L’incantesimo del fuoco
Sulla mostra “On Fire” alla Fondazione Giorgio Cini (Venezia 2022)*
Andrea Cortellessa
English Abstract
Disegnare il fuoco è una figura dell’impossibile, proprio come disegnare l’acqua. Giusto allora che una mostra come “On Fire” si tenga a Venezia (la città che già d’Annunzio, del resto, siglava in nome del Fuoco: “la fiamma è bella!”, suona il refrain della Figlia di Iorio). Non c’è artista veneziano, o che da Venezia sia passato, che non si sia misurato con l’adynaton di fissare in figura il perpetuum mobile sul quale da milleseicento anni la Serenissima, con audacia non inferiore alla fierezza, poggia le sue fondamenta. All’inizio del suo libro di congedo, Palomar, Italo Calvino assegnava al suo fenomenologico avatar l’esercizio, per definizione appunto impossibile, di restituire “la forma di un’onda”. Uno dei suoi numi tutelari – Leonardo, che dai suoi moti era ossessionato – ha scritto che “l’acqua è il vetturale della natura”, perché “transmuta il terreno” incessantemente, disegnando e ridisegnando senza posa la natura: per questo è l’elemento che più si avvicina alla luce stessa.
Anche in questo, simile al fuoco: che alla luce è consustanziale, certo, e la cui valenza metamorfica è ancora più potente. Esposta al fuoco, infatti, la materia cambia di stato: da solida o liquida si transmuta in gas disperso nell’aria, o si deposita a terra in forma di cenere. E proprio la potenza metamorfica del Fuoco è al centro della bellissima mostra organizzata all’isola di San Giorgio Maggiore da Tornabuoni Art (che già una decina di anni fa nella sua sede parigina ne aveva ospitato una assai più inclusiva, curata da Daniel Abadie col titolo Tout feu tout flamme). Scrive Bruno Corà, curatore della mostra veneziana, che a ‘dettare’ il nuovo concept è stato un nume ispiratore diverso dai soli sei, stavolta, sceltissimi artisti e cioè Emilio Villa: il quale nel formidabile testo Arte dell’uomo primordiale (recuperato da Aldo Tagliaferri per Abscondita nel 2007), nei primi Sessanta, scriveva del “supporto ‘distruzione-creazione’”, ben rappresentato dalla “materia ‘fuoco’”, sempre sotteso al gesto creativo di homo.
Una riflessione antropologica è spesso implicita nell’Arte Povera, ma si fa particolarmente evidente in Jannis Kounellis, e i suoi lavori col fuoco (piuttosto diversi, infatti, da quelli degli altri artisti in esposizione) la mostrano in piena luce: spesso fotografie di performance, o tableaux vivants piuttosto, nei quali il fuoco dev’essere gestito o comunque contemplato dagli esseri umani, raffigurati in posture di più o meno dissacrata ritualità. Come la foto celebre del ’73 che ritrae lo stesso artista col manico del bruciatore tenuto coi denti e la fiamma, in questo modo, minacciosamente vicina al suo volto; o alla testa, piuttosto, che ha partorito la ‘scintilla’ di quell’idea: e che ora poggia, suo elemento integrante, all’interno di una sua opera. In Kounellis, ritualmente appunto, il fuoco non si vede soltanto – lo si ascolta. La combustione produce un suono che rientra a pieno titolo nel repertorio ‘musicale’ così spesso da lui evocato. Ci si ricorda allora di una pagina straordinaria di Giorgio Manganelli, che adibiva il medesimo adynaton della “forma del fuoco” con agudeza ‘barocca’, per inseguire a parole qualcosa d’altrettanto inafferrabile: appunto la musica. (Lo dice di Verdi, che “nessuno sa quale sia la forma del fuoco, nessuno può predirla o ricordarla: giacché esso è il luogo, il punto astratto e inabitabile, in cui tutte le forme si incontrano, si sovrappongono, si intricano, si disegnano l’una sull’altra, l’una dentro l’altra”; Nabucco ha per titolo un lavoro del ’70 di Kounellis.)
Del resto maneggiare il fuoco evoca sempre, in qualche modo, l’elemento dionisiaco che Nietzsche associava al rituale chiamato musica. Il Mangiafuoco di Pier Paolo Calzolari (1979, ma spettacolarmente re-enacted in mostra, porta addirittura in scena chi soffia le fiamme sulla tela: la quale, così, si modifica a ogni performance.
Non è un caso che, nel bel catalogo edito da Forma (così come in mostra), abbiano un impatto commisurabile a quello delle loro opere le foto che mostrano al lavoro questi impavidi e industriosi prometei. Alberto Burri, ricorda Corà, considerava la foto più bella che gli fosse mai stata fatta quella di Aurelio Amendola, del ’76, in cui si vede l’artista dietro la plastica trasparente che sta bruciando (e lui – si vede in altre foto – come un mangiafuoco la controlla col proprio soffio): in modo che la fiamma, coprendogli il volto, pare divampargli dal petto.
Il più spettacolare è però Yves Klein, al quale spetta forse (sebbene Corà non voglia dirimere la questione) la primazia anche cronologica in quest’uso rituale di quello che davvero, nel suo esoterico caso, si può wagnerianamente chiamare l’incantesimo del fuoco. Ad accoglierci in mostra è infatti un filmato ineffabile nel quale l’artista, impeccabilmente abbigliato con papillon d’ordinanza, maneggia un ingombrante bruciatore per ‘preparare’ la tela sulla quale in seguito imprimono i loro corpi (preventivamente protetti da lozioni) le modelle, così realizzando delle spettrali quanto eleganti Antropometrie a encausto, diciamo, a loro volta in mostra: le Peintures de feu del ’62 che sono tra gli esemplari più rari del suo catalogo.
Nel video, non si capisce se più preoccupato o divertito, alle spalle del demiurgo impassibile occhieggia un pompiere pronto a intervenire. (Chissà se alle Antropometrie s’ispirò Ian Fleming, giusto l’anno dopo il chiacchieratissimo primo exploit dell’artista, nel ’57, per la scena-clou della Bond Girl di turno sacrificata in una pellicola d’oro in Goldfinger: il film omonimo uscirà solo nel ’64).
Al principio c’è Klein perché la presenza del fuoco, in tutto questo repertorio (con l’eccezione, s’è detto, di Kounellis), è sempre in negativo. Se è impossibile riprodurre la sua forma nell’istante in cui brucia (sebbene in un’intervista del ’65 Burri sogni di “conservare l’immagine della combustione come fosse una bruciatura in atto”) quello che può fare l’artista è raccogliere “ciò che resta del fuoco”, per dirla con Jacques Derrida. Il gemello diverso di Klein, Arman, nel ’63 in Germania dà fuoco a un’automobile; ma nei lavori a Venezia quelli che vediamo sono invece i resti – di squisitezza, talora, persino calligrafica – di oggetti che le fiamme hanno come cristallizzato (fra i quali ricorrono spesso, di nuovo, gli strumenti musicali): avvolta da una brina delicatissima di screziate enfiagioni La Fauteuil d’Ulysse, del ’65, risulta più elegante di qualsiasi poltrona Impero lasciata volgarmente intatta dalle fiamme. (Il cortocircuito ‘barocco’ tra fuoco e ghiaccio è spesso visitato da Calzolari, il più “alchemico” di questi artisti).
Il percorso non può che concludersi con Claudio Parmiggiani. E non solo perché anche nei suoi ultimi lavori tornano gli oggetti-emblema che il suo bruciatore sa strinare, con maggiore o minore delicatezza, ormai con la precisione d’un bisturi. I due Senza titolo replicano immagini che perseguitano la sua memoria ormai da decenni: i libri semicarbonizzati sotto un’imponente campana – in ricordo del rogo di Giordano Bruno, in Campo de’ Fiori – e quegli altri la cui impronta si fissa al muro in ‘delocazione’.
La biblioteca di Parmiggiani – come quella spettacolare esposta al MAXXI, due anni fa, col titolo dantesco Solo la terra oscura – è una biblioteca fantasma: traccia incandescente di qualcosa di rimosso, estinto, preterito – ma vivo nella memoria. Proprio lui, allusivamente, è l’unico artista che – in mostra o sul catalogo – non ci sia concesso spiare al lavoro.
*Una versione diversa e più breve di questo articolo è stata pubblicata nel numero di luglio-agosto del “Giornale dell'arte”.
English abstract
“On fire. Burri, Klein, Arman, Kounellis, Calzolari, Parmiggiani”, curated by Bruno Corà (Venice, Giorgio Cini Foundation, 22 April-24 July 2022), is an exhibition built around an adynaton: ‘fixing fire’ is no less impossible than ‘fixing water’, the water on which Venice rests its foundations with a boldness equal only to its pride. The selection of works is small but impressive, featuring Yves Klein, Alberto Burri, Pier Paolo Calzolari and Claudio Parmeggiani.
keywords | Bruno Corà; Fondazione Giorgio Cini; Art and Fire; Yves Klein; Alberto Burri; Arman; Jannis Kounellis; Pier Paolo Calzolari; Claudio Parmiggiani.
Per citare questo articolo: Andrea Cortellessa, L’incantesimo del fuoco. Sulla mostra “On Fire” alla Fondazione Giorgio Cini (Venezia 2022), “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 219-224 | PDF di questo articolo
To cite this article: Andrea Cortellessa, What a Time! Il ritorno del passato tra shock e continuità in due copertine di “Time”, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 219-224 | PDF of the article