Pages d’un Journal de Chantier
Riflessi di Jean Cocteau in Berthold Lubetkin
Chiara Velicogna
English abstract
Nell’ottobre 1932 sulle pagine dell’“Architectural Review” appare un curioso testo-immagine, un dattiloscritto in francese affollato di caricature, intitolato Pages d’un journal de chantier, firmato da Berthold Lubetkin. Le due pagine della rivista riproducono quattro pagine ciascuna di un fittizio diario di cantiere illustrato e precedono la convenzionale presentazione dell’immobile d’affitto al 25 di Avenue de Versailles, a Parigi, progettato proprio da Lubetkin insieme a Jean Ginsberg e da poco concluso (Lubetkin 1932b). Si tratta del primo edificio in cemento armato realizzato da Lubetkin e dell’unico a Parigi, racchiuso in uno stretto lotto nel sedicesimo arrondissement: articolato su otto piani con una terrazza, la struttura poggia su tre pilastri in cemento armato, sfruttando i muri degli edifici circostanti. Il prospetto, che si inserisce nella cortina urbana di una tipica avenue hausmanniana, è caratterizzato dall’alternarsi tra i vuoti delle aperture, in particolar modo della porzione centrale, arretrata quasi a formare una loggia e a dare dinamismo alla facciata, e i pieni delle fasce dei solai, raccordati dall’elemento del pilastro a vista; la terrazza in sommità, spazio comune a disposizione degli inquilini, è costituita da due livelli, quasi a ricordare Henry Sauvage. L’edificio aprirà la via alle realizzazioni, più mature, dei due edifici a Highgate a Londra (1935 e 1938).
Il giovane architetto nato a Tbilisi – trentenne all’epoca della pubblicazione delle Pages – membro del comitato editoriale de “L’Architecture d’Aujourd’hui”, era già stato definito, a uso del pubblico inglese, “the famous Russian architect” (Marginalia 1932), grazie alla collaborazione con Melnikov e Rodchenko per la gestione della costruzione del padiglione URSS all’Exposition des Arts Décoratifs del 1925. Non è questa la sede per indagare la tradizione culturale e politica sovietica da cui Lubetkin proviene, o la continua influenza che il breve ma intenso periodo trascorso a Mosca nell’ambiente delle avanguardie sovietiche avranno sulla sua opera, tema che è stato da altri in più parti affrontato (v. nota bibliografica).
Dal momento della sua partenza dall’Unione Sovietica nel 1922, Lubetkin aveva avuto una formazione varia e cosmopolita, dalla Polonia nel Politecnico di Varsavia, a Berlino e Vienna presso Worringer per poi approdare a Parigi nel 1925 dove frequenta, tra gli altri, l’Atelier du Bois di Auguste Perret e l’École Supérieure du Beton Armé (Allan 2002, 68-75); nella capitale francese frequenta e conosce da vicino l’ambiente culturale, non solo architettonico ma anche artistico e letterario, della capitale. Dividendo la sua formazione fra varie istituzioni, più o meno note, Lubetkin riesce ad avere esperienza sia degli sviluppi recenti nel campo delle costruzioni in cemento armato, sia del modus operandi dell’École des Beaux Arts. Sebbene le Pages siano state composte a posteriori, si può intuire fra le righe parte di questo periodo formativo ricco di incontri e di viaggi, ma anche di difficoltà di tipo economico: un’immagine vivida della formazione di un giovane architetto a Parigi nella seconda metà degli anni ’20 si ritrova nel racconto di Pierre Vago (Vago 2000, 70-81).
Nel 1931, seguendo la possibilità di una commessa di rilievo, Lubetkin si trasferisce da Parigi a Londra: rimarrà poi in Inghilterra per il resto della sua vita, formando il gruppo Tecton con il quale realizza alcuni dei più importanti edifici moderni in Gran Bretagna. La concezione dell’architettura come lavoro di squadra – che il gruppo Tecton sottende – sembra avere un duplice valore per Lubetkin: se da un lato prevale l’aspetto pragmatico, che rendeva necessaria l’associazione con colleghi per poter lavorare in Inghilterra (dove, infatti, agli architetti stranieri non era permesso firmare progetti) almeno fino alla naturalizzazione come cittadino britannico (Allan 2002, 122), al contempo, si tratta anche di un approccio metodologico che sembra poter svolgere un ruolo cruciale. Gli anni 1931-32 appaiono come un periodo di transizione tra una fase di formazione e la definitiva affermazione professionale, nel quale l’architetto pare aver più scritto che costruito; e nel quale la lingua in cui comunica al pubblico passa dal francese all’inglese. La questione linguistica è quindi di primaria importanza per comprendere le Pages e per ricostruire il senso dei numerosi rimandi, citazioni, giochi di parole. Le fonti biografiche riportano un’eccezionale capacità di assorbimento delle lingue da parte di Lubetkin, capace di plasmare come materia malleabile lessico e sintassi. Al suo arrivo in Inghilterra,
[…] he had known no English at all before his arrival in England at the age of thirty, he quickly learned to speak it with an astonishing fluency, mastering not only the mechanics of the language but also its quirks and inconsistencies, its bewildering idioms and a prodigious chunk of its vast and colorful vocabulary as well. (Kehoe 1995, 72)
Dalle Pages d’un journal de chantier appare che l’uso da parte di Lubetkin della lingua francese in una forma letteraria e immaginifica sia, come si vedrà più in dettaglio, influenzato dagli ambienti letterari parigini; tra i molteplici contatti a quel tempo possibili a chi frequentasse, come Lubetkin, il quartiere di Montparnasse e la terrasse de La Coupole (Allan 2002, 69), l’incontro con l’opera di Jean Cocteau è quello in qualche modo reso più esplicito dalla presenza di citazioni dirette e dichiarate all’interno del testo. È lecito però interrogarsi sulle ragioni di questa pubblicazione in francese su una rivista di architettura inglese, tanto più perché si può ragionevolmente supporre che non tutta la platea di lettori della “Architectural Review” conoscesse il francese abbastanza bene non solo da comprendere il senso della narrazione di Lubetkin (la storia del cantiere dell’edificio) ma anche da coglierne a pieno tutte le sfumature, comprensibili solo da un lettore sufficientemente preparato e aggiornato.
Tra il 1930 e il 1935 una figura d’eccezione ricopre il ruolo di assistant editor all’“Architectural Review”: si tratta di John Betjeman, intellettuale e poeta, insignito successivamente del titolo di poet laureate nel 1972. La sua posizione all’interno della rivista determinava anche il tipo di contributo, che si prefiggeva lo scopo di educare un pubblico più vasto di quello formato dai soli professionisti, portando avanti una concezione dell’architettura più vicina alla pratica artistica – in questo erede spirituale del movimento Arts and Crafts, rispetto alla tendenza, principalmente portata avanti dal R.I.B.A., a considerare l’architettura principalmente come professione da normare e regolare. Il lavoro di Betjeman porta la “Review” a distanziarsi sia da trade journals come l’“Architect’s Journal” ma anche dal foglio dell’associazione di categoria, il “RIBA Journal”. In quegli anni infatti, sull’“Architectural Review” aumenta la quantità di articoli che trattano di cinema, fotografia, pittura, oltre a introdurre un’attenta cura per l’aspetto visivo e materiale della rivista, in particolar modo nei confronti di impaginato e tipografia (Hiscock 2000, 195) tanto da poterla definire “guida, totem e oggetto d’arte” (Dean 1983, 14). Vi è anche un tentativo, sebbene di breve durata, di coinvolgere figure di spicco del mondo delle lettere a partecipare alla rivista: nei cinque anni in cui Betjeman è assistant editor gli scrittori D.H. Lawrence e Evelyn Waugh, oltre al pittore Paul Nash e allo scultore e tipografo Eric Gill contribuiscono con articoli – e un vivace dibattito – alla “Architectural Review”. La traiettoria intellettuale di John Betjeman nel suo rapporto con l’architettura lo porterà dall’essere uno dei membri fondatori del gruppo MARS nel 1933 a guidare il movimento per la conservazione dell’architettura vittoriana negli anni ’60.
La figura di Lubetkin nel 1932 poteva quindi facilmente inserirsi in questo orizzonte culturale agendo essenzialmente da ponte tra il mondo inglese e quello del continente. Nonostante la sua breve permanenza in Unione Sovietica, che lascia nel 1922 per farvi ritorno solo nel 1953 (Hatherley 2017, 218) manterrà contatti costanti con la patria, tanto che, fino all’immobile in Avenue de Versailles, i lavori di un certo rilievo – anche economico – sono rappresentati dai padiglioni per l’esposizione di Bordeaux su commissione dell’Ambasciata Sovietica a Parigi (Allan 2002, 85; Hatherley 2017, 219). Si trattava inoltre di un architetto giovane ma già dotato di una grande attenzione per le questioni tecniche e strutturali, capace di utilizzare il linguaggio delle arti anche nel campo dell’architettura e di partecipare a concorsi di progettazione di rilievo come quello per il Politecnico degli Urali e del Palazzo dei Soviet (Allan 2002, 87-89; Reading, Coe 1983); emigré che si stava rapidamente integrando nel contesto inglese tramite i neo-formati Tecton (inizialmente cinque laureati dell’Architectural Association e Lubetkin) e che poteva vantare una conoscenza in prima persona di molte delle figure chiave della cultura europea che avevano vissuto e lavorato a Parigi nella seconda metà degli anni ’20. Era inoltre già noto ai lettori dell’“Architectural Review” per aver curato, insieme a Robert Byron, una parte del numero di maggio 1932 dell’“Architectural Review”, The Russian Scene strutturato come una sorta di dialogo tra il punto di vista inglese e quello russo. La rivista “has been fortunate in securing the services of the famous Russian architect, Mr. Berthold Lubetkin. His design for the vast new Palace of Culture in Leningrad was one of the most impressive that was received” (Marginalia 1932). Lubetkin contribuisce con un articolo di taglio storico nel quale presenta, forse per la prima volta in inglese (Allan 2002, 119), un punto della situazione dell’architettura in Russia a seguito della Rivoluzione, inseparabile dall’aspetto teoretico (Lubetkin 1932a). La breve associazione con il gruppo ASNOVA (Allan 2002, Hatherley 2017) gli consentirà la conoscenza di Ladovsky e Rodchenko e una parziale rielaborazione degli elementi del Costruttivismo, in particolar modo nei padiglioni lignei per l’esposizione commerciale di Bordeaux, là dove nell’edifcio parigino sembra prevalere l’influenza lecorbuseriana. Si tratta però di questioni note (v. nota bibliografica);é opportuno pertanto tornare alla pubblicazione su “The Architectural Review”, oggetto del presente intervento.
L’edificio residenziale al 25 di Avenue de Versailles è invece la feature principale del numero di ottobre 1932 dell’“Architectural Review” e, come già anticipato, composta da due parti, di cui la prima è appunto Pages d’un journal de Chantier (esplicitamente firmata da Lubetkin), mentre la seconda è un commento in inglese, dai toni a tratti caustici, dell’edificio, accompagnato da numerose fotografie degli interni e degli esterni, insieme ad alcuni dettagli costruttivi, in particolar modo degli infissi e dell’impianto di riscaldamento, sistemi d’importazione tedesca scelti da Lubetkin e Ginsberg. L’importanza accordata alle soluzioni tecnologiche è anche connessa alla progettazione degli spazi interni: in particolar modo le finestre con battente a scomparsa nel davanzale permettono di rendere il confine tra lo spazio interno del salotto e l’esterno della strada meno netto. I punti di contatto fra le due parti dell’articolo mostrano due sguardi diversi e complementari sullo stesso oggetto: se nelle Pages non compare nessuna immagine dell’edificio ma solo personaggi umani, le fotografie e i disegni che accompagnano il testo in inglese sono quelle ‘standard’ di cui ogni presentazione di edificio era dotata, dove non compare nessuna figura umana, se non quella di Jean Welz, in posa sulla terrazza.
Come dunque si potevano interpretare, dal punto di vista di un lettore del 1932, le due curiose pagine introduttive? Dovevano essere interpretate come immagine artistica, parte del programma di rinnovamento dell’“Architectural Review” di Hubert de Cronin Hastings e Betjeman, oppure come un testo vero e proprio? Tra i lettori che non comprendevano il francese, l’unica lettura possibile era quella del testo come immagine in virtù del corredo di caricature: e le immagini che occupano quasi ogni spazio libero raccontano una storia che, senza l’appoggio del testo, può risultare di difficile interpretazione. Questo rapporto complesso sarà affrontato nei paragrafi che seguono. A quanto traspare dagli inventari del fondo Lubetkin, conservato al R.I.B.A., i testi in inglese dell’articolo, sebbene non esplicitamente attribuiti, dovrebbero essere a firma dell’architetto stesso, come pure le fotografie (lettera a Hubert de Croning Hastings di richiesta di pagamento anticipato per testi in inglese e francese, R.I.B.A. Archives, Copy of a letter by Lubetkin, from 12 Canon Place, London, to Hastings [Hubert de Cronin Hastings, editor of the Architectural Review]; ts. 9 Sept [1931], LuB\11\1\1). La lettera lascia quindi intendere che le Pages siano state composte dopo l’autunno del 1931, quando Lubetkin si era già stabilito a Londra, come anche i testi ad accompagnamento delle tavole. È anche probabile che siano quasi coeve alla stesura del lungo articolo Architecture en Angleterre, che viene pubblicato nel numero di dicembre-gennaio 1933, significativamente senza la parola “moderne”.
Solo una parte dell’intera feature sembra quasi ‘stonare’, e cioè il breve paragrafo riassuntivo che funge da cerniera tra le due parti e che vorrebbe agevolare il lettore fornendo un breve riassunto del contenuto delle Pages: offuscando, tuttavia, al contempo parte della carica sovversiva e poetica del testo di Lubetkin. L’uso del corsivo e di un altro registro stilistico rispetto ai testi di Lubetkin farebbe propendere per un intervento redazionale per “legare” in qualche modo le Pages al resto dell’articolo. Il contenuto delle Pages non è solo riassunto ma anche semplificato, senza che si riesca incontrovertibilmente a determinare in che misura vi sia un ingenuo ma onesto misunderstanding dovuto alla barriera linguistica e quanto invece l’intervento sia intenzionale: il testo delle Pages è definito “French notebook” là dove si tratta di un evidente artificio narrativo, fatto che l’autore sembra non comprendere; ma la frase conclusiva
The author ends up his notes by an appeal to the workmen, the true creators and inspirers of the building, promising to meet them, when the time comes, in different circumstances. (A block of flats in Paris 1932)
volutamente ammorbidisce molto la chiusura del testo mentre la posa a pugno chiuso e braccio alzato della figura che accompagna l’ultimo paragrafo e la firma di Lubetkin non lasciano adito a equivoci sul riferimento alla lotta operaia comunista. L’esortazione, rivolta ai lavoratori dell’edilizia, può anche essere interpretata in senso largo come un’esortazione alla società inglese, che l’architetto percepiva come sull’orlo di un cambiamento radicale (Allan 2002, 107).
Sebbene l’“Architectural Review” fosse una delle riviste più progressiste del panorama inglese all’epoca, aveva un pubblico eterogeneo di professionisti che doveva fare i conti con committenze e istituzioni ancora legate a una struttura sociale conservatrice: la stessa che allertava verso una concreta adozione del comunismo, “disguised in the most seductive of concrete and glass clothes” (Maher 2020, 82). In generale, il mondo letterario britannico, specie quello di simpatie più a sinistra, affrontava il problema della possibilità di un’associazione stretta e inevitabile tra l’adozione di una nuova architettura e di un nuovo sistema politico, entrambi provenienti dal continente. L’atteggiamento nei confronti dell’architettura moderna, anche da parte di intellettuali di grande caratura, è spesso ambivalente, ed è stato analizzato in dettaglio da Ashely Maher per quanto riguarda l’interrelazione tra modernismo e mondo letterario e scientifico (Maher 2020). Per esempio, nel 1929, nel sonetto “Petition”, W.H. Auden conclude con “look shining at / New styles of architecture, a change of heart” (Auden 1979, 7); lo stesso Auden, pochi anni dopo, dichiarerà che “I know nothing more about architecture than any other member of the professional classes who has had a suburban home, been educated at boarding schools and universities, spent holidays in lodgings by the sea, and visited old churches on a bicycle” (Auden 1933, 66), dipingendo però allo stesso tempo un ritrtatto della classe sociale che più doveva preoccuparsi delle questioni di architettura (Kelly 2016, 358). Il disinteresse sarà più tardi ribadito, in termini ancora più decisi: “I have never liked modern architecture” (W.H.Auden, citato in Carpenter 1981 e Maher 2020). La stagione di inizio anni ’30 sembra essere propizia alla commistione tra architettura e letteratura, tanto che Michael Dugdale, uno dei sei architetti fondatori del gruppo Tecton insieme a Lubetkin, collega di università di John Betjeman a Oxford, contribuirà a sua volta al dibattito sull’architettura moderna in Inghilterra sulle pagine della “Review” tramite il mezzo della poesia. Insieme a un ironico e tagliente wit, è usato in Safety First (Dugdale 1932) per esporre i tentativi da parte dell’ambiente inglese di “moderazione” degli aspetti più radicali e temuti, in virtù del loro significato sociale e politico, del linguaggio architettonico proveniente dal continente:
[…]Make Architecture safe for English Men,
Lest we be turned by harsh Modernity
To Robots in the Twinkling of an Eye.
Good-mannered Muse, on thee our hopes we fix,
Leave such a Fate to Huns or Bolsheviks.
[…]
Thus we outstrip the Germans and the Dutch
Severe as they, but with the Human Touch.
[…]
So too the Lights, that skilfully combine
The rival claims of Function and Design,
Before thy Shrine, Uncertainty, are lit
To shed their Radiance o’er us as we sit
Discreetly on the Architectural Fence,
Too hard for Sentiment, too soft for Sense.[…]
Anche Evelyn Waugh, chiamato, come si è visto, da Betjeman a contribuire all’“Architectural Review” negli anni ’30, commenterà otto anni più tardi in maniera inequivocabile la pubblicazione del catalogo della mostra del Gruppo MARS: l’architettura moderna (nuova per il contesto inglese, ma nel 1938 sul Continente già radicata da più di due decenni) incoraggia un cambiamento nelle abitudini sociali che “[…] have not, in fact, taken place to any large extent in this country, and which, so far as they have taken place, should be checked.” (Notes and Topics 1938, 397). Il breve periodo di successo del Partito Comunista Britannico, al quale sia Lubetkin sia la moglie Margaret Cook, a sua volta architetto e membro dei Tecton si erano iscritti (Hatherley 2017), aveva però in seguito visto le tendenze più radicali scemare fino allo scisma politico tra Laburisti e Comunisti in seguito allo scandalo della cosiddetta ‘red letter’ di Grigory Zinovev (vedi Bennett 2018), molti di questi ultimi riassorbiti poi nell’Establishment prima della fine degli anni ’20 (Allan 2002, 106).
Il modernismo in architettura, nell’Inghilterra degli anni ’30, passa non solo attraverso la parola scritta e le riviste, ma anche con il breve transito di architetti stranieri, provenienti prevalentemente dall’ambiente tedesco e russo: tra i casi più noti oltre a Lubetkin, Walter Gropius e Erich Mendelsohn (i quali, dopo una breve parentesi di collaborazione con architetti inglesi, proseguiranno verso gli Stati Uniti). Come nel caso di Lubetkin, né Mendelsohn né Gropius potevano firmare progetti in Inghilterra autonomamente, necessitando quindi della collaborazione di architetti inglesi come Serge Chermayeff (che pur essendo russo di nascita era stato naturalizzato cittadino britannico) nel caso di Mendelsohn e di Maxwell Fry nel caso di Gropius. Il tema dell’ammettere o meno gli architetti stranieri all’esercizio della professione, integrandoli di fatto nel R.I.B.A. sarà poi discusso nella prima metà degli anni ’30, molto probabilmente anche alla luce del sempre maggior numero di rifugiati politici in arrivo dall’Europa. Il fatto che, per quanto illustri fossero gli architetti, si trattasse comunque di aliens, era un’evidenza che non era né passata inosservata né dimenticata: il testo/immagine in francese, redatto da un architetto russo, e pubblicato sulla principale rivista di architettura del panorama inglese potrebbe essere interpretato come una forma di opposizione proprio a questa tendenza.
A fine 1933 diventerà presidente del R.I.B.A. Sir Giles Gilbert Scott (autore anche della Battersea Power Station), che nel discorso inaugurale dichiarerà che “I should feel happier about the future of architecture […] if Modernism had come by evolution rather than by revolution” (Gilbert Scott 1933). Lubetkin poteva essere in effetti associabile alla corrente “rivoluzionaria”, avendo sia preso parte in prima persona alla Rivoluzione di Febbraio (Allan 2002, 29) sia mostrando un’interpretazione personale del linguaggio architettonico di Le Corbusier.
Un fittizio diario di cantiere
La narrazione delle vicende del cantiere avviene a posteriori, a edificio concluso e consegnato: la costruzione del dattiloscritto procede per brevi paragrafi dotati di titoli, insieme alle caricature a margine, in una cornice di finzione letteraria nella quale l’architettura nasce e muore prima che l’edificio venga occupato dai suoi inquilini permanenti, gli “individualisti” della borghesia parigina dell’inizio degli anni ’30. Si inizia quindi con uno zoom quasi cinematografico, a partire da una sorta di volo d’uccello lungo i quais della Senna, da Place de la Concorde, considerata il cuore dell’urbanizzazione della capitale francese, come Lubetkin ribadisce anche sulle pagine de “L’Architecture d’Aujourd’hui”:
Champs-Elysées. Place de la Concorde. L’histoire a gravé ces notes dans ses pages les plus sublimes. “Créer, c’est ordonner”, “L’architecture est la volonté de l’homme au milieu du chaos qui l’entoure”, “L’urbanisme c’est la conscience du peuple taillée dans la pierre”. Paris est au moins aussi loin de Londres que Le Corbusier de Ruskin (Lubetkin 1933, 4).
La modernità della città, forse ancora in quel momento una delle capitali del mondo intellettuale, è messa in contrapposizione sia alla fantasia della féerie delle rive della Senna sia alle periferie che in quel momento si stavano espandendo: il Trocadéro è una crosta di melone in stile Saraceno, i sobborghi sono definiti “inevitabili e disgustanti”: passati i fasti di Ange-Jacques Gabriel, la città è fatta dai rumori stridenti dei tram e degli autobus (che sembrano quasi ricordare l’attenzione data ai tram berlinesi da Döblin in Berlin Alexanderplatz), dei taxi lanciati a tutta velocità sul pavé. È l’“estetica della macchina” a parlare, a dipingere una città che presenta un volto opposto a quello della capitale gentile e coquette. Lubetkin cita in questo paragrafo – in maniera probabilmente apocrifa – “Le Journal”, quotidiano parigino legato alla destra conservatrice e cattolica, che negli anni ’30 diventa progressivamente sempre più nazionalista: ed è la stessa frase che compare sul cartiglio che i quattro personaggi della prima pagina scrivono, ognuno per la sua parte. Le quattro caricature rappresentano altrettante facce della borghesia parigina, probabilmente anti-moderna tanto quanto quella inglese ma dal volto diverso: due personaggi più anziani, un giovane giornalista / disegnatore con la matita dietro all’orecchio e un personaggio con una giacca ad alamari, forse un riferimento ai militari oppure, ironicamente, ai costumi da circo. È la stessa committenza dell’urbanizzazione di primo Novecento del sedicesimo arrondissement di Parigi, nel quale si trova anche l’Avenue de Versailles. Il riferimento a Place de la Concorde si ritroverà anche più avanti nel testo, come ideale punto di convergenza delle linee orizzontali tracciate dalle finestre del prospetto: il fulcro della circolazione del traffico della città si lega idealmente al nuovo edificio, come se parlassero una lingua comune.
Si tratta degli stessi personaggi, caricature appartenenti alla borghesia commerciante e finanziaria, che vengono rappresentati anche sui margini della pagina 3, riconoscibili dal frac e dal cilindro, e che affermano che l’arte è armonia e senso della misura – in particolare la seconda, un pingue personaggio dal doppio mento, è ritratto nel gesto di indicare una poltrona vuota all’ipotetico interlocutore: si tratta forse di una caricatura della figura del mecenate. Non solo, anche sulla seconda pagina le due ‘comari’ di una certa età sono scandalizzate (“ils sont complètement fous”, “oh, ma chere! Quel monstre!”); dall’abbigliamento un po’ datato si può intuire che possano essere delle Parisiennes di 25-30 anni prima, le quali, passato il momento del loro ‘regno’ (Cocteau 1932) moderatamente scandaloso, sono ora abbigliate in modo austero e pienamente integrate nell’ambiente borghese; ma sono anche le “inquisitive neighbours” dai cui occhi indiscreti (Lubetkin 1932) il futuro abitante deve essere protetto: e così l’arretramento degli infissi rispetto alla facciata, a formare quasi una sorta di loggia, è descritto dagli architetti come anche una “concessione alle idiosincrasie dei futuri inquilini”. Non a caso le loro figure si accompagnano alla sorta di non-manifesto per punti che Lubetkin e Ginsberg producono alla fine dell’“ora dell’architettura”.
L’ora dell’architettura – Lubetkin e Cocteau
Ulteriore particolarità del testo-immagine di Lubetkin sono le frequenti citazioni di opere di Jean Cocteau, anche se quest’ultimo non viene mai nominato direttamente. Cocteau, poeta, scrittore e pittore, ma anche regista cinematografico e teatrale, era una delle figure più multiformi – ma anche discusse – della scena culturale francese; Nel 1929 aveva pubblicato Les enfants terribles, il suo romanzo più conosciuto, mentre è dell’anno successivo il film Le sang d’un poète. I due si erano probabilmente incontrati nel quartiere di Montparnasse, frequentato dagli esponenti dei movimenti d’avanguardia; forse al Club Trapèze Volant (i cui arredi sono opera dello stesso Lubetkin insieme a Bob Rodionov, artista sovietico che Lubetkin aveva conosciuto a Mosca (Allan 2002, 73), su commissione dell’artista circense Roland Tutain, che era anche vicino di casa a Argenteuil di Lubetkin (Allan 2002, 80). Cocteau, insieme ad altri artisti, pare frequentasse il jazz club, sebbene la sua stagione di apertura si rivelò breve – inaugurato nel 1928, venne demolito alla fine degli anni ’30 (Coe, Reading 1983).
La conoscenza da parte di Lubetkin dell’opera del poeta francese traspare dalle citazioni non solo verbali all’interno delle Pages e nell’articolo di chiusura: in particolar modo, ed è l’unico riferimento esplicitamente citato, vi è una frase tratta dal Prospectus (1916) a Le Potomak, unica aggiunta a penna al dattiloscritto insieme alla dicitura “(Potomak)”. Molti dettagli nelle Pages sembrano rimandare all’opera, primo romanzo del poeta e considerato dallo stesso come una sorta di prefazione alle opere successive; Lubetkin riprende, su scala più piccola, la peculiarità del romanzo di Cocteau, ossia quella di essere accompagnato da una serie di disegni per mano dello stesso autore e che hanno lo stesso peso narrativo. Se nel caso di Le Potomak i disegni sono per lo più raccolti in un capitolo centrale, Album des Eugènes, le caricature di Lubetkin occupano in modo dinamico i margini delle pagine, ‘entrando’ e ‘uscendo’ dal testo.
La stretta connessione tra scrittura e disegno sembra essere condivisa da Lubetkin e Cocteau, considerando che “Il est facile de démontrer que l’écriture de Cocteau, valorisée par le graphisme, se rapproche assez souvent du dessin”. (Caizergues 2018, 4). E il poeta stesso, in Le Potomak, dichiara: “J’ai dessiné, sans texte, l’album des Eugènes. J’ai senti par eux le besoin d’écrire” (Cocteau 1923). In questo caso anche le Pages possono essere lette sia come una prefazione in senso strettamente letterale – quella all’articolo su “Architectural Review” – sia metaforico, cioè come preludio alla futura carriera in Inghilterra di Lubetkin: l’edificio in Avenue de Versailles sembra voler essere allo stesso tempo biglietto da visita e una sorta di dichiarazione d’intenti. Ancora più significativa è la citazione finale,
Quelq’un a dit : “La meilleure œuvre littéraire n’est que un dictionnaire en désordre”. Je continue : “La maison n’est qu’un chantier mort”.
Nel passaggio citato, Lubetkin prosegue il discorso di Cocteau (sempre citando dal Prospectus a Le Potomak) per ribaltare la prospettiva della narrazione dell’architettura, la cui parte vitale si trova nel processo costruttivo, nel cantiere: in sostanza, in tutti quei momenti in cui è prodotto di uno sforzo collettivo. Il tema, particolarmente importante per Lubetkin in ottica del costante contatto con la cultura sovietica anche durante la permanenza in Francia, sarà declinato anche nel tentativo di istituire la Collaboration Internationale d’Architecture, una sorta di all’inizio del 1926 insieme ad altri allievi di Auguste Perret, fra cui anche Ernö Goldfinger e André Sive (Tripp 2017, 29-31).
Dal primo momento in cui non è più la bellezza delle linee matematiche della struttura, nascoste dall’arredamento e dai rivestimenti ma in qualche modo lasciate intuire nella conformazione della terrazza, ma quella cosmetica del “salone di bellezza” delle finiture, l’edificio diventa una “carcassa”, un “cadavere”. Eppure non si tratta di un’esaltazione della praticità sulla poesia, anzi: la poesia passa proprio per la costruzione, che non ha solo una funzione strutturale: il paragrafo dedicato al cemento racconta il getto della struttura con una verve poetica, quasi sensuale: la rotondità organica dei pali, la melodia dei solai, le forze che si scaricano al suolo, il fremito voluttuoso delle casseforme. Al margine, una truce figura fremente di rabbia commenta: “bisogna fermare immediatamente questo scandalo”.
A ciò si aggiungono le decisioni progettuali di Lubetkin e Ginsberg, non casualmente in cinque punti, sembrano a tratti dare una replica ironica a Vers une Architecture: se “L’architecture est un fait d’art, un phénomène d’émotion en dehors des questions de construction, au delà. La construction est pour faire tenir, l’Architecture, c’est pour émouvoir” (Le Corbusier 1923, 9), per converso “Un immeuble de rapport à Paris ne doit pas être une “Oeuvre d’Art” – (pensez seulement au Locataire qui casse des vases sur la tête de sa femme)”. Nella narrazione di Lubetkin, la fondazione su pilotis di cemento viene contrapposta alle necessità del sito e del budget, come anche la pianta libera con le ragioni economiche dei contratti d’affitto: costruendo una sorta di dualismo, con qualche grado di sottile ironia, tra l’“esprimersi in vetro” e il motto della massima resa per la minima spesa. La questione pragmatica del compromesso con la realtà, rappresentato dalla burocrazia, è ribadita anche nella descrizione inglese dell’edificio, in termini altrettanto tranchant (Lubetkin 1932c) e può, forse, essere letta sia come una sorta di “coming of age” dell’architetto tramite la prima costruzione di rilievo, sia come ulteriore commento alla differenza di attitudine, probabilmente un po’ idealizzata, tra Inghilterra e Francia che riscontra e esplicita nel reportage per “L’Architecture d’Aujourd’hui” sulla condizione dell’architettura in Inghilterra:
“Gli inglesi fino a oggi non hanno una costituzione scritta. Nella City, ogni giorno, immense somme di denaro passano di mano in mano senza contratti scritti […]. Niente esame per la patente di guida. Niente diplomi per costruire edifici. E nonostante ciò in nessun altro paese si trova una tale disciplina sociale, commerciale e architettonica basata su una tradizione millenaria. Fair play” (Lubetkin 1933, traduzione nostra).
Nella pagina 4 e 5 si notano inoltre altre due aggiunte di schizzi infratesto, ossia due “danger de mort”: non solo un rimando ai pericoli che s’incontrano sul cantiere, ma anche un’allusione a una scena di Le sang d’un poète di Cocteau, nella quale compare una figura androgina recante un cartello manoscritto che recita “danger de mort”.
Una sola allusione potrebbe essere anche una casualità, ma ve ne è una seconda, volendo ancora più sottile. Nelle fotografie a illustrazione dell’edificio, a quanto pare scattate da Lubetkin prima che gli inquilini prendessero possesso di uno degli appartamenti (probabilmente quello poi occupato da Jean Ginsberg) si nota la presenza in due immagini, evidente anche grazie alla pulizia delle linee degli arredi, una testa in gesso che può alludere all’uso scenico della statua nel film di Cocteau.
Lubetkin in questo caso si misura con le avanguardie artistiche dirigendo il racconto dell’architettura su un binario letterario e poetico, ma pervaso di una vena costante di ironia. Vi si può leggere una dichiarazione d’intenti nei confronti del modernismo, ma anche una presa di posizione abastanza netta: l’architettura è una questione collettiva, prodotto delle azioni di una folla di attori; non va dimenticato che il 1932 è anche l’anno dell’esposizione The International Style al MoMA di New York, a cura di Henry-Russell Hitchcock e Philip Johnson (Hitchcock, Johnson 1932), mostra che contribuirà significativamente alla cristallizzazione della narrazione del modernismo in architettura per opere chiave di maestri, espungendone gran parte della tensione politica. Godfrey Samuel, membro dei Tecton e uno dei primi collegamenti professionali di Lubetkin in Inghilterra, recensisce il catalogo della mostra sul “RIBA Journal” rilevando una “over-emphasis of personalities, narrowly aesthetic outlook, and dogmatic judgments” (Samuel 1932).
In questo senso, le figure che compaiono ai margini della pagina 7 possono essere interpretate come una satira del rapporto tra il mondo dei futuri occupanti dell’immobile e il mondo delle avanguardie artistiche: il riferimento all’art nègre rimanda sicuramente ai surrealisti e André Breton, invece il “niam-niam! Antropophages!” potrebbe non solo sottolineare gli stereotipi legati all’arte africana, ma anche riferirsi al Manifesto Antropófago di Oswald de Andrade, pubblicato a Sao Paulo nel 1928: tra un viaggio di studio in Brasile di Lubetkin per l’Institut d’Urbanisme di Parigi di cui poco è noto a parte ciò che viene menzionato nelle interviste di John Allan riportate nella sua monografia (Allan 2002, 69) e l’amicizia fra de Andrade e Blaise Cendrars, scrittore e poeta svizzero nato a La Chaux-de-Fonds un mese prima di Le Corbusier, anch’egli residente a Parigi nello stesso periodo, è possibile che qualche eco del manifesto possa essere giunta fino a Lubetkin. “C’est du vrai bolchevisme” può essere interpretato sia come commento al modernismo in architettura in senso generale, in modo simile all’allusione di Dugdale in Safety First, ma si tratta anche una sorta di meta-commento al testo stesso di Lubetkin, sottolineato dalla posa della figura, che sembra sporgersi fuori dal testo come da una finestra.
Merita un’ultima e ulteriore considerazione la chiusura delle Pages, che riprende quasi letteralmente il Manifesto del Partito Comunista. Nella pagina adiacente una delle ‘comari’, già apparsa nelle pagine precedenti, se ne fila via di fretta e un anziano personaggio si chiede dove sia la tradizione: nell’ultima pagina, dove il racconto si fa più sintetico, quasi a trasmetterci lo scarso interesse di Lubetkin per gli inquilini del suo stesso edificio, la stanchezza delle fasi conclusive della costruzione, dove la sostanza lascia spazio all’apparenza, vi sono soltanto due figure. Sono le uniche a non essere rappresentate in caricatura: sono due dei ‘damnés de la terre’, i lavoratori coinvolti nella costruzione: gli operai, coi quali l’architetto festeggia gli ultimi ritardi nella costruzione, i cui zoccoli restano l’unica cosa ancora viva nel ‘cadavere’ dell’edificio concluso. La concretezza – il gesto di sputare per terra insieme – è in contrapposizione alle idiosincrasie dei nuovi inquilini, esemplificate dall’“individualista” del terzo piano, che pianta carote nella sua vasca da bagno.
L’impaginato del testo in questo punto è inoltre un esplicito riferimento al futurismo russo: la disposizione in diagonale può essere un riferimento sia alle opere grafiche di Rodchenko, anch’egli a Parigi nel 1925 nell’ambito della partecipazione sovietica all’Exposition Internationale, ma anche un rimando alla disposizione tipografica di alcune poesie di Majakovskij.
No loitering – coda
Il testo di Lubetkin in inglese che segue le Pages non ne riassume letteralmente il contenuto ma contribuisce a chiarirne alcuni aspetti, rappresentandone una sorta di contraltare. Da un lato un racconto flamboyant che trasforma un episodio tutto sommato ordinario dell’architettura in un viaggio tra paesi e discipline, dall’altro un commento piuttosto tranchant e asciutto, dal quale l’elemento poetico è stato quasi del tutto espunto. Sebbene non si firmi e menzioni ‘the architects’ in terza persona, è chiaramente la voce di Lubetkin a scrivere (A block of flats in Paris 1932, 132e), come le fotografie sono con buona probabilità da lui procurate. Sebbene l’edificio sia circondato su tre lati da preesistenze, le immagini sono tagliate in modo da eliminarne quasi del tutto la vista. Non si tratta di scatti però totalmente decontestualizzati: nella prima tavola il prospetto dell’edificio è fotografato includendo gli alberi dell’Avenue che corre parallela alla Senna e, significativamente, un’automobile, richiamandosi alla descrizione delle linee tracciate dai percorsi delle auto dirette in Place de la Concorde.
L’enfasi è posta, riprendendo il testo, sull’edificio immaginato in funzione della strada, la quale, se da un lato “detta e fa rispettare le sue proprie leggi”; dall’altro, in quanto regno della modernità, non incoraggia con i suoi gas di scarico le attività di “idle loitering”. L’impressione è che Lubetkin voglia enfatizzare l’idea che le linee dell’edificio siano disegnate come funzione del traffico della strada, che non ci siano “‘amusing’ details for the benefit of loiterers at cross roads”. Qui si gioca in modo sottile sui termini: se i cartelli che proibiscono il loitering (vagabondaggio), reato in Inghilterra dal 1824, sono una caratteristica comune del paesaggio urbano, qui occorre ricordare che to loiter è traducibile in francese come flâner. La stoccata è quindi non tanto contro i vagabondi ‘veri’, ma contro gli ultimi retaggi dei decadenti flâneurs parigini, anch’essi ormai assorbiti nel ceto borghese dipinto in caricatura poco prima. Se Londra e Parigi al momento sono lontane, quasi agli antipodi, laddove l’una è più vicina alla natura e al paesaggio e l’altra invece racconta del trionfo dell’ordine umano, ciò non significa che non ci siano “many lessons in town planning [that] can be learned in Paris”. Le obiezioni sollevate dalle regolamentazioni municipali sono definite ‘pittoresche’, ultimi echi di preoccupazioni hausmanniane: non solo l’estetica e le tradizioni, ma anche la possibilità che, nel piano terra arretrato rispetto alla strada, potessero trovare rifugio ipotetici rivoltosi; parte di questa mentalità è attribuita alla permanenza delle limitazioni dovute alle tecniche costruttive in laterizio, proprio quelle che Lubetkin loda nella loro varietà in Inghilterra (Lubetkin 1933, 10).
Alla terrazza, spazio pubblico-privato (è ad accesso libero per tutti gli inquilini) è dedicata una pagina di fotografie: l’unica, di tutto l’articolo, in cui vi sia una presenza umana è quella che ritrae l’architetto austriaco Jean Welz in posa nel punto più alto dell’edificio. I paragoni nautici sono respinti da Lubetkin: non si tratta dell’estetica corbuseriana dei paquebots (Le Corbusier 1923, 74) ma di simili bisogni funzionali che quindi generano risposte simili, dal momento che
In Paris, when you are 30 metres above ground level you are no more “at home” than you would be on the deck of a transatlantic liner (A block of flats in Paris 1932).
Infine, la stanchezza di Lubetkin per ‘quei musi’ dei futuri inquilini trova un parallelo nell’esplicita dichiarazione degli intenti degli architetti, che vale riportare per intero:
The architecture attempts no display; nothing has been done to convey to an outsider an idea of social and economic power or showy opulence on the part of the tenant. No background was created to impress the visitor with the importance of the inhabitant. The building was designed for the modern, anonymous man who, amidst many social conflicts, is beginning to realize his growing importance (A block of flats in Paris 1932).
Difficile qui non leggervi un messaggio diretto ai colleghi – ma anche ai potenziali committenti – inglesi, la modernità implica l’abbandono dei segni esterni delle gerarchie sociali (in Inghilterra molto forti), il momento è opportuno per introdurre il cambiamento anche in casi in cui, come questo, non si costruiscono abitazioni a basso costo ma appartamenti d’affitto per classi abbienti. Un anno più tardi Serge Chermayeff concluderà una conferenza al R.I.B.A. su nuovi materiali e metodi costruttivi portando la questione ancora un passo in avanti:
I hope we may be gathered here, in this Royal Institute, one night, and see the Gold Medal presented for the best type of design in the unit minimum houses for the lower paid worker, instead of seeing it given again, as it has been given I do not know how many times, for the best Bank elevation. (Chermayeff 1933)
La lettura parallela e complementare del testo in francese e quello in inglese, delle caricature e delle fotografie, restituisce l’immagine di un progetto che può fungere da cuneo per la piena introduzione del linguaggio moderno in Inghilterra. Lubetkin nel 1932 apprezza il sense of humour inglese (Lubetkin 1932b, 3) abbastanza da vedervi la chiave per non prendere le contraddizioni della contemporanea scena architettonica abbastanza sul serio: soltanto in questo modo infatti si può considerare di provocare un cambiamento sensibile allo status quo. Le Pages utilizzano in parte lo stesso genere di umorismo per declinare la forma-manifesto – utilizzata da Le Corbusier senza troppo sense of humour – in chiave ironica, dipingendo un quadro in cui né la classe borghese né quella intellettuale (tradizionalista l’una, idiosincratica l’altra) possono davvero essere motori di cambiamento sociale: gli eroi sono i lavoratori, coloro che danno vita, concretamente ma anche figurativamente, all’architettura.
L’architetto, da parte sua, individua come momento chiave della vita dell’edificio non tanto quello dell’“ora dell’architettura” — in cui il progettista alza gli occhi, annoiato e accaldato, dal tavolo da disegno in attesa di una illuminazione artistica— quanto piuttosto il momento concreto del costruire. Solo molti anni più tardi, nel 1982, nel discorso per l’accettazione della Royal Gold Medal, Lubetkin ricorderà un episodio legato al suo arrivo in Inghilterra e sostanzialmente contemporaneo alla redazione delle Pages:
“[…] when I first arrived in this country, Bernard Shaw arranged for me to talk to the Art Workers Guild. I told them that as far as I know, there are only four kinds of artistic activity: fine art; music; poetry; and ornamental pastry cooking, of which architecture is a minor branch. I also made it clear that I understood my task to be the removal of architecture out of the kitchen and into the full glare of workaday humming activities of providing houses for heroes” (Lubetkin 1982)
Riprendendo le parole di Lloyd George all’indomani dell’Armistizio, Lubetkin nelle Pages usa il mezzo dell’attività artistica per un’inequivocabile dichiarazione, per quanto satirica e creativa, d’intenti.
Nonostante i diversi e sovrapposti livelli di lettura, in alcuni casi estranei o difficilmente comprensibili da parte del pubblico inglese, le Pages d’un journal de chantier possono essere lette come un’interpretazione non priva di ironia circa la forma-manifesto in relazione all’architettura: scritte in francese per la massima resa espressiva, ma dirette, nonostante tutto e principalmente, all’ambiente culturale inglese, tali pagine segnano, nella loro complessità di intreccio e dialogo reciproco tra testo e immagine, il documento di un cruciale momento di svolta.
Bibliografia
Nota bibliografica
A proposito del rapporto tra Lubetkin e la Russia, oltre alla biografia di John Allan che ne ricostruisce anche la cronologia (Allan 2002), si vedano anche i saggi di Peter Coe e Malcolm Reading nel catalogo della mostra del 1981 (Coe, Reading 1981) e la sua riedizione, ampliata, in francese (Coe, Reading 1983); Owen Hatherley ha analizzato l’influenza sovietica su tre progetti di Lubetkin in tre diverse fasi della carriera (Heatherley 2017), come anche Diehl nella sua analisi di Highpoint I e II e il loro rapporto con l’approccio teorico e ideologico di Lubetkin (Diehl 1999). Si noti anche la considerazione, sintetica e tranchant, di Peter Smithson (Smithson 1998). Tecton and Lubetkin. “AA Files”, 36, 40–40. http://www.jstor.org/stable/29544104). Per quanto riguarda il rapporto tra Lubetkin e l’Inghilterra, oltre ai già citati Allan 2002, e Coe, Reading 1981, 1983, si veda Rostagni 2006.
Riferimenti bibliografici
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P. Vago, Une vie intense, Bruxelles 2000.
English abstract
This essay investigates a curious text by Berthold Lubetkin, Pages d’un Journal de Chantier, published in the October 1932 issue of “The Architectural Review” as a presentation of the architect’s first completed building in Paris, an immeuble de rapport located on the Avenue de Versailles. The text is accompanied by hand-drawn caricatures of the French bourgeoisie: investors, future tenants of the apartments, clerks of the administrative offices, future neighbours. These caricatures, as well as Lubetkin’s narrative style, reveal an interest in the literary and artistic avant-garde, in particular, Jean Cocteau, while the interwoven narratives of text and image speak of an approach to architecture rooted in art, and at the same time, politically involved.
keywords | Berthold Lubetkin; Paris; England; Jean Cocteau; “The Architectural Review”; 1930s architecture; caricatures.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Chiara Velicogna, Pages d’un Journal de Chantier.Riflessi di Jean Cocteau in Berthold Lubetkin, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 139-162 | PDF di questo articolo
To cite this article: Chiara Velicogna, Pages d’un Journal de Chantier.Riflessi di Jean Cocteau in Berthold Lubetkin, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 139-162 | PDF of the article