Guerra ai cliché
Gli studi su Mario Praz si sono concentrati principalmente sulle sue opere legate alla dimensione critica sia in campo letterario che artistico, mentre minore attenzione in genere è riservata ai saggi e ai libri che ha dedicato ai tanti luoghi visitati durante i suoi frequenti viaggi in giro per il mondo. Forse non centrali nella sua opera, tuttavia gli scritti di viaggio praziani meritano un posto d'onore all’interno del genere della travel literature. A prima vista, nelle pagine che descrivono viaggi e luoghi, Praz dà l'impressione di unirsi al coro dei tanti viaggiatori aristocratici, infastiditi dalla forzata convivenza con il turismo di massa: campo vastissimo che, nel Novecento, ha prodotto una grande quantità di testi, non sempre di alto livello. Tuttavia, sarebbe ingiusto appiattire su questo registro il suo contributo al genere della letteratura di viaggio.
I commenti di Praz sui suoi viaggi si trovano solitamente disseminati all’interno di altri testi, posti qua e là tra le pagine di sue opere per lo più dedicate all’arte e alla letteratura. Inoltre molti suoi appunti di viaggio, sfuggono all’attenzione di lettori e studiosi perché inseriti in articoli, poi raccolti in vari volumi, o sotto titoli che evocano soggetti diversi. All’interno di questo panorama disomogeneo fa eccezione il volume Penisola pentagonale. Pretesti spagnoli, scritto nel 1928, e tradotto in inglese l’anno successivo con il titolo più esplicito di Unromantic Spain, che spicca per l’insolito approccio organico alla poetica del viaggio una sorta di filosofia di fondo che indica al lettore la via per percepire compiutamente, e compiutamente descrivere i luoghi che lo scrittore si appresta a visitare (Praz 1928, Praz 1929).
Per far questo, Praz comincia con la destrutturazione dei miti che solitamente si trovano associati a certi luoghi, interrogando le ragioni in base alle quali si decide di compiere un determinato viaggio. Praz decide di adottare una forma che sia comprensibile a un pubblico più ampio possibile di lettori, non a una ristretta platea di accademici. E questo procedimento finisce per disvelare stereotipi e luoghi comuni del turismo che solitamente appaiono corredati della loro versione più banale, ovvero il souvenir. Figura emblematica del turista ingenuo è Alice, la “Broadway Blonde” o “Broadway Girl”, una creatura immaginaria praziana, più volte evocata in Penisola pentagonale (Praz 1928, 49, 51, 53, 55), che rappresenta la vittima di una serie di falsi miti – spesso presentati sotto specie di cliché pittoreschi – che la portano a dover affrontare spese e disagi, non sempre previsti.
Per sfatare miti e leggende di viaggi e viaggiatori, con le conseguenze che ne derivano, Praz sente la necessità di risalire al meccanismo che li ha generati. Il punto è trovare la chiave di volta che in poche parole o immagini sia in grado di condensare il significato di una visita a un luogo o a una città, ad esempio le notti bianche di San Pietroburgo, le fontane e le facciate barocche di Roma, ma anche concetti e idee più sofisticati e articolati, come i parchi e l’elegante discontinuità architettonica di Londra, contrapposta all’altera uniformità di Parigi.
Nelle pagine di Penisola pentagonale, in particolare, Praz ci racconta come e quando si sono cristallizzati gli stereotipi legati ai luoghi più noti: ed è nella cultura romantica e tardo-romantica, che egli vede due formidabili generatori di cliché, proprio nel momento in cui la letteratura di viaggio stava iniziando ad avere una diffusione di massa. Nel descrivere le città attraverso le loro principali attrazioni, Praz è in grado di fornire un punto di vista non comune: in alcuni casi sostituisce le descrizioni tradizionali con nuovi possibili prospettive e nuovi punti di vista, mentre in altri si limita a smascherare miti e stereotipi consolidati. In entrambe le circostanze, tuttavia, rivela quali siano i punti fissi convocati a caratterizzare i diversi luoghi, mettendo in essere potenti stereotipi. La mappa virtuale dei luoghi più significativi è in genere fornita da pittori e scrittori romantici, dai quali prendono spunto molte delle descrizioni di Praz.
È soprattutto Venezia a offrirgli un eccezionale caso-studio, dal momento che in poche altre città il romanticismo ha così fortemente plasmato la percezione collettiva, in particolare grazie alle visioni offerte da Lord Byron, Turner e Ruskin. Ma a parte il caso di Venezia, l’Italia risulta esclusa dalla potenziale lista dei luoghi preferiti da Praz. La ragione è forse da ricercarsi nella eccessiva prossimità del luogo rispetto al punto di vista dello scrittore.
La lontana Spagna, invece, sembra esprimere perfettamente un modello di rappresentazione stereotipata. Nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, lo scrittore di viaggi inglese Richard Ford (1796-1858) affermò che la Spagna era “the most romantic […] country in Europe, also enriched by a series of unique features” (Ford 1855, VII). Ma è soprattutto Théophile Gautier a essere indicato da Praz quale principale responsabile di una visione stereotipata della penisola Iberica basata sulla nozione romantica di ‘pittoresco’. Nella sua visione, la Spagna è il paese delle mantiglie e dei boleri, della corrida e del flamenco, dei toreri e delle dame vestite di nero: così emerge dalla raccolta di poesie España (1845), ispirata alla visita in Spagna che l’autore aveva compiuto nell’estate del 1840. Secondo Praz, Gautier ha profondamente influenzato la percezione comune della “penisola pentagonale”, ancor più di quanto avesse fatto Washington Irving con il suo popolarissimo libro sull’Alhambra. Pubblicato per la prima volta nel 1832 in due volumi, il primo dei quali l’autore firmò con lo pseudonimo di Geoffrey Crayon, The Alhambra: A Series of Tales and Sketches of the Moors and Spaniards si basa su di una miscela di storie fantasiose, pettegolezzi, impressioni e descrizioni stereotipate sia del sito che dell'area più ampia che lo circonda (Irving 1832). Il punto di vista antiromantico di Praz lo porta, al contrario, a descrivere la Penisola Iberica attraverso una lettura opposta, quasi paradossalmente rovesciata rispetto alle sue caratteristiche più note. Dichiara infatti: “Oggi chi viaggia in Spagna non tarda a notare che l’essenza di questo Paese sta proprio nell’antitesi del pittoresco, cioè in una grandiosa quanto schiacciante monotonia” (Praz 1928, 35). Praz visitò gran parte del paese per la prima volta nell’estate del 1926 e gli appunti che scrisse a margine di questo viaggio spagnolo sembrano anticipare ciò che in seguito avrebbe più ampiamente elaborato nelle pagine di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, il suo libro più famoso (Praz 1930).
Tra storia e letteratura (soprattutto inglese)
Praz ricorre anche alla sua scrittura per sbarazzarsi dei molti filtri che impediscono ai viaggiatori di avere una comprensione completa e articolata delle loro esperienze di viaggio. E ciò non vale soltanto per la Spagna. Una mappa precisa e variegata emerge infatti dal gran numero di articoli che descrivono i luoghi visitati dallo studioso dopo la Seconda guerra mondiale, articoli che saranno in parte raccolti nell’ultima sua miscellanea pubblicata nel 1982, l’anno della morte, con titolo Il mondo che ho visto (Praz 1982).
Nel suo ultimo libro, Praz non nasconde il suo debole per i paesaggi mediterranei, ma anche per i paesi anglosassoni estendendo la sua attenzione anche all’Australia e al Canada, assumendo però la Gran Bretagna e gli Stati Uniti come soggetti principali; in particolare, nelle città canadesi e australiane, Praz sembra essere sempre alla ricerca di legami e analogie con l’Inghilterra. È una ricerca di quelle che potremmo chiamare ‘assonanze visive’, quasi sempre arricchite da riferimenti letterari e artistici. Questo genere di descrizione dà le sue prove migliori nelle analisi dettagliate delle architettura d’interni, così come nelle ampie visioni del contesto urbano. Nel continente australiano, lo scrittore apprezza lo stile georgiano e neoclassico di Hobart in Tasmania, così come alcune forti impronte tardo-vittoriane visibili nelle strade di Melbourne, molto più che nella ben più famosa Sydney (Praz 1982, 302-306).
Non sorprende che siano britannici gli scrittori di viaggi, ma anche gli autori tout court, più frequentemente menzionati da Praz in questi saggi: si va da William Beckford a George B. Parker, da Robert Byron a Joseph Conrad. Inoltre, quando visita città e paesaggi delle ex colonie britanniche, Praz ci introduce alla loro descrizione attraverso il filtro della letteratura inglese. E così l'Egitto viene presentato attraverso le pagine del Quartetto d’Alessandria (1957-60) di Lawrence Durrell, o la lirica di Lord Byron “Addio a Malta” (1811). Già in Penisola pentagonale, pur trattandosi di una pubblicazione giovanile, Praz aveva mostrato non solo una conoscenza eccezionale della letteratura inglese, ma anche una non comune capacità di evocare riferimenti incrociati in una forma sorprendentemente comparativa. Ne Il mondo che ho visto si rivela maestro di questa tendenza.
A differenza di altri critici, soprattutto tra quelli imbevuti di letteratura e cultura britannica, Praz non ha pregiudizi nei confronti dell'America. Gli piace New York, e più specificamente Manhattan, che ai suoi occhi appare come “immensa nello spazio, effimera nel tempo” (Praz 1982, 132), come se si trattasse di un esercito di creature mastodontiche. In ciò risulta chiaramente influenzato da uno dei suoi modelli letterari principali, ossia Emilio Cecchi, che fu autore di America amara (1940), una raccolta di impressioni e osservazioni nate a seguito di due lunghi soggiorni negli Stati Uniti e in Messico, compiuti nei primi anni Trenta, all’inizio della Grande Depressione (Cecchi 1940). Su questa falsariga, Praz definisce New York come la città di “angoscia” e “terrore” (Praz 1982,133). Non è quindi un caso che, alle metropoli americane, egli preferisca le piccole città del New England, con la loro atmosfera tranquilla e rispettosa, e che apprezzi particolarmente i villaggi di pescatori della Nuova Scozia, che considera molto simili ai loro predecessori scozzesi: anche qui ci sono le case di legno dipinte in molti colori e perfettamente intonate al paesaggio circostante. Più che il deserto, Praz ama quei contesti in cui l'elemento naturale si fonde con un contesto urbano: è il caso della scacchiera di Washington DC, inaspettatamente immersa in profondi burroni – come il Rock Creek Park che taglia in due la città e si insinua nel contesto urbano.
Nei saggi del Mondo che ho visto, quando Praz non può appoggiarsi a paralleli visivi o letterari con la cultura inglese, passa ad analizzare i tipi umani di provenienza britannica – o gli “Inglesitos”, come li aveva chiamati in Penisola pentagonale, dove li aveva definiti un archetipo turistico a parte (Praz 1928, X e 60; poi ripreso nella versione italiana di Unromantic Spain). Diverse categorie di viaggiatori sono da lui riassunte in alcuni stereotipi che vanno dalle persone non acculturate e ingenue (vittime ideali di scippo materiale e culturale), alle persone raffinate, che sono allo stesso tempo intenditori d'arte e amanti del bello. Molto prevedibilmente Praz si identifica con il secondo gruppo, di cui spesso prende a prestito gusti e atteggiamenti snob, insieme ad alcuni tic culturali. Seguendo questa rotta, l’autore di Penisola pentagonale va indietro nel tempo e rivolge l’attenzione ai turisti vittoriani e legge i loro comportamenti attraverso la chiave interpretativa per cui i viaggi in terre lontane appaiono come il rovescio della vita in patria: se il viaggio è l’avventura emozionante nei suoi colori sgargianti, la vita in patria appare triste, grigia e monotona. Si aggiunga che, al di là delle emozioni visive, i paesi esotici offrono continue opportunità di trasgredire le regole su cui l'ordine della società vittoriana risulta basato.
Praz comunque non è il primo a usare l’antitesi come una lente per gettare luce sugli scopi non detti di un viaggio. Ad esempio, Marc Fumaroli, nel suo Chateaubriand : Poèsie et Terreur, legge nelle descrizioni di alcuni autori francesi della prima metà dell'Ottocento la ricerca dell'innocenza perduta con la Rivoluzione del 1789. Un chiaro esempio sono le pagine di Chateaubriand sui suoi viaggi in Italia e Spagna: Fumaroli fa riferimento anche a Stendhal e Madame de Staël nelle loro descrizioni di Roma e di altri luoghi in cui è ancora possibile vedere processioni religiose e atti di devozione a santi patroni – manifestazioni che appaiono scomparse, o drasticamente ridimensionate, nella Francia contemporanea. In questi casi il viaggio a lunga distanza diventa uno strumento retorico per illuminare aspetti cruciali legati a un determinato periodo storico. Assumendo questo punto di vista, potremmo affermare che esistono viaggiatori ‘veri’ e viaggiatori ‘falsi’: da una parte stanno quelli che vedono nel viaggio un’occasione per descrivere i luoghi e, dall’altra, quelli che lo prendono come pretesto per parlare di altro. La maggior parte degli scritti di Praz rivela che egli appartiene senza dubbio alla prima delle due categorie, secondo una visione dove letteratura e arte sono strettamente legate alla storia che, ancor più di arte e letteratura, è la chiave per comprendere e introdurre il soggetto delle sue descrizioni.
Nella scelta, Praz non privilegia i luoghi con una densità storica particolarmente elevata: il suo sguardo non si limita a Roma, ad Atene o al Cairo, ma si estende al Nuovo mondo senza alcun atteggiamento preconcetto o pretesa di superiorità culturale di un luogo rispetto a un altro. Se Roma appare sopraffatta e sconcertata dalla propria storia gloriosa, le città americane mostrano generalmente un rapporto più equilibrato con il passato: là, i pochi capisaldi dedicati alla storia meglio esprimono il senso del tempo trascorso, nonostante la loro data di nascita recente rispetto a simili siti europei. È questo il caso delle case-museo, come quelli di Nathaniel Hawthorne a Salem, o di George Washington nei pressi della capitale statunitense, di cui Praz apprezza il tono di sobrietà, oltre che la coerenza (Praz 1922, 118-23): in questo senso Praz giunge ad apprezzare le parate in maschera che vede sfilare a Williamsburg, Richmond o Charlottesville, dove lo spirito dell'era coloniale è evocato da falsi soldati in uniforme e da donne in costume d’epoca.
Sia nel vecchio che nel nuovo continente Praz va alla ricerca di una coerenza stilistica, che di fatto è il criterio che finisce per determinare le sue preferenze di amante dell’arte e lo guida nel raccogliere le sue eccezionali collezioni di oggetti. Si tratta di concordanze stilistiche e cronologiche tra interno ed esterno, tra architettura e allestimento degli interni, e, soprattutto, tra le diverse parti e il tutto. In altre parole, a Praz non piace il bric-à-brac, non apprezza l'abbinamento casuale di oggetti rari e preziosi che può aver trovato in quelle che furono colonie britanniche, in particolare in Australia, sia nei musei che nelle case dei collezionisti. Considerata da questo punto di vista, la sua residenza romana – resa famosa da La casa della vita (1958) – incarna e finisce per replicare quella che potremmo definire una strategia di osservazione, messa in atto durante i viaggi e le visite turistiche. La Casa Museo di Mario Praz può essere perciò considerata come la materializzazione di un atteggiamento critico che osserva e descrive gli oggetti più disparati, alla ricerca di una loro intrinseca coerenza.
Che agisca da viaggiatore o da collezionista, Praz sembra privilegiare l’unità di tempo e l’unità di stile, a volte a spese della stessa bellezza; questa ricercata unità a volte è legata a un unico frammento capace di esprimere il tutto, secondo un concetto che sarà chiarito nelle pagine del suo scritto sulla sua casa (Praz 1958).
La visione dell'architettura
La nozione stessa di coerenza stilistica troverà piena espressione in un testo dedicato ai temi dell'arredamento e della decorazione d'interni: La filosofia dell'arredamento, che riguarda i mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall'antica Roma ai nostri tempi, è pubblicato per la prima volta nel 1945 (Praz 1945). Si tratta di un volume i cui contenuti sono apparentemente molto lontani dal campo d’interessi e dalle ricerche tipiche di uno studioso di letteratura, ma proprio gli studi condotti su quel tema conferiranno a Praz una reputazione internazionale di esperto nel campo delle arti applicate. La sua fama aumenterà poi con la pubblicazione de La casa della vita, il libro che rivelò pienamente le sue eccezionali qualità di art connoisseur e la sua speciale abilità nello scoprire e nel collezionare oggetti apparentemente insignificanti.
Come si conferma nelle pubblicazioni successive, la preferenza di Praz va allo stile neoclassico. Non si tratta, va detto, di un’adesione astratta, perché egli si rivela capace di trovare la coerenze che legano insieme la dimensione dell’imponente colonnato al piccolo soprammobile – apparentemente insignificante – o al pezzo di mobilio tipico dell’epoca. Tuttavia, Praz ama la prospettiva monumentale di San Pietroburgo, le ordinate facciate di Bloomsbury, le ampie strade della contemporanea Edimburgo e della Varsavia per sempre perduta dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale (Praz 1982. 480-86, 322-26 e 459-65).
Questo concetto è sviluppato da Praz in un libro più esplicitamente dedicato all’architettura, ossia Gusto neoclassico (Praz 1940). Si tratta di un volume che ha consacrato Praz come grande esperto sul tema, anche agli occhi degli studiosi di architettura, specialmente verso la fine degli anni Sessanta, quando in Italia sembravano mancare specialisti di quella materia. Tra le altre qualità del saggio, si rileva che Praz è uno dei pochissimi studiosi in grado di parlare di arredamento collocandolo all’interno di un contesto storico-critico e rivelando una conoscenza non superficiale sia dei principi dell’estetica, sia della storia dell’evoluzione del gusto. Di Gusto neoclassico è stata soprattutto apprezzata la capacità di raccordare gli oggetti materiali a raffigurazioni di dimensioni diverse: dalle arti applicate all'architettura tout court, fino a comprendere anche la scala urbana. Praz dà prova di una capacità unica nell’associare il grande al piccolo, trovando connessioni originali ma sempre pertinenti tra loro. Questa dote emerge con netta evidenza quando si tratta di singoli manufatti dell’epoca napoleonica: si tratta quindi di opere appartenenti a categorie stilistiche assodate come Impero, Regency o Biedermeier. Riconosciuto come grande esperto di neoclassicismo, Praz fu anche invitato a collaborare con il Centro Palladio di Vicenza. Qui, nel 1971 partecipò al seminario internazionale dedicato alla “Problematica del Neoclassicismo”, il cui esito sono due articoli, pubblicati insieme nello stesso numero della rivista del Centro Palladio, che includeva articoli di John Summerson, Erik Forssman e Rosario Assunto. In questa occasione, Praz si dimostra ancora una volta in grado di spaziare dall'architettura a scala urbana fino alle arti applicate: Palladio e il Neoclassicismo, e Le arti minori nel periodo neoclassico (Praz 1971a e Praz 1971b).
Praz esprime le sue opinioni sull'architettura moderna anche nei suoi scritti di viaggio, come hanno fatto d’altra parte altri scrittori di viaggio italiani che appartengono alla sua generazione, come Guido Piovene e il già citato Cecchi. Nonostante un’innata prudenza nel dare giudizi tranchant, Praz rivela un certo disagio quando deve descrivere edifici contemporanei, per i quali usa una serie di metafore non proprio benevole come “semplici cubi”, o “dadi bianchi”, o “scatole troppo regolari” (Praz 1982, 175-80 e 264-69). In questi casi il principio della coerenza stilistica non basta a dissipare i pregiudizi di Praz che sono solo parzialmente dissimulati: “Freddo come una stanza d'ospedale” è un'espressione ricorrente quando incontra capolavori contemporanei, che pur concepisce come opera d'arte completa. In quei casi, tuttavia, l'unità di stile non è considerata un valore in sé.
Valori legati sia ai siti naturali che ai contesti urbani possono però controbilanciare le carenze dell'architettura moderna, da Praz giudicata monotona, aggiungendovi motivi di speciale interesse. Di conseguenza, di fronte alla nuova parata di edifici di Capocabana, Praz ama il carattere di sfida visiva nei confronti delle grandi onde dell’oceano. Ai suoi occhi, questa brillante sequenza di facciate bianche appare come una specie di Chicago tropicale che, dalle sponde del lago Michigan, viene trapiantata sulle spiagge brasiliane. Praz, d'altra parte, non ama Brasília, che vede come fredda composizione di dadi bianchi gettati su uno sfondo di terra rossa e di magnifici tramonti. Ancora una volta il contesto emerge come protagonista, in parte compensando la monotonia, se non la scarsa rilevanza artistica, dei complessi architettonici di timbro modernista.
Lo stesso legame tra architettura e paesaggio sta infatti alla base di molte descrizioni in altri suoi saggi e volumi, come ad esempio in Viaggio in Grecia. Diario del 1931, pubblicato nel 1942 (Praz 1942). Va notato che, anche in questa circostanza, Praz ha condiviso le sue scelte di viaggio e gusti con Cecchi, che avrebbe visitato lo stesso paese nell'estate del 1934 e raccontato la sua esperienza in un suo Viaggio in Grecia, pubblicato due anni più tardi. Come precedentemente osservato, Cecchi era considerato da Praz come una sorta di maestro, che aveva anticipato in Italia un interesse per la letteratura e la cultura inglese. I due furono impegnati in un dialogo intellettuale lungo e impegnato, come testimoniato dai loro scambi epistolari a partire dal 1921.
Il relativismo praziano
Nell’introdurre la raccolta di articoli inediti intitolata Il mondo che ho visto, Praz rivela che il suo obiettivo principale come scrittore di viaggi è quello di descrivere città e luoghi ai tempi del turismo di massa, nel momento in cui termini come ‘sorpresa’ ed ‘esotismo’ non hanno più alcun senso (Praz 1982, 14). In precedenza le due categorie rappresentavano le ragioni e gli ingredienti principali di un viaggio, che ora risulta invece sovraccaricato da una grande quantità di immagini e informazioni: la tradizionale unità spazio-temporale non è più sufficiente per descrivere adeguatamente luoghi diversi, sparsi in tutto il mondo.
Questi concetti sono espressi non solo ne Il mondo che ho visto, ma anche in un'altra raccolta di articoli, dedicati all’Europa e all’America: Viaggi in Occidente, che contiene descrizioni di Grecia, Corsica, Stati Uniti, Inghilterra e Scozia (Praz 1955). La parola ‘occidente’ nel titolo si riferisce alla presenza di saggi dedicati alle due sponde dell’Atlantico. Nel volume, così come ne Il mondo che ho visto, Praz richiama la necessità di un radicale rinnovamento della letteratura di viaggio.
Dopo aver visitato Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, Praz scrive pagine sul Brasile e il suo intento di spezzare una catena di pregiudizi sull'architettura. In queste città latino-americane, Praz è particolarmente attratto dall’Art Nouveau, di cui ama ville e bungalow, in origine lussuosi ed ora trasformati in rovine tanto desolate quanto affascinanti. A suo giudizio, nessuno stile in Sud America esprime un senso di decadenza così forte come l'Art Nouveau, o stile Liberty, come viene chiamato in italiano; in quei paesi, l'architettura di quella fase artistica appare nel presente sporca e sfigurata, quando non addirittura distrutta, dall’azione dirompente del tempo e della natura. Per descrivere la situazione, Praz la butta sul patetico, paragonando queste costruzioni a una vecchia prostituta vicina al crollo finale, dopo lo sforzo di una vita per apparire seducente (Praz 1982, 173). In generale, sia Salvador de Bahia che Rio de Janeiro sembrano essere caratterizzati da quella che Praz definisce come una “pittoresca trasandatezza”, che rende quei centri simili a Napoli (Praz 1982, 173). Là, a suo avviso, avviene il contrario di ciò che si può osservare nelle città anglosassoni di tutto il mondo, dalla Nuova Zelanda al Canada, con le loro file ordinate ma monotone di “bungalow”: è questa la parola che Praz usa di norma per designare i cottage e altri tipi di case singole situate in qualsiasi paese di lingua inglese (Praz 1982, 305).
Sempre seguendo il principio del disordine pittoresco, Praz è anche attratto da Petropolis, il centro nei pressi di Rio che, fino al 1889, fu residenza di campagna della famiglia imperiale. Il complesso di edifici gli appare in “meravigliosa decadenza” (Praz 1982, 175), come se appartenessero a una città in decomposizione, soffocata dai miasmi della vegetazione tropicale. In quanto specchio del passato potere politico, Praz mostra di apprezzare questa “Baden-Baden tropicale” (Praz 1982, 179) molto più di Brasília, la capitale fondata di recente in mezzo al deserto, che gli appare caratterizzata da volumi sovradimensionati, come se si trattasse di un’altra, moderna, Persepoli (Praz 1982, 175). Con le loro facciate trascurate, le ville e i bungalow di Bahia e di Rio possono gettare le basi di un potenziale museo, a scala mondiale, dedicato al “cattivo gusto” (Praz 1982, 173). In ogni caso, egli ritiene che una istituzione di questo tipo dovrebbe trovare posto in un sobborgo, uno dei tanti, dell’America Latina.
Dalle pagine di Praz dedicate sia al Sud America che ad altre esperienze di viaggio, emerge una ben definita nozione di relativismo spazio-temporale. A suo avviso, l’osservatore deve sempre essere consapevole dell’epoca in cui vive e del contesto da cui proviene, includendovi il proprio background culturale e il proprio percorso educativo. Nella coscienza della soggettività del punto di vista, ogni luogo, e anche ogni oggetto, può cambiare caratteristiche, colori e significati a seconda della diversità dello sguardo. Ne consegue che, secondo Praz, gli scrittori di viaggi dovrebbero mantenere la giusta distanza dal mondo che sono chiamati a descrivere.
Che la moderna rapidità delle comunicazioni possa accorciare le distanze è una pura illusione e colpisce soprattutto la letteratura di profilo più basso e popolare, anche quando si tratta di guide dedicate a luoghi remoti. A tale proposito, Praz fa riferimento al caso del protagonista del racconto Giovinezza (1898) di Joseph Conrad, naufragato su una lontana riva d’oriente. Agli occhi del personaggio conradiano, anche il colore del cielo sembrava diverso da quello percepito dagli indigeni. È questo l’esempio con cui Praz introduce la visita a Baalbek (Praz, 227-28), dove la popolazione locale guarda le antiche rovine con un atteggiamento totalmente diverso da quello dei turisti venuti da lontano.
Luoghi comuni e stereotipi forniscono al viaggiatore la falsa illusione di comprendere le cose all’istante, come se si trattasse di una scorciatoia verso la verità. Al contrario, Praz pensa che soltanto una ricerca umile e paziente possa evitare al visitatore avveduto il rischio di una percezione ingannevole: lo aveva inizialmente suggerito a proposito della Spagna, ma in realtà questo tipo di approccio è valido ovunque. L’esperienza visiva di tipo diretto ai luoghi visitati dovrebbe essere poi completata e integrata da numerosi riferimenti (anche frammentari) alla letteratura e alla storia dell'arte. Ciò corrisponde a quanto espresso da Praz nella prefazione a Voce dietro la scena, un’antologia personale, raccolta uscita nel 1980 in forma di dichiarazione finale sulla sua lunga carriera di critico letterario (Praz 1980). Nel volume Praz parla di se stesso come di uno studioso capace di cimentarsi, con competenza e perspicacia, sia con i singoli frammenti che con il tutto.
Alla fine, il viaggiatore/osservatore Praz intende basarsi solo su ciò che può vedere direttamente, meglio se filtrato attraverso una conoscenza non superficiale della geografia locale, della storia e della letteratura. Da questo punto di vista, le sue descrizioni assomigliano molto a quelle proprie di quella che è stata definita “letteratura odeporica”, la forma espressiva di autori inglesi come Bruce Chatwin e, ancora meglio, Patrick Leigh Fermor che amavano viaggiare a piedi, quando possibile. In altre parole, Lord Fermor, Chatwin e lo stesso Praz, indipendentemente dai luoghi che devono descrivere, siano essi i Balcani, la Spagna o la Patagonia, condividono un punto di prospettiva e di metodo: un approccio induttivo che procede dal basso verso l'alto, e la fiducia soltanto in ciò che possono vedere e analizzare di persona.
*Una prima e diversa redazione di questo contributo è stata pubblicata in inglese nel volume Mario Praz: Voice Centre Stage, edited by Elisa Bizzotto, Oxford 2019. pp. 153-166.
Riferimenti bibliografici
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M. Praz, Viaggio in Grecia. Diario del 1931, Roma 1942. - Praz 1945
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M. Praz, Palladio e il Neoclassicismo, “Bollettino CISA”, 13, 1971, 9-27. - Praz 1971b
M. Praz, Le Arti Minori nel periodo neoclassico, “Bollettino CISA”, 13, 1971, 122-40. - Praz 1980
M. Praz, Voce dietro la scena, Milano 1980. - Praz 1982
M. Praz, Il mondo che ho visto, Milano 1982.
English abstract
The article explores Mario Praz’s travel literature by emphasising his tendency to bring out the spirit of places. Praz’s eye for architecture, urban landscapes, and tourist highlights, as well as for the tourists themselves, reveals his idea of travelling as a renegotiation of stereotypes.
keywords | Mario Praz; Travel literature; Architecture; Travelling stereotypes.
il numero 196 di Engramma è a inviti: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista.
Per citare questo articolo: Giudo Zucconi, Mario Praz, viaggiatore antiromantico, ”La rivista di Engramma” n.196, novembre 2022, pp. 139-153 | PDF
To cite this article: Giudo Zucconi, Mario Praz, viaggiatore antiromantico, ”La rivista di Engramma” n.196, november 2022, pp. 139-153 | PDF