"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

196 | novembre 2022

97888948401

“Food for thought”

Il viaggio lento da Venezia all’India di Dolf Schnebli (1928-2009)

Isotta Forni e Luisa Smeragliuolo Perrotta

English abstract

Sovrapposizione della mappa del viaggio (D. Schnebli, Ein Jahr auf dem Landweg von Venedig nach Indien. Fotoskizzen einer langsamen Reise 1956. One year from Venice to India by the Land Route. 1956: Photosketches of a slow journey , Zurigo 2009, 6-7) su una pagina del catalogo della mostra all’ETH del 1984 (D. Schnebli, 1984. Architekt. Entwurfsunterricht an der Architekturabteilung. Lehrstuhl für Architektur und Entwurf 1971–84 , Zurigo 2009, 78, [gta Archives / ETH Zurich, Dolf Schnebli]).

Dolf Schnebli è stato un importante architetto svizzero e stimato docente all’ETH di Zurigo. Nel 1956, in compagnia della moglie Clarissa, parte a bordo di un Maggiolino Volkswagen e compie un lento e lungo viaggio verso l’Oriente che segna profondamente il suo modo di intendere e di insegnare l’architettura.

L’anno precedente è in America, presso la Harvard Graduate School of Design, dove studia e collabora all’insegnamento dei corsi del primo anno con Serge Chermayeff. Partecipa alla selezione indetta ogni anno dalla scuola per la Arthur W. Wheelwright Traveling Fellowship. Si tratta di una borsa di studio che consente ai giovani studenti di viaggiare per un anno fuori dagli Stati Uniti. Schnebli propone un itinerario di viaggio da Venezia all’India, “to experience architectural history, to visit the buildings of the past, the ruins and the important archaeological sites, as well as the buildings of today” (Schnebli 2009, 8) [per fare esperienza della storia dell’architettura, visitare gli edifici del passato, le rovine e gli importanti siti archeologici, così come anche gli edifici di oggi]. Il suo obiettivo è incontrare persone e culture diverse, comprendere le questioni che affrontano i paesi in via di sviluppo ed osservare i progressi degli Stati Uniti d’America e dell’Europa con gli occhi dell’Oriente. Vince la selezione ed ottiene la prestigiosa borsa. Ha 28 anni quando inizia il suo viaggio.

La borsa Wheelwright è l’occasione per Schnebli per intraprendere un viaggio di formazione determinante per la sua futura carriera di architetto e di docente. Le idee spaziali e le suggestioni dei luoghi visitati in quell’anno sono diventati riferimenti importanti per le sue architetture. Schnebli lo ricorda in diverse occasioni di progetto, citando luoghi, aneddoti e scene di vita quotidiana che restano impresse nella sua memoria.

Durante il viaggio la macchina fotografica è il tramite dell’esperienza. Attraverso la sua fidata Leica, seleziona viste e descrive luoghi e paesaggi. Definisce le sue foto photosketches, sottolineando l’intenzione del fotografare per fissare nell’immagine frammenti di spazi e di luoghi conosciuti. Stampa le foto in bianco e nero e le raccoglie in quaderni di schizzi organizzati come una lettura in sequenza di luoghi e di suggestioni spaziali.

I photosketches sono materiali privati dell’architetto. Le memorie del suo viaggio restano per lo più sconosciute per cinquant’anni. Solo nel 2009 decide di raccoglierle in un libro grazie all’interesse della figlia Raffaella che riprende il materiale fotografico del viaggio per utilizzarlo a stampa su un muro all'interno di un progetto di una clinica a Zurigo. Nello stesso periodo Schnebli riceve il testo A defining journey che raccoglie la memoria di sessanta anni di esperienze di studenti che hanno ricevuto la borsa Wheelwright. Riguardare le sue foto e la lettura delle memorie degli altri borsisti lo entusiasmano e lo incoraggiano a ritornare sul suo viaggio, per raccontarlo.

Il libro, dal titolo One Year from Venice to India by the Land Route, è una raccolta di foto con brevi testi di accompagnamento. I testi non sono descrittivi ma sono pensieri, impressioni e ricordi di cose accadute, di persone incontrate lungo il percorso. Le foto sono in bianco e nero e di diversi formati; alcune sono disposte a pagina intera, altre invece sono accostate in sequenza. Il racconto è un flusso continuo di immagini e parole. È interrotto solo da mappe, in corrispondenza di ogni attraversamento di confine, che indicano le tappe principali del percorso.

Nella postfazione al libro Schnebli annota che il loro lento viaggio in India fornisce ancora, dopo più di cinquanta anni, “food for thought” (Schnebli 2009, 267), sottolineando il valore del viaggio come nutrimento. Racconta che i photosketches ed i brevi testi di commento sono una ricchezza che è rimasta sedimentata nella sua persona, alimentando quel processo di conoscenza continua che lo ha caratterizzato da autodidatta nella sua carriera di architetto. In questo processo la borsa Wheelwright, un monumento alla generosità americana (Schnebli 2009, 8), è un evento particolarmente importante perché gli offre l’opportunità di viaggiare, confrontarsi con un mondo altro e contribuisce a creare un personale immaginario di idee a cui l’architetto attinge in maniera continua e che utilizza creativamente all’interno dei suoi lavori.

L’itinerario

È l’architetto Josep Lluís Sert, allora preside alla Harvard Graduate School of Design, a contattare telefonicamente Schnebli per comunicargli di aver vinto la borsa Wheelwright. Prima di intraprendere il suo viaggio in Oriente, visita gli Stati Uniti e collabora due mesi con Sert al progetto della sede dell’ambasciata americana a Baghdad. Torna in Europa, in Svizzera. All’ETH mostra ad amici e colleghi le foto scattate nel suo viaggio negli Stati Uniti aprendo una finestra su un paese ancora poco conosciuto in quegli anni a Zurigo.

Con Clarissa, partono da Venezia in direzione est attraversando la Jugoslavia, la Grecia, la Turchia, la Siria, il Libano, la Giordania, l'Iraq, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India. Tornano a Venezia nel mese di dicembre dello stesso anno. La scelta di Venezia come punto di partenza ha un significato speciale per l’architetto. Schnebli è già stato qui 4 anni prima, nel 1952, in occasione della Summer School del CIAM. Per due mesi ha lavorato ad un tema di progetto sull’isola della Giudecca insieme ad altri giovani studenti provenienti da diversi ambiti europei ed internazionali. Nelle aule della scuola di architettura – che ricorda aperte notte e giorno – entra in contatto con importanti architetti. Sono docenti e tutor della Summer School Ernesto Rogers, Franco Albini, Ignazio Gardella, Giuseppe Samonà, Carlo Scarpa, Giancarlo De Carlo, Gino Valle e Tom McNulty. Ascolta le lezioni tenute da Le Corbusier e da Bruno Zevi, visita la villa Malcontenta di Andrea Palladio. Vive la città ed entra in contatto con diversi ambiti della scena culturale ed artistica veneziana.

Questa esperienza, così ricca di stimoli, gli fa mettere in discussione la sua conoscenza dell’architettura al punto da portarlo a prendere la decisione “to emigrate to the New World of USA” (Schnebli 2009, 13), dove vince la borsa Wheelwright. La partenza da Venezia è dunque un atto dovuto, un debito culturale nei confronti della città che ha ispirato il suo viaggio in America per ricominciare ad imparare l’architettura. Da Venezia dunque decide di intraprende il viaggio verso l’Oriente, per proseguire la sua formazione.

Venezia è colta dalla neve nel gennaio del 1956 quando Schnebli inizia il suo viaggio. Da qui attraversano il territorio della ex Jugoslavia e giungono in Grecia. Arrivano in tarda serata ad Atene e Schnebli ricorda la trepida attesa del giorno seguente, quello in cui avrebbero visitato il Partenone con alla mente le descrizioni di Le Corbusier in Vers une architecture. Sull’Acropoli Schnebli è meravigliato di quanto tutto sia così precisamente misurato e proporzionato. La perfetta corrispondenza di ogni singola parte all’intero è un sentimento che si trasferisce dall’architettura in maniera diretta alla loro persona. Immersi in quel paesaggio, si sentono parte dell’intero universo. Dopo Atene, il viaggio prosegue in Grecia alternando isole e terraferma alla ricerca delle forme spontanee dell’architettura locale. Al confine tra Grecia e Turchia, per la prima volta, avvertono la sensazione di entrare in Oriente. Istanbul in particolare è uno spartiacque tra i due mondi. Qui osserva le moschee e lo spazio pubblico al loro intorno. “City planning includes architectural spaces” (Schnebli 2009, 60) [La pianificazione urbana comprende gli spazi architettonici], annota nel libro a margine delle fotografie.

Nell’ultimo tratto della tappa in Turchia, intenti a montare la tenda per campeggiare sotto le stelle a due passi dai resti di un antico teatro, sono avvicinati da un uomo del luogo che li invita a trascorrere la notte nella sua casa. Schnebli resta colpito dalla calda accoglienza della popolazione locale. Pensa di aver vissuto un frammento di vita autentica in una parte del territorio dove il turismo non è arrivato. Al confine con la Siria, si imbattono nell’incombenza burocratica del rinnovo del visto. Il funzionario dell’ufficio cancella con la penna lo stato di Israele dalla loro mappa. Si accorgono di essere in un territorio conteso dove la situazione socio-politica non è rassicurante. Ad Amman e a Baghdad incontra alcuni giovani palestinesi con cui si intrattiene a discutere sui processi di modernizzazione del paese che lentamente si sta avvicinando all’Occidente pagando per questo un prezzo molto alto in termini sociali e culturali. Sullo sfondo dei racconti sono descritti momenti conviviali dove l’amarezza delle cronache lascia spazio alle atmosfere festose dei raduni popolari. Le persone si incontrano in gruppo per mangiare pesce fresco arrostito sulle braci lungo le rive del Tigri e si intrattiene con danze e canti.

Da Baghdad fino al confine con l’Iran attraversano lande desolate e sedimenti di sabbia tra alte montagne. A Teheran è impressionato dagli splendidi colori delle ceramiche iraniane che brillano ancora di più al contatto con la luce del sole. Le foto ritagliano angoli di città dall’interno di spazi coperti o porticati indugiando sulla profonda ombra che si affaccia all’esterno, verso lo spazio all’aperto e inondato di luce. Lo sguardo dell’architetto si sofferma sugli specchi d’acqua e sui padiglioni costruiti sulle rive dei fiumi dove l’architettura riflette sé stessa. Sui pochi gradini che separano la parte costruita della città dalla riva fotografa bambini intenti a giocare. Ombra, luce, proporzione e ritmo sono le parole chiave che utilizza nei suoi appunti.

In Afghanistan Schnebli è interrogato sul suo visto scaduto dal giovane Ministro dell’Interno. Un uomo e una donna occidentali che percorrono un lungo viaggio fotografando il paese è un evento che suscita curiosità e preoccupazione. Spiega le ragioni del suo viaggio e il forte desiderio di imparare da posti lontani per comprendere meglio il posto da cui viene, conoscere luoghi e territori in cui ancora possono essere evitati gli errori del mondo occidentale. Il Ministro gli ricorda l’importanza per l’Oriente di imparare dall’Occidente, l’architetto svizzero gli ribatte assicurandogli il contrario, il mondo occidentale deve ancora imparare molto dalla cultura orientale ed è sua intenzione dimostrarlo attraverso il suo viaggio.

Il viaggio lento in Afghanistan diventa ancora più lento per le condizioni disastrose delle strade. Lungo il percorso sosta nelle case del tè. Si tratta di spazi all’aperto organizzati come interni. Ci sono dispense in legno dove sono riposte tazze e stoviglie. All’ombra degli alberi invece, su piani rialzati, sono disposti lunghi teli colorati dove sedersi. A Kabul Schnebli visita il padiglione USA per la fiera internazionale realizzato con una cupola reticolare di Buckminster Fuller. Il confine tra l'Afghanistan e l’India è segnato da un paesaggio desolante. Arrivati in India, invece, il paesaggio cambia ed è verde lussureggiante. La prima città che incontrano è Peshawar, straripante di negozi e persone.

Le foto catturano l’architettura delle ombre ed i motivi geometrici del pavimento come tappeti di pietra. In pietra sono gli schermi trasparenti che caratterizzano i muri e che disegnano geometrie di pieni e vuoti che fanno da filtro alla luce del sole. Qui i profondi porticati sono spazi coperti necessari per proteggersi dal sole d’estate e dalle piogge intense.

“The slow trip to India was in many respects my spiritual preparation for the experience of trying to understand the new city built by Le Corbusier" (Schnebli 2009, 247) [Il mio viaggio lento verso l’India è stato sotto molti aspetti la mia preparazione spirituale per cercare di capire la nuova città progettata da Le Corbusier], scrive l’architetto svizzero. Grazie ad una lettera di presentazione di Sert, incontra Jeanneret, socio di Le Corbusier a Parigi, trasferito a Chandigarh per seguire la costruzione della nuova città. L’incontro con l’architetto francese è un momento saliente del viaggio. Lo studio professionale dove Jeanneret lavora con i suoi giovani collaboratori indiani è agli occhi di Schnebli “the most inspiring school of architecture I ever visited" (Schnebli 2009, 247) [la più stimolante scuola di architettura che abbia mai visto]. Qui, sui tavoli da lavoro, osserva i disegni originali degli edifici in costruzione. L’alternanza di pieni e di vuoti, organizzati come grandi piani verdi, crea continuità con l’ambiente naturale e rende la città in perfetta sintonia con la tradizione indiana. “Chandigarh a piece of India” (Schnebli 2009, 249), commenta Schnebli.

Visita l’edificio completo e già in uso della sede dell’Alta Corte ed i cantieri dove lavorano insieme donne, uomini e asini che trasportano i materiali da costruzione. L’organizzazione del lavoro gli ricorda gli affreschi italiani in cui sono raffigurati i cantieri di epoca medioevale nel momento in cui si costruiscono le possenti cattedrali.

Il libro del viaggio si chiude con una sequenza di foto che mostrano l’organizzazione di un evento pubblico, una festa, sul sito dove sorgerà il Centro Civico. Uomini e donne, insieme con gli operai del cantiere, ballano e cantano intorno a un pupazzo di carta che progressivamente si riempie di aria fino a volare libero nel cielo. Questi volti sorridenti e questa vita intorno all’architettura sono quello che sognava Le Corbusier quando ha disegnato la sua Chandigarh. Le ultime parole del libro sono per il ricordo di un incontro a New York nel 2001 con un tassista che gli aveva confessato orgogliosamente di essere cittadino di Chandigarh, l’unica città ben organizzata dell’India (Schnebli 2009, 259).

“Trying to understand the past to be able to see the present”. Oggetto e modi del guardare

Lo strumento prescelto per registrare le esperienze del lento viaggio in Oriente è principalmente quello fotografico. Nel libro non ci sono appunti o schizzi ma un insieme davvero notevole di scatti in bianco e nero che Schnebli denota significativamente come photosketches. Raccolti come stampe a contatto in tre sketchbooks, sono stati riferimento costante sia della sua attività di progettista che di docente. Pochi anni prima della morte ne raccoglie una selezione, aggiunge brevissimi commenti e li pubblica. I photosketches legano così i primi e gli ultimi passi dell’architetto, ne documentano la continuità di ricerca attraverso la visione giovanile e le considerazioni senili.

Siti archeologici e moderne città, architetture monumentali e piccole case, paesaggi naturali e spazi urbani, sequenze spaziali e dettagli, manufatti, tecniche, modi di vita, volti. Sfogliando i photosketches, lo sguardo del giovane Schnebli appare molto ampio, inclusivo, complesso. L’architettura si rivela al centro del suo interesse solo in un'accezione molto ampia e moderna. Più che gli edifici indaga i modi dell’abitare nella varietà di spazi geografici e di tempi storici che il percorso gli offre. Senza pregiudiziali scelte tematiche, registra i modi del costruire e del fare umano – tessere, pescare, arare, insediarsi, incontrarsi – in luoghi, climi e civiltà differenti. Studia la relazione che lega comunità e ambiente, opera dell’uomo ed opera di natura, spaziando dalla Creta minoica e dalla Grecia classica alle case dei pescatori ionici e dei contadini iraniani; dall'acropoli di Atene alle moschee di Istanbul, ai templi buddisti ed indù immersi nella natura; dalle città ellenistiche agli agglomerati nomadi afgani fino a Chandigarh in costruzione. La sua macchina fotografica non registra il pittoresco, ma il tipico, l’essenziale mostrando le ragioni del viaggio, della direzione e dell’apertura del suo sguardo: individuare nella storia e nella geografia modi e temi potenziali di sviluppo nel progetto. Al margine dei bellissimi scatti dedicati alla Acropoli di Atene appunta nel suo stile telegrafico:

The astonishing experience of the ancient art of Greek architecture – five days of lasting sensual impressions – the best preparation for investigating the architectural remnants of the past – the contrasting landscapes – the long time needed for architectural development and evolution of definitions – trying to understand the past to be able to see the present – the last values (Schnebli 2009, 21).

[La stupefacente esperienza dell'antica arte della architettura greca - cinque giorni di durature impressioni sensuali - la migliore preparazione per investigare i resti architettonici del passato - i paesaggi contrastanti - il lungo tempo necessario per lo sviluppo architettonico e l’evoluzione delle definizioni - cercando di comprendere il passato per poter vedere il presente - i valori permanenti].

Guardare nel passato per vedere il presente, ricercare i valori permanenti dell’architettura nell'evoluzione delle soluzioni, cogliere i paesaggi contrastanti: questo Schnebli ricerca nel viaggio e fissa con la sua Leica. L’emozionante impressione destata dall’Acropoli ricorda il legame verso Le Corbusier, riferimento costante della sua attività professionale e didattica, come sottolinea Herzog, suo allievo ed assistente (Schnebli 2009, 4-5). Poi nel commentare le immagini di Istanbul, dichiara gli altri suoi maestri:

Turkish architects – Sinan and his lesser known colleagues – created the urban architecture of Istanbul in the 16th and 17th century – our admiration in 1956 – the spaces between the buildings – the quiet clarity of small as well as monumental inside spaces of the sanctuaries – architecture and continuity – bringing to mind friends and teachers – Ernesto Rogers and Josep Lluís Sert (Schnebli 2009, 57).

[Gli architetti turchi – Sinan e suoi colleghi meno conosciuti – crearono l’architettura urbana di Istanbul nel sedicesimo e diciassettesimo secolo – la nostra ammirazione nel 1956 – lo spazio fra gli edifici – la silenziosa chiarezza di spazi interni al santuario tanto piccoli quanto monumentali – architettura e continuità – tornano alla mente amici e maestri – Ernesto Rogers e Josep Lluís Sert].

Architettura e continuità, questa la prospettiva dichiarata da Schnebli: ricercare valori permanenti nella storia dell’architettura e della città e renderli operanti nel progetto. Così, osservando Santa Sofia, apprezza la qualità degli interventi realizzati cento anni dopo la costruzione: i minareti sono per lui “a pleasingly sensitive addition improving the urbanistic entity” (Schnebli 2009, 63) [un’addizione sensibile e piacevole, che migliora l’entità urbanistica] di questa architettura.

Ma questa prospettiva non esaurisce la singolarità del suo sguardo. La sua macchina fotografica raramente coglie singoli edifici, non appunta soluzioni a problemi funzionali o distributivi, non indaga l’evoluzione di tipi architettonici. Piuttosto descrive lo spazio fra gli edifici, il loro modo di posarsi al suolo, di rapportarsi all’orizzonte; inquadra spesso un campo visivo molto ampio, raccoglie gli elementi della geografia tanto quanto quelli della storia, indaga il carattere degli spazi aperti più di quelli architettonici. Lo sguardo di Schnebli assume talvolta il carattere di un topografo, punta a sottolineare la relazione tra manufatto e luogo in cui si insedia, tra architettura e natura, descrive paesaggi. Visitando i siti archeologici della Grecia classica, non punta a ricostruire l’identità originaria ma a cogliere la ragione e il senso dell’opera dell’uomo in relazione all’opera di natura. Così il Partenone viene colto a grande distanza, dalla collina opposta, per evidenziare la relazione con il poderoso basamento naturale e con il paesaggio circostante, o a distanza ravvicinata ma eccentrico e dal basso per sottolineare la relazione con lo spazio aperto circostante e con il cielo; il tempio di Poseidone a capo Sunio è descritto come “part of the sea” (Schnebli 2009, 41) e, per esaltarne la relazione viene inquadrato in modo da far coincidere la linea retta dell’orizzonte con la divisione dei rocchi delle colonne; il gigantesco teatro di Pergamo è letto essenzialmente in relazione al pendio e nel libro appunta:

The Greco-Roman city of Pergamon follows the contour lines of the topography – the gigantic theater links the lower with the upper natural platform (Schnebli 2009, 77).

[La città greco-romana di Pergamo segue l’andamento della topografia - il gigantesco teatro lega la piattaforma naturale, più alta, con la più bassa].

L’attenzione al paesaggio, suscitata tanto dal carattere dell’architettura greca quanto dalla sua condizione di rudere, permane anche nelle tappe successive, divenendo una costante del suo modo di guardare e, in seguito, di operare. Così la Ziggurat di Ur, fotografata a grande distanza diviene un rilievo naturale, un evento singolare nella piana desertica, una montagna sacra di mattoni. E in modi analoghi sono descritte le rovine di Ctesifonte, la grande moschea dalla cupola d’oro di Samara, le rovine del palazzo di Dario in Persia e poi nel deserto iraniano le bubble-houses o gli accampamenti in Afghanistan. Infine, giunto a Chandigarh in costruzione, osservando il piano nell’ufficio di Jeanneret, ciò che lo colpisce su ogni altra cosa è la forte relazione spaziale degli edifici del Campidoglio con la silhouette delle cime dell’Himalaya.

Spesso intervalla le vedute ampie ed estese a zoom estremamente ravvicinati e decontestualizzati, che descrivono la natura della materia di questi manufatti: pietre sbozzata, scanalate, tessiture murarie variate, bassorilievi. L’impaginazione del libro esalta con la pagina intera photosketches che mostrano la scrittura cuneiforme incisa sulle pareti, i rilievi di animali integrati nelle mura di Babilonia, la geometria variopinta dei mosaici islamici, la trasparenza delle pareti in pietra traforate, gli altorilievi scolpiti nella roccia di templi indù, i giochi d’ombra nelle tessiture di Chandigarh. Si tratta di una raccolta di dettagli significativi sulla natura e il carattere delle superfici, sui ritmi di luce ed ombra, sulle texture di pareti e pavimenti segnati dalla mano dell’uomo, su materiali e immateriali che definiscono il carattere di questi spazi.

L’obiettivo si poggia anche sugli uomini, sulle loro azioni, sui modi di vivere e abitare, talvolta sembra guidato da un antropologo, in una anomalia che è solo apparente. Schnebli guarda al paesaggio non come oggetto estetico da godere visivamente o come fondale dell’architettura, ma come “volto della geografia”, “scrittura della storia sulla terra, geografia dei luoghi e degli spazi, e anche delle azioni, degli usi, dei pensieri e degli immaginari, geografia degli uomini, delle guerre, delle violenze, della pace, geografia delle piante e degli animali, dell’aria e dell’acqua, della luce e dei diversi modi in cui sono percepiti, trasformati e vissuti” (Besse 2020, 8-9).

La raccolta dei photosketches giovanili, apparentemente variegata e multidirezionale, si rivela così come un lungo esercizio di lettura e descrizione centrato sul paesaggio. Guarda ad esso come “l’ambiente vivente di composizioni instabili al centro delle quali gli uomini sono immersi e delle quali partecipano” (Besse 2020, 13). In questa prospettiva l’architettura diviene espressione “dell’agire con il paesaggio” di cui parla Jean Marc Besse, “frutto di una capacità di ascolto e lettura dei suoi spazi e suoi ritmi specifici” (Besse 2020, 48). Si esplicitano così i criteri di selezione e i modi di narrazione che Schnebli utilizza nel corso del viaggio e poi in molti progetti successivi.

L’esperienza immersiva in spazi e tempi tanto diversi, il lungo esercizio di lettura e descrizione svolto con la Leica hanno avuto un valore determinante nella successiva attività di Schnebli, come ricordano tanti suoi collaboratori e assistenti (Bernegger et al. 2010), come dimostrano molti progetti e come sottolinea lui stesso nella prefazione al libro:

The gift of the Wheelwright family and Harvard Graduate School of Design gave me a way of thinking that has become part of my life (Schnebli 2009, 9).

[Il regalo della famiglia Wheelwright e della Harvard Graduate School of Design ha dato un modo di pensare che è diventato parte della mia vita].

“My imaginary museum”. Trascrizioni e traslazioni

Al vasto repertorio di immagini raccolto nel viaggio Schnebli ricorre nel tempo, ne schizza sintesi tematiche, ne elabora trascrizioni e traslazioni esplicitate attraverso disegni essenziali. La fotografia gli consente di tornare a leggere la realtà complessa degli spazi visitati per ritrovarvi le “soluzioni semplici, silenziose e poetiche” (Bernegger et al. 2010, 55) che ricerca e che chiarisce con gli schizzi. I photosketches divengono così un prezioso dispositivo del suo lavoro, gli forniscono “cibo per la mente” che si presta ad essere interpretato e variato. Configurano il suo personale “imaginary museum” (Schnebli 2009, 33) alla maniera di André Malraux, cui fa riferimento osservando i leoni di Delo e che cita esplicitamente nella bibliografia.

La rilettura e la tematizzazione degli scatti del viaggio attraverso schizzi sintetici accompagnano tutta la sua pratica di architetto operante e di docente. Consapevole del valore di questo materiale, Schnebli compone le tavole introduttive della mostra sulla sua opera tenuta all’ETH nel 1984, con una selezione di scatti del viaggio ed una di schizzi che ne esplicitano temi e suggestioni (Schnebli 1984). Come ricorda Ruegg:

Ancora poco prima della sua morte, gli schizzi alle pareti dello studio di Zurigo gli ricordavano quel momento felice in cui le esperienze del viaggio ‘lento’ in Oriente, compiuto negli anni giovanili, i principi teorici affinati nell’insegnamento e la grammatica della costruzione elaborata nella pratica di studio trovarono un equilibrio ineguagliabile (Bernegger et al. 2010, 55).

Questo architetto, che pensa in 5 lingue (Schnebli 2009, 9), predilige il linguaggio iconografico. Per le tavole dei suoi progetti alla mostra al Politecnico di Zurigo, non prevede relazioni ma sintesi visive delle questioni affrontate e delle soluzioni. È una pratica ricorrente nel suo modo di lavorare e di insegnare. Anche ai suoi allievi raccomanda di evitare “il primo schizzo brillante” e di “disegnarlo solo dopo aver sviluppato un progetto preliminare in piante, sezioni e modelli” perché solo “allora sarà utile” (Schnebli 2010b, 63). Lo schizzo per lui diviene utile se è strumento di sintesi di un pensiero già verificato non come schema di una idea potenziale e i photosketches gli assicurano un apparato di soluzioni che viene poi tematizzato con il disegno e declinato nei progetti in funzione dei temi e dei luoghi.

Il carattere forte, chiaro ed essenziale della sua architettura deriva anche dall’esercizio di lettura e di riscrittura concisa dei temi svolto nel viaggio e negli anni. In particolare, per gli edifici scolastici che realizza intorno agli anni ’60, Schnebli sottolinea come molte soluzioni proposte siano la trascrizione moderna di temi spaziali letti nel viaggio.

Per il progetto della scuola di Locarno – il primo concorso che vince e che da avvio alla sua carriera – chiarisce la sua idea di scuola richiamandosi a ciò che ha visto in Iran e all'antica Grecia: un maestro e i suoi discepoli seduti sotto un albero o a passeggio nello Stoà (Schnebli 2010a, 21). È una idea di scuola centrata sulle relazioni, aperta alla natura e alla vita urbana, concepita e fondata come una ‘piccola città’, una struttura urbana in cui le aule e gli spazi comuni, come quelli privati e pubblici della città, sono composti lungo percorsi e sequenze intorno a una agorà gradonata che spazia dai riferimenti ai palazzi cretesi, per Locarno e Wohlen, al bouleutèrion di Priene, per Napoli. L’idea di scuola come città aperta, formulata per la prima volta a Locarno, deriva evidentemente dalle esperienze del viaggio e viene riproposta per Wohlen e per Napoli, in modi differenti: come schema aperto inscritto nei tracciati esistenti la prima, come frammento di uno schema ippodameo sul pendio la seconda.

Analogamente, elementi spaziali ricorrenti – l’aula quadrata intesa come casa aperta, la corte gradinata come agorà, la palestra, i laboratori e refettorio come edifici pubblici – vengono riproposti in composizioni differenti in funzione del paesaggio urbano o naturale in cui si inseriscono.

Il tema dell’aula quadrata viene variato in funzione della luce e dell’intorno attraverso soluzioni che interpretano le suggestioni del viaggio sia nella conformazione che nella aggregazione. In particolare all’interno del progetto del Ginnasio di Locarno, Schnebli sperimenta la copertura piramidale che si conclude in un camino di luce al centro dell’aula quadrata. “Le piante squadrate delle aule, il tetto a piramide con illuminazione al centro provengono dagli schizzi di alcuni edifici in Turchia che mi convinsero per i camini di aerazione degli ambienti coperti a cupola, e illuminati dai lati” (Schnebli 2010a, 22), scrive a proposito della scuola. Declina questa soluzione in una versione semplificata e con struttura in cemento armato per le aule dell'asilo della Scuola Svizzera di Napoli. È riconosciuta nel viaggio in Oriente la radice dell’interesse di Schnebli per il controllo e la modulazione della luce declinata in diverse soluzioni.

In quel viaggio, tra le altre cose, rimase impressionato dalla luce che filtrava negli edifici dall’alto – osserva il suo collaboratore Bernhard Meier – Dolf sviluppò questo tema e lo elaborò in diversi modi: lucernari, finestre situate in alto nei locali, attaccate a volte al soffitto oppure negli angoli (Bernegger et al. 2010, 51).

L'organizzazione delle aule invece, con il sistema di aggregazione così fortemente caratterizzato dalla ripetizione di singoli volumi quadrati e dai camini di luce che si elevano sulla cima del tronco di piramide della copertura delle aule, è ispirato alle sequenze di case che ha visto in Turchia e in Iran e che ha schizzato dopo averle fotografate per fissarle nella sua memoria come forme nello spazio (Schnebli 2010a, 22).

L’attenzione ai caratteri topografici, alla relazione che salda l’architettura alla linea di terra e alla linea dell’orizzonte rilevata nelle fotografie, al ruolo dell’architettura nella costruzione del paesaggio ritorna evidente in particolare nei progetti per delle scuole di Napoli e Bissone. Il ripido pendio su cui sorgono e la condizione di affaccio panoramico sono i temi centrali di entrambe. A Napoli la scuola è configurata in un articolato sistema di terrazzamenti panoramici che accompagna il pendio e la lega al paesaggio circostante. A Bissone invece i salti di quota si svolgono entro il volume architettonico che emerge dall’intorno e si salda al pendio misurandolo.

L'attenta mediazione tra interno ed esterno e la variazione continua della natura degli spazi aperti – raccolti fra recinti, scoperti o coperti, verdi o pavimentati – che ha lungamente osservato nel suo viaggio caratterizza anche queste sue architetture dove gli ambienti si affacciano al panorama attraverso logge di differente profondità e di grande suggestione. A Napoli i parapetti traforati e i brise-soleil verticali che consentono di filtrare la luce solare lasciando leggere la continuità della linea dell’orizzonte, sono evidenti trascrizioni delle suggestioni ricevute dai ‘filtri di pietra’ dell'architettura araba e dalle colonne dei templi greci. Anche l’attenzione alla concretezza costruttiva, l’esplicitazione dei sistemi costruttivi, la variazione delle tessiture materiche e d’ombra rilevate con la sua Leica ritornano nella sua architettura realizzata. Per Schnebli il viaggio è una tappa determinante della sua formazione e del suo percorso di avvicinamento all'architettura e al progetto. Attraverso le sue foto imprime

[...] nella memoria forme e dettagli affascinanti, soluzioni spaziali da archiviare in quel settore della memoria che l’architetto riutilizza anche molto tempo dopo, quando passa in rassegna il proprio repertorio culturale per progettare (Caruso 2010, 12).

Guardare all’Occidente con gli occhi dell’Oriente si traduce in una trasposizione, a volte anche letterale, di frammenti di spazio, idee estrapolate dal loro contesto e traslate nella sua architettura. Le ricomposizioni sono adattate ai contesti che di volta in volta incontra e riorganizzate in nuove ed originali sequenze spaziali.

Le sue opere hanno dato un contributo significativo alla determinazione di un carattere specifico dell’architettura ticinese all’interno della modernità europea. Nel suo ruolo di docente del Politecnico Federale, ha formato un gruppo di architetti brillanti ed ha tenuto acceso il dibattito attraverso il confronto con importanti personalità del mondo dell’architettura come Aldo Rossi, che chiama ad insegnare al Politecnico Federale nel 1972 (Bernegger et al. 2010, 55). Herzog, nella prefazione al libro del viaggio, sottolinea la maniera moralizzante e provocatoria di Schnebli di insegnare e di pretendere dai suoi allievi una personale maniera di vedere l’architettura (Herzog 2009, 5). Capace di sfuggire il mainstream, nella didattica ha sviluppato modelli autonomi e fuori dalle regole consolidate. Il suo insegnamento originale è in parte dovuto al suo percorso di apprendimento dell’architettura che non è stato propriamente lineare. Non completa gli studi iniziati al Politecnico Federale, non è bravo nel disegno come ricorda Bernhard Meier, studia in America con Walter Gropius e Josep Lluís Sert e ottiene il Master alla Harvard School of Design (Bernegger et al. 2010, 50-51).

Quando è chiamato all’ETH come docente è già un architetto di successo. Torna alla scuola da cui si era allontanato con il ruolo di trasmettere quell’insegnamento informale da osservatore autodidatta e da viaggiatore che lo ha caratterizzato e che rappresenta oggi l’eredità più significativa del suo lento viaggio da Venezia all’India e ritorno.

Nota

Questo articolo è una riproposizione rivista e aggiornata e tradotta dell'articolo Como, Forni, Perrotta 2022.  
 

Riferimenti bibliografici
  • Bernegger et al. 2010
    E. Bernegger, B. Brocchi, E. Engeler, M. Krähenbühl, B. Meier, R. Neiger, P. Quarella, F. Reinhart, A. Rüegg, L. Selva, B. Trinkler, R. Tropeano, A proposito di Dolf, “Archi” 3 (2010), 48-57.
  • Besse 2020
    J.M. Besse, Paesaggio ambiente. Natura, territori, percezione, Roma 2020.
  • Caruso 2010
    A. Caruso, Epica libertà espressiva, “Archi” 3 (2010), 11-12.
  • Como, Forni, Perrotta 2022
    A. Como, I. Forni, L.S. Perrotta, One Year from Venice to India Learning from the Landscape: The “Slow Journey” of Dolf Schnebli, in Arquitectura Y Paisaje. Transferencias històricas retos contemporaneos, Volumen II, Madrid 2022.
  • Herzog 2009
    J. Herzog, For Dolf Schnebli, in D. Schnebli, Ein Jahr auf dem Landweg von Venedig nach Indien. Fotoskizzen einer langsamen Reise 1956. One year from Venice to India by the land route. 1956: Photosketches of a slow journey, Zurigo 2009, 4-5.
  • Schnebli 1984
    D. Schnebli, Architekt. Entwurfsunterricht an der Architekturabteilung. Lehrstuhl für Architektur und Entwurf 1971–84, GTA, Zürich 1984.
  • Schnebli 2009
    D. Schnebli, Ein Jahr auf dem Landweg von Venedig nach Indien. Fotoskizzen einer langsamen Reise 1956. One year from Venice to India by the Land Route. 1956: Photosketches of a slow journey, Zurigo 2009.
  • Schnebli 2010a
    D. Schnebli, La scuola di Locarno, concorso 1959, “Archi” 3 (2010), 20-25.
  • Schnebli 2010b
    D. Schnebli, Il concorso di architettura, “Archi” 3 (2010), 58-64.
English abstract

Dolf Schnebli was an important Swiss architect and professor at ETH Zurich. In 1955 he won the Arthur W. Wheelwright Traveling Fellowship organised by the Harvard School of Design and this allowed him to travel for a year outside the United States. The following year he set off with his wife Clarissa for a slow and long journey to the East that deeply affected his professional life and his future teaching experience. The journey started in Venice, then they travelled eastwards through Yugoslavia, Greece, Turkey, Syria, Lebanon, Jordan, Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, and India. The last city visited before coming back to Europe was Chandigarh, built by Le Corbusier, still under construction. During the journey, he used to take photos of places and people. Some years later he called his photographs photoschetches to emphasise their synthetic nature in framing places and special conditions of spaces. The memories of his journey have remained unknown for fifty years. It was only in 2009 that he reorganised the photoschetches to publish them. The book, One Year from Venice to India by the Land Route, is a collection of photos with short texts. In the postscript Schnebli wrote that their slow journey to India still provides, after more than fifty years, "food for thought", underlining the value of travel as nourishment. The ideas and suggestions about places and different spaces visited in that year became important references for his architecture. The Wheelwright gave him the opportunity to travel to another world and discover very different cultures. The experience also contributed to build a personal imaginary world that the architect used continuously and creatively in his works.

keywords | Dolf Schnebli; Arthur W. Wheelwright travelling fellowship; East Travel; Photosketches; Fotoskizzen; ETH.

il numero 196 di Engramma è a inviti: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista.

Per citare questo articolo: Isotta Forni e Luisa Smeragliuolo Perrotta: ”Food for thought”. Il viaggio lento da Venezia all’India di Dolf Schnebli (1928-2009), ”La rivista di Engramma” n.196, novembre 2022, pp. 107-124 | PDF

To cite this article: Isotta Forni and Luisa Smeragliuolo Perrotta: ”Food for thought”. Il viaggio lento da Venezia all’India di Dolf Schnebli (1928-2009), ”La rivista di Engramma” n.196, novembre 2022, pp. 107-124 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.196.0016