“Cromocracy”
Sulla mostra di Abel Herrero alla Galleria Castello (Venezia 2022)
Andrea Cortellessa
English Abstract
Non c’è nessuno, nella stanza che s’intravede dalle vetrine prospicienti la strada, il canale, il mondo. Ma solo poco fa in questa stanza c’è stata una lotta, un’aggressione, forse è esploso un ordigno addirittura: i mobili sono rovesciati, le suppellettili giacciono in frantumi, tutto è a soqquadro. È rimasto acceso un apparecchio televisivo ma non sintonizza nulla, se non un rumore bianco di disturbi. Al di sopra del letto resta al suo posto un quadro, dal soggetto inconsueto per un intérieur borghese; e che però, forse, spiega tutto: un fungo atomico squassante, minaccioso e insieme seducente.
Qualche passo fra le rovine e accediamo alla stanza accanto, dove sulle pareti splendono oscure quattro grandi tele monocrome, formicolanti segni senza referente, che fanno corona a un’unica immagine riconoscibile, realizzata con la stessa tecnica ma dalla quale emerge il volto di un uomo. L’insieme può ricordare un’iconostasi, uno spazio simile alla celebre Cappella di Mark Rothko a Houston: al centro però, a differenza di quel sublime suprematismo nichilista, resiste un riferimento umano.
Riconosciamo questo volto dalle immagini di cronaca di una decina di anni fa (anche se il suo aspetto attuale, dopo un’odissea che pare lontana dalla sua conclusione, pare sia alquanto differente): è Julian Assange, il controverso fondatore di WikiLeaks che nel 2010 è assurto agli onori della cronaca (ed è entrato in un tunnel giudiziario dal quale non è ancora uscito, appunto) per aver scoperchiato il vaso di Pandora degli enfers digitali del mondo neoliberista e ‘democratico’.
Se c’è chi lo candida al Nobel per la Pace, per il governo degli Stati Uniti è colpevole di alto tradimento, cosicché rischia una pena non più applicata in quel paese, per tale imputazione, dal 1953: quella di morte. Comunque si voglia leggere questa storia, nella quale permangono non pochi lati oscuri, non ci sono dubbi che Assange stia pagando cara la hybris di aver messo in discussione la suddivisione manichea fra un Occidente libero e trasparente e un Resto del Mondo autoritario e tenebroso.
Questa narrazione giunge ora al calor bianco di un confronto militare che, latente giusto dall’exploit del cyber-attivista australiano, a lungo ha brontolato in sottofondo per infine deflagrare con una ferocia e una brutalità che hanno sorpreso i più occhiuti soloni della geopolitica internazionale. Dopo tante distopie glamour, che negli ultimi trent’anni annunciavano seducenti Star Wars invisibili e asettiche, quella di questi giorni è una guerra all’antica: una macelleria pachidermica di tank che strisciano nel fango, corazzate che colano a picco al largo, trincee scavate con la pala e bombe tutt’altro che intelligenti. Una guerra desolantemente novecentesca, insomma. Diceva Albert Einstein di non avere idea di quali armi sarebbero state impiegate nella Terza Guerra Mondiale, ma che certo la Quarta sarebbe stata combattuta con le pietre. Si vede che abbiamo saltato un passaggio.
A colpire Abel Herrero – mi ha confessato l’artista – è stata anzitutto questa regressione: come un viaggio a ritroso nel tempo che d’incanto ci ripiomba negli incubi pre-1989 fatti di Equilibri del Terrore e Funghi Atomici, appunto, occhieggianti all’orizzonte. In questo suo lavoro, l’icona enigmatica di Assange si colloca giusto al mezzo: torturato nella strettoia irrespirabile fra le tenebre belliciste della demokratura d’un Oriente neomedievale, che non si perita di mettere mano alla clava, e la falsa trasparenza di un Occidente che longanime si autodefinisce “società aperta”, governata dalla pubblica opinione, e poi prescrive la sedia elettrica a chi osi portare a giorno le proprie magagne: mozzando il dito che le indica, pur di non guardare quelle brutte macchie sulla faccia della luna.
Le tele nella ‘cappella’ ripropongono una tecnica da tempo adottata da Herrero, quella della saturazione: i colori puri della stampa in quadricromia (ciano, magenta, giallo e nero) negano qualsiasi figura, ma se ci avviciniamo alla superficie dei quattro grandi monocromi ci avvediamo di come il ‘rumore’ che li oscura sia prodotto da un caos di algoritmi numerici, codici digitali del web, i geroglifici cioè che oggi segretamente governano l’informazione e, lei tramite, tutti noi che la consumiamo; e alla stessa oscurità di ritorno allude il brusìo visivo del televisore fuori sintonia. L’unione di queste tecniche ha un precedente in Éter, l’ultimo lavoro esposto da Herrero due anni e mezzo fa negli Ipogei Motta a Matera: la stessa funzione dell’icona sacrificale di Assange veniva assolta, in quell’occasione, da quella di Enrique Irazoqui, il carismatico Cristo guerriero nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini (un film girato, a suo tempo, proprio in quei Sassi).
Una valenza più sarcastica ha l’installazione nella stanza a soqquadro: qui l’irrompere inopinato di una violenza storica furibonda, che ci eravamo illusi fosse da un pezzo alle nostre spalle, quasi ilare demolisce l’ordine pretenzioso della nostra rassicurante intimità domestica, nella quale sempre più disturbanti penetrano gli echi mediatici della tragedia in corso. Si pensa ai memorabili fotomontaggi di Bringing the War Home, della giovane Martha Rosler, che alla fine degli anni Sessanta proiettava sulla carta da parati a tinte pastello del più candido American Way of Life l’imagery nuda e cruda dei carnai in Vietnam: la violenza cioè che quel benessere, e quella cecità, sosteneva e sostanziava (la stessa Rosler, con media diversi, ha riproposto il medesimo cortocircuito durante l’intervento americano in Iraq del 2003).
Se non la disperazione terminale di Rothko, l’apologo di Herrero può indurre una sorta di paralisi della volizione: l’artista, con la drasticità laconica che da sempre lo contraddistingue, pare dirci che nessuno spazio di libertà sia oggi ipotizzabile. Eppure un dettaglio, solo in apparenza naturalistico, forse ci dice qualcosa di diverso. I sacchi di sabbia colorati che ha voluto aggiungere all’insieme, infatti, sono un segno di resistenza: una resistenza affidata a quello stesso colore che, nella stanza adiacente, ci satura del suo rumore. Dove è il pericolo, sempre, cresce anche ciò che dà salvezza.
English abstract
From windows that face the street and the canal, one glimpses a room in disorder where there is no one. There is the sense of an attack, a fight, perhaps even a bomb that has exploded. In another room, a portrait of Julian Assange, the controversial founder of WikiLeaks, who later rose to fame and the horrors of justice (or injustice). The military confrontation that seemed latent in the exploits of the Australian cyber-activist and has been misrepresented by so many ‘glamorous’ dystopian visions is aflame with the ferocity and brutality of an ‘old-fashioned’ war. In the rooms overlooking the street and the canal, Cuban artist Abel Herrero (Havana, 1971) records it all, with an eye that remembers the pre-1989 nightmares of the Cold War’s ‘balance of terror’ and the threat of atomic mushrooms. This text is a presentation of the Venetian exhibition Abel Herrero’s “Cromocracy” on view at the Castello Gallery in Venice (22 April-30 September).
keywords I Abel Herrero; Julian Assange; Galleria Castello; Pier Paolo Pasolini; Enrique Irazoqui.
Per citare questo articolo: Andrea Cortellessa, “Cromocracy”. Sulla mostra di Abel Herrero alla Galleria Castello (Venezia 2022), “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 225-229 | PDF di questo articolo
To cite this article: Andrea Cortellessa, “Cromocracy”. Sulla mostra di Abel Herrero alla Galleria Castello (Venezia 2022), “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 225-229 | PDF of the article