Che cosa si può conoscere del mondo?
[...] Girare il mondo, percorrerlo in lungo e in largo, non permetterà di conoscerne più che qualche ara, qualche arpento: minuscole incursioni in vestigia incorporee, brividi d’avventura, improbabili ricerche fossilizzate in una nebbia dolciastra di cui alcuni particolari si fisseranno nella nostra memoria: al di là di tutte queste stazioni e di queste strade, e delle piste scintillanti degli aeroporti, e di queste strisce strette di terreno che un treno di notte lanciato a tutta velocità illumina per un breve istante, al di là dei panorami attesi troppo a lungo e scoperti troppo tardi, e dei mucchi di pietre e dei mucchi d’opere d’arte, saranno forse tre bambini che corrono su una strada bianca, oppure una casetta uscendo da Avignone, con una porta a graticcio di legno un tempo dipinta di verde, le sagome degli alberi che si stagliano in cima a una collina nei dintorni di Saarbrücken, quattro ilari obesi al tavolino di un caffè alla periferia di Napoli, la via principale di Brionne, nell’Eure, due giorni prima di Natale verso le sei di sera, il fresco di una galleria nel suk di Sfax, una minuscola diga trasversale in un loch scozzese, una strada a tornanti vicino a Corvol-l’Orgueilleux... E con essi, irriducibile, immediata e tangibile, la sensazione della concretezza del mondo: qualcosa di chiaro, di più vicino a noi: il mondo, non più come un percorso da rifare senza sosta o come una corsa senza fine, non più come una perenne sfida da accettare senza tregua, non come unico pretesto per una esasperante accumulazione né come illusione d’una conquista, ma come ritrovamento d’un senso, come percezione di una scrittura terrestre, d’una geografia di cui abbiamo dimenticato di essere gli autori.
Georges Perec, Specie di Spazi [Espèces d'espaces, Paris 1974], Torino 1989
Bernard Rudofsky (1905-1988) ha fondato la sua vita sulla pratica del viaggiare. È dai viaggi che sviluppa il suo interesse costante verso l’architettura del vernacolare, consacrato dal famoso testo Architecture without Architects (1964), un libro che divenne un best-seller mondiale, catalogo della mostra omonima tenuta nel 1964 al MoMA di New York, poi riallestita in ben altre ottantaquattro sedi durante i successivi undici anni. Furono i viaggi a formare e stimolare le sue idee – raccontate negli articoli, negli svariati libri e in ulteriori mostre – oltre a definire i fondamenti della sua architettura, concretizzata soprattutto in progetti di case. Il viaggio è per Rudofsky pratica del viaggiare; è affinata nel tempo ed è ancorata all’esperienza di immersione nei luoghi visitati e alla raccolta di immagini, una immensa collezione visuale dalla quale l’architetto sembra trarre precise e persistenti tematiche, sperimentate nel progetto (si veda anche Como 2014, 2017, 2018).
Viaggi
A partire dalle prime esperienze di viaggio di studio legate al periodo di formazione, il viaggio divenne una costante della vita dell’architetto, coinvolgendo energie e risorse, principalmente ottenute grazie a borse di studio. Lo stesso autore dichiara in occasione di una sua conferenza a Princeton: “Since the age of 17, when I entered architecture school on the university level, I made it a habit to travel every year from 3 to 4 months, mostly along the Mediterranean and into Asia Minor” (Rudofsky A). Successivamente, con l’obiettivo di allargare e approfondire conoscenze, il viaggio divenne una consuetudine e parte essenziale della sua vita:
I learned a great deal by travel […] The acquaintance with foreign countries; with foreign towns, dead and alive, early became a habit for me. Every year, at the end of June I would depart for points south, and not return before the last days of October (Rudofsky 1980).
La parte più importante della sua formazione erano stati i viaggi studio del 1925 in Asia Minore e poi nel 1929 in Bulgaria, Turchia e Grecia, dove aveva sviluppato a Santorini la sua tesi di dottorato. Successivi itinerari lo condurranno in altri paesi del mondo: gli Stati Uniti nel 1941, il Messico nel 1951-52, il Giappone nella seconda metà degli anni ’50 e l’India negli anni ’80, (Bocco Guarneri 2003). È l’area del Mediterraneo però che rimarrà il suo principale riferimento, anche a seguito della permanenza nel Sud Italia negli anni ’30 a Napoli, Capri, Procida e Positano, il periodo della sua collaborazione con Luigi Cosenza.
Oltre ai viaggi programmati, Rudofsky si sposta in diversi paesi e continenti perchè trasferisce più volte la sua residenza, inizialmente per ragioni politiche per sfuggire alle leggi naziste. Dopo il periodo di studio a Vienna va a lavorare a Berlino; vive poi in Italia per alcuni anni, spostandosi a New York per poi tornare nuovamente in Italia. Si trasferisce in Sud America passando per l’Argentina stabilendosi poi in Brasile a Rio de Janeiro per sei mesi e poi a São Paulo, per poi spostarsi in Nord America a New York. New York resterà la sua residenza, il luogo base dal quale partire per lunghi viaggi. Il volontario esilio e la scelta di essere in modo permanente uno straniero divennero tratti caratterizzanti della vita di Rudofsky, una condizione che condivideva con altri artisti e architetti europei nell’ambiente creativo e cosmopolita di New York.
La vita di Rudofsky diviene un’esistenza fatta di frammentari punti di riferimento in varie parti del mondo, di luoghi transitori che divenivano casa, stanze d’albergo come luoghi domestici, come quelli ritratti nei suoi acquarelli di viaggio con le sue cose, le valigie disfatte e altri oggetti, sempre con una finestra da cui guardare il mondo fuori. Si ritrova in Rudofsky una interessante antinomia tra la mancanza di un luogo stabile in cui vivere e la continua ricerca di luoghi attraverso i suoi viaggi e i suoi scritti e, similmente, vista l’assenza di una vera e propria casa, il contrasto con la speciale predilezione per lo spazio domestico, investigato come tema dominante di ricerca.
I shall have to say more about the serene subject of travel in the pursuit of architecture’s roots because it was one of my annual trips that not only determined my outlook on domestic architecture but also made me for the rest of my life a displaced person (Rudofsky 1980, 244).
La condizione di espatriato produce sentimenti di alterità ed estraneità, un approccio critico verso la cultura codificata; la frustrazione per il proprio tempo spinge alla ricerca di altre culture e luoghi e Rudofsky indirizza la sua curiosità verso quello che è stato dimenticato dalla visione parziale del mondo occidentale (Rudofsky 1964). Lo stile polemico delle conferenze rivela lo spirito controcorrente e la forma radicale di pensiero che lo porta a riesaminare dall’inizio le questioni, senza dare nulla per scontato. Il viaggio diventa l’opportunità per imparare “what could not be found in books” (Rudofsky 1964) e costruire una visione alternativa alla visione accademica del mondo a partire dall’architettura vernacolare, “point of departure for the exploration of our architectural prejudices” (Rudofsky 1964). Il viaggio divenne una pratica autodidatta, un modo per imparare ciò che era stato dimenticato ed escluso dalla storia dell'architettura, incentrata esclusivamente su una parte ridotta del globo (Rudofsky 1964).
Collezione di immagini
I viaggi venivano preparati da Rudofsky attraverso la lettura di testi e lo studio di appunti e poi vissuti come esperienza sensoriale diretta. Visitando i luoghi, Rudofsky osserva non solo l’architettura costruita ma anche gli stili di vita; si interessa allo spazio domestico, ai materiali, ai pavimenti in pietra, alle strade coperte, al bambù, ai tessuti, ai tappeti, alla grafica, alle abitudini, ai modi di vestire, lavarsi e mangiare, allo spazio stradale, alle vetrine, al riutilizzo dei materiali, alle decorazioni, ai profumi, alla cucina.
Dai viaggi Rudofsky riporta un vasto materiale fatto di appunti, disegni, acquarelli e soprattutto fotografie. Parte del materiale viene riassemblato per le mostre organizzate al ritorno dai viaggi. Dopo le prime esposizioni tenute a Berlino e poi a Vienna in seguito ai viaggi di studio, Rudofsky ne organizza molte altre a New York al MoMA. Le mostre diventano il veicolo principale per comunicare in modo visuale la critica alla cultura contemporanea e alle convenzioni, come Are clothes modern? ridicolizzando il mondo contemporaneo e ritrovando, al contrario, il moderno nell’architettura tradizionale. La relazione tra viaggi e mostre diviene una prassi e vengono organizzate in sequenza: Are Clothes Modern? (1944), Textiles USA (1956), Architecture without Architects (1964), Now I Lay me Down to Eat (1980), Golden Eye (1985), Sparta / Sybaris (1987).
Il materiale prodotto nei viaggi racconta di quell’architettura comune, definita minore, osservata nella vita quotidiana, negli oggetti, nelle abitudini, nel vestiario. Immagini mostrano le strette strade pavimentate in pietra della Puglia, le vetrine di pasticcerie, le bancarelle dei mercati, le soglie delle porte, i davanzali delle finestre, i cesti e le pagliarelle napoletane, i tessuti. Nel sud Italia, come pure in Grecia, India e Giappone, gli spazi architettonici sono raccontati nella vita quotidiana, filtrata dall’esperienza diretta. Le immagini raccontano il modo in cui gli spazi sono vissuti e abitati, la reale occupazione dello spazio, la sfera domestica e l’architettura della vita quotidiana. Lo spostamento del punto di vista porta Rudofsky a codificare lo slogan significativo con il quale si differenzia rispetto agli altri architetti del moderno: “What is needed is not a new way of building; what is needed is a new way of life”. È utilizzato come titolo a commento del progetto per la sua casa di Procida (Rudofsky 1938) ma assume un significato allargato che investe tutta la sua produzione di idee e di progetti.
Rudofsky registra le sue impressioni ed esperienze dei luoghi visitati attraverso le immagini: fotografie e acquerelli mostrano i luoghi a diverse scale e attraverso osservazioni selettive. Questo materiale costruisce nel tempo un’ampia collezione di immagini, conservata principalmente al Getty Center (Los Angeles), un grande archivio di 5500 fotografie di viaggio a colori e 125 in b/n, 33 taccuini di viaggio e più di 100 acquerelli.
Il materiale volutamente non è organizzato in tipologie o argomenti. È un insieme vasto, differenziato e frammentato che non intende indagare le ragioni che hanno portato alle soluzioni architettoniche, ma costituisce piuttosto un catalogo di soluzioni che possono diventare di riferimento e generare altre idee spaziali. A differenza di altri studi sul vernacolare, l'interesse di Rudofsky è specificamente formale e spaziale, e di conseguenza diventa de-contestualizzato. Le esperienze si sovrappongono, le similitudini emergono da luoghi lontani, come nel caso del Giappone e dell’Italia, associati al ricordo della voce del pescatore e ai colori della vegetazione:
Walking on an August day along the shores of the Inland Sea, on narrow paths flanked by crude stone walls, among fig-trees and medlars (which, by the way, are native to Japan), olive trees, white and pink oleanders, one easily falls victim to the illusion of being somewhere near Sorrento. The optical illusion is supplemented by an acoustical one. Through the milky haze that hides the calm sea drift the long drawn cries of fishermen sounding exactly like those of their colleagues in Mergellina (Rudofsky 1957).
Le immagini acquistano autonomia dai luoghi visitati e dal tempo che le ha generate; vengono estratte e sottratte dai contesti di appartenza, disgiunte dalle condizioni morfologiche, dalle collocazioni urbane e territoriali. Le soluzioni architettoniche descritte dalle immagini diventano un inventario di architetture che si offrono a nuove ricomposizioni.
L’osservazione dei luoghi diventa dunque un racconto a più temi e livelli interpretativi. Il modo di viaggiare e di interpretare i luoghi di Rudofsky induce ad un processo di de-contestualizzazione, costruendo tracce narrative intuitive e visuali. Questo approccio trova similitudini con l’interpretazione di luoghi che si osserva nelle antiche mappe giapponesi, collezionate da Rudofsky, commentate nei suoi articoli e oggetto della mostra al MoMA, Japanese Vernacular Graphics (1961), con mappe, libri, e materiali grafici che Rudofsky aveva assemblato nei suoi due anni di permanenza in Giappone. Così il MoMA descrive la specificità di queste mappe:
Japanese maps, which, unlike ours, furnish far more than topographic information. […] old Japanese maps have no top and bottom; being unfolded on the floor, they read from border to center. Elevations and plan often melt into each other; symbols range from abstract to naturalistic, and calligraphy blackens the sky. Roads often brush the supernatural, listing days particularly suspicious for travel and those to be shunned (MoMA 1961).
Le mappe forniscono dunque una descrizione di luoghi che viene interpretata dall’osservatore che associa racconti alle immagini. Diventano storie topografiche, inseriscono un livello narrativo a quello pseudo-oggettivo della rappresentazione topografica, lasciando all’osservatore la libertà interpretativa. Rudofsky commenta analogamente in The Kimono Mind (Rudofsky 1965), il suo libro sul Giappone, della modalità di organizzare i luoghi nella città di Tokyo, dove l’assenza di indirizzi e numeri civici induce ad introdurre tracce associative, memorie di riferimenti e dunque unisce una dimensione narrativa a quella topografica.
È in questi termini che è possibile leggere la collezione vastissima di immagini di Rudofsky: un inventario di soluzioni da cui estrarre tracce associative e tematiche. Le immagini non sono obiettive descrizioni dei luoghi visitati. Grazie ai tagli selettivi delle inquadrature, alle viste dal basso o dall’alto, agli zoom e punti di vista privilegiati, Rudofsky esprime i temi di architettura che legge nei luoghi visitati. Le immagini e gli appunti raccolti da Rudofsky non sono infatti una raccolta di curiosità sparse nè di impressioni di viaggio, costituiscono consciamente e polemicamente un’investigazione di architettura.
Un gran numero di fotografie e acquerelli mostra composizioni di insediamenti di città e paesi. L'attenzione è rivolta al rapporto tra l’unità – spesso un semplice solido – e l’aggregazione urbana, generata dalla ripetizione e dalla variazione del singolo edificio. Composizioni provenienti da diverse parti del mondo appaiono come variazioni sullo stesso tema, quello dell’architettura collettiva in cui il singolo edificio, ridotto a semplice volume prismatico, perde il suo primato per contribuire alla costruzione di un insieme ricco e complesso, che si presenta nella sua essenza architettonica di aggregazione di pieni e vuoti, di luce e ombra.
Altre immagini, provenienti da diverse parti del mondo, mostrano pavimentazioni, soglie, basamenti, attacchi a terra di edifici, scavi e cave, evidenziando l’interesse per il rapporto dell’architettura con il suolo. Rudofsky sposta l’attenzione dall’oggetto architettonico alla topografia; l’architettura viene osservata attraverso l’atto iniziale della sua costruzione, quello fondativo e del rapporto con il terreno e come forte atto di inserimento nel paesaggio naturale. Siepi, muri, segni sul terreno, recinti, cortili mostrano variazioni dell'atto fondamentale dell'architettura di definire il confine, quello di delimitare o ritagliare una porzione di mondo per creare spazio attraverso l’appropriazione.
E ancora altre immagini mostrano un inventario di strade, portici, passaggi coperti e semicoperti, pergolati, terrazze, altane; tutti spazi di transito, o vuoti tra le architetture. Lo spazio urbano, costituito da tutti questi spazi interstiziali, diventa un continuum, una sequenza senza divisioni astratte tra pubblico e privato, interno o esterno. I villaggi mediterranei sulle scogliere, come quello della Corricella sull'isola di Procida o quelli delle isole greche, mostrano una sequenza complessa e dinamica di spazi privati e comuni, con passaggi, spazi sul tetto, scale, collocati a varie quote, dal piano terra al livello del tetto, generando uno spazio urbano continuo e ricco.
I viaggi intorno al mondo conducono dunque Rudofsky alla ricerca di temi comuni, a quei caratteri di permanenza tra le varie culture. L’interesse per l’architettura vernacolare si traduce in ricerca del senza tempo e senza luogo. Le sue immagini sono investigazioni di architettura su quei temi universali che legano l’architettura al suo stato originario: il rapporto con il terreno, la relazione tra le parti, il recintare. Attraverso la sua collezione di immagini, Rudofsky ricostruisce l’architettura non intesa come appartenente ad un luogo specifico, ma come espressione al di là dei luoghi e differenze, come condizione universale dell’abitare.
Montaggi associativi
Il carattere evocativo e suggestivo delle immagini di viaggio e l’invito ad un lavoro di tipo associativo si ritrova nella stessa mostra Architecture without Architects, organizzata da Rudofsky nel 1964 (9 novembre 1964–7 febbraio 1965) al MoMA di New York come mostra itinerante. La mostra era stata precedentemente proposta negli anni ’40 ma rigettata perchè considerata inadatta a un museo dedicato all'arte moderna (Rudofsky 1977); fu poi riconsiderata solo negli anni ’60 dopo una serie di altre mostre che Rudofsky aveva organizzato al MoMA e un ulteriore viaggio di ricerca in otto paesi, grazie a una borsa di studio della Fondazione Guggenheim, che costituiva il ventiquattresimo viaggio per Rudofsky.
La mostra è una raccolta di immagini di architettura vernacolare provenienti da tutto il mondo, ottenute grazie a una ricerca dell’autore tra i suoi amici, colleghi e una varietà di archivi, musei e biblioteche. Le immagini sono scelte senza un criterio di selezione se non quello di essere immagini di architettura suggestive. Come scrive Rudofsky: “Many illustrations were obtained by chance, or sheer curiosity” (Rudofsky 1964). Rudofsky cercava “immaginative photographs”, come scrive a Lluís Sert nel 1962 e spiega in una lettera a Bruno Munari dello stesso anno: “We want to present the kind of architecture which will astonish both the modern architect and the museum visitor. I have great hopes that you may have among your photographs something truly spectacular” (Scott 2007).
Si trattava di fotografie di viaggio, alcune realizzate dallo stesso Rudofsky, altre provenivano da archivi geografici e antropologici, altre ancora da spedizioni pionieristiche. Le immagini – in bianco e nero – vennero stampate in diversi formati e assemblate direttamente, senza cornici, su una semplice struttura di legno dipinta di nero a diverse altezze, in verticale o anche in orizzontale sul soffitto. L’obiettivo era “to avoid a gallery effect” e creare “a 3-dimensional arrangement” (Rudofsky B, conferenza presso Virginia University). Il risultato era un’esperienza visiva suggestiva in cui il visitatore si trovava immerso tra le immagini, visibili non solo frontalmente ma anche in diagonale, in gruppi e attraverso i vuoti della struttura a scheletro. Piccole didascalie erano state inserite in pannelli separati, in modo da concentrare l’attenzione sulle immagini. Non si trattava di una visione ordinata e commentata del materiale esposto, ma di una ricca esperienza visiva, volutamente frammentaria e stimolante, simile a quella dei viaggi vissuti dallo stesso Rudofsky. Il visitatore lontano da un approccio informativo ‘oggettivo’ veniva disconnesso dal mondo occidentale conosciuto e catturato dalle immagini. Il visitatore avrebbe colto l’Architettura attraverso quelle stesse immagini, grazie al loro potere suggestivo, al di là delle classificazioni geografiche e storiche, cioè al di là dello spazio e del tempo. Attraverso la decontestualizzazione il visitatore si fonde con le immagini del mondo, tra siti lontani, distanti dalla condizione geografica attuale e dal tempo contemporaneo. Nella conferenza tenuta all’Università della Virginia, Rudofsky parla della mostra:
Geographically speaking, I am interested in the architecture of all continents and island worlds […]. In terms of time, I am concerned with man’s building activities through the entire period of his existence. […] This exhibition, the first of this kind, approaches architecture not with a historian’s mind but with a naturalist’s sense of wonder (Rudofsky B).
Ada Louise Huxtable sul “New York Times” definì la mostra “an extremely sophisticated demonstration of architecture-as-abstract-art shown through building types and patterns that stack up magnificently as non-objective pictures in themselves, on a purely visual level, selected with an extraordinary knowing and gifted eye” (Huxtable 1964).
Architecture without Architects si distingueva dunque per il potere suggestivo delle immagini. È grazie alle accattivanti fotografie che il libro, catalogo della mostra, è diventato un vero e proprio best-seller dell’architettura. Le immagini, scelte dall’occhio di un architetto, diventano la scoperta di tracce architettoniche nel mondo all'interno di una produzione collettiva e comune. La non familiarità e la non riconoscibilità dei luoghi e dei periodi di realizzazione rendono le architetture mostrate esempi astratti da cui è possibile estrarre nuove soluzioni, una raccolta di immagini di “untapped source of architectural inspiration” (Rudofsky 1964), come rivela lo stesso Rudofsky. Così Gio Ponti commentava in “Domus” nel 1965: “Non la critica, non l'erudizione, ha guidato la scelta delle immagini di Rudofsky, ma l’amore per l’architettura, che propagherà in tutti noi la concezione della cultura non come qualcosa che si ‘produce’ ma come qualcosa che si riceve, si guarda, si ascolta, si ama. Quante cose amiamo già, scoperte in queste pagine, o ricordiamo di averle trovate di recente qui” (Ponti 1965). L’architettura per Rudofsky non risiede nelle affermazioni teoriche e astratte ma è nella ricerca di forme e soluzioni già esistenti; l’architettura viene ritrovata nelle cose intorno a noi, come già scritta nel mondo.
Riferimenti bibliografici
- Bocco Guarneri 2003
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A. Como, The Voyage and the House. The Search of Place by Bernard Rudofsky, in X. Ruan and P. Hodgen, Topophilia and Topophobia: Reflections on the Human Habitat in theTwentieth Century, London - New York 2007. - Como 2014
A. Como, La ricerca delle origini di Bernard Rudofsky, in C. Di Domenico, Sul futuro dell'origine. Novità e originalità in architettura, Genova 2014, 113 - 120. - Como 2017
A. Como, Dalla collezione di immagini dei viaggi nel Mediterraneo di Bernard Rudofsky ai temi di architettura, in G. Belli, F. Capano, M. I. Pascariello, Il viaggio moderno nel passato e nel Mediterraneo, Atti del convegno La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione (VIII Congresso AISU - Associazione Italiana di Storia Urbana), Napoli 7/9 Settembre 2017. - Como 2018
A. Como, Bernard Rudofsky: From Images to Architecture, “Journal of Comparative Studies in Architecture” 11 (2018). - Huxtable 1964
A.L. Huxtable, Architectless Architecture - Sermons in Stone, “The New York Times” (11 November 1964). - MoMA 1961
The Museum of Modern Art, press release, 3 June 1961. - Ponti 1965
G. Ponti, Bernardo Rudofsky: un volume e una mostra al Museum of Modern Art, “Domus” 431 (1965), 109. - Rudofsky 1957
B. Rudofsky, Introduzione al Giappone III,“ Domus” 330 (1957), 38. - Rudofsky 1938
B. Rudofsky, Non ci vuole un nuovo modo di costruire, ci vuole un nuovo modo di vivere, “Domus” 123 (1938), 6. - Rudofsky 1964
B. Rudofsky, Architecture without Architects: A short introduction to non-pedigreed architecture, The Museum of Modern Art, New York 1964. - Rudofsky 1965
B. Rudofsky, The Kimono Mind, New York 1965. - Rudofsky 1977
B. Rudofsky, The Prodigious Builders: Notes toward a natural history of architecture with special regard to those species that are traditionally neglected or downright ignored, New York-London, 1977. - Rudofsky [1980] 2003
B. Rudofsky, Lecture at IDCA, Aspen (1980), in A. Bocco Guarneri, Bernard Rudofsky, A Humane Designer, Wien-New York 2003, 242-253. - Rudofsky A
B. Rudofsky, Lecture at Princeton University (non datata), typewritten manuscript, Getty Research Institute, Los Angeles (920004), Box 5, F4, 4. - Rudofsky B
B. Rudofsky, Lecture at the Virginia University (non datata), typewritten manuscript, Getty Research Institute, Los Angeles (920004), Box 5, F4, 5. - Scott 2009
F. Scott, An Eye for Modern Architecture, in M. Platzer (ed.), Lessons from Bernard Rudofsky, Life as a Voyage, Wien 2007, p. 176.
English abstract
Bernard Rudofsky (1905-1988) had founded his life on the practice of travelling. It was from his journeys that he developed his abiding interest in vernacular architecture, enshrined in the famous text Architecture without Architects (1964). The book, a worldwide best-seller, was the catalogue of the eponymous exhibition of the same name held in 1964 at the MoMA in New York, then rearranged in no fewer than 80 other venues during the next 11 years. His journeys moulded his ideas, recounted in the articles, in the various books and in further exhibitions, and evolved in his design work, mainly houses. The Journey is for Rudofsky the practice of travelling. It is refined over time and is anchored to the experience of immersion in the places and to the collection of images, an immense visual inventory from which the architect seems to draw precise and consistent topics, then practiced in the design projects through a work of de-contextualization and association of images.
keywords | Bernard Rudofsky; Journey; Collection; Image.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo: Alessandra Como, I Viaggi di Bernard Rudofsky e la collezione di immagini “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 81-92 | PDF di questo articolo
To cite this article: Alessandra Como, I Viaggi di Bernard Rudofsky e la collezione di immagini “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 81-92 | PDF of the article