In viaggio nella mia Africa
Intrecci, corrispondenze, luoghi e tempi
Flavia Vaccher
English abstract
Je voyage, ha detto un pazzo parigino,
pour connaître ma géographie.
Claudio Magris, L'infinito viaggiare, Milano 2005
Avrei preferito raccontarvi tutto, subito. Poiché sarebbe stato troppo lungo, ecco l’inizio della storia. È sempre artificioso parlare dell’inizio e della fine di una storia, dato che non ne percepiamo che delle fasi intermedie. Ma, all’origine degli avvenimenti, vi fu un incontro, e ogni incontro è un inizio relativo, e questo incontro, particolarmente, contiene in sé tutta una storia (Rugafiori 1991).
Così si esprimeva René Daumal nel 1939, a margine del suo manoscritto Il Monte Analogo (Daumal [1952] 1991), straordinario e incompiuto racconto di una spedizione di esploratori alpinisti che, su una strana rotta, a bordo di una barca chiamata “l’Impossibile”, approdano nell’isola del Monte Analogo, metafora di un viaggio tutto interiore alla scoperta di sé e dei propri limiti. All’origine del mio viaggiare in Africa, più precisamente nel Sahel, ci fu l’incontro con il libro di Marco Aime, antropologo e autore di numerose ricerche sul campo in vari Paesi dell’Africa occidentale, nelle quali ha indagato trasversalmente il tema del viaggio, della differenza e dell’identità. Titolo: Sensi di viaggio. Sottotitolo: Colori, odori, incontri: c’è un modo diverso per conoscere il mondo. Perché, come riportato nel testo,
Non è vero che i viaggi avvengono nella testa, che si può viaggiare rimanendo a casa […]. No, non è vero. Il viaggio nasce nella testa, matura, ma per esistere ha bisogno di assorbire linfa attraverso i sensi, toccare, sentire, annusare, assaggiare (Aime 2012, 5).
Una riflessione che sembra rimandare pienamente alla condizione, se non ancor di più alla necessità, di ogni architetto: da sempre in effetti, più che i libri, sono stati i viaggi a formare in misura consistente i progettisti, così come, in generale, di opere realizzate in paesi lontani si nutre e si è sempre nutrita l’architettura:
Il viaggio, indipendentemente dalla distanza che copre, proporziona l’incontro con l’architettura. Che sia per analogia, o per differenza, il viaggiatore sempre scopre nel viaggio l’occasione di apprendere di più sulla sua origine (Jiménez Torrecillas 2006).
In particolare, i territori ‘altri’, dove l’aggettivo ‘altri’ è inteso nell’accezione di distanza geografica – di luoghi lontani ed esotici, ma anche di campi disciplinari quali la storia, le scienze sociali e umanistiche (antropologia, geografia urbana, ecc.), che pure con l’architettura si intrecciano nella scoperta di tali territori – hanno da sempre costituito un ambito privilegiato di esplorazione e un’opportunità per indagare “le lontananze incantate dell’immaginazione” (Enzensberger 1998, 35).
Ma “la seduzione dell’altrove”, titolo di un libro di Dacia Maraini che ben coglie il senso dell’‘altrove’ e il suo essere appunto allettante, capace di sedurre e di alimentare un desiderio di mobilità, di alterità spaziale, non appare però sufficiente a spiegare la scelta, in questo caso di un architetto, di volgere lo sguardo verso paesi e culture differenti, remote, spesso completamente estranee al suo vissuto personale e alla sua formazione, con le quali l’impatto è sicuramente più intenso e profondo. Scelta che, per tale motivo, richiede una dimensione alternativa del pensare e del vedere, anche l’architettura.
Ogni racconto ha dietro di sé un viaggio, reale o immaginario esso sia, ma ogni viaggio a sua volta è anticipato e spinto da un racconto (de Certeau [1977] 2008). Così, se per Baudelaire il viaggiatore è colui che da ragazzo, “amante delle mappe e delle stampe” (Baudelaire [1857] 2005), leggeva nei nomi contenuti nelle cartografie un invito al viaggio, sono gli studi e le architetture di Patrick Dujarric, di Alan Richard-Vaughan – architetti europei, ma africani di adozione, che non riconoscendosi nel Movimento Moderno dei CIAM lecorbuseriani cercarono altre declinazioni del linguaggio modernista – o di Demas N. Nwoko – architetto-artista nigeriano influenzato dai contatti culturali con Europa e America nei primi anni ’60 – ad essere stati per me al contempo invito e compagni di viaggio.
Esiti di una meno ortodossa e poco indagata esperienza del Moderno in Africa, che portò all’invenzione di nuove forme architettoniche ibridate con la tradizione, tali architetture, dopo averle studiate e ridisegnate nel tentativo di dispiegarne significati e nessi, sono così diventate materiali del mio viaggio, utili per esplorare il molteplice e stratificato paesaggio africano, di cui esse sembrano avere anticipato temi e condizioni. Tra queste, in primis, il suo essere innanzitutto espace métisse (Mudimbe 2016, 71), concetto che porta in sé l’idea di adattamento e al contempo di re-invenzione, fondato su operazioni di ibridazione, sovrapposizione, mai di semplice imitazione o copia.
Il viaggio ha assunto, pertanto, la forma di un continuo esercizio di riconoscimento di una pluralità di tracce appartenenti a culture differenti che si intrecciano mescolando architetture, luoghi e tempi diversi. L’esperienza del métissage, diversamente indagata nel campo della letteratura, degli studi filosofici, della produzione cinematografica per la sua capacità di saper cogliere e raccontare il carattere molteplice della contemporaneità, diventa essa stessa condizione del viaggio, nonché forma del suo racconto. Il viaggio, come ci ricorda Chatwin, “non soltanto allarga la mente: le dà forma” (Chatwin 1996, 122). Ed è così che letti in filigrana, scoprendo e rintracciando risonanze, analogie, sottili corrispondenze o reinvenzioni, alcuni frammenti di viaggio si ricompongono secondo “quell’infinità vorticosa di elementi” alla quale si riferisce Pasolini (Pasolini 1979, 458).
2012, Benin, Abomey. Campi di segni I. Il Palazzo Reale di Abomey
Dopo una prima accoglienza in uno spazio buio e compresso, ha inizio il percorso attraverso cinque ‘vuoti’ di dimensioni e forme diverse (quadrata o rettangolare), che collegano un complesso sistema di costruzioni (edifici residenziali e di culto) e che sono disposti secondo un sistema di gerarchie apparentemente legato all’uso: la corte esterna, a cui si accede dall’ingresso principale, nella quale si trovano le case per gli ospiti stranieri (djonoxo) e le case delle sacerdotesse del re (tassinoxo); la corte interna, a cui si accede attraverso un secondo portale (logodo), nella quale si trova la casa dove il re riceve gli ospiti e tiene i consigli (adjalala) e il tempio (djexo) costruito dopo la morte del re per custodire il suo spirito; la corte privata del re (honga), che è invisibile in quanto racchiusa dalle mura, insieme a una serie di altre corti, nelle quali si trovano la tomba simbolica del re (adoxo) e delle mogli; infine, la grande corte pubblica, dove ancor oggi si celebrano i riti di intronizzazione e le cerimonie pubbliche. Ciò che si coglie come una successione di vuoti è in realtà una sofisticata traduzione spaziale e materiale di un sistema di privilegi e potere, obblighi e divieti. Gli spazi vuoti, protetti dalle mura di cinta in terra cruda, di altezza impressionante, non delimitano solo un territorio come interno: essi definiscono, insieme ai limiti, anche l’estensione del potere politico. Composto al tempo stesso da luoghi e da pratiche cerimoniali e di culto, che si sovrappongono secondo una trama complessa di percorsi e di relazioni visive, negate o accentuate, di cui la corte pubblica diventa spazio per le rappresentazioni per eccellenza, il palazzo è di fatto un vero e proprio teatro vivente.
Ed è nello spazio centrale di una corte scoperta a Ibadan, in Nigeria, che Demas Nwoko inserisce un piccolo anfiteatro, attorno al quale dispone i volumi degli atelier e sul lato opposto il proscenio rialzato, come negli anfiteatri dell’antica Grecia. Un piccolo teatro che secondo alcuni critici, come John Godwin e Gillian Hopwood (architetti inglesi della Architectural Association che svolsero la loro attività in Nigeria per oltre 60 anni), rimanda al riferimento del theatre in the round, particolarmente diffuso a Londra negli anni ’60, in cui l’arena circonda il palcoscenico e pertanto il pubblico è molto vicino alla scena. Una situazione molto apprezzata in Africa, dove la partecipazione del pubblico allo spettacolo è di grande presenza e coinvolgimento. In ogni caso una soluzione tipologica innovativa più che una contaminazione, dal momento che Nwoko costruisce uno spazio teatrale che nell’architettura tradizionale dei palazzi reali non esisteva, e lo fa per rappresentazioni che fino ad allora non avevano richiesto una sistemazione propriamente architettonica. Nwoko ebbe qui la possibilità, per la prima volta, di mettere in pratica le teorie da lui elaborate della Natural Synthesis e della New Culture, combinando riferimenti all’architettura tradizionale, in questo caso lo spazio dei palazzi reali Yoruba, con riferimenti assunti dal mondo occidentale antico e moderno, dimostrando in tal modo la capacità dell’architettura africana di trasformarsi nel tempo per dare risposta ai nuovi bisogni della società.
2012, Benin, Porto Novo. Campi di segni II. Il Palazzo Reale (Honmè) di Porto Novo
Una volta entrati, si è accolti da una piccola corte, dove all’ombra di un grande albero si può apprezzare la calma e il silenzio che vi regnano. Da qui, transitando attraverso una successione di piccole corti di forma quadrata o rettangolare, circondate da semplici porticati su cui si affacciano le stanze, inizia l’esperienza di perdersi in un labirinto.
E comprendi che devi fin da subito modificare il tuo sguardo, dimenticare assi prospettici, simmetrie, geometrie per contrapporre pieni e vuoti, o quantomeno ripensare, ad esempio, alla nozione di simmetria, dove spesso – come nel caso dei palazzi reali Yoruba – il centro non corrisponde obbligatoriamente ad un punto specifico, ma piuttosto al convergere di traiettorie diverse. È difficile percepire queste corti come sistemi di indicazione spaziale, dispositivi di orientamento per le vedute e per la loro profondità. Non sembrano infatti rispondere a una logica spaziale particolare, ad esempio non segnano un’asse o non indicano una direzione specifica; al contrario, la collocazione di colonne esattamente davanti alle porte, artificio che ostacola la vista a chi oltrepassa la soglia, ne accentua l’impressione di chiusura e interiorità. Il principio di rappresentazione su cui è costruito questo complesso architettonico non è quindi la prospettiva, perché lo scopo non è di indirizzare lo sguardo e permettergli di traguardare gli spazi, ma semmai di introdurre elementi o dispositivi che lo impediscano e facciano perdere ogni riferimento rispetto a un ordine generale della struttura. Per tale motivo la sensazione che si prova è quella di perdersi, come nell’esperienza del labirinto, la cui immagine è marcata anche dall’uso attento della luce che filtra attraverso le corti. Nel palazzo esiste un unico asse lungo il quale è possibile penetrare al suo centro: è la linea che mette in relazione visiva la corte del re, che rappresenta il potere politico, con la corte del consiglio e quella della regina madre, tutte disposte a quote diverse. Come ad Abomey, il palazzo è di fatto un dispositivo capace di tradurre, attraverso la differenziazione dei livelli delle corti, il sistema di gerarchie che regolano i rapporti di potere, uso pubblico e privato, ma anche politico e religioso di questi spazi.
Un complesso e articolato codice narrativo che ho ritrovato, reinterpretato a scala domestica, nell’abitazione di Demas Nwoko a Idumuje Ugboko, in Nigeria. Mentre nella casa tradizionale le funzioni sono concentrate in un’unica corte multifunzionale, luogo fisico dove si svolge la vita della famiglia e dove si intrattengono le relazioni sociali, Nwoko progetta una sorta di micro-insediamento organizzato attraverso successioni studiate di spazi, le corti, secondo un ordine gerarchico determinato dalle funzioni a cui sono adibite (di servizio o abitative) e dal loro uso (pubblico o privato): la corte di servizio, la corte privata su cui affacciano le stanze da letto e la corte pubblica per eccellenza dove avviene l’accoglienza degli ospiti. Anche qui la sequenza con cui si articolano queste corti, ciascuna autonomamente accessibile, non sembra rispondere a una logica spaziale particolare. Al contrario, Nwoko cerca di accentuare l’impressione di interiorità, negando le relazioni visive interno-esterno, utilizzando dispostivi architettonici con i quali mediare l’ingresso della luce all’interno delle stanze, quali brise-soleil e schermature con elementi in pietra (claustra).
2014, 2016, Benin e Togo. Cosmoarchitetture sub-sahariane. Villaggi e compound del nord
Comprendi quanto la parola ‘villaggio’, in Africa, possa essere per certi versi fuorviante, mentre percorri la striscia d’asfalto frantumato che attraversa la catena montuosa dell’Atakorà, un sistema di altopiani e vallate che si allunga nell’estremo lembo nord-occidentale del Benin e continua poi nel territorio togolese. Qui incontri paesaggi disseminati da migliaia di piccoli manufatti, stanze, granai, costruzioni per uso diverso, in mattoni di terra cruda, per lo più a pianta circolare e a tetto conico, ma sempre più spesso sostituiti con manufatti a pianta rettangolare e copertura in lamiera, simbolo di ricchezza e di una modernità ricca di contraddizioni. Aggregati entro recinti in piccolissimi insiemi (anche dieci, dodici) intorno a uno spazio aperto, un cortile multifunzionale che diventa il fulcro, ognuno di questi piccoli insiemi dà forma a un’unità abitativa (compound) nella quale vive la famiglia allargata. Oltre ai compound, nell’organizzazione spaziale del villaggio, sono compresi manufatti significativi, spazi collettivi, alberi ma anche piccoli segni della memoria e del sacro, quali una pietra, un altare, una stele. Cose della natura (immateriale) e della civiltà materiale.
Alan Vaughan-Richards ha studiato a fondo la struttura dei villaggi degli Hausa che abitano la parte meridionale del Niger e la parte centro-settentrionale della Nigeria. In questi villaggi le singole capanne di forma circolare sono collegate in sequenza a formare il compound del nucleo familiare, ampiamente modificabile nel tempo per adattarsi alle trasformazioni della famiglia. Forma, posizione sul terreno ed elementi decorativi identificano ogni cellula abitativa in rapporto alle altre, riproponendo gerarchie e relazioni esistenti all'interno del villaggio. Il rimando all’habitat tradizionale è evidente nella riproposizione dell’organizzazione spaziale del cottage che realizza nei primi anni ’60 a Ikoyi, una zona residenziale alla periferia di Lagos. È costituito da una sequenza di cinque stanze circolari culminante in una veranda schermata che si proietta verso il lago. Successivamente, a metà degli anni ’60, fu aggiunto un secondo piano con un ufficio e due stanze da letto per rispondere alle mutate esigenze familiari. Oltre a riflettere il rispetto per la cultura indigena, l’edificio è concepito anche per rispondere a questioni di tipo climatico: orientamento, irraggiamento ed illuminazione. Utilizzando la sua formazione presso la AA Tropical School di Londra, Vaughan-Richards introduce una serie di dispositivi architettonici – brise-soleil, collocati di fronte ai volumi circolari, il tetto unitario sollevato come una vela sul lato più esposto per catturare la brezza e convogliarla all’interno delle stanze e abbassato sul lato sottovento per facilitare la protezione solare – in risposta a condizioni specifiche del contesto, aggiornando in tal modo le forme dell’architettura vernacolare con materiali e funzioni diverse. I richiami alla tradizione non si limitano solo alla dimensione formale. Non meno importanti sono le relazioni visive con il contesto, con la natura del luogo e la capacità di aver saputo introdurre all’interno di un edificio moderno i modi dell’abitare propri di una tipologia tradizionale.
2017, Senegal, Dakar. Forme di resistenza urbana. I villaggi urbani lébou a Dakar
Percorrendo la fitta trama ortogonale delle trafficate strade del Plateau – il nucleo più antico della “grande ville anarchique, ville immense et confuse, fourmilière aveugle”, descritta da Boubacar Boris Diop nei suoi molti romanzi dedicati a Dakar – può accadere che all’improvviso, davanti ai tuoi occhi, le file allineate e regolari delle alberature lungo i viali s’interrompano per lasciar scoprire, aggregate dentro i confini regolari del lotto, una molteplicità di piccole e dense strutture insediative, attraversate da percorsi stretti e irregolari. Sono i péncs, antiche preesistenze dei villaggi dei Lébou, rimasti incapsulati nella banlieue dakaroise negli anni successivi alla colonizzazione. Ti accoglie uno spazio centrale aperto (il pinthou o pénc), circondato dalle abitazioni organizzate a loro volta intorno allo spazio della keur (corte in lingua Wolof), dove si svolgono ancor oggi tutte le attività legate al gruppo familiare. Ci sono poi l’arbre à palabre e la moschea, che consentono di identificare i péncs nel tessuto della città. L’arbre à palabres (l’albero delle parole) è un albero dalla vasta chioma, generalmente un baobab. In Africa è il luogo tradizionale di incontro degli abitanti di un villaggio, all’ombra del quale si fa conversazione e si discutono problemi di vita quotidiana e della vita sociale. È anche il luogo nel quale i bambini vengono ad ascoltare le storie raccontate da un anziano del villaggio. La moschea è orientata verso la Mecca e rompe il piano ortogonale con la sua posizione diagonale all'interno del lotto regolare – ulteriore dissonanza nel contesto urbano che segnala la presenza del pénc. Un microcosmo che riecheggia i modelli insediativi dei villaggi costieri di Yoff e Ngor a nord di Dakar, o di Ouakam nel cuore della città. Qui, una volta che ci si addentra, la scala di riferimento cambia subitaneamente, passando da quella della città a quella del villaggio. Benché frammenti autonomi, assorbiti all’interno del tessuto eterogeneo della città moderna che si espande sul preesistente e interessati anch’essi dal fenomeno della densificazione ‘in verticale’, la loro trama originaria è ancora distinguibile, così come il pénc, immutabile elemento chiave della loro organizzazione sia spaziale che sociopolitica. Lo spazio abitato è spazio reale e simbolico, espressione materiale della società, come ricorda Balandier (1997, 8). Questo duplice aspetto è stato evidenziato nell’imponente lavoro di mappatura e documentazione dei villaggi sparsi in tutto il Paese, Maisons sénégalaises, condotto da Patrick Dujarric e pubblicato nel 1986. Studiati e raggruppati per gruppi etnici, ma sempre simili nei modi di occupazione e uso dello spazio, ciascuno dei villaggi è raffigurato attraverso disegni ricchi di notazioni fondamentali che restituiscono: il numero di manufatti, i prospetti e le sezioni nelle quali sono intercettati anche gli utensili, le tecniche e gli elementi costruttivi. Accanto alla planimetria, arricchita dal rilievo delle alberature, si trova inserito il diagramma raffigurante il sistema di relazioni parentali sul quale si fonda l’apparentemente casuale articolazione morfologica del villaggio.
2017, Senegal, Saly. Il villaggio del turista. L’Hotel Royam (Patrick Dujarric, 1986)
Situato a Saly, una cittadina a circa 50 chilometri a sud di Dakar, il complesso alberghiero ti procura sin da subito un senso di smarrimento. Oltrepassata la capanna circolare vuota e silente, collocata all’ingresso e incassata nel muro di cinta che racchiude l’intero complesso, e un po’ più distante un agglomerato di capanne che costituiscono la reception, un percorso ti proietta direttamente verso l’orizzonte dell’Atlantico. Ma prima ancora di raggiungere la spiaggia sei accolto in un ampio spazio con una grande piscina e un gruppo di altre capanne che ospitano i servizi (ristorante e cucina): è questo il vero fulcro del complesso. Tutt’intorno, sparse nell’area, ci sono le camere, ovvero un’agglomerazione di capanne ammassate una vicina all’altra (da tre a cinque) in una sorta di gemmazione infinita. Più che un’assonanza, è una reinterpretazione, costante e continua, che Dujarric fa di riferimenti formali e spaziali di villaggi tradizionali. In particolare, l’aggregazione delle capanne aspira a riproporre i modi di organizzazione degli spazi dei villaggi Serere, tribù presente nella zona di Saly, ma anche la trasposizione dei claustra della tribù dei Soninke, elementi in pietra utilizzati per schermare le aperture, riproposte da Dujarric sotto forma di figure antropomorfe.
2017, Senegal, Casamance. Effetti di luce. La casa tradizionale ad impluvium
Nei giorni di sole la luce entra copiosa, irradiando non solo il cortile centrale dove si cucina, si mangia, ci si incontra, ma anche le stanze su di esso affacciate e raccolte sotto un’unica copertura anulare a imbuto: l’impluvium. Il cono di luce crea un effetto drammatico di luce e ombra. Quando piove, invece, l’area centrale del tetto a forma di imbuto riduce la quantità di acqua piovana che entra a una cascata lieve. Un senso di vittoria sugli ostili elementi climatici pervade l’atmosfera di pace.
Diversamente dalle case tradizionali, nelle quali tale dispositivo, da un punto di vista formale, è un vuoto scoperto coincidente con la corte, nella sua abitazione a Idumuje Ugboko, Nwoko lo trasforma in uno spazio dominato da un elemento tronco-conico rovesciato in vetroresina. Ad esso affida il compito di far penetrare la luce naturale indirettamente, attribuendo allo spazio domestico una dimensione quasi sacrale. John Godwin racconta così l’esperienza di quando visitò la casa nel 1996:
We entered the empty house at about 2 p.m. and went directly to the atrium, space of about five meters by five meters and about as high. It was cool, very quiet and restful after the noise and heat on the road. We remained standing for a few minutes without breaking the silence, allowing the serene atmosphere to soak in. It was completely benign, the unsaid word of an African welcome.
[Entrammo nella casa vuota alle 2 pomeridiane e andammo direttamente nella corte principale, uno spazio di circa 5 metri di lato e altrettanti di altezza. Era fresco, molto tranquillo e riposante dopo il rumore e il caldo della strada. Rimanemmo seduti per un paio di minuti senza rompere il silenzio, consentendo alla serena atmosfera di essere assorbita. Fu un’esperienza assolutamente piacevole, il modo, non esplicitato a parole, di dare il benvenuto da parte di un Africano] (Godwin, Hopwood 2007, 35).
Lo stesso dispositivo viene riproposto anche nel monastero benedettino di Ewu, dove la hall è dominata da due impluvia che contribuiscono a rafforzare lo spazio delle due corti, accentuando ulteriormente la dicotomia tra interno ed esterno.
Palinsesto africano è l’immagine alla quale è stato affidato il compito di introdurre il racconto di queste esperienze di viaggio nella complessa stratigrafia di culture materiali e immateriali e di memorie collettive delle quali il paesaggio africano si compone. Pensata come un mosaico di contaminazioni, frutto a loro volta di percorsi che si lasciano seguire talvolta con difficoltà, essa allude ai luoghi attraversati, alle architetture incontrate e riconosciute, al labirinto di epoche e tempi che nei paesaggi si sono intrecciati e li hanno poi costruiti. Una raffigurazione di quell’insieme di segni, forme e spazi, possibili indizi di progetto, ma che, al tempo stesso, contribuisce a disegnare anche la mappa della propria vita:
Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di esser sempre quella piazza (Canetti 2004, 57).
Riferimenti bibliografici
- Aime 2005
M. Aime, Sensi di viaggio. Colori, odori, incontri: c’è un modo diverso per conoscere il mondo, Milano 2005. - Balandier 1997
G. Balandier, Préface in M.A. Fassassi, L’architecture en Afrique Noire, Parigi 1997. - Baudelaire [1861] 2005
C. Baudelaire, Il viaggio [Le voyage, 1861] in I fiori del male [Les fleurs du mal, Paris 1861], Torino 2005. - Canetti 2004
E. Canetti, Le voci di Marrakech [Die Stimmen von Marrakesch. Aufzeichnungen nach einer Reise, Regensburg 1967], Milano 2004. - Daumal [1952] 1991
R. Daumal, Il Monte Analogo [Le Mont Analogue, Paris 1952], Milano [1968] 1991. - de Certeau [1977] 2008
M. de Certeau, Introduzione, in Jules Verne, I Grandi navigatori del Settecento [Les Grands navigateurs du XVIIIe siècle, Paris 1977], Milano 2008. - Enzensberger 1998
H.M. Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza [Einzelheiten, Frankfurt am Main 1962], Roma 1998. - Godwin, Hopwood 2007
J. Godwin, G. Hopwood, The Architecture of Demas Nwoko, Lagos 2007. - Jiménez Torrecillas 2006
A. Jiménez Torrecillas, El viaje de vuelta. El encuentro da la contemporaneidad, Granada 2006. - Maraini 2010
D. Maraini, La seduzione dell’altrove, Milano 2010. - Mudimbe 2016
V. Mudimbe, Tales of Faith, London 2016. - Pasolini 1979
P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino 1979. - Rugafiori 1991
C. Rugafiori (a cura di), Di una certezza, in René Daumal, Il Monte Analogo [Le Mont Analogue, Paris 1952], Milano [1968] 1991.
English abstract
Palinsesto africano is the title of the picture introducing this short text, a intertwinement of some journeys I made as an architect and researcher in sub-Saharan Africa between 2012 and 2017 on the trail of the journeys and studies by Patrick Dujarric and Alan Vaughan-Richards (both European architects, though African by adoption), and by Demas N. Nwoko, a Nigerian architect-artist. Still active today, Nwoko was influenced by his cultural exchanges with Europe and America in the early 1960s. These architects share a sense of otherness as compared with the Modern Movement, with which they have however confronted themselves and tried to interpret it – within the specific context of the individual countries – in possible modern architectures hybridised with tradition. ‘Other’ and ‘elsewhere’ are terms that often appear in the contribution to underline not only, and not so much, the geographical distance of these places, but also implicitly the need to find alternative interpretations for them.
In the cases examined, travelling required a continuous effort to recognise the plurality of different cultures that overlapped and intertwined, thus mixing different architectures, places, and times. By discovering and tracing resonances, analogies, subtle correspondences or reinventions, some travel fragments have been recomposed.
keywords | Travel traces; Métissage; Reinvention; Alternative gaze; Senegal; Benin; Togo; Demas N. Nwoko; Patrick Dujarric; Alan Vaughan-Richards.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo: Flavia Vaccher, In viaggio nella mia Africa. Intrecci, corrispondenze, luoghi e tempi, ”La rivista di Engramma” n.196, novembre 2022, pp. 125-138 | PDF
To cite this article: Flavia Vaccher, In viaggio nella mia Africa. Intrecci, corrispondenze, luoghi e tempi, ”La rivista di Engramma” n.196, novembre 2022, pp. 125-138 | PDF