e consumistica fu vissuta come una vera propria aggressione da alcuni artisti che si vedevano in questo modo defraudati della propria arte e banalizzati nel pensiero:
Nelle vetrine di moda della 5a Strada c’erano le gigantografie delle nostre opere […] i giornali pubblicavano copertine o ampi servizi sulle opere più spettacolari e sugli artisti più famosi! Successo, successo, successo, di questo fenomeno sul puro piano estetico, di superficie, per pura curiosità, ma il tutto era addirittura contrario alle nostre prerogative […] questa è stata la sua tragedia, consumata in brevissimo tempo, e la sua fine: la equivocazione di quanto noi volevamo, del nostro pensiero, della nostra ideologia per far prendere alle nostre cose sempre le solite vecchie strade, i nostri copyright sono stati scippati, saccheggiati. Tutti hanno copiato, adottato, impiegato le nostre immagini, le nostre ricerche per farne gli usi più disparati e astrusi, volgarizzando tutto e facendone svilire i significati (Alviani 2006).
La corrente cinetico-programmata ebbe filiazioni oltre che in Italia anche in Germania, Sudamerica e Yugoslavia, paese quest’ultimo sede delle esposizioni collettive Nove Tendencije tenutesi a Zagabria tra il 1961 e 1973 (Rubino 2021). Trovandosi ad agire nel contesto di un movimento internazionale Marina Apollonio, pur rimanendo autonoma dai gruppi specifici, ne condivide sostanzialmente l’approccio e le pratiche: “Tutte le mie opere sono sempre calcolate, programmate. Non c’è niente di casuale” (Apollonio 2019). Tuttavia alcune di queste opere sembrano quasi contraddire il principio base della teoria della Gestalt, ovvero la formazione di un ordine percettivo e di una ‘unicità’ a partire da elementi visivi frammentari. Al contrario, siamo talvolta posti di fronte a interpretazioni multiple, tutte simultaneamente possibili ma instabili e sfuggenti, in cui “la conoscenza e la visione a volte si rivelano incompatibili, se non inconciliabili” (Houston 2014). D’altro canto Gibson, primo propugnatore di un paradigma gnoseologico ormai assodato, quello dell’approccio Ecologico alla Percezione considera il movimento un aspetto irrinunciabile e fondativo dell’esperienza percettiva del mondo (Gibson 1979). Buona parte delle opere di Marina Apollonio riguarda così l'esplorazione delle diverse possibilità per rendere ‘attive’ le forme geometriche primarie (Vergine 1988, 192). Nelle Dinamiche Circolari, nelle Strutture curvilinee transassiali a cerchi concentrici ed eccentrici e nelle Strutture ad anelli l’artista studia configurazioni che, attraverso torsioni sempre differenti, manifestano l’invarianza di alcune proprietà del cerchio e della spirale:
L’interesse della mia ricerca è rivolto all’indagine nell’ambito di una forma primaria [...] allo scopo di studiarne le possibilità strutturali [...] il movimento ne accresce gli aspetti fenomenici e, a seconda delle velocità impresse, si hanno effetti di avvicinamento e allontanamento delle masse lineari, di concavità e convessità virtuali e sensazioni di fluidità pulsanti (Apollonio 1968)
A ogni buon conto l’arte programmata, focalizzandosi sui fenomeni della percezione visiva, ha esteso il sentire estetico a forme e ambiti che prima erano dominio delle discipline scientifiche (Tomasi 1983). Gli artisti gruppi riconducibili ai movimenti ottico-cinetici si cimentavano così in una pseudoscienza dell’arte (Vergine 2008, 273), a voler dimostrare un valore artistico ‘oggettivo’ che risiedeva non tanto nell’opera in sé ma in un progetto a priori della specifica realizzazione:
La forma elementare ha in sé l’astrazione totale in quanto è costituita da un programma matematico. Su questa base l’azione si svolge con assoluto rigore in un rapporto diretto tra intuizione e verifica: intuizione a livello ottico e verifica a livello matematico [...] Tutto ciò non è contaminato, ovviamente, da elementi di ordine soggettivo (Apollonio 1966).
Nel 1965 Marina Apollonio partecipa alle rassegne Nova Tendencija 3 (Zagabria, Galleria Suvremene Umjetnosti), Aktuel ‘65 (Berna) e Oeuvres Plastiques et Appliquées (Bruxelles, Galerie Smith). Tra il 1966 e il 1968 tiene mostre personali e collettive in Italia e all’estero, tra cui Public Eye presso la Kunsthaus di Amburgo. La prima di produzione in serie di Dinamiche circolari – in forma di dischi destinati al movimento mediante meccanismo elettromeccanico – è del 1968, un’edizione curata dal Centro Duchamp a Bologna. Un’immagine statica di Dinamica Circolare sarà in seguito utilizzata come copertina per l’edizione tascabile della raccolta Ti Con Zero di Italo Calvino (Barenghi 2007, 206). Nel 1969 l’artista è parte di Nova Tendencija 4 (Zagabria, Museo delle arti e dei mestieri) e El arte cinético y sus orígenes (Venezuela, Ateneo de Caracas). Nel 1969 entra a far parte della collezione di Peggy Guggenheim con un’opera appositamente realizzata in colore verde, poiché la collezionista non era interessata a quelle in bianco e nero (Apollonio 2019). Negli anni successivi Marina Apollonio prosegue la propria ricerca artistica utilizzando nuovi materiali (vernice fluorescente, polistirene, perspex, tessuti) e nuove tecniche (gradazioni cromatiche, serigrafie, stencil). Non entreremo qui nel dettaglio di tali sviluppi, per i quali si rimanda alle fonti in bibliografia (Menichini 2014), dato che il caso di rapporto tra testo sonoro e immagine di cui ci occuperemo deriva da un’evoluzione delle opere realizzate negli anni Sessanta e, in particolare, da due lavori specifici (Fusione circolare del 2016 e Fusione circolare doppia del 2019) che condividono con le Dinamiche la forma del tondo con linee bianche e nere.
Al volgere del millennio, i movimenti dell’arte cinetico-programmata e l’op art (così era stata chiamata oltreoceano) tornano a essere oggetto di attenzione da parte dei curatori (Rimanelli e Rich 2007). Nel 2005 Marina Apollonio viene chiamata a esporre in Francia per la mostra retrospettiva L'œil moteur - Art optique et cinétique 1950-1975 (Strasburgo, Museo d’arte moderna e contemporanea) e alla Biennale di Praga. Nel 2007 la commissione di un’opera di grande formato (Spazio ad attivazione cinetica, un disco rotante del diametro di dieci metri) da parte della Schirn Kunsthalle di Francoforte (Corris 2007) è la conferma di un forte interesse nei confronti del lavoro dell’artista che, negli anni a seguire, parteciperà alle principali rassegne nazionali e internazionali di op art, tra cui Optic Nerve (Columbus Museum, 2007), Ghosts in the machine (New York, New Museum, 2012), Dynamo (Parigi, Galeries Nationales du Grand Palais, 2013), Global Exchange (Roma, MACRO, 2013), Turn Me On (Londra, Christie’s, 2014), The Illusive Eye (New York, Museo del Barrio, 2016), Action-Reaction (Rotterdam, Kunsthalle, 2018), Open Works (Barcelona, La Pedrera, 2018) – per l’elenco completo delle esposizioni si rimanda al catalogo in bibliografia (Menichini 2014). Nel 2022 Marina Apollonio è tra gli artisti invitati alla Biennale di Venezia per la cinquantanovesima esposizione internazionale d’arte. Il suo lavoro è esposto insieme a quello di altre due artiste cinetiche, Nanda Vigo e Grazia Varisco, in una sezione speciale denominata Tecnologia dell’incanto (Totaro 2022). Il 24 settembre 2022 si inaugurerà a Padova la mostra l’Occhio in Gioco – Percezione, impressioni e illusioni nell’arte cui Marina Apollonio partecipa con una grande installazione (Codogno 2021).
Fusione circolare tra arte visiva e testo sonoro
Oggi Marina Apollonio è, con Grazia Varisco, tra i pochi artisti cinetici ancora in piena attività e nelle sue mostre, accanto ai lavori degli anni Sessanta e Settanta, compaiono diverse opere recenti. Fusione circolare [Fig. 1 e 2] è stata realizzata in due versioni, entrambe su legno laccato: la versione del 2016 è di un metro di circonferenza, quella del 2019 di sessanta centimetri. Si presenta come una doppia spirale costituita da fasce di nero che, andando in senso orario, si riducono in larghezza fino a diventare linee sottili. Lo stesso avviene, in senso antiorario, per le fasce bianche (M. Apollonio, conversazione con l’autore, 19 ottobre 2021). Questo lavoro nasce dapprima come opera statica: non infatti era stato previsto il moto intorno all’asse centrale, caratteristico invece delle dinamiche circolari degli anni Sessanta. Nel 2021 l’opera viene abbinata al brano di musica elettroacustica Endings: a quel punto si è deciso di aggiungervi il movimento e rendere così “ritmica” anche la parte visiva (ibidem). La presenza di un motore elettrico accomuna questa nuova opera cinetica ad alcune delle Dinamiche Circolari degli anni Sessanta, una delle quali era anche stata riprodotta in serie su cartoncino, corredata dalla dicitura “disco visivo, da far ruotare a tutte le velocità su un comune giradischi” (Apollonio 1967). Tale dispositivo era infatti tra gli strumenti di lavoro di Apollonio, in particolare per la fase preparatoria delle opere cinetiche:
Non era come adesso dove la tecnologia ti aiuta in tutto. Ogni opera, fino a che non l’avevo realizzata, finché non era in movimento, non sapevo come sarebbe venuta esattamente […] facevo delle prove mettendo degli elementi persino sul giradischi (Apollonio 2022).
Per potersi avvalere del moto cinetico impresso da un giradischi, il nuovo formato di Fusione Circolare ha richiesto una riprogettazione dell’opera con un diverso numero di spire che fosse adatto a un tondo di circonferenza 30 cm. È proprio il giradischi che, oltre a riprodurre il suono della composizione, consente una sincronia perfetta tra la percezione della vista e quella dell’udito: la musica manifesta infatti cicli ritmici che si ripetono ad ogni giro del disco, con la stessa periodicità e durata (1,33 secondi) di una rotazione completa della spirale. Per comprendere come questo avviene è necessario descrivere ora il progetto di composizione che ha determinato tale forma musicale.
Il solco aperto della spirale e il solco chiuso del cerchio.
La tecnica del locked groove (ovvero l’incisione del suono su disco in un anello chiuso che la puntina del giradischi percorre all’infinito) è presente nel contesto della musica d’arte sin dai primi esperimenti di Pierre Schaeffer del 1948 (De Lautour 2017) e, nelle decadi successive, sono stati diversi i compositori e i sound artist ad aver utilizzato dischi con locked groove nelle loro opere (Kelly 2019). Normalmente però il disco è inciso con un solco non circolare bensì spiraliforme che, partendo dal bordo esterno, attraversa l’intera facciata per poi terminare verso il centro. In quest’area ‘di confine’ la spirale viene chiusa in un anello che torna su sé stesso, un’orbita circolare che in genere non contiene suoni ma ha la funzione di bloccare la puntina del giradischi per impedire che quest’ultima possa andare ‘alla deriva’ e scontrarsi con l’etichetta centrale (Osborne 2012, 22). Il testo musicale di Endings è costruito proprio a partire da questi anelli di ‘silenzio’, dai solchi circolari chiusi alla fine del disco detti run-out groove o end groove. L’unico contenuto sonoro che si può normalmente sentire in un end groove è quello accidentale del crepitio della puntina dovuto alla polvere depositata nel solco oppure alla parte terminale (appena udibile) della coda dell’ultimo suono del brano posto in fondo alla facciata.
Sul giradischi anche quando la musica finisce, il movimento circolare del disco perdura. La musica termina, esponendo così il suo essere forma chiusa e rivelando al contempo come il disco sia un oggetto mediale limitato, contenitore di una quantità finita di tempo. Il crepitio singhiozzante della puntina intrappolata nell’end groove invece prosegue quasi come accompagnamento della persistenza del moto rotatorio: finita la musica, dopo l’ultimo suono il disco continua a girare potenzialmente all’infinito, ribadendo la propria forma circolare indipendentemente dal suo contenuto. Ogni giro a vuoto rappresenta così una doppia lacuna: la mancanza della musica (che prima c’era e ora non c’è più) e la mancanza dell’intervento umano necessario a fermare il meccanismo, a sollevare la puntina e rimetterla a posto. Il solco chiuso segnala così il residuo di un tempo precedente (residuo che potrebbe ripetersi all’infinito) e anche un nuovo tempo emergente: quello di attesa dell’intervento umano che ponga fine alla ripetizione. L’end groove attende e insieme anticipa, lasciando presagire la sua eventuale risoluzione e marcando il punto in cui il disco necessita della nostra attenzione, del nostro ritorno, una nostra azione (Williamson 2021).
Endings è una composizione che ha paradossalmente inizio proprio in quel momento/luogo del disco in cui la musica termina. Una forma sonora composta di timbri elettrici e meccanici che emerge, così come nell’arte visiva programmata di Marina Apollonio, da un preciso metodo di lavoro. Sono stati registrati una serie di sedici brevi anelli sonori di identica durata (1,33 secondi, il tempo di una rivoluzione completa del disco a 45 giri al minuto), provenienti da sedici facciate diverse. In linea di principio si sarebbero anche potute usare sedici copie del medesimo disco giacché la polvere depositata avrebbe comunque determinato rumori e crepitii diversi e unici per ogni copia. Senza l’aggiunta di altri suoni registrati o di sintesi, questi frammenti ready-made di ‘rumore mediale’ sono stati amplificati e impiegati come tessere per comporre un mosaico di architetture poliritmiche sincopate. Una forma di musica sperimentale che presenta alcuni aspetti procedurali della musique concrète di metà Novecento, uniti a timbri che ricordano quelli dell’orchestra futurista ne L’arte dei rumori (Russolo 1916), articolati mediante contrappunto e disposti in una stesura a strati fatta di progressive accumulazioni (build-up), sottrazioni graduali (break-down) o ex abrupto (drop), tecniche quest’ultime tipiche della techno music (Butler 2006, Solberg e Jensenius 2017). Il sound di Endings presenta così continui barlumi della propria natura analogico-concreta, non digitale o elettronica ma elettrica, meccanica e macchinica e, in conclusione, cinetica tanto quanto la parte visiva dell’opera.
Componenti e struttura del testo sonoro
Esamineremo ora il testo sonoro di cui si è data descrizione generale, guardando prima alle caratteristiche dei singoli anelli sonori [Fig. 3–8 e 12–21] che lo costituiscono e, poi, a come questi si articolano tra loro; infine mostreremo una rappresentazione della struttura del brano nella sua interezza. Nelle figure a seguire ogni end groove è ripetuto così che nella parte centrale della forma d’onda sia sempre ben visibile il primo transiente. La durata di ogni frammento rappresentato è di 2,66 secondi (asse x) corrispondenti a due giri completi del disco riprodotto a 45 giri (1,33 secondi per rivoluzione). Le scale dell’asse y dei decibel (forma d’onda) e delle frequenze (spettrogramma) non sono indicate per ragioni di leggibilità. Il segnale è stato normalizzato a 0 dB e lo spettrogramma è rappresentato in scala logaritmica mel. La fascia inferiore rappresenta le frequenze da 0 a 600 Hz dei toni bassi, la fascia superiore le frequenze più elevate dei medi e degli acuti.
Vediamo ora la ‘partitura’ completa, rappresentando l’organizzazione dei sedici anelli sonori nei sei minuti del brano. Trattandosi di musica elettroacustica costituita da suoni pseudo-percussivi estremamente brevi e privi di elementi tonali, la trascrizione su pentagramma non è sostanzialmente realizzabile né sarebbe probabilmente utile. L’articolazione delle parti nel corso dell’intero brano si evince abbastanza chiaramente dalla rappresentazione grafica [Fig. 22].
Osserviamo il progressivo accumulo dei diversi anelli: all’inizio vi è solo l’anello 8, cui si aggiunge l’anello 1, poi il 12, il 5 e il 2. Subito prima della misura 17 vi è un breve vuoto (una pausa tra 0’39” e 0’42”) seguito da un pieno in cui sono presenti contemporaneamente gli anelli 1, 2, 5, 8, 9 e 12. Vi è poi un ulteriore momento di relativa quiete tra 1’15” e 1’25”, seguito da un nuovo accumulo di strati. La parte centrale, compresa tra le misure 57 e 81, evidenzia un ‘vuoto’ più esteso corrispondente al break-down (2’42”), seguito da un accumulo di strati che raggiunge il suo colmo in prossimità della misura 89 (3’47”). Uno sguardo d’insieme alla partitura grafica evidenzia come gli anelli vengano eseguiti a gruppi (più o meno numerosi) e mai tutti insieme. L’anello n.16 invece compare sporadicamente e senza ripetizioni consecutive.
Il ritmo sincopato è dovuto al disallineamento degli anelli tra loro e anche rispetto alla pulsazione metronomica indicata dalle quattro fasce vuote marcate da linee nere verticali [Fig. 23]. Alcuni anelli sono disallineati rispetto a tutti gli altri (5, 6), altri invece sono allineati a coppie (7 con 9 e con 12; 8 con 11; 10 con 13). In ogni modo, più dell’inizio dell’anello conta l’articolazione dei transienti in esso contenuti e di seguito indicati con numero-lettera (il numero indica l’anello, la lettera A il primo transiente, la B il secondo, e così via [Fig. 24]. Il transiente 5A è sincronizzato con 7B e 10A, 5B con 6A e 10B; 7A con 12A; 8A con 9A e 13A; 9B con 11B e 13C; 11A con 13A; 11B con 13B. La preponderanza di caselle bianche nella tabella [Fig. 25] indica che molti transienti non sono allineati, a conferma della presenza di sincopi a diversi livelli ritmici.
Tempo, sguardo e ascolto
Il piatto dei fonografi è paragonabile al tornio del vasaio: la massa sonora viene plasmata su di esso e la materia è già data. Ma il vaso sonoro che così nasce resta vuoto. Sarà l’ascoltatore a riempirlo (Adorno [1928] 2012).
Mentre ne La società dello spettacolo (Debord [1967] 1997, 50) si condanna il visivo in quanto strumento centrale del capitalismo mercantile, in Looking at Records (Auslander 2001) si suggerisce che, quando un bene di consumo coinvolge altri sensi, la parte visiva possa anche configurarsi come ‘luogo di resistenza’. Uno di questi sensi è la percezione del tempo. I solchi sulla superficie di un disco diventano così anche una trascrizione del tempo e una rappresentazione visiva che lo reifica e lo fa sembrare tangibile: quando teniamo in mano un disco in qualche maniera avremmo anche in mano un ‘pezzo’ di tempo. Fin dall’inizio della fonografia, l’aspetto grafico e visivo del solco ha incuriosito studiosi e ascoltatori. Rispetto al suono, il solco del disco ha indubbiamente qualità indicale ma può tuttavia esistere anche indipendentemente da esso (Osborne 2012, 8). È significativo come non sempre vi sia una relazione proporzionale tra lo spazio occupato dai solchi e la durata temporale della musica. Questo perché – almeno dopo l’invenzione del microgroove nel 1948 – la distanza tra un solco e l’altro è microscopica (Wallerstein 1976) e la densità dei solchi non è rilevabile né commensurabile a occhio nudo. Lo spazio occupato dai solchi di un brano della durata di pochi minuti può essere quindi lo stesso di un brano che invece impiega mezz’ora. La dimensione spaziale del disco non costituisce pertanto una rappresentazione razionale del suo tempo d’uso. In questa prospettiva, per Auslander (2001) il disco può essere quindi anche un oggetto mediale in grado di offrire all’ascoltatore-consumatore una lettura ‘resistente’ del tempo spettacolare debordiano.
Una peculiarità di Fusione Circolare/Endings è quella di usare il disco per incidervi, anziché suoni esogeni, il ‘rumore di funzionamento’ del supporto stesso, rumore poi composto in forma musicale articolata e sincronizzata alla periodicità visiva dell’opera cinetica.
L’utilizzo del crepitio di superficie del vinile catturato dalla puntina del giradischi, già utilizzato in diverse pratiche di sound art (Samartzis 2006) è in seguito divenuto il principale marchio della hauntology musicale (Fisher 2013), un ‘rumore mediale’ che ci rende coscienti del fatto che stiamo ascoltando un frammento del passato collocato però nel presente, a costituire un tempo che quindi è fuori di squadra o out of joint (Shakespeare, Amleto I, 5, 190). In questa prospettiva gli spettri sonori della musica hauntologica (Bottin 2022) affiorano dal sostrato dei supporti, dal fruscio o dal ronzio di funzionamento dei dispositivi di registrazione. In Endings invece il suono proviene letteralmente dal margine del disco, una zona che in genere si trascura poiché priva di contenuto musicale. In tal senso l’opera riflette sul rapporto tra silenzio e ascolto, su quello che accade appena fuori dai margini del suono (Cacciari 1995), ma anche sulla natura del disco stesso che è contemporaneamente un oggetto-testo d’arte visiva, cinetica, sonora, ma anche oggetto-supporto fonografico di consumo. Un disco dal doppio aspetto spiraliforme: il primo visibile agli occhi, in superficie, mutuato dalle Fusioni circolari di Apollonio [Fig. 26]; il secondo udibile dal profondo del solco che attraversa la facciata del disco, un groove (il solco stesso ma in questo caso anche il ritmo ciclico della musica) costruito a partire da tanti solchi più brevi e che contiene le orbite circolari di ‘silenzio crepitante’ catturate da altri dischi. Quando l’opera gira sul piatto, il ‘raggio’ della spirale (in cui si incontrano le linee bianche e nere) si ‘scontra’ ciclicamente con il braccio del giradischi [Fig. 27], creando così una sincronia tra vista e udito. Un ritmo ciclico e sinestetico che si ripete tanto nell’aspetto visivo quanto in quello sonoro. La parte visibile del disco rappresenta così il suono in esso contenuto e, al tempo stesso, le forme cinetiche e mutevoli della spirale in rotazione sembrano dettare e determinare – più che solamente descrivere – la musica che udiamo. La fusione tra testo musicale e figura cinetica è pressoché totale così che, dopo aver visto e sentito la parte visiva e quella sonora muoversi insieme, non ci è quasi più possibile ricordarle o immaginarle separate.
Riferimenti bibliografici
- Adorno [1928] 2012
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M. Apollonio, invito per la mostra presso il Centro Arte Viva Feltrinelli, Trieste 19 febbraio 1966. - Apollonio 1967
M. Apollonio, invito per la mostra presso Studio 2B, Bergamo 16 settembre 1967. - Apollonio 1968
M. Apollonio, invito per la mostra presso la Galleria Barozzi, Venezia 21 agosto 1968. - Apollonio 2019
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English abstract
Marina Apollonio (b. 1940) was part of the historical movement known as ‘programmed art’ in the 1960s and 1970s. Like other members of optic and kinetic art, she tends towards a depersonalised approach to art making in opposition with expressive abstraction. Her works are ‘calculated’ dynamic objects and spaces for the viewer’s experience.In 2021, the work Fusione Circolare was redesigned and combined with Endings, an electroacoustic music composition made from the sounds of worn grooves in vinyl records. Acoustic fragments are juxtaposed in a layered mosaic that creates a complex and oscillating musical text reminiscent of mid-twentieth century musique concrète but also rooted in the polyrhythmic architectures of techno music. The visual-kinetic part of the work is a double spiral of black and white lines. A straight-line radius crosses the image from center to perimeter, indicating the beginning and end of the cyclic period. When rotating at the right speed, the visual and musical texts are synchronised and share a common time and cyclical tactus. The result is a graphical/conceptual score of music and a visual concretisation of what is heard. It is impossible to separate the music from the work’s optical-kinetics: the moving shape seems to dictate – rather than describe – what is heard. The article presents an analysis of the practise-based research and artistic collaboration between Marina Apollonio and the author.
keywords | Marina Apollonio; Op Art; Kinetic Art; Locked Grooves; Turntable Music; Synesthesia.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio (v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay (cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Guglielmo Bottin, Marina Apollonio, Fusione circolare/Endings. Tra arte cinetica e testo musicale elettroacustico, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 11-32 | PDF di questo articolo
To cite this article: Guglielmo Bottin, Marina Apollonio, Fusione circolare/Endings. Tra arte cinetica e testo musicale elettroacustico, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 11-32 | PDF of the article